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Paolo Borsellino. Nacque a Palermo il 19 gennaio 1940 in un quartiere popolare, La Kalsa, in cui vivevano tra gli altri anche Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta. Proveniva da una famiglia con simpatie politiche di destra. Si laureò con 110 e lode in Giurisprudenza e quando nel 1963 partecipò al concorso per entrare in magistratura e lo vinse, divenne il più giovane magistrato d'Italia.
Nel 1975 fu trasferito a Palermo ed entrò nell'ufficio istruzione affari penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Ma iI 4 maggio 1980 il suo più stretto collaboratore, il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, fu assassinato e fu decisa l'assegnazione di una scorta alla famiglia Borsellino. In quell'anno si costituì il "pool" antimafia sotto la guida di Chinnici, con magistrati (fra gli altri, Falcone, Borsellino) e funzionari della Polizia di Stato (come i commissari Ninni Cassarà e Giuseppe Montana). Il pool nacque per risolvere il problema dei giudici istruttori che lavoravano individualmente, separatamente, ognuno "per i fatti suoi", senza scambio di informazioni. Se il magistrato fosse stato ucciso o trasferito l'intera inchiesta doveva ripartire da capo. Con il Pool questo non sarebbe più accaduto.
Solo dopo la morte di Carlo A. Dalla Chiesa, il parlamento con la c.d. legge "Rognoni-La Torre" istituiva il reato di associazione mafiosa (l'art. 416 bis del codice penale) ampliando le investigazioni sul fronte bancario, all'inseguimento dei capitali riciclati dalla mafia.
Il 29 luglio 1983 fu ucciso il Procuratore capo Rocco Chinnici, con l'esplosione di un'autobomba, ma fu sostituito da Antonino Caponnetto. Nel 1984 un capo mafia, Tommaso Buscetta, venne catturato a San Paolo del Brasile e decise di collaborare con la magistratura. L’anno dopo furono uccisi, a pochi giorni l'uno dall'altro, il commissario Montana ed il vice-questore Cassarà. Per questo motivo, Borsellino assieme a Falcone per maggior loro sicurezza furono trasferiti nella foresteria del carcere dell'Asinara, nella quale iniziarono a scrivere l'istruttoria per il cosiddetto "maxiprocesso", che avrebbe mandato alla sbarra 475 imputati (N.B. l'amministrazione penitenziaria per il loro soggiorno in carcere richiese poi un rimborso spese - ?!? -).
Nel 1986 Borsellino ottenne la nomina di Procuratore della Repubblica di Marsala per decentrarsi e assumere un ruolo più autonomo. Quando Caponnetto lasciò il pool antimafia e il Consiglio Superiore della Magistratura scelse Antonino Meli come successore invece di Falcone (che ne aveva diritto e titolo), Borsellino denunciò in pubblico più volte l’assurdità della decisione. Fu addirittura messo sotto inchiesta per questo.
Iniziò a lavorare alacremente scegliendo come collaboratori giovani magistrati. Borsellino denunciò a più riprese l'isolamento dei giudici e l'incapacità o la mancata volontà da parte della politica di dare risposte serie e convinte alla lotta alla criminalità. Descrisse le ragioni che avevano portato all'omicidio del giudice Rosario Livatino e prefigurò la fine che ogni giudice "sovraesposto" era destinato a fare; denunciò ancora che dagli anni Settanta Cosa Nostra era diventata un’impresa economica monopolistica, nel traffico di sostanze stupefacenti, con una massa enorme di capitali, che aveva cercato di reinvestire in altre opere apparentemente lecite. Questi capitali avevano trovato sbocco soprattutto nel Nord Italia, acquisendo capacità imprenditoriale, facendo fruttificare quei capitali e creando legami tra mafia e ambienti industriali lombardi e settentrionali in generale.
Il 19 luglio 1992, una domenica (la sera prima era stato in chiesa e si era confessato), dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D'Amelio, per salutare l'anziana madre. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione materna, con circa 100 kg di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche i cinque agenti di scorta e distruggendo l'intero quartiere.
Pochi giorni prima di essere ucciso, durante una intervista televisiva al giornalista RAI Lamberto Sposini, Borsellino aveva parlato della sua condizione di "condannato a morte". Sapeva di essere nel mirino di Cosa Nostra e sapeva che difficilmente la mafia si lasciava scappare le sue vittime designate. Aveva chiesto alla questura – già venti giorni prima dell'attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l'abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. «Io accetto la morte. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare... dalla sensazione che ho, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro».
Cristiano di poche parole ma di molti fatti. E la sua famiglia parlò sempre di perdono cristiano verso gli assassini del loro amato congiunto.