Il seguente carme è stato ispirato dalla tragedia di Euripide Le Baccanti; premettiamo questo rapido commento affinché sia più chiaro quanto seguirà. La tragedia suddetta ha come argomento la vicenda mitica di Penteo, re di Tebe, Agaue, sua madre, e del dio Dioniso; ora esporremo la trama generale avvalendoci altresì dell’argumentum del grammatico Aristofane: “Dioniso, diventato dio, poiché Penteo non voleva accogliere i suoi riti, rese folli le sorelle della madre (e la madre stessa) e le indusse con la sua forza a fare a pezzi Penteo. La vicenda mitica originaria si trova in Eschilo nel Penteo”. L’antefatto ci viene esposto nel prologo della tragedia: Dioniso, figlio di Zeus e di Semèle, una mortale, ha natura divina e si trova a Tebe dopo aver compiuto un lungo viaggio in Asia per introdurre i suoi riti. Ordunque proprio a Tebe, che è la patria di Semèle, le sorelle della medesima sparlano sulla nascita del dio dicendo che egli non è figlio di Zeus ma d’un qualsiasi mortale e che, per nascondere il fatto, Semèle si sia inventata l’unione con Zeus il quale l’avrebbe folgorata per punirla. Ma la realtà è diversa: Dioniso è figlio di Zeus e sua madre è stata folgorata durante il suo parto, Zeus poi ha preso Dioniso e lo ha ammesso fra gli Dei. Per tale sparlare Dioniso vuol punire le sorelle di Semèle (Ino, Autonoe ed Agaue, la madre di Penteo) e le rende folli costringendole con siffatta follia a far le baccanti sul Citerone, un monte beoto. Insieme alle sorelle di Semèle il dio rende baccanti tutte le donne tebane. Penteo, re di Tebe, osteggia i riti delle baccanti credendo che siano pervasi dalla corruzione e deride Dioniso, giacché non lo riconosce come dio. Inizia così l’azione scenica, di cui prenderemo solo quel che ci serve a chiarire quel che seguirà. Dioniso ha cambiato la sua forma divina in fattezze mortali e Penteo ordina che sia arrestato, Dioniso scappa dalla prigione senza fatica e terremota la casa di Penteo, il quale, avendo compreso l’astuzia dello Straniero, ossia Dioniso stesso, e sentito dalla bocca d’un messaggero i prodigj che le baccanti fanno sul Citerone, decide di intervenire, su consiglio di Dioniso che gli ha infuso una leggera follia, andando a spiare con un abito femminile le menadi. La trappola si sta serrando sul suo capo: Dioniso ha ingannato Penteo perché, una volta giunto sul Citerone, egli sarà ucciso dalle baccanti, fra cui Agaue, che sono in preda al delirio bacchico e dunque prive di ogni controllo razionale su sé stesse. La pratica di dilaniare le fiere, lo σπαραγμοç (sparagmos), era tipica del culto di Dioniso, ma stavolta ad esser straziata non è una belva qualsiasi, si tratta di un uomo, e a dilaniarlo è sua madre con le zie; questo è l’elemento tragico da cui prende le mosse ciò che seguirà questa premessa. Purtroppo nel testo tràdito vi è una lacuna verso la fine della tragedia, lacuna che verosimilmente comprendeva il lamento di Agaue sul corpo smembrato di Penteo; abbiamo deciso di immaginare tale lamento e l’atmosfera in cui esso viene pronunciato; solo che invece che effettuare il lamento nel momento in cui era rituale, noi immaginiamo che ormai sia calata la notte e che Agaue continui a piangere il figlio. Seguiranno comunque de’ rapidi commenti ove li riterremo necessarj.
Sospiran le selve un’umida aria
e l’atra notte l’avvolge funeree,
sottile singulto di fiere emette
del Citerone la ripida balza
mentre un lagrimare antico bagna
quelle terrigene spighe tebane.
E s’ode lontano, dalle silvane
cime, l’urlare profondo del timpano (I)
e sovente un grido squarcia la tenebra;
euoè (II)! Fu esultanza e trionfo
di colui il feral pianto che i riti
di Bacco empiamente contrastò.
Eppur nascosto nell’ombrosa notte
c’è sul cadmeo (III) suol un volto mesto,
un volto femmineo, un volto di madre
che a’ venti dispera i tormentosi
affanni, e il lugubre urlo, nero, bujo
bujo siccome lo spiro notturno.
E così piange l’angosciata anima:
“O me, me infelice! Mi ha distrutta
il bacchico rito, ci ha distrutti
la nostra maligna empietà, ed ora
sempre trafitta sarò dal crudele
pugnale del dolore! O me misera
potesse esser stata data a me prima
la morte, ché non avrei dovuto
patir sì tanto per queste infauste
mani, queste che ti han dilaniato
figlio mio! Queste mani, queste mani
che inconscia ho avvolto ne’ viluppi
del tuo sangue, queste mani che folli
hanno straziato il tuo bel viso amato!
Quale trionfo cantate, baccanti?
E quale follia, me sciagurata,
poté sì tanto ottenebrarmi?
O figlio mio, quest’impeto di timpani
fia la melodia della tua pompa,
l’euoè il triste tuo grido
tua madre la tua assassina!
Giace ora la fredda tua salma, giace
smembrata, per quanta n’ha il Citerone
restituita, e vorrei che la mia fosse
con la tua nell’abbraccio della morte.
Eppure finirà quest’odiosa
mia vita, e giungerà anche a me il giorno
disiato nel qual lo spiro il corpo
fuggirà orbo tra l’ombre, e questo
mondo lascerà amaro. Ma potessi
io morir ora! Ora, insieme al bujo
di questa angosciosa notte, potesser
queste stesse mani dar pur a me
rapida morte, potesser invasarsi
di nuovo contro l’autrice di questo
folle delitto!
Così muori, come silvana bestia frutto
di caccia violenta, Penteo, e così
muore tua madre che finché luce
con gl’occhj berrà di questo cielo
sempre le sarà dolorosa…”
Ma il diurno raggio iniziava a terger
la gelida terra,
e pur tacque il bacchico coro.
I Il timpano era uno strumento rituale usato durante i riti bacchici, esso era una sorta di tamburello con nacchere annesse ma con un suono molto basso e cupo (motivo per cui non rendiamo il nome greco τυμπανον, tympanon, con tamburello, che è sostantivo fonicamente allegro, ma con timpano).
II Euoè è il grido che le menadi pronunciavano nell’esaltazione bacchica.
III Cadmo era il fondatore di Tebe, dove avviene la vicenda.