Il canto mattutino di Psiche
Infine, come in un sogno, svanì
l’ellenica notte e con gran lentezza
e maestosità il diurno raggio
di Febo illanguidiva i rugiadosi
fil d’erbe in freschi e piacevoli prati.
S’acquietò il bisbigliar dell’ombrose
selve e nuovi e giojosi canti come
rinfresco mattutino risuonavan
melodie dagl’alti rami. Come
eran chiare l’acque de’ruscelli
che fluivano dolci da’ monti,
come si illuminavano le più
elevate fronde al sole gentile
d’oriente; e come era lieto il tuo sguardo,
o Psiche, che percorrendo leggiadro
le naturali cose rimembrava
con piacere la visita notturna
d’Amore, il felice annunzio, le tenui
sue labbra… E mentre sovvenivano
questi aerei pensieri d’amor una
serenità immensa s’infondeva
nell’animo e con le candide mani
carezzavi il tiepido grembo, sì
minuto, eppur già casa di fresca vita.
Splendeva l’aurea reggia nella quale
entrasti la prima volta dubbiosa,
col cuor ugualmente pronto al felice
godimento come al mesto patire,
ossia nient’affatto, splendeva come
splende tutt’ora, siccome i dorati
pomi sui ricchi virgulti.
Splendeva la reggia tua nel mattino,
in mezzo alla Grecia celata eppure
tanto evidente come una candela
nelle fosche tenebre, e tu intrecciavi
graziose corone di margherite mentre
risuonavi in cori con le colombe
selvatiche queste parole “Cantano
gl’uccelli e le fiere, né taccion
gl’arbusti e le fronde silvane, mosse
e fruscianti al tenero Zefiro alte;
cantano le boscose valli e i rivi
canori che limpidi riflettono
i narcisi; cantano anche le rocce
e le cime degl’ardui colli ed ampj;
cantano con me il mio felice nome
di Psiche ma poi soprattutto celebrano
te, o soave Amore, te che voli
su queste prospere terre al crepuscolo
in mia ricerca, visitando fonti
e balze e pascoli ameni. Così
ti lodano, e ti lodo io che tu sempre
fai vivere a piacevoli sospiri.
Tu sei la mia felicità,
la consolazione della solitudine,
la vita e l’essenza stessa di me,
e l’anima mia e tua sfero insieme
fanno. Tu, signore del cuore umano,
odi questa mia letizia, Amore
dall’inappellabile sentenza, Amore
che affanni e ristori, Amore che, re,
distruggi e crei. Ed adesso
che mi fai madre, quale festa alberga
in me? Ma amiamoci ora per sempre,
eternamente, ed in modo infinito,
fino che non ci sarem consumati
nel più assoluto nulla, amiamoci
finché non morrà l’immortale,
finché non cadranno gli Dei e in piana
s’abbasserà l’Olimpo. Amiamoci
finché dura il tempo ed oltre il tempo
stesso.”
Cantan le fronde silvane sugl’alti fusti
Cantan le fronde silvane sugl’alti
fusti del leccio levate all’aereo
Zefiro, come treman le dubbiose
labbra, o Psiche, ne’ forti disj
d’amor quando lo spiro lo solleva
e alle nubi perviene delle idee.
Psiche tenta il suicidio
Scende lento il vespero sull’elleniche
vette e l’ubertose piane di Grecia
accolgono l’esperia e fresca luce
mentre Selene, falcata, nel cielo
appare lasciando intravedere
la candida sua immago.
“O Psiche!” gemono l’aeree fronde
del cipresso a Zefiro doloroso,
“o Psiche” i fili dell’umida erba;
e tu, Psiche, gli rispondi piangendo
lagrime dalle tue tiepide ciglia,
li bagni mestamente, disperata.
E’ volato via Amore e già
non lo vedi più tra le nubi,
triste Psiche, già giunge all’olimpie
balze, e tu, in terra prostrata, lamenti
emetti terribili: “Amore…Amore,
perché mi abbandoni? Qui, in questa
esistenza dolente, qui, su questo
prato di rovi, qui, nella mia amara
solitudine? Legata a te l’alma
mia porti, né mai essa si potrà
staccare: prima sarà la vita
a fuggire le stanche membra, prima
crolleranno tutte le rocche d’Ellade,
prima invecchierà la celeste volta
che io lasci l’amor di te, desiderato,
fuggito… Amor, che a nessun amato
amar perdoni, mi lasci così,
nelle mani del dolore? Che cosa
ormai resta alla mia vita distrutta,
distrutta dalla sua curiosità?
Una cosa mi resta solamente:
una morte…”. Così disse,
mentre udiva il salice di fiume,
e a capofitto si gettò nelle acque.
Notturno I
Taccion l’assonnate vie nella tenebra
siccome taccion i prossimi tetti.
Tace candida immagine di Luna,
Luna orientale, Luna d’Esperia.
E tace la luce gentile, luce
d’argenteo raggio, sull’umida erba,
sugl’alti rami, sul giallo tufo.
Ma s’ode la voce, voce di pioggia
pioggia che bagna i dì novembrini,
pioggia che rintocca a buje finestre
pioggia che lava i lontani sospiri.
O nubi, o nubi, voi questi terrigeni
virgulti, quest’amara e dolce terra
col vostro sottile pianto lustrale…
Tace la notte, sonan l’acque piovane,
tace la terra, taccion le vie.
Notturno III
Fruscia fluido e fioco il frutto di fonte,
e gorgoglia fievole nelle selve;
s’odon le tacite tenebre, avvolte
sul tintinnio canoro e anche muto
della notte. Ma è tripudio eremo
oltre la quieta immago parvente
ne’ recessi dell’umana psiche.
Oniriche nubi s’avvolgon nella
torma indistinta del tragico come
del comico, e del tutto e pur del niente
insieme.
Notturno V
O notte bruna, come sotto i venti
sottili e forti geme l’alta fronda
nelle selve ombrose, sol rischiarate
dagl’astri lontani, così dolce
o amara sovviene l’immago tenue
dell’amata all’amatore. Ed allora
si smuove il cuore come acqua canora
che scende per il rivo dell’anima
Notturno VI
O Luna, o Luna! Così candido
disco nell’aria gelata, così
gentile luce nel mare di notte,
segreto e silenzioso confessore
d’amor, di gioje, di lagrime rotte
sussurrate alle brezze fumose…
Notturno X
Silenziosa notte, dimmi che portan
le tue tenebrose brezze allo spiro
della solinga Luna. Quale angoscia
ascolti e ne sei confidente, quale
desiderio, qual reità confessa
in animosa e tacita preghiera?
Quale indarna inquietudine tintinna
di chimere sulle tenere ciglia
de’ fanciulli, qual misericordiosa
quiete schiude il tuo seno misterioso
a noi, mendica specie, che imploriamo
invano felicità alle piogge
e alle foglie caduche…
Flebiles lacrimas lacrimant salices
tenui frondes frondescendo vere
dum bibunt in ora sic flexuosa
aquas cum lumine tacito calidae cerae