Matteo 5:22-26 B

Molto più che non uccidere

Sintesi: Dopo “Non avere altri dèi oltre a me”, il comandamento “Non uccidere” è in assoluto il più trasgredito della storia. Il Signore Gesù Cristo lo ribadisce e ne intensifica il significato oltre ogni (umano) limite. Così facendo non solo condanna l’umanità (e spesso chi pretende di servire Dio) ma chiama il Suo popolo a testimoniare con impegno l’etica del Suo Regno. Vediamo come, riflettendo sul testo di Matteo 5:22-26.

Una delle espressioni principali della rivolta umana a Dio

Uccidere, togliere la vita, “mandare al Creatore”, sembra essere una delle “attività preferite” dell’umanità fin dai tempi di Caino e Abele. Si potrebbe dire che essa è una delle espressioni principali della rivolta e disubbidienza umana contro le precise leggi morali stabilite da Dio in cui uno dei comandamenti fondamentali dice appunto “Non uccidere” (Esodo 20:13; Deuteronomio 5:17). Si tratta di un comandamento molto bene qualificato che meglio si dovrebbe tradurre con “Non commettere omicidi”, “Non assassinare”. È un comandamento dal carattere assoluto che conosce solo poche e limitate eccezioni, quelle chiaramente e specificatamente prescritte dalla stessa Parola di Dio. Esso presuppone la speciale dignità della creatura umana fatta ad immagine di Dio e che quindi è inviolabile, quali che siano le giustificazioni che vengono addotte per disattendere a questo comandamento. Disattendere a questo comandamento è stato ed è ancora fatto da tanti che pretendono falsamente di servire Dio o, persino, di servire il Signore e Salvatore Gesù Cristo.

Nella riflessione di quest’oggi non intendo trattare in modo esteso del comandamento del “Non uccidere” ma riflettere sul messaggio che a questo riguardo ci comunica il Signore Gesù Cristo nel Suo “Sermone sul monte”. In quel sermone, che si potrebbe intendere come “la carta costituzionale” del Regno di cui Gesù Cristo è il Re, Egli di fatto espande il significato del “Non uccidere” molto più in là del semplice “non sopprimere vite umane”. Si tratta, infatti, di un appello al popolo di Dio ad un’ubbidienza più profonda del Sesto Comandamento per essere testimoni viventi di che cosa vuol dire Regno di Dio.

Un testo che lascia perplessi

Leggiamo così quanto Gesù dice a questo riguardo e che troviamo nell’evangelo di Matteo, al capitolo 5 dal verso 21 al 26.

“Voi avete udito che fu detto agli antichi: "Non uccidere: chiunque avrà ucciso sarà sottoposto al tribunale"; ma io vi dico: chiunque si adira contro suo fratello sarà sottoposto al tribunale; e chi avrà detto a suo fratello: "Raca" sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto: "Pazzo!" sarà condannato alla geenna del fuoco. Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all'altare, e va' prima a riconciliarti con tuo fratello; poi vieni a offrire la tua offerta. Fa' presto amichevole accordo con il tuo avversario mentre sei ancora per via con lui, affinché il tuo avversario non ti consegni in mano al giudice e il giudice in mano alle guardie, e tu non venga messo in prigione. Io ti dico in verità che di là non uscirai, finché tu non abbia pagato l'ultimo centesimo” (Matteo 5:21-26).

Si tratta di un testo che indubbiamente, ad una lettura superficiale, lascia piuttosto perplessi. Come si può infatti, equiparare l’omicidio all’insulto personale. Sembra esserci troppa distanza in severità fra dare dell’idiota a qualcuno ed ammazzarlo, Nessuna delle due cose è giusta, naturalmente, ma certamente l’omicidio è molto diverso dal rivolgere a qualcuno una parola gravemente ingiuriosa, un insulto, una villania - di questo si tratta. Eppure, il Signore Gesù, nelle sue parole, come riportate da Matteo 5, lega strettamente il sesto comandamento “Non uccidere” all’ingiuria. Come mai? Siamo tutti degli assassini? Siamo tutti potenzialmente capaci di commettere un omicidio? Dobbiamo tutti guardarci bene contro il primo passo verso l’omicidio, cioè pensieri e parole malvage per evitare di finire nei titoli della cronaca nera di un giornale? Questo è il modo in cui generalmente anche oggi si intendono quelle espressioni di Gesù.

Che vuol dire “non uccidere”?

Per comprendere il collegamento fra ciò che Gesù insegna in Matteo 5 e il sesto comandamento, dobbiamo essere consapevoli di come normalmente comprendiamo questo comandamento.

Se qualcuno ci chiede: “Qual è il significato di ‘Non uccidere’?” che cosa gli rispondereste? Probabilmente gli diremmo esattamente quel che dice: non dobbiamo togliere la vita a nessuno - né più né meno. È vero, però, alla luce delle parole di Gesù, la risposta sarebbe incompleta.

Gesù dice alle folle, versetto 21: “Voi avete udito che fu detto agli antichi: "Non uccidere: chiunque avrà ucciso sarà sottoposto al tribunale”. Notate che Gesù non dice “È scritto”, ma dice: “Voi avete udito che fu detto”. Con queste parole Gesù si riferisce non tanto al comandamento in sè stesso così com’è stato dato da Dio, ma alla sua interpretazione, come di solito lo si intende o tradizionalmente lo si insegna, cioè “se uccidi qualcuno, versi il suo sangue, gli togli la vita sei colpevole e passibile di giusta condanna da parte del tribunale. Se compi un omicidio, allora sei colpevole di avere infranto il sesto comandamento com’è stato dato sul Monte Sinai.

Chi potrebbe contestare questo? Alle parole del versetto 21 alcuni manoscritti vi aggiungono le parole “senza giusta causa”. Forse questa è un’aggiunta fatta posteriormente da un copista che probabilmente cercava di dare spazio alla pena capitale, oppure a quando si uccide per legittima difesa, o uccidere qualcuno in una guerra dichiarata da un’autorità legittima. Di solito noi presupponiamo questo anche senza dirlo. Quando infatti udiamo o leggiamo “Non uccidere”, spesso pensiamo all’uccidere senza giusta causa. Pensiamo a quelle persone che un tribunale ha dichiarato colpevoli di omicidio di cui leggiamo sui giornali o vediamo in TV, o agli omicidi che commettono bande criminali. Chiaramente il comandamento tratta di questo tipo di omicidi. Uccidere una persona è un omicidio, e questo è ciò a cui si riferisce il sesto comandamento. O no?

I rapporti umani nell’ambito del popolo di Dio

Gesù, però, vi aggiunge: “...ma io vi dico: chiunque si adira contro suo fratello sarà sottoposto al tribunale”. Si tratta di parole scelte con molta cura da parte di Gesù. L’omicidio è condannato dalla legge di Dio ed è passibile della sua severa condanna. Però, dice Gesù, lo stesso giudizio di condanna si applica se tu ti adiri contro tuo fratello. Con tale ira rientri in ciò che quella legge colpisce e sei passibile dello stesso giudizio di condanna - se non se ne trova un rimedio.

Notate pure come Gesù si riferisca qui a chi si adira contro suo fratello. Questo ha a che fare in primo luogo con chi ti è fratello e sorella nel Signore. Gli israeliti, ai tempi di Matteo, l’avrebbero compreso significare ‘mio fratello israelita’, coloro che sono miei fratelli e sorelle nell’ambito del Patto che ci lega a Dio. Per noi sono i nostri confratelli e consorelle cristiane uniti nello stesso Patto adempiuto in Cristo. Pensereste quindi che Gesù intendesse l’ira di un omicida verso la sua vittima designata. Ma no, Gesù si riferisce qui a quell’ira che potrebbe conflagrare nell’ambito di una comunità di credenti, espressione del Suo regno.

La connessione, così, diventa chiara. Il giudizio di condanna che si applica ad un omicida, pure si applica pure a colui o colei che si adira contro un confratello o una consorella. Entrambi sono passibili di un giudizio di condanna. Forse che Gesù intende quell’ira è quella che precorre un omicidio? Forse che Gesù ci istruisce qui sulla necessità di evitare quell’ira che ci potrebbe farci finire dietro le sbarre per omicidio?

Potrebbe essere quello il significato se Gesù si fermasse a quel punto, ma Gesù vi aggiunge altre parole al limite quasi del ridicolo: “...e chi avrà detto a suo fratello: "Raca" sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto: "Pazzo!" sarà condannato alla geenna del fuoco”. Ora, il termine “raca” che la versione biblica non traduce, è un insulto aramaico che letteralmente significa qualcosa come “testa vuota”, “stupido” con una connotazione volgare del tipo (scusate se lo cito ma è necessario) “testa di cazzo”, vale a dire: persona inetta, incapace di gestire, di organizzare, di risolvere qualcosa. Si tratta, nell’originale, della stupidità di qualcuno che è ribelle a ciò che è buono e saggio, che fa quello che è impulsivo e danneggia il prossimo.

Colpevole animosità contro i fratelli

Nel termine “raca” vi è l’animosità contro il proprio fratello. Il Catechismo di Heidelberg lo descrive così: “Che non ingiuri, odi, offenda o uccida il mio fratello in pensieri, parole o gesti e tanto meno in atti, sia io stesso, sia per interposta persona”. È l’atto per il quale si scagliano contro qualcuno parole intese a sminuire tuo fratello o sorella, dirgli “tu non sei nulla e non vali nulla”.

Il castigo che Gesù commina in questi versetti lascia pure piuttosto perplessi. Sembra che “il massimo della pena” sia riservato non solo all’omicidio, ma anche all’ingiuria. Perché? Forse Gesù sta cambiando qui la Legge di Dio? Non può essere perché pochi versetti prima ha detto: “Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento. Poiché in verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, neppure un iota o un apice della legge passerà senza che tutto sia adempiuto”.

Un appello radicale

Gesù non cambia la legge, ma ne approfondisce l’impatto ed il significato, anzi, non è proprio così: Gesù approfondisce la nostra comprensione del significato e dell’impatto della Legge. Il sesto comandamento di Dio sul non uccidere era stato sempre inteso per guidare il popolo di Dio sul modo di rapportarsi l’uno con l’altro. Spesso pensiamo che questo comandamento abbia a che fare col versare sangue, con l’infliggere ferite mortali. Gesù mette in evidenza l’appello radicale della Legge di Dio ad essere, alla Sua presenza, santi in tutti i modi in cui ci rapportiamo agli altri. Naturalmente è proibito l’omicidio, ma con la stessa urgenza pure lo è l’ira e le parole dure fra fratelli e sorelle nella chiesa di Gesù Cristo.

Che cos’è che c’è in gioco qui? Perché mai Gesù fa questa affermazione? Nel Sermone sul Monte Gesù ci dà una guida su come dobbiamo vivere come cittadini del Regno di Dio. Questo Regno sarà pienamente rivelato al ritorno di Cristo, ma per viverne come cittadini non dobbiamo attendere quel momento. Il messaggio di Gesù è sempre che il Regno di Dio è già giunto in Lui.

Per fede siamo stati innestati in Cristo e così siamo membri di quel Regno già ora. Quindi, siamo chiamati a vivere oggi come figli di quel Regno, in questa nostra vita. Ora, per essere riconoscibili come figli di questo regno vivendo come discepoli di Cristo, non vi può essere nemmeno la lontana parvenza di uno spirito omicida. Che differenza farebbe se semplicemente ci astenessimo semplicemente dal commettere omicidio, ma non avessimo scrupoli a ingiuriare, odiare, offendere o uccidere il mio fratello in pensieri, parole o gesti? In quel caso non vivremmo in modo diverso da come fa chiunque altro in questo mondo. Eppure quanti che non ucciderebbero nessuno, fanno comunque presto a gridare parole offensive a chiunque si ponga loro di traverso o che taglia loro la strada o che fa loro il minimo torto? Sono tanti quelli che facilmente sparlano di altri o li denigrano pubblicamente (magari alle spalle) se non stanno loro simpatici o ne hanno invidia. I cristiani, però, seguono la Legge di Dio. Non dobbiamo essere fra quelli che sbottano con ira insultando altri e denigrandoli con titoli vari e persino volgarità. Sebbene altri possano ingaggiare guerre di silenzi e disprezzo l’un per l’altro distruggendo la convivenza pacifica, noi, nel corpo di Cristo, dobbiamo vigilare attentamente sul modo in cui ci comportiamo e parliamo. Come Gesù rileva, non basta farci vedere in chiesa per vivere la comunione cristiana. È questo ciò che intende Gesù al versetto 23 e seguenti. Gesù fà due esempi per chiarire la sua lezione sul sesto comandamento.

Due esempi significativi

Il primo esempio di solito lo leggiamo in modo sbagliato. Di solito leggiamo il versetto 23 come se dicesse: “Se ho qualcosa contro un mio fratello o sorella, prima di poter partecipare alla Cena del Signore devo risolvere la questione”. Spesso questo versetto viene usato da persone che hanno litigato e coltivano dei risentimenti l’una per l’altra e così si astengono dal partecipare alla Cena del Signore. Uno potrebbe dire: “Sono troppo arrabbiato con quella persona per ciò che mi ha fatto per partecipare alla Santa Cena”. Ascoltate attentamente, però, ciò che di fatto è scritto nel versetto 23: “Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te ,lascia lì la tua offerta davanti all'altare, e va' prima a riconciliarti con tuo fratello; poi vieni a offrire la tua offerta”.

Notate come il versetto dica: Se sai che qualcuno ha qualcosa contro di te, allora fai il primo passo verso di lui e cerca di risolvere la questione. Non è che parli di chi è arrabbiato contro qualcuno per ciò che gli ha fatto, ma l’opposto, è quando altri sono arrabbiati contro di te perché tu hai fatto loro dei torti. La riconciliazione è impossibile fintanto che non riconosci che tu hai fatto loro dei torti e vai a chiedere il loro perdono, cerchi di riconciliarti con loro. È questo che deve essere fatto prima di procedere con i rituali della fede, come ai tempi di Matteo, prima di offrire un sacrificio sull’altare del tempio o, ai nostri giorni, prima di offrire il canto, la preghiera o persino la tua contribuzione in denaro al culto. Dato che la Cena del Signore non è in alcun modo un sacrificio che noi offriamo, in quel caso il concetto non si applica. Il punto è che la riconciliazione fra fratelli e sorelle in fede è essenziale per vivere come popolo di Dio perdonato e riconciliato con Dio in Cristo.

La cosa è così essenziale che Gesù aggiunge persino un secondo esempio, quello di qualcuno portato in tribunale perché è avvenuta un’infrazione di carattere legale. Il versetto 25 dice: “Fa' presto amichevole accordo con il tuo avversario mentre sei ancora per via con lui, affinché il tuo avversario non ti consegni in mano al giudice e il giudice in mano alle guardie, e tu non venga messo in prigione”. Risultato del non farlo è quello di subire una condanna e di finire in prigione. La prigione qui menzionata è verosimilmente la prigione in cui venivano rinchiusi i debitori insolventi. L’unico modo per uscirne era che qualcun altro pagasse il loro debito! Per il condannato sarebbe stato troppo tardi pensare di farlo, ammesso che lo potesse fare.

Il punto di questo esempio è che la riconciliazione nei casi di torti inferti o subiti fra membri di Cristo è della massima urgenza. Se è cosa urgente riconciliarsi con qualcuno che si trova sulla via del tribunale per il giudizio, altrettanto urgente dovrebbe far estinguere l’odio, l’ira e la malizia che sorge fra di noi. Sappiamo che Dio esige che viviamo l’Evangelo della riconciliazione e non soltanto fare i gesti rituali della pace. Dobbiamo prenderci cura in ogni modo possibile della pace e dell’armonia nell’ambito della comunità cristiana, e sempre secondo le direttive della Parola di Dio.

Una vita riconoscente di riconciliazione

Ecco così come il comandamento contro l’omicidio ci indirizza ad una vita riconoscente. Come potremmo essere riconoscenti per la riconciliazione, per la pace che abbiamo con Dio in Cristo, se tolleriamo nella nostra comunità cristiana sentimenti di ira, odio, e maldicenza?

Gli israeliti al tempo di Gesù, specialmente fra quelli più benestanti ed eminenti, si accontentavano di seguire il semplice significato esteriore di “Non uccidere”, ma disprezzavano e maltrattavano quelli che ritenevano loro “inferiori”, quelli soprattutto che non avevano la forza per resistere loro. Verso coloro che non potevano difendersi contro l’ingiustizia erano negligenti. Tenevano alla larga chi mostrava di non sapersi far strada nel mondo e che doveva appoggiarsi ad altri, e così molti dei loro fratelli e sorelle israeliti avevano contro di loro parecchie magagne: non erano stati da loro trattati come avrebbero dovuto.

Oggi nella chiesa di Gesù Cristo abbiamo bisogno di verificare attentamente come ci trattiamo l’un l’altro, specialmente coloro che non hanno la forza di fare valere i loro giusti diritti. È nostra vocazione che Dio ci rivolge riconciliarci con loro, soprattutto perché Dio guarda tutto ciò che noi facciamo. Spesso coloro che sono denigrati ed offesi sono troppo arrabbiati e feriti per perseguire la riconciliazione. Dio, però, sa quel che facciamo e diciamo. È per questo che la vocazione che Egli ci rivolge è di essere intraprendenti, di fare il primo poasso nell’accertarci di non avere fatto del male a nessuno essendo stati negligenti ed egoisti.

L’omicidio, evidentemente, è cosa orribile, di estrema gravità. La vendetta, inoltre, appartiene solo al Signore - non tocca a noi. Eppure siamo chiamati ad un’ubbidienza più profonda del sesto comandamento. Siamo chiamati a vivere nella riconciliazione e nella pace che riceviamo come dono della Grazia dallo stesso Signore Gesù. Come dice il nostro Catechismo alla risposta 107: “...condannando l'invidia, l'odio e la collera, Dio vuole ottenere da noi che amiamo il nostro prossimo come noi stessi e gli testimoniamo pazienza, pace, dol­cezza misericordia e benevolenza, che lo preserviamo, per quanto c'è possibile, da ogni male e che facciamo del bene anche ai nostri nemici”.

Vediamo, allora, quale sia la direzione verso la quale vuole indirizzarci l’insegnamento di Gesù in Matteo 5 sull’omicidio? Non uccidere qualcuno è solo il minimo che potremmo fare. Quello anche il mondo lo comprende. I cristiani, però, vivono in un Regno diverso, dove i 10 Comandamenti sono le chiavi di volta del vivere in una comunione tale che si distingue nettamente dalle vie di questo mondo e che va contro ai desideri della nostra natura peccaminosa.

Non dobbiamo solo astenerci dal male, ma di fatto vivere ciò che è buono e santo di fronte ad un mondo che ci osserva. Quello sarà maggiormente visibile nel modo in cui trattiamo gli altri, specialmente coloro che diciamo essere nostri fratelli e sorelle in Cristo. Quindi, andando molto più in profondità che semplicemente l’astenersi dall’uccidere, consideriamo la nostra comunità cristiana, il nostro essere assieme, come cosa preziosissima facendo molta attenzione ad evitare sentimenti di ira, amarezza e risentimento. Al contrario, cerchiamo di amarci profondamente e sempre cercando di essere riconciliati l’uno con l’altro nei casi in cui abbiamo fatto dei torti a qualcuno. Adempieremo così il comando di Dio dell’amore, rendendo testimonianza all’amore di Dio manifestatoci in Cristo Gesù.

Preghiamo. Signore Gesù, tu ci chiami ad uno standard di vita molto più alto di quello del mondo e del modo in cui i nostri desideri carnali ci porterebbero. Concedici la potenza dello Spirito Santo nel vivere in una comunione riconciliata l’uno con l’altro. Rendici desiderosi di essere uniti nel tuo amore e altrettanto desiderosi di amare il nostro prossimo come noi stessi. Lo desidertiamo perché tu ci hai amato per primo e perché in quell’amore troviamo pace con Dio. Te lo chiediamo nel tuo prezioso nome. Amen.

Paolo Castellina, 7 febbraio 2017, adattamento di: “Much More Than No Murder” di Colin Vander Ploeg, pastore della Christian Reformed Chuirch di Abbotsford, BC, Canada. in: https://www.crcna.org/resources/church-resources/reading-sermons/much-more-no-murder

Dal Catechismo di Heidelberg

D. 105. Che cosa esige Dio nel sesto comandamento? Che non ingiuri, odi, offenda o uccida il mio fratello in pensieri, parole o gesti e tanto meno in atti, sia io stesso, sia per interposta persona, ma che rinunci ad ogni desiderio di vendetta; così pure, che io non faccia del male a me stesso né m'esponga al pericolo. È questa la ragione per cui il magistrato porta la spada, per impedire qualsiasi omicidioD. 106. Questo comandamento parla solo dell'omicidio? Proibendo l'omicidio, Dio vuole insegnarci che egli n'odia la radice, come l'invidia, l'odio, la collera e il desiderio di vendetta e che tutto ciò non è ai suoi occhi che un omicidio mascherato.

D. 107. È sufficiente allora non uccidere il nostro pros­simo, come si è appena detto? No, poiché condannando l'invidia, l'odio e la collera, Dio vuole ottenere da noi che amiamo il nostro prossimo come noi stessi e gli testimoniamo pazienza, pace, dol­cezza misericordia e benevolenza, che lo preserviamo, per quanto c'è possibile, da ogni male e che facciamo del bene anche ai nostri nemici.