ANNO 1944
Il 18 gennaio, a Roma, il Comitato di Liberazione Nazionale decise di investire il C.L.N.A.I. di Milano dei poteri di governo straordinario per tutta l'Italia occupata, sollecitandolo a difendere l'unità del C.L.N. contro ogni forma di attività disgregatrice. Il 28 dello stesso mese si tenne a Bari il congresso dei C.L.N. dell'Italia liberata. Si concluse unitariamente con la votazione di un ordine del giorno nel quale si riconobbe non di immediata soluzione la questione istituzionale, ma si chiese l'abdicazione di Vittorio Emanuele III, la costituzione di un governo rappresentativo di tutte le forze antifasciste e infine la convocazione di un'assemblea costituente dopo la cessazione delle ostilità.
"(...) Dopo qualche tempo le cose sembravano calme e, mentre tedeschi e fascisti erano impegnati altrove, ce ne tornammo a Vimercate. Per tentare di sondare la disponibilità e per cercare di ingrossare le file del nostro gruppo che aveva già deciso di darsi alla macchia, tenemmo diverse riunioni coi renitenti, nostri coetanei, che si rifugiavano, durante il giorno, alla "montagnetta" (nei pressi dell'attuale asilo Sud). Ognuno, dopo aver analizzato il problema, decise se aderire alle nostre proposte, cioè se vivere clandestinamente tentando di ostacolare i nazifascisti, oppure rimanere ''sbandati'', in attesa di ulteriori sviluppi della situazione, sapendo comunque di poter incorrere nelle sanzioni penali fasciste in quanto disertori. Eravamo pochi amici ma molto fidati e soprattutto con le idee chiare, per cui non si tardò molto a trovare un punto d'intesa: decidemmo di scuotere l'opinione pubblica vimercatese, preparando un volantino. Aldo, io e Corbetta Franco, presso la casa di quest'ultimo, stendemmo il testo e lo battemmo a macchina facendone diverse copie.
FASCISTI! REPUBBLICANI! CHE MANIFESTATE TANTO AMOR PATRIO!
PERCHÉ NESSUNO DI VOI CORRE LÀ OVE IL CREPITO DELLA
MITRAGLIA S'ODE CONTINUAMENTE? PERCHÉ NELLE VOSTRE FILA
NON CI SONO CHE UOMINI INERMI ED INABILI AD OGNI SERVIZIO MILITARE? DIFATTI NEI VOSTRI RANGHI VI SONO ZOPPI, GOBBI,
STOLTI E DEI VERI DELINQUENTI. E PERCHÉ COLORO CHE
POTREBBERO SERVIRE LA PATRIA AL MOMENTO OPPORTUNO SCOMPAIONO, COME GIÀ HANNO FATTO, E POI MANIFESTANO
AMOR PATRIO? NESSUNO DI VOI ANCORA SI É PRESENTATO LÀ OVE
REALMENTE OCCORRONO FATTI.
RECLUTATE RAGAZZI INESPERTI, RAGAZZI ANCORA NON DOTATI DI
UN SENSO DI GUERRIGLIA ED INUMANAMENTE LI SPINGETE VERSO
IL MACELLO, DOPO AVERLI CARPITI ALLE PROPRIE MADRI.
"ECCO LA CIVILTÀ FASCISTA!!!"
CI AVETE STROZZATI PER VENT'ANNI; LA NAZIONE HA DOVUTO
SUBIRE QUEL GRAVOSO TRAVAGLIO CHE VOI CINICAMENTE AVETE
IMPOSTO ED ORA CHE IL POPOLO STA PER RISORGERE
VOLETE STROZZARLO, SOFFOCARLO PER UNA STOLTA IDEALITA
CHE TUTTI HANNO RICONOSCIUTO TALE, MA CHE VOI SOLI
(P.F.R.) POCHI FESSI RIMASTI (P.F.R.)
NON VOLETE CAPIRE, OPPURE AVETE GIÀ CAPITO MA VOLETE
NUOVAMENTE SOFFOCARCI PER VIVERE DA PASCIÀ SULLE SPALLE
DEI FORTI LAVORATORI ITALIANI.
F.to I VERI ITALIANI
(n.d.r.: P.F.R. leggasi Partito Fascista Repubblicano)
Una sera, preparati i volantini, uscimmo, Aldo ed io, in missione sotto la pioggia. Riparati da un ombrello, ci fermavamo davanti ai negozi per l'affissione, durante il coprifuoco. Occorreva tenere presente che per le vie del paese passava la ronda fascista che, vedendo i manifesti, li strappava con rabbia; ma il nostro puntiglio ci induce va a riattaccare nello stesso punto un altro manifesto perfettamente identico al primo. il collante utilizzato era composto da un impasto ottenuto miscelando farina con emostatico diluito in acqua; il volantino, una volta affisso con tale "micidiale" collante, richiedeva per la rimozione l'uso forzato di una spatola. Quella notte i fascisti erano furiosi nel vedere comparire come funghi quei manifesti e, malgrado ne avessero strappati molti, qualcuno rimase. La mattina successiva le donne, che di buon ora andavano alla prima messa, lessero il nostro "proclama", e così la notizia ebbe ampia diffusione: chi aveva letto commentava, chi non aveva fatto in tempo ne veniva informato dai primi. La reazione dei fascisti fu immediata: vennero incolpati gli studenti, poi alcuni giovani lavoratori, ma senza prove concrete; dopo un duro interrogatorio, coi consueti metodi indagatori, vennero rilasciati.
Si cercò in tutti i modi di trovare gli autori della beffa o, in alternativa, qualcuno sul quale fare cadere la colpa e punire in maniera esemplare. I fascisti non transigevano e davano l'idea di voler fare sul serio; noi eravamo disarmati e, date le circostanze, occorreva avere qualche strumento di difesa. Aldo aveva il suo moschetto militare con due caricatori: era poco ma meglio di niente. Mi ricordai che un mio ex-commilitone, tale Passoni di Passirano, era in possesso di una rivoltella e di alcuni caricatori; essendo persona fidata gli chiedemmo l'arma che, aggiunta al moschetto, ci rendeva un po' più tranquilli.
Mentre si continuava la ricerca delle armi, nasceva la necessità di avere una base stabile ove ritrovarci. Una sera incontrammo Picrino Colombo e Luigi Ronchi, due nostri vecchi amici; erano appartenuti il primo al 54° Fanteria ed il secondo al 10° Bersaglieri. Dal discorso che, inevitabilmente, cadde sul volantino potemmo facilmente capire che la pensavano come noi. L'intesa, quindi, fu la conclusione logica. Stabilimmo il luogo di convegno in un cascinotto appartenente ad un amico di Aldo, Vimercati Carlo, meglio noto col nomignolo di "Mansin" (Mancino). Il cascinotto divenne la nostra base operativa col consenso del proprietario. In una delle nostre riunioni, mentre si parlava della necessità di avere altre armi, Pierino disse di essere a conoscenza di un suo amico che possedeva una pistola; costui, Emilio Cereda, era appartenuto all'Arma del Genio e aveva trattenuto con sé l'arma dopo l'8 settembre, nonostante gli ordini superiori che imponevano di distruggere ogni strumento bellico. Il numero degli appartenenti al gruppo andava aumentando e con esso il conseguente armamento; si costituì così il gruppo di Resistenza basato sull'amicizia e dal quale doveva scaturire un vero e proprio vincolo di fiducia reciproca, cui sempre mantenemmo fede. Occorreva avere delle informazioni anche di carattere generale, per operare coerentemente con gli sviluppi della guerra. Io ero incaricato di ascoltare radio-Londra, e per questo ogni sera mi recavo in un cortile al "Ponte", dove clandestinamente si ricevevano le informazioni. Una sera, mentre mi accingevo ad eseguire il mio compito, incontrai Renato Pellegatta, ex-paracadutista. Nel discutere espresse il desiderio di partecipare alla lotta contro i tedeschi ed i fascisti, e su mio invito ci trovammo, il giorno seguente, tutti insieme alla base. Emilio portò la sua vecchia macchina da scrivere che servì per la stesura di nuovi volantini atti ad informare il paese, e soprattutto i fascisti, che c'era qualcuno non disposto ad accettare passivamente tale situazione e che, al momento opportuno, sarebbe stato reso colpo su colpo. Si stilarono numerosi volantini esortanti i lavoratori delle fabbriche a sabotare il proprio operato e le macchine utensili, indicando loro in quale maniera cinica venivano sfruttati dal regime. Altri volantini attaccavano direttamente il sistema fascista, altri ancora quegli ignobili individui che si arricchivano con la borsa nera.
Al termine di questo intenso lavoro di sensibilizzazione, eravamo riusciti a dare un certo impulso all'opinione pubblica e un chiaro avvertimento ai fascisti. A quest'ultimi non doveva assolutamente sfuggire il controllo della situazione e a capo delle camicie nere di Vimercate fu mandata una personalità di spicco: il Vice-Federale di Milano, Vaghi.
Alto, robusto, con gli stivali lustri e con, al posto delle mani, due protesi di legno rivestite di pelle nera. Prodotto tipico del fascismo egli raccoglieva in sé quanto di negativo vi era nel regime che rappresentava, ed era fermamente deciso a riscattarsi agli occhi dei tedeschi che, per contro, sminuivano la figura del gerarca fascista."
(Carlo Levati)
Il 22 gennaio gli Alleati sbarcarono ad Anzio, nel tentativo di aprirsi in tal modo la via verso la Capitale. L'avanzata, se pure lenta degli Anglo-Americani, costrinse il Comando Germanico ad inviare nuove truppe sul fronte italiano. La tipica organizzazione teutonica aveva predisposto una particolareggiata segnaletica necessaria alle truppe per identificare gli obiettivi in un paese straniero. Le prime azioni di disturbo verso l'invasore furono la manomissione di tali cartelli stradali, cosa che si verificò anche a Vimercate.
PREFETTURA DI MILANO
Oggetto: Vigilanza ai cartelli indicatori tedeschi
(...)il Comando della Polizia dell'Ordine Germanico lamenta che da tempo si verifica la distruzione o l'asportazione di cartelli indicatori tedeschi portanti denominazioni stradali o di uffici o reparti, cartelli che vengono talvolta spostati in altra località per trarre in inganno coloro che se ne dovrebbero giovare.
Ciò è da considerarsi vero e proprio atto di sabotaggio e le persone che d'ora innanzi venissero sorprese a commettere tali azioni delittuose dovranno senz'altro essere denunciate al Tribunale Militare tedesco e consegnate alla Gendarmeria Militare Germanica.
Prego dare, in proposito, precise disposizioni perchè da parte del dipendente personale impiegato in servizio di polizia sia curata con speciale diligenza la sorveglianza sui detti cartelli, spiegando rigorose azioni repressive a carico di chiunque si attenti a danneggiarli o manometterli.
Alla vigilanza in parola dovranno concorrere anche i comuni a mezzo dei vigili urbani, guardie e messi comunali, nonchè dei civili che prestano servizio retribuito per la sorveglianza alle linee telefoniche.
Gradirò assicurazione.
IL CAPO DELLA PROVINCIA
F.to P. Panni
La popolazione civile, inoltre, pur sapendo di correre grossi rischi, cercava di aiutare gli Alleati in tutti i modi possibili, in particolare nascondendo i prigionieri fuggiti dai campi di internamento nazisti.
RICOMPENSA
A coloro che riprendono prigionieri di guerra inglesi o americani fuggiti, viene immediatamente data una ricompensa di 20 sterline oppure L. 1.800 a scelta di chi effettua la consegna del prigioniero.
La ricompensa viene data a mezzo dei Reparti di Truppa o luoghi militari germanici di servizio presso cui i prigionieri verranno consegnati.
A coloro che riprendono prigionieri di guerra inglesi o americani fuggiti, viene immediatamente data una ricompensa di 20 sterline oppure L. 1.800 a scelta di chi effettua la consegna del prigioniero.
"(...) in una pineta nei pressi di Sulbiate si erano raccolti decine di prigionieri slavi, polacchi, inglesi, russi fuggiti dai campi di concentramento di Bergamo, dopo l'8 settembre.
Giovani generosi aiutavano questi a sopravvivere in libertà; ma incombeva il rischio di essere scoperti. Cosa fare? In questo frangente una sola persona avrebbe saputo risolvere il grave problema: Don Mario Ciceri, vice-parroco di Sulbiate.
Un vero uomo ancor prima di essere prete; al vederlo appariva un nonnulla: pallido, gracile, denutrito, occhialini da due soldi, tonaca sgualcita, scarpe consumate. Parco nel parlare, ma dotato di dialettica incisiva, disarmava qualsiasi autorità e ne debellava la veemenza. Questi, venuto a conoscenza di tale fatto, decise di fare espatriare in Svizzera i fuggitivi. Così una notte, Don Ciceri ed io partimmo per le colline lecchesi dove il sacerdote sapeva di una rete clandestina deputata all'espatrio dei prigionieri. Presi gli opportuni, accordi ritornammo a Sulbiate e, la sera successiva, iniziammo l'operazione, che si protrasse per diverse notti, accompagnando a piccoli gruppi i fuggitivi e consegnandoli agli addetti. Tutto procedeva per il meglio; l'ultimo viaggio fu però fatale per Luigi Brambilla, un l8enne di Aicurzio, il quale non tornò più dalla sua ardua missione. Rimasero quattro prigionieri e, non potendoci più muovere da Sulbiate, decidemmo di ospitarli nelle nostre case". (Mario Cereda)
"(...) questo nuovo modo di comunicare attraverso i volantini risultava essere un valido metodo di ostruzionismo al nemico, che incoraggiava la gente, portandola tacitamente a simpatizzare e ad avere fiducia verso gli uomini della Resistenza. Si creava una coscienza nella popolazione ed uno stimolo a partecipare al cambiamento di una situazione di sottomissione che si protraeva già da venti anni. La nostra azione propagandistica creava una reazione positiva nell'opinione pubblica, non solo di Vimercate, ma anche di tutta la zona adiacente. Questo legame di simpatia segnava il risveglio dell'antifascimo, gettando le basi per la democrazia, per la liberazione dall'invasore tedesco, ma soprattutto per l'annientamento del fascismo. Bisognava battersi non solo per aiutare gli Alleati nell'intento di porre velocemente fine alla guerra, ma anche per poter dire a noi stessi che si doveva avere fiducia nell'azione intrapresa; un'azione difficile, con poche armi ma con tanta speranza, in quel momento indispensabile ad innescare i nostri animi, il nostro coraggio, mettendo al servizio della causa la nostra gioventù.
I fascisti vimercatesi, per reazione alla nostra propaganda, crearono nuove pattuglie per far rispettare il coprifuoco. La domenica si schieravano in piazza pretendendo il "saluto romano"; chi non lo eseguiva veniva schiaffeggiato pubblicamente e personalmente dal Vicefederale Vaghi. Non si fermavano solo a questo: si convocavano alla Casa del Fascio i genitori dei renitenti alla leva, minacciati di perdere i propri averi se non fossero riusciti a convincere i propri figli a presentarsi ai distretti.
Intanto dentro di noi si formava una coscienza sempre più matura, eravamo consapevoli di appartenere ad un movimento clandestino ormai estesosi all'intera nazione. Le drastiche misure attuate dai fascisti richiedevano altrettante decise contromisure: ci imponemmo nomi di battaglia e utilizzammo parole d'ordine in maniera da regolare i nostri movimenti in modo disciplinato per non mettere in pericolo la nostra vita e quella dei nostri compagni di lotta. Le azioni di propaganda compiute indussero gli antifascisti a cercare un contatto con noi. Dopo l'inverno del '43 trascorso, come già detto, tra le montagne ed alla ricerca di creare il gruppo di resistenza locale, uno dei nostri, precisamente Pierino, venne avvicinato da una persona, la quale con discrezione chiese di poter parlare con qualcuno al fine di consolidare il gruppo.
Pierino ci riferì dell'incontro e presto si intrecciò una discussione che portò alla decisione unanime di ascoltare tali proposte. I contatti che seguirono con questo antifascista, Umberto Comi, avvennero rispettando tutte le regole della clandestinità: i luoghi erano sempre differenti ed il più possibile lontani dalla base. Durante uno di questi incontri, Comi disse di essere a conoscenza di un giovane fidato che voleva far parte del nostro gruppo. Questo giovane era Iginio Rota". (Carlo Levati)
"(...) dopo l'8 settembre Iginio sostituì il padre, morto nel frattempo, al Linificio e Canapificio Nazionale, con le funzioni di capoofficina, in quanto diplomato. Egli militava nelle file del P.C.I. e aveva prestato servizio militare presso l'8° Rgt. Autieri dì Bologna, col grado di sergente. In fabbrica si discuteva degli eventi trascorsi, della vergogna fascista e del baratro in cui il paese era precipitato, nonchè delle scelte che ogni cittadino, in questi terribili momenti, era costretto a prendere di fronte alla invasione nazista e alla guerra che continuava. Iginio manifestò il suo desiderio di partecipare attivamente alla lotta contro il fascismo, ma non sapeva come stabilire i contatti con i gruppi della Resistenza, la cui nascita veniva sussurrata fra la popolazione con accenti di speranza. Conoscendo la serietà del soggetto, non esitai a metterlo in contatto con Achille Frigerio il quale, a sua volta, lo presentò al Commissario Politico di zona del P.C.l., Ricci, e, successivamente, al comandante militare di zona delle costituende formazioni S.A.P. (Squadre di Azione Patriottica) - Garibaldi -, Guido Venegoni; questi lo mise successivamente in contatto con Umberto Comi". (Ambrogio Scaccabarozzi)
"(...) iniziò subito a frequentare la nostra base, rimase con noi e durante il giorno, con diverse discussioni, ognuno di noi si apriva agli altri evidenziando i motivi e le necessità per continuare quello che avevamo deciso di intraprendere e come svolgere il nostro compito nella maniera migliore. Subito le doti intellettive e le attitudini al comando di Iginio emersero, non in modo sfacciato, ma con sincerità e naturalezza. Aveva un carattere affabile, mai triste, anzi sempre pronto alla battuta, dotato di una dialettica e di idee politiche ben elaborate. Idee che spesso discutevamo e sentivamo nostre. Con lui la base venne definitivamente stabilita presso il cascinotto del "Mansin" e si costituì ufficialmente il 1° distaccamento della Brigata Garibaldi "Vincenzo Gabellini" che fu affidato al suo comando con un metodo fino a quel momento sconosciuto: la votazione!
Con un atto democratico iniziava la dura battaglia per l'affermazione dei principi di libertà. L'apporto di Iginio si rivelò assai utile, sia per le capacità personali ed il suo coraggio che per i collegamenti con altri gruppi coi quali aveva già avuto precedenti contatti, soprattutto fra i politici". (Carlo Levati)
Intanto dalla R.S.I. partivano ordini ben precisi tesi a regolare lo svolgersi della pubblica amministrazione. Per poter lavorare si doveva forzatamente sposare la linea nazifascista e prestare giuramento di fedeltà al regime.
PREFETTURA DI MILANO
- Gabinetto -
(...) mi risulta che presso Enti pubblici di questa provincia prestano servizio alcuni impiegati i cui figlioli non hanno sentito di rispondere al recente decreto del Duce relativo alla presentazione alle armi di disertori e renitenti.
Ragioni di ordine morale, di cui certo a voi non potrà sfuggire la portata, suggeriscono l'opportunità che i detti impiegati vengano allontanati dall'ufficio. E pertanto qualora trattasi di provvisori o di avventizi, provvedere al loro licenziamento; e qualora trattasi di impiegati di ruolo vorrete provvedere alla loro sospensione dalle funzioni e dallo stipendio con riserva di esaminare i singoli casi ai fini eventuali di provvedimenti definitivi.
Interessando la presente circolare tutti gli Enti pubblici locali, vi compiacerete dare subito comunicazione di essa, per la pronta esecuzione, a tutti gli altri Enti che hanno tale carattere e che hanno sede nel territorio di codesto comune (Enti ausiliari dello Stato come le Istituzioni pubbliche di Assistenza e Beneficenza, Pubbliche Istituzioni Culturali ed Artistiche, ecc.).
Milano, 22 Marzo 1944 - XXII IL CAPO DELLA PROVINCIA
F.to P. Panni
PREFETTURA REPUBBLICANA DI MILANO
- Gabinetto -
Oggetto: Giuramento
(...) il Ministero degli Interni ha disposto che i pubblici amministratori, come Podestà, Vicepodestà, Consultori, Presidi, Vicepresidi, Rettori, debbono prestare il giuramento secondo la nuova formula prescritta con decreto legislativo 24 dicembre 1943. Anche il personale avventizio e quello a ferma temporanea dovrà essere chiamato a prestare promessa di fedeltà nei termini seguenti:
"PROMETTO DI SERVIRE LEALMENTE LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA NELLE SUE ISTITUZIONI E NELLE SUE LEGGI E DI ESERCITARE LE MIE FUNZIONI PER IL BENE E LA GRANDEZZA DELLA PATRIA".
Milano, 26 Aprile 1944 - XXII
IL CAPO DELLA PROVINCIA
F.to P. Panni
Coloro i quali avevano aderito ai bandi di chiamata della R.S.I. dovevano anch'essi sottoporsi al giuramento di fedeltà a Mussolini, alla sua repubblica e al Reich germanico:
"ADERISCO ALL'IDEA REPUBBLICANA DELL' ITALIA REPUBBLICANA FASCISTA E MI DICHIARO VOLONTARIAMENTE PRONTO A COMBATTERE CON LE ARMI NEL COSTITUENDO NUOVO ESERCITO ITALIANO DEL DUCE, SENZA RISERVE, ANCHE SOTTO IL COMANDO SUPREMO TEDESCO, CONTRO IL COMUNE NEMICO DELL'ITALIA REPUBBLICANA FASCISTA DEL DUCE E DEL GRANDE REICH GERMANICO".
"(...) negli ambienti dei lavoratori milanesi cresce l'irritazione contro l'autorità soprattutto per il mancato mantenimento delle promesse in fatto di razionamento fatte a suo tempo dal Gen. Zimmerman. Non poteva essere altrimenti. Di fronte al fatto che la razione di pane viene diminuita alla chetichella di 100 gr. e che le tessere preferenziali a poco a poco si dimostrano dei semplici pezzi di carta si traggono le conseguenze che fascisti o nazisti è tutt'uno".
(dal giornale clandestino "Voci d'officina" - Febb. '44)
"(...) il lavoro dipendente, male retribuito, che vedeva spesso protrarsi nel tempo oltre le normali ore, 10 - 12, la quotidiana fatica, era ormai al limite di rottura.
Il lavoro doveva continuare con ritmi serrati. La produzione era imperniata sul "cottimo individuale", venendo quantificata a fine giornata e conteggiata; un banale incidente tecnico, anche di natura indipendente dalla volontà dell'operatore, bastava a privarlo di buona parte del suo già magro salario. Le feste infrasettimanali, per chi lavorava in grosse industrie belliche, erano sempre lavorative. In simili condizioni e situazioni il popolo lavoratore, pigiato nei reparti di produzione sotto il giogo fascista che imponeva l'assoluta disciplina, si preparava lentamente, ma inesorabilmente, al sopravvento
Il malcontento sociale, che veniva evidenziato nella fabbrica con l'accomunarsi di tanta gente, scaturiva spontaneo dal dialogo frequente tra operai dello stesso reparto, i quali cominciarono a scambiarsi le loro impressioni e a ipotizzare il futuro intervento.
Solidarizzavo coi miei colleghi, i quali manifestavano apertamente il loro disappunto verso chi ci riservava tale misera condizione di pura sopravvivenza. Ricordo ancora chiaramente le parole di un compagno di lavoro il quale si eresse su di un bancone e, con forza, gridò: "Ormai il bicchiere è colmo, può solo traboccare!".
La situazione economica, che metteva a dura prova il popolo, contribuì ad affratellarlo e a prepararlo alla ribellione nei confronti del comune nemico: il fascismo
(Luciano Mauri)
"(...)l'affiatamento del popolo è in corso scientificamente e subdolamente come solo i tedeschi sanno fare, allo scopo di incrementare il trasporto in Germania della mano d'opera italiana". ("Voci d'officina" - Febbraio 1944)
LA RAZIONE BASE SETTIMANALE:
IN ITALIA
IN GERMANIA
PANE………………... grammi
CARNE……………… grammi
ZUCCHERO…………. grammi
GRASSI……………... grammi
1.050
100
125
100
2.002
300
225
Questa statistica si commenta da sè.
Ai tedeschi mandano i prodotti delle nostre terre, e a noi italiani danno le pillole. Operai, rifiutiamo le pillole, e pretendiamo razioni più abbondanti alla mensa.
(dal giornale clandestino "La scintilla" del '44)
LA DEPORTAZIONE IN GERMANIA DEGLI OPERAI ITALIANI
È IMMINENTE
(...)la macchina di oppressione nazista continua a funzionare sempre più ferocemente. La Germania ha estremo bisogno di uomini; i reclutamenti volontari della Todt e della Speer non servono più. La Germania hitleriana ha bisogno di buoni operai e di tanti operai; basti dire che Milano dovrà fornirne entro il mese di Marzo ben 130.000. I Sindacati fascisti, che gestiscono quelli che loro chiamano uffici di collocamento ma sono in realtà gli uffici dei moderni negrieri, devono a tutti i costi fornire questi operai. E siccome non possono basarsi sui disoccupati, troppo pochi per il fabbisogno e troppo poco specializzati, così è stato deciso che una parte della mano d'opera italiana, anche se attualmente occupata in Italia, andrà in Germania; una percentuale, a seconda del numero di dipendenti di ogni industria, sarà d'autorità prelevata e inviata oltre il Brennero.
Ci si venga a dire che questa non è deportazione!
Gli operai sono avvertiti; il tempo stringe. Oramai non vi è più alcuna via di scelta:
o la lotta aperta contro gli oppressori nazisti e i loro complici fascisti o la fine tragica nelle officine tedesche, che l'aviazione angloamericana mette a ferro e fuoco giorno e notte". ("Voci d'officina" - Febbraio '44)
Dall' 1 all'8 Marzo ci furono i grandi scioperi generali dei centri industriali del Nord. La produzione bellica venne paralizzata. Hitler ordinò di deportare il 20% degli scioperanti e, anche se l'ordine non venne eseguito secondo la percentuale espressa, migliaia di lavoratori furono arrestati e deportati in Germania.
"(...)durante gli scioperi del marzo occupammo la fabbrica nella quale lavoravo (Falk) per quindici giorni, al termine dei quali giunsero i tedeschi guidati personalmente dal Gen. Zimmerman, comandante del presidio di Milano, che, con l'appoggio di 3 carri armati, ci costrinsero a riprendere il lavoro interrotto. Riuscimmo comunque ad ottenere l'aumento della razione alimentare, che fu una delle cause dello sciopero e della conseguente occupazione". (Giuseppe Ravasi)
(...) Io facevo parte, con altre, fra le quali Villa Bambina di Oreno, del "Gruppo di Difesa della Donna" costituito presso il Linificio e Canapificio Nazionale di Vimercate (attualmente la Soc. Bassetti). L'organizzatore di questo "Gruppo" era stato Ambrogio Scaccabarozzi, che lavorava con noi al Linificio. Successivamente venni a conoscenza che egli faceva parte del C.L.N. ma, in un primo tempo, egli ci aveva solo accennato al lavoro che avremmo dovuto svolgere, e noi aderimmo con entusiasmo alla sua idea.
L'intervento della donna era molteplice: dalla raccolta di fondi, medicinali, oggetti di vestiario, confezione di calzettoni e maglieria, per i partigiani, fino all'aiuto diretto in qualità d'infermiere, staffette e distributrici della stampa inserite nelle formazioni combattenti. Questo contributo fu veramente importante e senz'altro rappresentò un legame necessario fra la Resistenza organizzata e la popolazione tutta". (Angelica Villa)
"(...) alla Filatura vimercatese il lavoro era articolato a ciclo continuo di 3 turni e le macchine non si dovevano mai fermare. Una sera, circa dieci minuti prima della fine del secondo turno, le operaie, che provenivano per la maggior parte dai paesi circostanti, si erano già preparate per l'uscita col cappotto indossato quando giunse il Commissario fascista e, vistele pronte e le macchine ferme, mi intimò di presentarmi l'indomani nel suo ufficio, in quanto responsabile del reparto.
Qui minacciò di deportarmi in Germania e solo grazie all'intervento di Goodman, proprietario dell'industria, la cosa venne messa a tacere e la minaccia scongiurata".
(Armando Giambelli)
"(...) i tedeschi entrarono in Breda e ne assunsero il controllo totale. Costringevano gli operai a lavorare a ritmo serrato controllando, perfino le pause necessarie per soddisfare i normali bisogni corporali. Nonostante tutto i controlli e la stretta sorveglianza vigente si continuava a sabotare il prodotto bellico, facendo uscire dalla fabbrica locomotive con pezzi importanti allentati o non funzionanti a dovere
(Cesare Redaelli)
"(...)partecipammo, come gappisti, agli scioperi e ai sabotaggi del marzo '44. Nostro compito era di minare gli scambi tramviari di Piazzale Loreto, punto nodale d'accesso a Milano. A tale scopo vennero preparate dal nostro artificere (Spada, di Monza) tre ordigni numerati progressivamente in modo che la deflagrazione avvenisse simultaneamente. Mentre di notte eravamo intenti a piazzare la seconda bomba, iniziò a brillare la prima: lasciammo tutto e fuggimmo a casa di Parodi". (Emilio Diligenti)
Intanto a Vimercate il gruppo armato di partigiani aumentava l'organico con l'inserimento di altre due persone: i cugini Mario ed Erminio Carzaniga.
"(...) tornato in Italia dalla Croazia, dove ero di stanza all'8 settembre, attraversando l'Adriatico a bordo di una barca a vela, giunsi ad Ancona e da qui, con mezzi di fortuna ed evitando i grossi centri, pervenni a Vimercate. Ero abituato a frequentare il caffè del Ponte, gestito da Ottorino Villa, e qui ebbi modo di conoscere alcune persone e di udire le loro conversazioni riguardanti il fascismo, l'antifascismo, la guerra e i gravi problemi che ogni cittadino si trovava ad affrontare. Io condividevo le loro posizioni, quando uno di essi, Umberto Comi, mi disse che, se avevo desiderio di agire, mi avrebbe presentato ad un suo amico il quale era in contatto con altri giovani animati dalle mie stesse intenzioni. Conobbi così Achille Frigerio, il quale entrò subito nel vivo del problema facendomi intravedere la possibilità di inserirmi in una organizzazione di resistenza al fascismo, se ero dell'opinione di lottare in quella direzione. Mi dichiarai d'accordo e Frigerio stesso mi fissò l'appuntamento presso il cascinotto del "Mancino". Il giorno fissato giunsi direttamente al cascinotto, in quanto situato nei pressi della mia abitazione, provenendo dai campi, mentre Frigerio mi attendeva invece sul davanti, lungo il sentiero. Lo attesi sull'aia e, nel frattempo, potei notare anche Iginio Rota, seduto all'ingresso del cascinotto, serio, che attendeva. In breve, con lui, feci conoscenza con tutti gli altri componenti il gruppo". (Mario Carzaniga)
"(...) nel marzo del '44 dovetti abbandonare il posto di lavoro, alla Breda, perchè ricercato, così mi trasferii a Cavenago Brianza dove esisteva un gruppo di compagni attivi e preparati, tra i quali ricordo particolarmente Cereda (Marin), Erba e Felice. Qui restai in attesa di ordini dal partito che, nel mese di aprile, mi affidò il compito di organizzare ed inquadrare i gruppi militari della zona. I primi contatti li ebbi proprio a Cavenago, col gruppo già esistente, dando vita al l° gruppo S.A.P. della Brianza. In seguito allargai i contatti coi paesi vicini: Cernusco sul Naviglio, Brugherio, Concorezzo, Caponago, Cambiago, Vimercate, Trezzo e Monza. Riuscii a dare consistenza, organizzazione ed armi a diversi gruppi S.A.P.
A Vimercate tenevo i contatti con Frigerio e con altri vecchi compagni di lotta; purtroppo incontrai vari ostacoli e non si riuscì a formare una squadra. Parlando un giorno a Cavenago con Mario Fumagalli, mi disse di conoscere un gruppo di giovani, già organizzati militarmente ma senza contatti politici, che operava a Vimercate. La cosa era di estremo interesse e mi diedi da fare per instaurare un contatto con questi giovani. Mario fissò un incontro con Rota il quale mi condusse in un cascinotto, situato sopra il cimitero verso la provinciale di Bellusco, dove i componenti il gruppo erano in attesa. Ebbi subito l'impressione di avere a che fare con gente esperta e ben preparata; infatti trovai già predisposto un servizio di sicurezza costituito da vedette che, poste in punti strategici, avevano il compito di salvaguardarci da sgradite sorprese e, nel caso, coprirci la fuga. Iniziò così la riunione nella quale quasi tutti presero la parola:
Iginio, che era il loro comandante, parlò a lungo senza però entrare nei dettagli dell'organizzazione; capii che vi era diffidenza e questo atteggiamento mi diede sicurezza perchè dimostrava che Iginio era conscio del compito che rivestiva all'interno del gruppo e faceva il proprio dovere con serietà e coscienza. Mi parlò di contatti generici e particolari, questi ultimi con un tizio che aveva promesso loro armi e vettovaglie, ma essendo ormai passati diversi giorni, non contava più su questo appoggio. A questo proposito gli ricordai di cautelarsi nei confronti di falsi procacciatori di materiale bellico, che potevano rivelarsi delatori dei fascisti. Continuai dicendo loro del compito assegnatomi dal partito e di come, dopo aver constatato l'organizzazione e la forza del loro gruppo, fossi disposto ad organizzarlo politicamente e a fornire le armi per la lotta contro il nazifascismo.
Convenimmo sulle difficoltà, i rischi, i pericoli esistenti nella lotta armata e come tutto ciò si sarebbe ingigantito col passare del tempo e con le azioni di guerriglia.
Ci separammo con l'accordo di ritrovarci dopo 2 - 3 giorni; ci rendemmo conto, reciprocamente, di aver trovato ciò che da tempo cercavamo: io, un gruppo ben preparato e deciso che con le proprie azioni avrebbe contribuito a combattere i nazifascisti, loro, certi di aver avuto il contatto giusto, la persona che poteva fornire il materiale di cui tanto abbisognavano: le armi. L'incontro seguente fu molto differente dal primo: il ghiaccio si era ormai rotto. Fui accolto con cordialità (seppi che si erano informati sul mio conto tramite Mario Fumagalli), tutti erano presenti, a parte le vedette; illustrai il programma di lotta e dissi loro che potevo mettere a disposizione una decina di moschetti cd un mitra, custoditi in un deposito nei pressi di S. Damiano di Monza. Il problema del trasporto da tale luogo al cascinotto accese una lunga discussione: convenimmo su di un espediente già utilizzato con successo: nasconderle nel carro che veniva solitamente usato per il trasporto dei liquami organici. L'azione avvenne con tutte le cautele del caso e, dopo due giorni, quando tornai al cascinotto per consegnare la stampa clandestina, ebbi l'occasione di constatare personalmente l'esito dell'impresa: dieci moschetti, un mitra e alcune pistole, queste ultime già di proprietà del gruppo, erano state nascoste all'interno del cascinotto. Con questo armamento il 1° di staccamento della 103aBrg. Garibaldi iniziava la lotta contro l'occupante tedesco e l'oppressore fascista". (Eugenio Mascetti)
La Divisione Fiume Adda, avente per zona di operazioni la fascia di territorio com presa tra il fiume Adda ed il Lambro, comprendeva 4 Brigate. A capo della Divisione vi erano Ciro, Remo, Bassi e Toselli (n.d.r. i nomi di battaglia).
- 103a Brigata S.A.P. "Vincenzo Gabellini" alla guida della quale vi era il figlio Alberto Gabellini, suddivisa in 7 distaccamenti facenti capo ai comuni di Vimercate, Trezzo, Vaprio, Cassano, Cavenago, Ornago e Bernareggio.
- 104a Brigata S.A.P. "Citterio" comprendente i distaccamenti di Arcore, Merate, Brivio, Villasanta, Rovagnate, Cernusco e Montevecchia.
- 105a Brigata S.A.P. "Adda" comprendente i distaccamenti di Gorgonzola, Melzo, Cernusco sul Naviglio, Inzago, Cambiago.
- l76a Brigata S.A.P., intitolata in seguito a "Livio Cisana", comprendente 6 distaccamenti nei comuni di Besana Brianza, Macherio, Biassono, Carate, Renate, Veduggio e Bosisio.
"(...) dopo l'8 settembre iniziò la caccia all'uomo: non era possibile rimanere a casa, bisognava necessariamente darsi alla macchia dormendo nei cascinotti e cambiando spesso sede. Con altri compagni individuammo un cascinotto ritenendolo idoneo come sede definitiva. Infatti era ottimale sia per l'aspetto strategico, cioè era impossibile avvicinarsi senza essere scorti, sia per la sua ubicazione adiacente ad altri cascinotti che sarebbero potuti essere potenziali rifugi sostitutivi. Sapendo che altri, come noi, avevano optato per la clandestinità, si iniziò a discutere se fosse giusto o meno cercare contatti con altri gruppi. Dopo ampio dibattito, al quale parteciparono tutti i presenti, decidemmo di accettare la tesi della ricerca di contatti, cautelandoci di avvicinarci solo a coloro i quali davano credito di massima sicurezza, per non incappare in delazioni e rastrellamenti.
Si decise di resistere al fascismo mettendo attivamente a repentaglio anche la nostra stessa vita. Su questo argomento avvenne una scissione: chi non se la sentiva di affrontare tutto ciò poteva liberamente andarsene, e infatti così fece. Restammo in tre, fermamente convinti ad iniziare la lotta armata: io, Motta Benedetto e Marchesi Marco. Mi incontrai con Carlo Levati e stabilimmo insieme i compiti e i collegamenti ai quali il nostro gruppo di Ruginello doveva adempiere.
Vi erano, all'interno di ogni distaccamento, tre tipi di gruppi:
a) la squadra di combattimento
b) la squadra destinata a mantenere i collegamenti
c) la squadra adibita ai rifornimenti.
Al nostro gruppo venne affidato l'onere del rifornimento: nostro compito era la custodia e la manutenzione delle armi in eccesso al gruppo di combattimento. Altra mansione affidataci fu quella di essere sede di ripiego e di rifugio per eventuali partigiani bisognosi di un sicuro nascondiglio; inoltre dovevamo diffondere la stampa dandestina e i manifesti, con lo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica
(Pietro Carzaniga)
"(...) dopo l'8 settembre, giunti a casa, si stava nascosti aiutando i genitori nel lavoro dei campi. Nessuno di noi si presentò ai bandi di arruolamento della R.S.I. Un giorno, mentre si lavorava sull'aia, giunse Iginio Rota, che avevo conosciuto tramite Mario Carzaniga, in compagnia di Renato Pellegatta. Cominciammo a discutere e Rota, molto cautamente, poiché vi era presente anche un giovane di famiglia fascista, propose di fare qualcosa per liberare il popolo dal fascismo; tentennai un momento nelle risposte facendo capire che il luogo non era adatto a tale discussione. Avemmo in seguito un altro contatto nel quale, data la nostra adesione, formammo un distaccamento della 1O3' S.A.P., costituito da: Ronco Luigi, Ronco Giuseppe, Ruggeri Giuseppe e dal sottoscritto. Mio compito, all'interno del gruppo di Rossino, era quello di armiere e di responsabile dello stesso". (Gaetano Rigamonti)
"(...) fui contattato da Mario Mantegazza e Filippo Besana, appartenenti al P.C.1. di Ornago, affinché si costituisse un nucleo di resistenza attiva.
Entrai così nelle file dei politici i cui scopi erano la diffusione della stampa clandestina e di propaganda spicciola. Il nostro gruppo era collegato con il 4° distaccamento della lO3' S.A.P. di Cavenago Brianza, comandato da Mario Fumagalli. Partecipai ad azioni di disarmo. Il responsabile del gruppo di Organo, Artemio Redaelli, prese contatti con noi affinché nascondessimo tre prigionieri russi, liberati durante una azione partigiana a Pessano contro un deposito tedesco. Trovai loro un rifugio, dopo essermi accordato con il proprietario, in un cascinotto situato nei pressi del santuario di Ornago, luogo in cui erano celate parte delle armi del nostro gruppo. Dopo alcuni giorni fummo avvertiti dell'imminenza di un rastrellamento nazifascista esteso, oltre che ad Ornago, anche a Bellusco, Cavenago e Roncello. Conducemmo allora i tre fuggiaschi in una cascina di Trezzo. Durante il rastrellamento i tedeschi si soffermarono in una minuziosa perquisizione del cascinotto dove rinvennero alcuni caricatori vuoti celati sotto un covone di paglia. Come misura repressiva fu arrestata la proprietaria del cascinotto, Sig.ra Felicita Oggioni, che venne tradotta alle carceri di Monza. Il giorno seguente un plotone di fascisti fece irruzione nel cortile ove abitava la Sig.ra Oggioni, Artemio Redaelli e la mia famiglia. Arrestarono mio padre e lo incarcerarono a Monza. Preoccupato per la sua sorte chiesi di avere un contatto coi partigiani di Vimercate; Rota ritenne che la cosa migliore da farsi era di intimorire i fascisti di Ornago che avevano condotto all'arresto del mio genitore in modo che ritrattassero la denuncia. L'azione, compiuta di notte, raggiunse immediatamente lo scopo prefissato: dopo sole 48 ore mio padre veniva liberato. Poichè la mia posizione non era più sicura (ero ricercato dai fascisti come appartenente a bande partigiane e, non trovandomi, avevano arrestato come ostaggio mio padre) fui costretto a lasciare Ornago per rifugiarmi prima a Rossino, dove rimasi per dieci giorni, poi a Ruginello dove, presi contatti con Pietro Carzaniga, Benedetto Motta e Marco Marchesi, rimasi per altri sette. Trascorso tale periodo di tempo mi giunse l'ordine dal 1° distaccamento di Vimercate di trasferirmi alla Cascina S. Nazzaro, situata tra Agrate e Concorezzo". (Achille Bala)
A questo punto la squadra d'azione della 103a Brigata era composta da:
Iginio Rota (Comandante), Renato Pellegatta, Carlo Levati, Aldo Motta, Pierino Colombo, Luigi Ronchi, Emilio Cereda, Mario ed Erminio Carzaniga.
Con la divisione dei compiti e delle armi coi gruppi di supporto, iniziò la fase armata partigiana a Vimercate.
Gli incontri e le cooperazioni con gli altri distaccamenti della 103adivennero più frequenti e costruttivi. Si iniziò a pianificare la metodologia e gli obiettivi delle azioni da compiere: sabotaggi, disarmi, azioni di propaganda, distribuzione di armi e vettovagliamenti. In seguito a questi contatti, il 1° distaccamento, operante a Vimercate, divenne il punto di riferimento militare della Brigata; ad esso venne affidato il compito di procurare le armi, necessarie agli altri distaccamenti, con azioni di disarmo sia di soldati isolati che in gruppo.
"(...) col 1° distaccamento ebbi l'occasione di partecipare ad un'operazione militare. Una sera giunsi al cascinotto mentre si stava organizzando un'imboscata a camion tedeschi che sarebbero transitati sull'autostrada Milano-Brescia. Predisposto il piano d'azione partimmo, in bicicletta, intorno alle 23, per Cavenago. Disposti gli uomini in gruppi distanziati, diedi l'incarico ad una vedetta di segnalare con un colpo esploso il sopraggiungere dell'automezzo. Dopo alcuni minuti udimmo il colpo provenire dalla sentinella posta in direzione di Trezzo: due autoveicoli comparvero nel nostro campo di tiro. Iniziò il fuoco incrociato; il primo veicolo, un camion tedesco, riuscì a superare lo sbarramento anche se più volte centrato; il secondo si arrestò coi pneumatici fuori uso; gli autisti saltarono dalla cabina e si dileguarono nella campagna. L'organizzazione fu perfetta ma, a volte, i risultati lasciano qualche sorpresa: dall'ispezione constatammo che il veicolo era carico di mucche! Al momento restammo perplessi non sapendo cosa fare, poi decidemmo di lasciare i bovini per la campagna: qualche contadino della zona si trovò, il giorno dopo, una mucca in più nella propria stalla".
(Eugenio Mascetti)
Il grano e gli altri prodotti ortofrutticoli venivano raccolti e pesati alla presenza di Funzionari fascisti, i quali a operazione conclusa sequestravano la maggior parte del raccolto, che veniva inviato nei magazzini all'ammasso. I contadini cercavano di occultare parte delle messi o distraendo il funzionario oppure mietendone una parte durante le ore notturne. Tale procedura consentiva l'imboscamento solamente di piccoli quantitativi di raccolto in quanto gli incaricati fascisti attuavano un sistema proporzionale di prodotto in base all'estensione del terreno coltivato. Per contrastare tale forma autorizzata di ladrocinio, i partigiani vimercatesi decisero di intervenire direttamente intimidendo, armi alla mano, i funzionari addetti alle operazioni di pesatura costringendoli a ridurre la quota "dovuta". Queste azioni, per forza di cose, erano limitate nel numero e ristrette a poche zone. Si pensò allora di rendere partecipi gli stessi contadini della necessità di ostacolare l'approvvigionamento nazifascista con la diffusione di alcuni stampati.
TREBBIATORI
PURE VOI DOVETE COLLABORARE AD INGROSSARE QUELLA MACCHINA CHE VA SEMPRE PIÙ INGIGANTENDOSI ESTENDENDO OVUNQUE ED IN OGNI SETTORE LE SUE SPIRE.
SE IL VOSTRO ANIMO È VERAMENTE ITALIANO VI IMPONE DI SABOTARE LE VOSTRE MACCHINE, COSA PIÙ CHE FACILE PER VOI, NASCONDENDO IN CASA DI
AMICI FIDATI ED INSOSPETTATI LE PARTI PRIMARIE DELLE MACCHINE STESSE.
NON LASCIATEVI LUSINGARE DAI GUADAGNI CHE POTRESTE AVERE TREBBIANDO QUEL GRANO FRUTTO DEL LAVORO E SUDORE DEI NOSTRI CONTADINI, CHE
IN UN NON LONTANO DOMANI, DOVREBBE TRAMUTARSI IN PANE PER SFAMARE LE NOSTRE MADRI, I NOSTRI FIGLI.
REAGITE ENERGICAMENTE AD OGNI PRESSIONE NAZIFASCISTA PER IL BENE VOSTRO E DEL POPOLO, AFFINCHÈ NON DOBBIATE INCORRERE IN SGRADITI INCONVENIENTI.
"(...) alla fine di giugno arrivò la direttiva di "non trebbiare il grano poichè i tedeschi lo avrebbero requisito"; occorreva perciò dare larga diffusione all'invito affinchè i contadini si convincessero dell'importanza di tale operazione; tuttavia in alcuni luoghi l'operazione di trebbiatura ebbe inizio. Feci presente a Milano, presso il Comando, di come stessero andando le cose e che non vi erano mezzi per impedirne il corso. Dopo aver valutato la situazione mi vennero consegnati 4 ordigni con l'ordine di col locarli nelle trebbie utilizzate. Giunto a Cavenago fissai l'incontro con Rota, che avvenne nel tratto di strada fra Vimercate ed Ornago, e gli consegnai 2 ordigni con le istruzioni che avevo ricevuto.
Si era a conoscenza di una trebbiatrice che quotidianamente operava a Roncello, località "Cascina del Gallo", e di un'altra ad Ornago; compito del gruppo era di porre fine a tale attività sabotando le macchine. Nel successivo incontro seppi della perfetta riuscita dell'operazione". (Eugenio Mascetti)
L'intensificarsi delle azioni partigiane e degli atti di sabotaggio nei confronti delle truppe tedesche diede luogo a forme di rappresaglia indiscriminata che andavano a colpire il popolo italiano. La strategia del terrore applicata doveva fare in modo di disorientare e piegare la Resistenza; gli esempi più tristemente noti sono legati ai nomi di Boves, Bassano del Grappa, Marzabotto, Fosse Ardeatine, omettendone altri che subirono comunque il sacrificio per la causa nazionale.
Se disorientamento vi fu tra le fila dei partigiani, ebbe comunque breve durata; i crimini ingiustificati della rabbiosa reazione nazista fecero emergere sempre più salda la volontà patriottica di porre fine a tali atrocità.
"(...)ci giunse l'ordine di sabotare la linea dell'alta tensione che alimentava gli stabilimenti bellici di Sesto S. Giovanni. Scegliemmo un traliccio situato nel territorio di Aicurzio e, dopo averne segato un piede, collocammo l'esplosivo consegnatoci sul piede opposto. La deflagrazione doveva far cadere il traliccio verso il lato tagliato; purtroppo la carica non brillò. I fascisti, giunti a conoscenza del tentativo di sabotaggio, impiccarono ad Aicurzio un ostaggio detenuto nelle carceri di Monza: Giovanni Bersan".
(Carlo Levati)
IL COMANDANTE DI SICUREZZA DELLA ZONA DI MONZA
ORDINE
1) Bersan Giovanni, nato il 12.7.1926 a Ronca dell'Adige, abitante a Monza in Via Ariani n. 6, è stato arrestato il 7.7.1944 a Monza ed è reo e confesso di aver partecipato nel mese di gennaio 1944
a) ad attività di bande;
b) di aver fatto fuoco sul legionario della Speer Iwanoff e di averlo gravemente ferito.
2) Per espiazione di un atto di sabotaggio effettuato oggi 25.7.1944 contro la linea di alta tensione presso Aicurzio, viene il Bersan Giovanni, previ accordi presi col Comandante delle SS e della Polizia dell'Alta Italia Ovest, impiccato.
3) Il Podestà di Aicurzio ha l'obbligo di dare disposizione per la rimozione del cadavere la sera del 26 c.m.
I funerali del giustiziato devono aver luogo senza nessuna cerimonia.
Monza, 25.7.1944
IL COMANDANTE DI SICUREZZA
"(...)la mattina del 25 luglio 1944 mi fu annunciato che delle bombe erano state applicate al palo della linea ad alta tensione della A.E.M. che si trova sul prolungamento della strada detta Poggio.
Mi recai immediatamente sul posto e constatai che su uno dei montanti principali erano state applicate due scatole cilindriche del diametro di circa 10 cm. e della lunghezza di 25 cm. dalle quali sporgeva una miccia che però si era spenta dopo breve tratto. Mi sentii in dovere di informare subito i Carabinieri telefonicamente, i quali arrivarono accompagnati da una pattuglia di tedeschi. Disinnescarono le bombe ed esplorarono in mia presenza tutti i dintorni, e particolarmente alcuni cascinotti della zona. I tedeschi mi sottoposero ad un lungo interrogatorio chiedendomi se potevo avanzare dei sospetti su qualcuno del paese. Negai risolutamente qualsiasi ingerenza da parte degli abitanti di Aicurzio e i tedeschi se ne andarono.
La mattina seguente, senza nessun preavviso, giunse in paese un notevole contingente di truppe tedesche che si recarono direttamente al palo dell'A.E.M. conducendo un certo Bersan, che tenevano prigioniero a Monza, con non so quale imputazione, e lo impiccarono al palo stesso. Quindi si portarono in Municipio dove fui convocato dal comandante il reparto, il quale mi ingiunse di lasciare esposto il cadavere per 24 ore. Nella popolazione lo sdegno e l'impressione furono enormi. L'ingiustificata punizione a carico di un estraneo per un fatto che non aveva provocato alcun danno fu un'ulteriore prova della mostruosa mentalità del fascismo".
(Testimonianza dell 'allora Podesta di Aicurzio)
"Fu un durissimo colpo che mise in discussione tutto il nostro operato: ci sentivamo tristi, angosciati, ma dentro di noi sapevamo per certo di non essere colpevoli della sua morte, perchè l'ideale della Libertà è oltre la morte. Sarebbe potuto succedere a noi: eravamo preparati anche a questo. Per non vanificare il Sacrificio di questo giovane che, come molti altri aveva donato la propria vita, ribadimmo il nostro intento di continuare la lotta contro chi era causa di tali lutti". (Carlo Levati)
Intanto l'instabilità politica della R.S.I. provocava ripercussioni anche a livello dei vertici comunali, ove chi era investito di cariche politiche cercava di adossarsele per il minor tempo possibile, col conseguente risultato dell'avvicendamento continuo nella gestione amministrativa degli enti locali. Anche a Vimercate si verificò questa sostituzione.
PROVINCIA DI MILANO
(...) veduto il proprio decreto in data 3 settembre 1943 con il quale il Rag. Luigi Bottazzi veniva incaricato della straordinaria gestione del Comune di Vimercate;
Considerato che il predetto Rag. Bottazzi ha chiesto di essere esonerato dalla carica e ritenuta pertanto la necessità di provvedere alla temporanea gestione del Comune medesimo;
DECRETA
Le dimissioni presentate dal Rag. Luigi Bottazzi sono accettate.
Il Sig. Bollani Enrico è incaricato della straordinaria gestione del Comune di Vimercate.
Milano, 20 Giugno 1944 - XXII
IL CAPO DELLA PROVINCIA
F.to P. Panni
LO SCOPPIO DI UNA BOMBA IN VIALE ABRUZZI
Misure repressive della Polizia di sicurezza germanica
"(...) il comandante della Polizia di sicurezza germanica comunica:
-Un'organizzazione di elementi criminali e pregiudicati politici, che porta il nome di G.A.P., ha reso noto per mezzo di un manifestino volante che le aggressioni e i furti che sono stati compiuti a Milano sono avvenuti per mano loro, mentre la popolazione viene istigata al proseguimento di tale delittuosa attività. I successivi pubblici ammonimenti del Maresciallo Kesselring e del comandante delle forze di sicurezza pubblica sono stati senza esito. Sono rimasti vittima di un nuovo atto di sabotaggio 6 in nocenti bimbi, donne e uomini e inoltre 15 passanti sono rimasti gravemente feriti. Il 9 Agosto 1944 in Piazza Tonoli un capitano italiano venne ucciso e un soldato gravemente ferito. La popolazione italiana si ribella contro questi prezzolati delinquenti e chiede protezione e tranquillità.
I seguenti appartenenti ai gruppi della G.A.P., e i loro sicari precedentemente arrestati per delitti di tale natura e provenienti per la maggior parte da penitenziari, sono stati condannati, quali misura di rappresaglia, alla pena di morte: Andrea Esposito, Domenico Fiorano, Umberto Fogagnoli, Giulio Casiraghi, Salvatore Principato, Eraldo Soncini, Renzo Del Riccio, Libero Temolo, Vitale Vertemarchi, Vittorio Gasparini, Andrea Ragni, Giovanni Galimberti, Egidio Mastrodomenico, Antonio Bravin, Giovanni Colletti.
L'esecuzione delle seguenti persone è avvenuta il mattino del 10 agosto 1944 in Piazzale Loreto.
Altre 10 persone hanno avuto commutata la pena di morte in condanna in penitenziari, qualora non si verifichino ulteriori atti di sabotaggio
(Corriere della Sera 11.8.1944)
I MARTIRI DI PIAZZALE LORETO
"(...) quindici patrioti detenuti al carcere di S. Vittore furono svegliati all'alba del 10 agosto 1944, e a ciascuno venne cacciato in tasca un biglietto col suo nome: era il segno della condanna a morte che nessun tribunale aveva pronunciato dopo regolare processo. I capi nazisti volevano compiere, così, un gesto di rappresaglia per l'esplosione di una bomba in Viale Abruzzi; e i quindici vennero scelti a caso.
Le quindici vittime del terrore nazifascista furono stivate su un autocarro e condotte in Piazzale Loreto; e qui, strappate giù dal veicolo, vennero uccise all'impazzata. Uno tentò di fuggire, ma fu raggiunto e finito dagli esecutori dell'inumana condanna, che furono i fascisti. Le salme vennero ammucchiate ai piedi di un assito e fu impedito qualsiasi atto di omaggio della popolazione e degli stessi parenti.
(Corriere d'Informazione Venerdì 10 agosto 1945)
RICORDO DI UN VERO MAESTRO
(...) era l'estate del 1944; tornavo in bicicletta da una lezione di latino impartitami da un' amica di mia madre, che abitava all'altro capo di Milano. Arrivato in Piazzale Loreto, fui fermato da un ragazzetto poco più grande di me, fasciato da un maglione a girocollo.
Puntandomi contro il mitra il giovanissimo brigatista nero mi invitò a scendere dalla bicicletta e a vedere come venivano puniti i traditori del fascismo. Scoprii, con raccapriccio, un mucchio di cadaveri; qualcuno era vestito in borghese, due, mi pare, indossavano la tuta blu degli operai. Risalii sulla bici con negli occhi tutto quell'orrore. L'indomani mattina, sfogliando il giornale, lessi l'elenco dei fucilati. C'era, fra di essi, un nome a me molto caro: quello del mio maestro delle Elementari, Salvatore Principato. Per lo shock stetti a letto tre giorni con un febbrone da cavallo. Ricordo sempre che Principato appariva a tutte le adunate in cui gli altri maestri si presentavano in orbace (cioè con la divisa fascista) indossando un povero vestito a doppiopetto blu, lucido di stiratura: all'occhiello gli brillava il distintivo della medaglia d'argento conquistata da valoroso nella prima guerra mondiale. Era, il suo, un esempio di coraggio, una sfida lanciata al conformismo fascista. Ma tutto il suo insegnamento era antifascista: evitava ogni forma di retorica, cercava di parlarci il meno possibile di Mussolini, si sforzava di fare imparare a dei bimbetti rincretiniti da una massiccia propaganda (perfino il sillabario era costellato di A-avanguardisti, e di M-mamme che stiravano la D-divisa da G-giovane I-italiana della F-figlia...) un senso della vita civile e democratico.
Sono antifascista forse soltanto perchè un oscuro maestro elementare, che per tutti i suoi allievi è stato proprio "il Maestro", mi ha insegnato, con il suo esempio e col suo sacrificio, che il fascismo è la negazione della dignità e della libertà".
(Alfredo Barberi, Direttore del Corriere dei Ragazzi n. 39 - 28.9.1975)
"(...)Ricordo il maestro Salvatore Principato sin dalla mia prima infanzia: un amico della mia famiglia da sempre. Fu maestro elementare a Vimercate, negli anni 1913/'15, con mio padre ed altri insegnanti suoi conterranei, Pappalardo e Riccobene. Principato era nato in Sicilia, mio padre veniva da un piccolo paese dell'Appennino Emiliano, Bedonia in provincia di Parma. Mio padre era un grande estimatore di Camillo Prampolini, emiliano come lui, assertore dell'idea socialista riformista. Principato, già più politicizzato dì tutti gli altri amici, possedeva e dimostrava un carattere dolce ma forte. Li divise la prima guerra mondiale: mio padre fu dislocato col corpo di spedizione italiano in Macedonia, Principato fu destinato al fronte italiano e si guadagnò la medaglia d'argento al valor militare per un atto di coraggio compiuto combattendo in prima linea.
Finita la grande guerra Principato tornò a Vimercate nel 1918; mio padre, solo nel 1919, poichè sofferente di malaria perniciosa, malattia che lo aveva colpito sul fronte balcanico e curata con dosi di chinino.
Negli anni '19/'21 si era in piena contestazione sociale. Continui scioperi ed agitazioni turbavano la vita civile di quel primo dopoguerra; si acuirono quei contrasti che già erano apparsi negli anni precedenti la guerra. 1 combattenti e reduci, delusi, a volte villipesi (mio padre rientrando dalla Macedonia nel '19, nella sua smunta divisa di capitano di fanteria, alla stazione Centrale di Milano, venne dileggiato e minacciato dai "sovversivi", dopo 4 annidi guerra certamente da lui non voluta) trovavano difficoltoso l'inserimento nella vita civile. Principato fu turbato non poco da questi contrasti; mantenne fede al proprio ideale politico, ma non sottovalutò le ragioni degli "altri", si adoperò per evitare ogni manifestazione di violenza, intervenendo anche di persona per sedare tumulti locali, presagendo che questo modo di agire non poteva portare che a una dura reazione dei ceti più forti. Nel 1919 il maestro Principato vinse un concorso indetto dal Comune di Milano - che allora, con le oculate ed oneste amministrazioni socialiste di Caldara prima e di Filippetti poi, gestiva direttamente l'istruzione nelle scuole elementari - e si trasferì nella vicina grande città che offriva ad un giovane volenteroso maestro migliori prospettive ed un più adeguato trattamento economico. Mio padre, sposato con una vimercatese, pur sollecitato dai colleghi a trasferirsi anch'egli in città, rimase a Vimercate e si dedicò, oltre che all'insegnamento, anche ad organizzare l'Associazione Combattenti e Reduci, che fondò, ed all'amministrazione di una importante cooperativa. Insegnò anche ginnastica e musica nel locale collegio Niccolò Tommaseo di Via Pinamonte.
Principato, a Milano, nel 1923 sposò Marcella Chiorri, una maestrina sua collega, e nel 1924 nacque la Titti (Concettina per l'anagrafe), l'adorata figlia che da lui ereditò la stessa fede e gli stessi ideali. Ognuna delle nostre famiglie seguì la sua strada ed i contatti fra noi si allentarono, ma l'amicizia, profonda e sincera, rimase sempre salda anche dopo la morte di mio padre, avvenuta nell'autunno del 1930.
Il "paese" di Vimercate aveva lasciato nel cuore di Principato un ricordo indelebile; sempre rimase legato idealmente a questa cittadina. Era stato il suo primo posto di lavoro, lontano dalla sua generosa terra natale, qui aveva incontrato l'accoglienza sincera di persone amiche. Si sentiva legato a questi amici brianzoli, a questa popolazione operosa, un po' chiusa ma sincera, al suo mondo della scuola. Ogni tanto veniva a Vimercate, tra noi, con la sua famigliola a salutare tutti; per mio nonno materno, che lo stimava moltissimo, e per tutti noi era una festa. Ma non fu una festa quando, molti anni dopo, con i primi bombardamenti alleati su Milano, la famiglia Principato tornò a Vimercate per lo sfollamento. Mia madre procurò loro un piccolo alloggio presso la famiglia Appiani, proprietaria di un palazzo all'angolo tra Via Mazzini e Via Valcamonica. Non era facile trovare una sistemazione decente, ma lo spirito di adattamento faceva sopperire alle varie deficienze. Principato raggiungeva Milano ogni mattina, anche quando la scuola non era aperta o non funzionava a causa dei bombarda menti. Ricordo che viaggiava quasi sempre sulle "rimorchiate" del tram bianco della Steli, tra gli operai; anch'io viaggiavo su quel tram agli stessi orari, ci incontravamo spesso e mi accompagnavo a lui verso la Via Gran Sasso, dove abitava. Si parlava di tutto anche di politica; ricordo che Principato era assertore di un sindacato operaio unico ed obbligatorio.
Un pomeriggio di sole, verso le ore 17, Salvatore Principato si precipitò a casa nostra raggiante in volto: "Il fascismo è caduto, ormai la guerra finirà!". Era il 25 Luglio '43. Quell'anno i Principato trascorsero il Natale con noi nella nostra casa di Via Garibaldi; il maestro era sereno e felice ed alla fine del pranzo disse: "Vi assicuro che il prossimo Natale lo festeggerò a Milano a casa mia e sarà una gran festa...!"
Cominciava invece il triste periodo della più dura repressione nazifascista e più intensa si fece l'attività politica clandestina di coloro che - come Principato - erano parte attiva della Resistenza, in una lotta impari contro l'invasore tedesco e le locali brigate nere. La mia casa confinava con la ex casa del fascio, diventata una caserma di brigatisti neri, schiavi, di fatto, dei comandi tedeschi.
Un giorno dell'estate del '44 il Podestà di Vimercate, Enrico Bollani, mi fece avvertire tramite una sua nipote che il mio nominativo era stato segnalato, con altri, al Maresciallo dei Carabinieri di Vimercate per una vigilanza sulla mia attività.
Si era potuta evitare una chiamata a Monza presso la famigerata casa del Balilla, ma fui avvertito di far scomparire eventuali scritti o documenti compromettenti perchè, nonostante la difesa fatta dal Podestà Bollani nei miei riguardi, probabilmente non si sarebbe potuta evitare una perquisizione in casa mia. Mi affrettai a far sparire quel poco di "sospetto" che possedevo e misi in bell'evidenza nella mia libreria alcuni volumi degli "Scritti e discorsi del Duce" ed il libro "DUX" di Margherita Sarfatti. Mia moglie sapeva del pericolo che correvo. Salvatore Principato ne fu informato e un mattino, arrivando col tram a Milano, me ne parlò in Piazzale Loreto (tragica coincidenza!) e mi disse che se avessi voluto scomparire da Vimercate e trasferirmi in Svizzera, lui avrebbe avuto modo di aiutarmi. Ci pensai qualche giorno, poi gli dissi che non me la sentivo di abbandonare la famiglia; ed inoltre avrei anche potuto procurare fastidi - i tedeschi non scherzavano - al Podestà Bollani che mi aveva fatto avvertire. La perquisizione a casa mia non fu mai effettuata e la cosa non ebbe alcun seguito. In quel periodo le visite di Principato furono assai diradate; pareva che avesse molto da fare a Milano. Un pomeriggio del luglio '44 vedemmo arrivare improvvisamente a casa nostra la moglie di Principato; parlò con mia moglie e le disse in preda all'angoscia: "Mi è capitata una cosa gravissima, i fascisti hanno arrestato mio marito!". Il resto appartiene ormai alla Storia d'Italia". (Nino Ferrari)
"(...) mio padre, Salvatore Principato, nacque a Piazza Armerina (Enna) il 29 aprile 1892. La società nella quale aveva trascorso la giovinezza era densa di contraddizioni e la condizione popolare risentiva di quel clima. Senti che voleva stare dalla parte di coloro che portavano il peso di quelle contraddizioni, e fu tra quelli che rivendicavano condizioni migliori per la vita disagiata di chi lavorava duramente. Conseguì il diploma di maestro elementare alla locale scuola e cominciò ad insegnare a Vimercate nel 1913. Insieme a Ferrari, che veniva da un paesino dell'Emilia, Riccobene e Pappalardo, siciliani, costituì un gruppo di maestri socialisti. Nonostante la sua avversione per la guerra e la sua adesione ai non interventisti, richiamato tra i primi, si trovò sul fronte. Volle essere fante in trincea, compagno di coloro che affrontavano i maggiori disagi. Con un'azione eseguita in proprio catturò un abbondante gruppo di soldati nemici, per evitare un massacro di essere umani che, come lui, rischiavano la vita per una guerra non voluta. Per questo gli fu conferita la medaglia d'argento al V.M. e il grado di caporale; conservo ancora un orologio che uno di questi soldati austriaci gli donò e che gli era assai caro. Con la ripresa della vita civile non fu insensibile ai contrasti sociali che emergevano e si esasperavano, che già avevano cominciato a manifestarsi prima della guerra ed erano rimasti sopiti durante il periodo del conflitto. A Milano si unì ai socialisti e frequentò la casa di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, in Galleria Vittorio Emanuele. Là conobbe molti uomini che sarebbero stati poi suoi "compagni di fede"
Nel 1919 vinse un concorso a Milano e, lasciati gli amici del paese che lo aveva accolto maestrino, insegnò prima al quartiere Comasina e poi alla scuola di Via Giulio Romano. Qui la realtà sociale era diversa e seppe comprenderla, entrando nella mentalità dei figli degli operai cittadini, e seppe farsi amare perchè seppe farsi capire.
Trasferì in sè la loro vita e trasferì in loro quelle nozioni indispensabili al loro vivere quotidiano. Quando a Milano cadde la democrazia per l'avvento del fascismo, il giovane maestro continuò il suo insegnamento con il metodo che riteneva giusto, non limitandosi mai alle sole nozioni che i programmi ministeriali gli imponevano.
Molti dei suoi alunni divennero amici e compagni di fede e molti di loro si ritrovarono nelle fila delle varie componenti della Resistenza. Io, che ero nata nel 1924, andai alla scuola elementare "Caterina da Siena" diretta dalla Sig.ra Saracchi, antifascista di provata fede come le maestre Fami, Merlin ed altre. Ci stavo bene, anche se ero esonerata dalla religione e non avevo la tessera di piccola italiana. Ricordo alcune persone con le quali mio padre si intratteneva con assiduità, specialmente un vecchio signore avvolto in un nero mantello, con una cravatta svolazzante e un cappellaccio calato sugli occhi: era il vecchio Mataloni. Alla domenica mattina mi portava con sè e si andava a trovare certa gente che abitava in Via S. Gregorio: Bonazzi, Magrini, Cagnoli, Ballabio, Benzoni e Casati. Li vedevo confabulare, ma non stavo a sentire quello che dicevano perchè tanto non avrei capito niente. Con queste persone organizzò la fuga di Faravelli in Francia.
Venne il 19 Marzo 1933. Eravamo ancora a letto quando la polizia suonò il campanello del nostro appartamentino al terzo piano di Via Gran Sasso. Mia madre andò ad aprire ed entrarono due uomini che chiesero di mio padre. Io mi alzai piano piano senza comprendere nulla, vidi solo mettere tutto all'aria, libri e cassetti. Una cosa fu subito certa per me: era la polizia, ma noi non eravamo ladri. Mia madre mi raccontò poi che era riuscita a far sparire degli opuscoli di propaganda, una pubblicazione socialista che mio padre aveva nella tasca interna del cappotto e delle lettere dei fuoriusciti francesi che buttò giù per il buco del gabinetto. Mi raccontò anche che scrivevano di notte a questi compagni francesi con inchiostro simpatico; gli indirizzi erano scritti a pezzi sugli stipiti delle porte.
Mio padre venne condotto via e rinchiuso a S. Vittore. Fu poi trasferito a Roma, nelle carceri di Regina Coeli; con lui erano stati incarcerati anche tutti gli amici di Via S. Gregorio. Uscì dal carcere dopo alcuni mesi con l'assoluzione ma gli venne tolto l'insegnamento alla scuola serale. L'attività clandestina con molta prudenza riprese; so che in casa si parlava molto di fascismo e vedevo un gran andirivieni di persone piuttosto male in arnese. Intanto ero stata iscritta al ginnasio Carducci, in Via Lulli. Anche qui fui esonerata dalla religione e non fui iscritta come giovane italiana.
Ma la vita non fu facile come alla "Caterina da Siena": non avevo la divisa e alle lezioni di ginnastica, che mi fecero odiare lo sport, ero tartassata dalla sig.ra Lovera, che mi chiamava davanti a tutte le compagne "pera marcia". Il mio ambiente famigliare mi faceva sopportare queste offese, perchè mio padre, al quale raccontavo ogni cosa, sapeva farmele vedere da un lato sopportabile e dignitoso: "Noi siamo da un'al tra parte, e questa parte la dobbiamo fare tutti, insieme". In fondo mi sentivo anche importante, partecipavo alla vita della mia famiglia e degli adulti. Aveva insegnato alla scuola "Tito Speri" e poi fu trasferito alla "Leonardo da Vinci", di nuova costruzione. Qui il direttore Piero Bianchi lo ebbe in grande stima. Era uno dei pochi maestri "senza tessera".
Il P.N.F. stesso aveva dichiarato che non lo avrebbe mai annoverato tra i suoi aderenti, neanche quando le iscrizioni fossero state riaperte, cosa di cui lui andava fiero. Questo non impediva che qualche caporione fascista chiedesse che suo figlio fosse iscritto nella classe del maestro Principato, ma non si sa se per stima per il suo insegnamento
- nonostante il suo passato di "avanzo di galera" - oppure per spiare quello che insegnava ai ragazzi. Il direttore comunque trovava sempre un incarico per lui fuori scuola quando per qualche visita di gerarca o per qualche ricorrenza i maestri dovevano presentarsi in orbace. Scoppiò la guerra, e pagammo il primo anno con la morte del fratello di mia madre sul fronte albanese. I miei sentivano radio-Londra ed era un gran parlare sottovoce, non fare mai nomi e stare molto attenti a tutto. Lo sfollamento ci portò a Vimercate, cittadina dove mio padre contava molti amici, e la famiglia Ferrari ci trovò un alloggio accomodato alla meglio. Dopo l'8 settembre 1943 seppi anch'io quale attività egli svolgeva, sebbene le informazioni fossero soltanto superficiali; questo era logico, sia per misura di prudenza nei riguardi degli altri compagni, sia per non coinvolgere la famiglia.
Venivamo via via a conoscenza di chi veniva arrestato, di chi veniva deportato e di chi, purtroppo, veniva giustiziato. Un giorno mio padre ci disse che gli avevano proposto di fuggire in Svizzera: c'erano state delle segnalazioni a suo carico e qualcuno lo aveva avvertito. Con £. 5.000 l'espatrio era assicurato; se ne parlò in casa e noi eravamo del parere che la cosa si dovesse fare. Decise di non andare, lo considerava un tradimento per i morti e "...se tutti vanno, chi resta? Ho degli incarichi che non posso lasciare, ormai non ci si fida se non di pochi...". Fu nel C.L.N. della Scuola
- nel comitato di Porta Venezia - e continuò il suo lavoro politico che si svolgeva fra Milano e Vimercate, dove la sera andava alla Cascina Motta a prendere "roba da mangiare".
Il 7 Luglio 1944 lo aspettammo invano a pranzo: io e mia madre capimmo subito che era stato arrestato. Partimmo subito col primo tram per Vimercate per cercare se là non vi era niente di compromettente e per prendere quei pochi soldi che avevamo nascosti in una gamba del tavolo. Guardai dappertutto, non trovai nulla, presi i soldi, che nascosi sotto i vestiti, e con grande paura tornai a Milano. Non ci fu perquisizione nelle abitazioni, né a Milano né a Vimercate. Cercammo di avere notizie e si seppe che era stato portato al carcere di Monza; si seppe poi che era stato arrestato in Via Cusani 10.
Qui, a piano terreno, vi era una piccola officina meccanica di sua proprietà. Qualche anno addietro aveva iniziato una combinazione di lavoro in società con un amico, Sig. Lonati, e lui si incaricava di procacciare i clienti e di tenere l'amministrazione.
L'officina divenne ritrovo di antifascisti e smistamento di propaganda clandestina. Qui, con tutta probabilità, venne trovato ciò che bastò ai nazisti e che servì come capo di accusa. Il nascondiglio della stampa sembrava buono: non era nell'officina, ma in un cortile accanto, sotto un buco presso un lavatoio. Pare che i nazisti siano andati diritti al nascondiglio e non so se vi fossero là anche delle armi. Venimmo a sapere che gli era stato rotto un braccio durante un interrogatorio, ma lui ci scrisse che era caduto in un rifugio durante un'incursione aerea. Mia madre andava dappertutto per avere notizie e per ottenere un colloquio. Ci dissero di parlare con un capo tedesco molto influente, che abitava a Monza. Ci recammo là, ci trovammo davanti a questo grasso individuo che portava una vistosa divisa nazista. Impietrite sulla sedia gli chiedemmo di mio padre e lui ci rispose, in milanese, che non sapeva chi fosse questo Principato, ma che ne avevano preso uno, uno dei capi, che gli avevano spaccato un braccio e che gliela avrebbero fatta pagare cara. Senza parole venimmo via, ma avevamo un quadro disperato nel cuore. Ottenemmo il colloquio e lo vedemmo insieme ad altri in un sotterraneo del carcere di Monza.
Il braccio era al collo, la barba lunga, e non potemmo parlare d'altro che di sciocchezze, in quanti diversi fascisti erano alle nostre spalle coi mitra puntati.
I primi di agosto si seppe che era stato trasferito a S. Vittore, e non potemmo fare altro che portare il cambio della biancheria. Il 10 agosto quindici patrioti furono fucilati in Piazzale Loreto: fra questi vi era anche mio padre". (Concettina Principato)
"(...) durante tutto il periodo che va dalla primavera dell'autunno 1944 si svolse, assai intensa, una fervida attività tesa ad allacciare rapporti con appartenenti all'Azione Cattolica, chiesti da componenti il clero locale, al fine di organizzare una stretta ed efficiente collaborazione tra i diversi gruppi. I colloqui si svolsero alla base operativa, dove vennero discussi diversi problemi, ma principalmente emerse la necessità di continuare la resistenza". (Carlo Levati)
Il clero locale, che aveva chiesto di essere messo in contatto col distaccamento della 103a, era costituito da tre sacerdoti vimercatesi: Don Enrico Assi, ordinato nel 1943, che ogni sabato e domenica prestava il suo servizio in parrocchia, tornava dal Seminario di S. Pietro Martire, dove insegnava lettere, Don Attilio Bassi, ordinato sacerdote nel 1938, assistente dell'oratorio maschile e Don Luigi Sala, Assistente dell'oratorio femminile.
"(...) frequentavo saltuariamente l'oratorio, incontrandomi così con Don Attilio. Egli chiamava a sè privatamente i giovani, ed aveva con loro fondamentali incontri nei quali indicava abbastanza apertamente il tipo di comportamento da assumere ed impartiva lezioni contrarie all'ideologia fascista". (Ezio Riva)
"(...) Don Attilio ci relazionava sugli sviluppi politici, sulle possibilità di operare in modo democratico dopo la caduta del regime totalitario fascista. Tutte le sere ci fermavamo fino al limite del tempo concesso dal coprifuoco fascista, e qui, in oratorio, egli ci indicava i metodi più opportuni da seguire. Anche Don Enrico, quando era libero dagli impegni dell'insegnamento, correva in oratorio, prendeva contatti, aiutava chi operava per la Resistenza". (Luciano Mauri)
I tre sacerdoti erano in contatto col gruppo politico clandestino locale, presieduto da Felice Sirtori, che era a sua volta collegato con la sede clandestina della D.C. di Via Broletto a Milano.
I comandanti delle Brigate del Popolo, di ispirazione democristiana, erano Francesco Marra e Vincenzo Donato, mentre i responsabili politici erano Zanchetta, Marazza, Vercesi, De Martini e Pirola.
Sirtori era affiancato da Mario Galla e Alfredo Cremagnani, che si occupavano dell'organizzazione locale e della diffusione della stampa clandestina; responsabili della propaganda erano: Moioli, Mariani, Bricalli, Pozzi e Beretta.
La 25a Brigata del Popolo, denominata in seguito Brigata "Francesco Caglio", operava a Monza e a Sesto S. Giovanni.
La 26a Brigata del Popolo operava a Cernusco, Carugate, Cambiago, Gessate, Bussero e Vimodrone; comandante era Frigerio Felice, commissario politico Mario Priola; i collegamenti con le varie Brigate erano tenuti da Frigerio Ginetta.
La 27a Brigata del Popolo operava a Brugherio, S. Damiano, S. Albino e Cologno Monzese. Le idee per muovere l'azione e soprattutto per preparare alla lotta presente e alla vita democratica futura passarono attraverso la propaganda stampata e le conversazioni in riunioni clandestine. Per la stampa il compito fu diviso fra elementi del clero e laici, come Don Enrico Assi e Sirtori; il sacerdote, a dire dei fascisti, faceva la spola fra il Seminario e il Collegio di Vimercate diffondendo le idee rivoluzionarie, specialmente con il giornale "il Ribelle", fondato da Teresio Olivelli.
I plichi provenienti da Milano venivano recapitati a Vimercate e, da qui, capillarmente distribuiti tra la popolazione della città e dei centri limitrofi.
"La nostra rivolta non va contro questo o quell'uomo, è rivolta contro un sistema e una epoca, contro un modo di pensiero e di vita. Mai ci sentimmo così liberi come quando ritrovammo nel fondo della nostra coscienza la capacità di ribellarci alla passiva accettazione del fatto brutale, di insorgere contro l'aggiogamento allo straniero, di risorgere ad una vita d'intensa e rischiosa moralità. LOTTIAMO GIORNO PER GIORNO PERCHÈ SAPPIAMO CHE LA LIBERTÀ NON PUÒ ESSERE LARGITA DA ALTRI. NON VI SONO LIBERATORI. SOLO UOMINI CHE SI LIBERANO. Lottiamo per una più vasta e fraterna solidarietà degli spiriti e del lavoro, nei popoli e fra i popoli...". Così iniziava il primo numero de "Il Ribelle".
Il collegio Niccolò Tommaseo fu il centro clandestino animatore della preparazione dei cattolici alla vita politica di Vimercate. Maestro infaticabile ne fu Monsignor Carlo Castiglioni, prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano e sfollato a Vimercate. La sua vasta cultura politica e storica si rendeva chiara ed accessibile per chi, nel ventennio fascista, non aveva potuto conoscere il sistema democratico. Nella sede del collegio, di sera, a gruppi, dopo che studenti e professori si erano ritirati, era stata organizzata una scuola fervida e silenziosa con lezioni sui fondamentali principi democratici. Monsignor Carlo Castiglioni impartiva lezioni esaurienti sui principi della dottrina sociale cristiana: esponeva le dottrine economiche offrendo i criteri per un giudizio obiettivo.
"(...)le riunioni, che periodicamente avevamo con Don Attilio e Don Enrico, trattavano problemi contingenti che evidenziavano l'oppressione delle libertà personali e collettive; le discussioni susseguenti avevano lo scopo di fare scaturire lo spirito critico soggettivo. Scaturì così, in questo contesto, l'idea di operare attivamente per la Resistenza. Cominciai con il sensibilizzare gli amici e i coetanei dell'oratorio al problema di dare una risposta decisa allo strapotere nazifascista. Tutte le occasioni erano valide per far sentire la "voce della Libertà": ero operatore cinematografico, sfruttavo l'opportunità che talvolta mi consentivano gli intermezzi degli spettacoli per diffondere, a mezzo degli altoparlanti, le canzoni e gli inni che in qualche modo richiamassero ed inneggiassero alla libertà e alla democrazia. Nel sondare le possibilità di accoglimento del mio richiamo iniziai da Verderio Carlo, il quale mi rivelò la possibilità di contatti con lo zio Carlo Levati, componente della 103a S.A.P
Lo incaricai di mantenere i rapporti per sentirci, in qualche modo, uniti a quelli che stavano già operando". (Luciano Mauri)
"(...)i primi approcci con l'antifascismo li ebbi tramite un gruppo di anziani che frequentavano la casa di mio padre; mio nonno morì a causa delle brutalità infertegli dai fascisti.
Avevo 18 anni, era il 1944, e frequentavo abitualmente l'oratorio. Don Attilio un giorno mi fece un discorso sui partigiani, sapendo che mio zio Carlo era uno di loro, che estesi poi ai pochi intimi amici che avevo nell'oratorio.
Iniziammo a raccogliere vestiti ed alimenti per i combattenti partigiani; tramite mio zio fui gradualmente iniziato al movimento di resistenza; inizialmente ero l'unico tra i miei amici a conoscere l'esatta ubicazione della base della 103a S.A.P. e portavo loro viveri e notizie fermandomi un poco a discutere con loro.
Tra di essi riconobbi Aldo Motta e con molta sorpresa, Renato Pellegatta; quest'ultimo abitava nel cortile in cui risiedevo e non supponevo fosse partigiano".
(Carlo Verderio)
"(...) approfondii il sondaggio coi coetanei, con assoluta prudenza, onde arrivare a raccogliere un discreto numero di adesioni. Il rischio era evidente: bisognava interpellare i soggetti avendo la matematica certezza di un accoglimento dell'invito; il rifiuto era da evitare assolutamente. Sapevamo di informatori dei fascisti infiltrati tra le file delle organizzazioni cattoliche, per fornire al regime le notizie utili.
Il lavoro di costituzione della formazione continuava con l'adesione di parecchi giovani; iniziava così l'attività clandestina del gruppo che si apprestava ad operare con il confronto delle proprie impressioni e del comune entusiasmo, tipico dell'adolescenza. Scaturì così una motivazione di chiara lotta al fascismo ed al tedesco oppressore: lotta da combattere con tutte le forze e con le armi possibili. Inizialmente concentrammo le nostre opere sulla distruzione della stampa e dei proclami fascisti. I manifesti murali, appena venivano affissi, sparivano dalle loro sedi tramite un'azione rapidissima. Poichè lavoravo a Milano, informai i rappresentanti del Raggruppamento delle Brigate del Popolo del piccolo gruppo che stava sorgendo all'interno dell'oratorio. Mi incoraggiarono a continuare nell'opera di organizzazione e di lotta, pur raccomandandomi la massima prudenza. Da queste fonti ottenni sussidi finanziari ed informazioni sull'andamento di alcune operazioni militari, che trasmettevo ai miei compagni tramite contatti periodici. La collaborazione con Giuseppe Gavazzi della direzione della D.C. milanese e con altri esponenti del C.L.N.A.I. mi offrì l'opportunità di venire in possesso della stampa clandestina. Il giornale che avevo il compito di trasportare a Vimercate per la diffusione era "il Ribelle", che iniziava in ogni numero con la dicitura: "Esce come e quando può!".
Era una fonte d'informazione molto preziosa; era la voce della libertà che si faceva sentire a dispetto della censura fascista e che infondeva nell'animo una grande speranza. Durante i contatti coi componenti la 103a emergevano, durante lo scambio di opinioni, le divergenze ideologiche che seppur stridenti sul piano tendenziale erano superate, in modo pratico, dal fine comune di riconquista della libertà. Erano tendenze diverse, era la democrazia vera che stava nascendo all'ombra della clandestinità. Da questi contatti nacque l'esigenza sentita di una preparazione militare impartita ai ragazzi dell'oratorio: tale incarico venne affidato a Carlo levati. Il luogo convenuto fu la cava dei fratelli Cantù dove, di sera, coperti dal rumore assordante dei macchinari, imparammo l'uso delle armi e le tattiche della guerriglia. (Luciano Mauri)
Il comando della divisione "Fiume Adda" predispose un piano d'attacco che doveva portare i partigiani dei vari distaccamenti a colpire i fascisti della G.N.R. nelle loro stesse caserme. A tale scopo bisognava reperire un veloce mezzo di locomozione necessario per la rapidità richiesta dall'azione stessa. Gli unici proprietari di veicoli a motore erano i collaborazionisti dei fascisti, inoltre anche la benzina, a quel tempo introvabile, era fornita solo a tali persone.
"(...)il distaccamento di Trezzo, arricchito per l'occasione di due partigiani della Brigata "Monte Rosa", fu incaricato di reperire un camioncino.
All'azione partecipò anche il nostro distaccamento, in quanto l'unico che sapeva guidare l'automezzo era Iginio Rota. A mezzanotte in punto convenimmo sulla riva del l'Adda, dove ci attendeva una barca che doveva trasbordarci sulla riva opposta. La traversata, protetta da partigiani che sorvegliavano i dintorni della riva, avvenne senza complicazioni; dopo mezz'ora di cammino giungemmo alla casa del collaborazionista possessore del veicolo. Scavalcato il muro di cinta entrammo nell'abitazione dove, approfittando della fuga del proprietario del veicolo, ce ne impossessammo. Iginio montò in cabina, due partigiani salirono sui parafanghi armati di mitra e il resto del gruppo si nascose sul cassone. L'automezzo partì verso il ponte di Trezzo, unica via d'accesso alla Provincia di Milano, che era sorvegliato da un plotone di fascisti. Decidemmo di giocare la carta della sorpresa: imboccammo il ponte a velocità sostenuta, nel tentativo di battere sul tempo la reazione delle guardie. Il tentativo riuscì perfettamente; la fulmineità del passaggio colse di sorpresa i fascisti che non riuscirono neppure ad aprire il fuoco. Nel frattempo una seconda squadra, in altra località, era riuscita a recuperare, dopo uno scontro a fuoco, due preziosi fusti di benzina. Il camioncino e il carburante furono occultati in una base del l° distaccamento, in attesa di essere utilizzati. Presi i contatti col gruppo organizzato di Agrate Brianza, ci accordammo per il recupero di un grosso quantitativo d'armi, circa 20 moschetti, e munizioni occultate in un punto dell'argine del Torrente Molgora, nel tratto tra Burago e Pessano. Le armi erano sigillate in sacchi e seppellite sotto un metro di terra.
Una sera ricevemmo l'ordine di recuperare un motocarro necessario per un'azione di cattura di ostaggi da utilizzare per uno scambio coi partigiani reclusi nelle carceri fasciste. Non fu difficile prelevare il motocarro ad una collaborazionista dei nazifascisti che, colto di sorpresa ed impaurito dalla nostra fermezza, non oppose resistenza.
La località da raggiungere era Inzago. Con Iginio alla guida, giungemmo, senza trovare alcun impedimento, sino al cavalcavia di Inzago: i fari del motocarro inquadrarono all'improvviso la sagoma di un soldato tedesco che, agitando una lampada rossa, ci intimò di fermarci. La nostra reazione fu immediata: aprimmo il fuoco contro lo stesso che, nel tentativo di sbarrarci la via, rimase ucciso. Altri militari tedeschi, appostati nelle immediate vicinanze, risposero al fuoco causando la foratura di un pneumatico del nostro veicolo, impedendoci così di portare a termine la missione.
Abbandonato il veicolo in mezzo ai campi ritornammo a piedi alla base.
Alcuni giorni più tardi venne predisposta un'azione tesa al recupero di armi, nascoste presso l'abitazione di un repubblichino sfollato in località Cascina Gallo. L'azione fu portata a termine e nel rientrare ci imbattemmo in un gruppo armato che riconoscemmo essere una banda di delinquenti comuni precedentemente segnalataci: gli intimammo di non utilizzare mai più la dizione "Partigiani" per mascherare i loro reati contro la popolazione.
Intanto il gruppo di Trezzo aveva concluso un'ennesima azione militare contro una colonna di automezzi tedeschi che transitava sull'autostrada Milano-Brescia. Durante il violentissimo conflitto a fuoco che seguì, i partigiani riuscirono ad incendiare parecchi autoveicoli tedeschi. Ritiratisi, senza aver subito perdite, essi si imbatterono casualmente in una pattuglia fascista attirata dagli spari: lo scontro fu breve ma intenso e i fascisti furono messi in fuga. Il rischio di essere stati riconosciuti consigliò i partigiani del distaccamento di Trezzo ad abbandonare la base e rifugiarsi sulle montagne bergamasche.
Il comando della Divisione predispose una serie di attacchi a caserme di repubblichini per il recupero delle armi. Gli obiettivi prescelti occupavano grande importanza strategica, in quanto ubicati in punti nodali rispetto alle linee di comunicazione. Per tali azioni militari era necessario l'intervento di più distaccamenti.
Giunsero alla nostra base due componenti del Comando Brigate Garibaldi di Milano con gli ordini per assaltare la caserma di Vaprio d'Adda, in collaborazione col distaccamento di Trezzo richiamato, per l'occasione, dalla montagna. I responsabili predisposero dettagliatamente le varie parti dell'attacco, fissato per il 6 ottobre.
Il piano d'attacco era il seguente:
- ritrovo dei due gruppi alla periferia di Vaprio alle 21,15;
- divisione in 4 squadre i cui compiti erano in tal modo ripartiti;
a) bloccare la ronda fascista in perlustrazione;
b) bloccare le vie d'accesso al paese;
c) pattugliare la periferia, assaltare il Municipio;
d) assaltare la caserma della Guardia Nazionale Repubblicana.
Impartite le istruzioni venne dato il via all'azione.
Come a voler preannunciare l'inizio dell'operazione, un violento temporale si scatenò sulla zona. La prima squadra ebbe un bel daffare per catturare la ronda fascista che, per ripararsi dalla pioggia, si era rifugiata in un'osteria e sotto la minaccia delle armi, fu costretta ad accompagnarci alla caserma.
Durante il tragitto si aggregò anche la quarta squadra. I fascisti bussarono alla porta: con un'arma puntata contro la schiena il capo della ronda pronunciò la parola d'ordine indispensabile per poter varcare l'uscio della caserma, motivando il prematuro rientro con l'acquazzone. La sentinella fece scorrere il catenaccio, aprì la porta e, spinti da una parte i fascisti, entrammo all'interno, intimando ai presenti di disporsi contro il muro con le mani alzate.
Mentre alcuni di noi tenevano custoditi i fascisti, altri ispezionarono la caserma ove furono recuperati: una mitragliatrice Breda con 4 cassette di munizioni, una dozzina di moschetti, sei mitra, due rivoltelle e parecchie munizioni; inoltre prendemmo coperte, zaini e alcune divise. Nella cameretta del sergente maggiore, comandante la caserma, trovammo una copia del giornale clandestino "l'Avanti!". Il nostro comandante passò in rivista tutti i militi e mentre li osservava notò, tra loro, giovani della nostra stessa età; successivamente furono invitati a spogliarsi delle loro divise (in previsione di un futuro utilizzo) e in tale guisa ascoltarono il discorso che il nostro comandante fece loro, ove li invitava a ritornarsene alle proprie abitazioni. Trovata la cassa della caserma distribuimmo la quantità di denaro sufficiente affinchè ciascun milite, con quei soldi, potesse fare ritorno alla casa d'origine. Portatili fuori, sotto la pioggia, vincemmo la loro riluttanza ad incamminarsi sparando alcuni colpi in aria: segnale convenuto precedentemente per il termine dell'operazione. Nel frattempo la terza squadra aveva fatto irruzione nel Municipio per distruggere gli elenchi dei contadini che non avevano consegnato la quota prestabilita di grano all'ammasso e altri documenti relativi ai renitenti alla leva. Caricammo tutto il bottino sul camioncino col quale eravamo arrivati. A piedi giungemmo alla base alle 5 del mattino. Stanchi ci coricammo dopo aver però provveduto ai turni di guardia prevedendo una reazione fascista. Per un rastrellamento in grande stile, vennero sguinzagliati 2.000 repubblichini che avrebbero dovuto battere la zona tra Vimercate, Trezzo e Cassano d'Adda.
I repubblichini continuarono le loro ricerche setacciando anche dentro le chiese e minacciando di deportare in Germania tutti gli uomini rastrellati. Naturalmente tutte queste forme intimidatorie non fecero che aumentare l'odio già diffuso tra la popolazione nei confronti del nazifascismo.
Il rastrellamento si concluse senza che venisse catturato un solo partigiano.
Il giorno successivo il comandante Rota, che aveva diretto con Walter Gabellini "l'operazione Vaprio", fu convocato dal Comando della 103a S.A.P. che gli comunicò come, a seguito della nostra azione, altri repubblichini della caserma di Pozzo d'Adda avessero disertato. (Carlo Levati)
"(...) durante il mese di aprile del '44 ebbi collegamenti con la 104a S.A.P. di Arcore; le persone, oltre a me, incaricate di mantenere tali contatti erano: Teruzzi, Vimercati e Rossi. Questi mi chiesero di reclutare altre persone, di organizzarci secondo gli ordini del Comando di Valaperta. Il nostro compito era quello di sostenere il movimento partigiano sotto il profilo finanziario.
Un altro compito assegnatoci dal Comando fu di fermare e disarmare un fascista monzese di stanza ad Arcore, azione che doveva essere compiuta nei pressi di Camparada. Ricordo che gli incaricati della missione furono: Teruzzi, Rossi, Riboldi Ambrogio ed altri giovani". (Pasquale Mondonico)
"(...)l'azione era articolata in due fasi: una prima squadra doveva fermare e disarmare, trattenendolo per circa 2 ore, un fascista di Monza, capo della guarnigione di Arcore; l'altra squadra avrebbe dovuto attaccare la caserma della G.N.R. di Arcore e prelevare le armi dei fascisti. La prima parte dell'azione, quella a noi affidata, fu portata a compimento: trattenemmo per il tempo stabilito il fascista e, dopo averlo privato della divisa e dell'arma individuale, lo lasciammo libero ammonendolo di disertare il G.N.R.
Purtroppo la seconda fase non sortì l'effetto voluto in quanto, ancora prima del segnale d'attacco, giunse presso la caserma un plotone di tedeschi, sbilanciando in tal modo il rapporto numerico a nostro sfavore". (Dante Teruzzi)
"(...)i luoghi dove avvenivano i contatti tra la 103a e la 104a S.A.P. cambiavano in continuazione, per ovvi motivi di sicurezza. Mentre ci si recava ad uno dei consueti appuntamenti, precisamente a Valaperta, la voce di una donna richiamò la nostra attenzione: era la staffetta della 104a, la quale ci invitò a seguirla poichè doveva darci comunicazioni urgenti. Appena fuori dall'abitato e dopo esserci assicurati che nessuno ci seguisse, ci informò che poco prima era stato ucciso un fascista e di conseguenza era in corso un rastrellamento di rappresaglia. Rota ed io, saputa la notizia, decidemmo di rientrare immediatamente alla nostra base. Più tardi la staffetta ci mise al corrente di come si fosse svolta la rappresaglia fascista: l'abitato di Valaperta fu incendiato (dai fascisti delle Brigate Nere di Vimercate) e due giovani del luogo tratti in arresto. I due giovani furono processati per direttissima e condannati a 20 anni di galera e non fucilati, come prevedeva il regolamento di polizia, poichè minorenni. Venimmo inoltre a conoscenza che i partigiani della 104a, identificati, si rifugiarono sulle montagne comasche". (Carlo Levati)
"(...) poco dopo, il 18 ottobre 1944, mentre uscivo dalla mia abitazione, mi imbattei in un repubblichino che mi fermò chiedendomi i documenti d'identità. Senza perdermi d'animo gli risposi di seguirmi in casa dove li avevo dimenticati. Con aria sospettosa mi intimò di seguirlo in caserma per accertamenti e, dicendo questo, scese di bicicletta portando la mano destra sulla fondina. Ci incamminammo e pensai che, essendo un renitente, dovevo essere fucilato immediatamente; mi resi conto con freddezza di non avere scampo: ero calmo, oramai non avevo più nulla da perdere, la mia vita era finita e stavo valutando mentalmente quali opportunità mi restassero per ribaltare la situazione. Giunti davanti al negozio di barbiere di Mandelli Romeo giocai l'ultima carta rimastami: girandomi di scatto strinsi il suo polso destro immobilizzandolo e lo spinsi col corpo contro il muro. Mentre lo stavo per colpire mi sentii trattenere per le spalle; era l'interprete dei tedeschi, e nello stesso istante il fascista estrasse la pistola e fece fuoco. Una vampata, un colpo tremendo, un improvviso bruciore al volto; poi il nulla. Rinvenni all'ospedale di Vimercate: il colpo mi aveva fracassato la mandibola. Per tutta la permanenza fui piantonato da guardie fasciste. Nonostante ciò i miei compagni riuscivano a tenermi informato sull'attività partigiana e sull'andamento della guerra; tali notizie mi pervenivano grazie al coraggio delle sorelle Villa, appartenenti ai "Gruppi di Difesa della Donna". Venni così a sapere che Riboldi, Vimercati, Brigatti e Rossi, miei compagni nell'azione di Camparada, erano stati catturati e tradotti a S. Vittore, e che si aspettava la mia guarigione per processarmi con una sentenza esemplare. Il professore Miani e il Dott. Foti mi confidarono che avrebbero impedito il mio trasferimento in carcere contro la mia parola a non tentare la fuga. Un bel giorno mi ritrovai a poter masticare, in quanto le ferite si erano rimarginate; i fascisti fecero presente che le mie migliorate condizioni consentivano la reclusione a S. Vittore. I medici non furono di questo avviso e mi fratturarono chirurgicamente l'osso, in modo da potermi trattenere ancora. Durante il ricovero subivo quasi quotidianamenti violenti interrogatori da parte dei miei inquisitori, che per fortuna si scoraggiavano presto non potendo io rispondere alle loro domande. In quel periodo venne ricoverato un noto fascista di Concorezzo, il quale, sapendo che ero partigiano, mi fece chiamare nella sua stanza. Entrai, lui giaceva sul letto con la pistola appoggiata sul comodino: mi propose di entrare nella Milizia per salvare la Patria dal pericolo partigiano!".
(Dante Teruzzi)
"(...)la rappresaglia fascista aveva portato all'arresto di tutti i partecipanti all'azione di Camparada e all'incendio di Valaperta; gli altri componenti la l04a, non sentendosi più sicuri, decisero di trasferirsi sulle montagne comasche. Io decisi di restare al piano e presi contatto con Nando Bonfanti e Fumagalli Vittorino, entrambi del gruppo politico del P.C.I. orenese. Cominciai a trovarmi con loro: si discuteva sulla situazione politica e sul peso dei partiti all'interno della Resistenza".
(Pasquale Mondonico)
Uno dei problemi che si presentavano alle formazioni partigiane era il rifornimento di viveri che, al pari di quello del recupero armi, assumeva una grande importanza. Il fabbisogno alimentare della 103a fu risolto con l'apporto diretto delle industrie alimentari della zona, ditta Comi Carlo di Vimercate e Salumificio Mauri di Cavenago Brianza, e col contributo in natura dei contadini e in denaro degli operai.
"(...) gli Alleati, con lo scopo di sostenere e favorire la lotta partigiana, avevano in programma lanci di armi e di apparecchiature per trasmissioni alle formazioni partigiane. La notizia dell'avvenimento veniva diffusa, con l'utilizzo di un codice, da Radio-Londra. Il comandante di Brigata ci informò di un prossimo rifornimento di armi da parte degli Alleati; il lancio sarebbe avvenuto nella zona di nostra competenza e cioè nel triangolo Gorgonzola-Trezzo-Vimercate. La frase in codice, che attendavamo da Radio-Londra era: - Lucio 101 - che significava: azione prossima; - Lucio 101 il pollo è cotto! - significava che, la notte seguente, dovevamo accendere 3 falò per segnalare agli aerei il luogo del lancio. Per mesi continuammo, tutte le notti, ad ascoltare la radio e ad aspettare il famoso "pollo" ...che non venne mai". (Carlo Levati)
Uno dei punti-chiave della strategia militare del C.L.N. era l'attacco agli aeroporti militari e la distruzione degli aerei e delle strutture logistiche di complemento. Il compito fu affidato alle Brigate che operavano nella zona dove erano ubicati questi obiettivi primari.
"(...) essendo renitente mi aggregai alla formazione partigiana che operava nella Val di Nure, Val Trebbia e Val Tidone. La zona che coprivamo era talmente vasta che la nostra Divisione comprendeva ben 12.000 uomini dislocati sulle colline del piacentino. Piacenza era una zona militarmente importante in quanto situata sul Po e attraversata dalla Via Emilia, unica arteria di comunicazione per le colonne tedesche dal centro Italia al Nord. La conformazione del territorio rendeva praticamente vani gli attacchi aerei alleati contro le roccaforti nazifasciste sull'Appennino. Inoltre il nutrito fuoco contraereo di sbarramento, aperto dalle postazioni situate sui fianchi boscosi delle colline, rendeva improduttivo qualsiasi attacco aereo anche attuato a volo radente. In questa zona vi era l'aereoporto di S. Giorgio, efficiente e capiente, che garantiva l'appoggio aereo alle azioni tedesche.
Ci fu impartito dal C.L.N. l'ordine di prendere in considerazione un eventuale attacco al campo d aviazione: studiato un piano d'assalto particolareggiato, ci rendemmo conto che l'aereoporto era praticamente inespugnabile poichè gli hangar, dove erano rinchiusi gli aerei, erano costruiti con muretti anti-deflagrazione e la struttura portante costituita da cemento armato. Impossibile l'attacco da lontano per le solide difese bisognava andare troppo vicino e allo scoperto: anche questa teoria fu lasciata da parte a causa della ingente guarnigione che presidiava la base militare".
(Domenico Migliorini)
"(...) Nava ed io lavoravamo presso la Ditta Bestetti di Arcore, dislocati nella frazione di San Giorgio di Villasanta, nella quale si provvedeva a riparare gli aerei italiani danneggiati. Ci venne affidato l'incarico di raccogliere tutte le informazioni possibili sul campo di Arcore. Comunicammo in maniera particolareggiata l'esatta ubicazione degli hangar, il numero di aero-siluranti contenutivi, quanti fossero in assetto di battaglia e la consistenza del loro armamento, le probabili date del loro trasferimento in zona operativa e il numero delle guardie". (Carlo Verderio)
"(...)il 20 ottobre 1944, alle ore 21, fu portato a compimento, dopo un'accurata preparazione, l'attacco al campo d'aviazione di Arcore. Attraverso le campagne, passando a nord di Velasca, il 1° distaccamento della 103a penetrò nel campo. Stabilito l'usuale dispositivo di sicurezza per coprirci le spalle ed assicurarci la via d'accesso e uscita dal campo, la squadra dei sabotatori raggiunse gli hangars, di soppiatto, senza mettere in allarme le sentinelle approfittando del rumore provocato dai convogli in transito sulla vicinissima linea ferroviaria. La porta venne sfondata mediante l'uso di un paranco, e furono lanciate all'interno delle cabine di pilotaggio bottiglie "molotov". Poichè queste non ottennero l'effetto desiderato, si collocò sotto gli aerei della paglia trovata all'esterno. Aggiungemmo bombole di acetilene, ossigeno ed olio lubrificante trovati nel capannone; la distruzione e il danneggiamento degli apparecchi furono ottenuti con pieno successo: 5 aero-siluranti S.M. 79 distrutti e uno danneggiato. A fine operazione ritornammo alla base esultando di gioia ad ogni esplosione che si levava dal campo. Dopo questo attacco cambiammo la base e ci frazionammo in diversi gruppetti: per misura precauzionale, per qualche giorno, evitammo d'incontrarci. Passato il momento di stasi rientrammo alla base". (Carlo Levati)
Il partigiano Livio Cisana, appartenente alla 104a S.A.P. Garibaldi, fu catturato dalla Milizia repubblichina e, dopo un processo sommario, condannato a morte per impiccagione. L'esecuzione fu fissata per le ore 15 del 25 ottobre 1944 in Gerno.
"(...) la mattina del 25 ottobre, alle 11.30, mi incontrai con Vergani, componente del comando lombardo delle Brigate Garibaldi, il quale mi mise al corrente del piano predisposto per la liberazione del partigiano Cisana. Ritornato alla base riferii a Rota le direttive, prendemmo le armi e partimmo a piccoli gruppi. Giunti a Gerno la staffetta, con la quale dovevamo avere il contatto e che doveva condurci nei pressi del luogo designato per l'esecuzione, non si presentò. Insospettiti decidemmo di entrare nell'abitato per cercare di scoprire il luogo fissato. Poco dopo vedemmo transitare un camion militare seguito, a poca distanza, da un'automobile in direzione del ponte ferroviario di Gerno. Decidemmo di attendere ancora per qualche istante l'arrivo della staffetta: era l'unica soluzione in quanto non avevamo ordini sul da farsi. Il tempo trascorreva veloce; le 15, ora fissata per l'esecuzione, erano ormai trascorse da diversi minuti. Ritornammo con tristezza verso la base, in silenzio. il giorno dopo ci comunicarono che Livio Cisana era stato impiccato appena dopo il ponte ferroviario, poche centinaia di metri da dove ci trovavamo. Al dolore per la perdita del nostro compagno si aggiunse la rabbia di essere stati così vicini, inconsapevolmente, e di non aver potuto intervenire per salvargli la vita
(Carlo Levati)
PREFETTURA REPUBBLICANA DI MILANO
Oggetto: Relazione sulle attività amministrativa, politica, alimentare
(...) con recente disposizione ho istituito la relazione mensile che deve pervenire entro il 4 del mese.
Ricordo la migliore esecuzione e intanto faccio presente le seguenti eccezioni che ho rilevato da un esame delle prime relazioni.
1) Troppa genericità nelle risposte. Quando si parla di rapporto normali, buoni, soddisfacenti con le autorità locali e provinciali, bisogna specificare i motivi di tale dizione, e cioè: perchè normali, perchè buoni, perchè soddisfacenti. Nessuno ha pensato ad indicare i nominativi delle autorità con le quali ha avuto rapporti e così dei componenti le organizzazioni locali e così delle organizzazioni sindacali, dei datori e prestatori d'opera.
Ricordo che il Podestà è la più alta autorità del comune, che rappresenta l'azione del Governo e amministra i cittadini.
2) In merito all'atteggiamento del clero, occorre che io conosca i nominativi dei sacerdoti e l'esercizio delle loro funzioni nelle relative chiese o parrocchie. Precisatemi inoltre se esistono oratori e organizzazioni cattoliche, da chi siano rette, con quale criterio ed indirizzo ed a quale sfondo siano volte, come siano seguite dalla gioventù e dalla popolazione. Necessita inoltre esprimere il proprio giudizio e non limitarsi ad una semplice affermazione.
3) Per quanto riguarda l'alimentazione, ricordo che il problema è essenzialmente politico e quindi deve essere curato e guardato personalmente dal Podestà il quale ha l'obbligo di denunciarne tutti gli inconvenienti in modo tempestivo perchè con tutta celerità si possano correggere errori, ostacoli, inconvenienti, abusi dei grossisti, dettaglianti, ecc.
(...) ho notato pochissime sanzioni, addirittura trascurabili. Non posso credere che tutto vada così bene da non avere provvedimenti da adottare. Mi sorge il dubbio che i provvedimenti debbono essere invece adottati verso le persone proposte alla vigilanza, che non vigilano, o peggio (!).
Non desidero richiamare i Podestà sulla correttezza, onestà, incrollabile purezza di coloro che sono proposti alla vigilanza. Non abbiate timore a denunciare coloro che non godono, in taluni settori, la vostra fiducia. Sono questi elementi che non meritano di stare tra elementi di buona, sincera, vera onestà. Sotto questo profilo riguardate le vostre organizzazioni.
4) Sorvegliate attentamente il personale dipendente dei comuni, dal segretario comunale al necroforo. Informatemi onestamente sulla loro capacità, onestà, funzionalità, correttezza e vita ambientale.
Tutto ciò posto, sono costretto ad avvertire che qualora si continui nel sistema finora adottato e col quale quasi la totalità dei Podestà ha risposto con la prima relazione, sarò necessariamente obbligato ad inviare, a rotazione fissa, persone di mia assoluta fiducia e da me espressamente incaricate per ispezioni continue e costanti ai comuni e ai diversi servizi e ad adottare in seguito quei provvedimenti urgenti nei confronti dei responsabili.
Sono certo però che il vostro senso del dovere e di responsabilità nel momento attuale vi sarà di sprone nella esplicazione del mandato che vi è stato affidato.
Chi non si sente di assolvere di fronte a se stesso e al popolo tale compito, può chiedermi benissimo la sostituzione.
Si tratta di ricostruire con fede e certezza. Non sono ammessi indugi ed incertezze.
Milano, 24 Ottobre 1944 - XXII
IL CAPO DELLA PROVINCIA
F.to Mario Bassi
I bombardamenti alleati sulle città del nord continuavano con insistenza. Gli obiettivi erano le fabbriche belliche e le linee di comunicazione. Queste incursioni portarono inevitabilmente a colpire anche la popolazione civile, mietendo vittime soprattutto tra i più indifesi. Un esempio raccapricciante fu la distruzione della scuola elementare di Gorla, nella quale persero la vita tutti gli alunni e le loro insegnanti.
Nel primo pomeriggio del 28 ottobre 1944 tre caccia americani, apparsi improvvisamente nel cielo vimercatese, si abbassarono aprendo il fuoco su alcuni contadini che stavano transitando sulla provinciale per Bergamo. Dopo il primo passaggio gli aerei ritornarono e si gettarono in picchiata sul tram della linea Monza-Bergamo che stava sopraggiungendo. I caccia mitragliarono il convoglio e si allontanarono lasciandosi dietro una spessa colonna di fumo nero.
FONOGRAMMA
ALLA PREFETTURA - UFFICIO PROTEZIONE ANTIAREA
ORE 14,25
Oggi alle ore 13.35 sulla provinciale per Bergamo sono stati mitragliati tre carri con cavallo. Un cavallo, di proprietà di De Giorgi Stefano, è stato ucciso. Da informazioni giunte ora risulta che è stato mitragliato il tram Monza-Bergamo dove risultano feriti e sembra qualche morto.
IL COMMISSARIO PREFETTIZIO
Bollani
FONOGRAMMA
ALLA PREFETTURA - UFFICIO PROTEZIONE ANTIAEREA
ORE 15,45
A seguito mitragliamento tram Monza-Bergamo tra il comune di Bellusco e quello di Busnago sono stati ricoverati all'ospedale di Vimercate 35 feriti, di cui 25 gravi.
IL COMMISSARIO PREFETTIZIO
Bollani
FONOGRAMMA
PREFETTURA E FEDERAZIONE FASCISTA ORE 18,00
In seguito all'incursione odierna delle ore 13.35 a sette Km. da Vimercate sulla strada verso Trezzo d'Adda sono deceduti 25 passeggeri del tram Monza-Bergamo, proveniente da Bergamo.Ci sono inoltre 40 feriti dei quali 33 gravi e 7 leggeri. Due morti si trovano a Trezzo d'Adda, un soldato tedesco morto è stato trasportato a Musocco. Fra i morti trovasi un capitano dei Bersaglieri e tra i feriti un soldato del l'Aeronautica e uno della SS. italiana.
Tutti gli altri morti e feriti si trovano nell'ospedale di Vimercate.
IL COMMISSARIO PREFETTIZIO
Bollani
IL COMANDANTE BRIGATA NERA BRIANZA
Col. Zanuso
AL MUNICIPIO DI VIMERCATE
FONOGRAMMA
29 Ottobre 1944 ore 8.40
Comunicazione selvaggia incursione aerea nemica colpisce fortemente mio cuore e quello di tutti i fascisti della Federazione. Vogliate in unione col Fascio locale portare contributo fattivo di aiuto e di interessamento per alleviare dolori e necessità.
F.to Comm. Federale Costa
Il numero delle vittime fu di 35 unità, i feriti 32.
"(...) ricordo che il giorno in cui fu mitragliato il tram Monza-Bergamo mi trovavo all'ospedale in visita a mia figlia ivi ricoverata. All'improvviso ci fu un enorme movimento di sanitari e mi chiesero di contribuire come portantina al trasporto delle barelle. Ricordo con orrore le ferite gravi di una donna che trasportai presso la sala operatoria. Partecipai poi ai funerali delle vittime portando una bara al cimitero di Vimercate; lì i feretri furono collocati nella camera mortuaria in attesa del trasporto al proprio paese d'origine". (Armando Giambelli)
SOLENNI FUNERALI VITTIME MITRAGLIAMENTO TRAM
Domani, 31 ottobre 1944, Vimercate renderà solenni onoranze funebri alle salme delle vittime innocenti della vile incursione aerea nemica di sabato scorso. Alle ore 9,30 si celebrerà l'Ufficio Funebre nella Chiesa della Madonna ed alle ore 15 avranno luogo i funerali, partendo dalla camera mortuaria dell'Ospedale Civile. Le Autorità, le associazioni e la popolazione vorranno intervenire compatti alla mesta funzione, per rendere doveroso tributo agli scomparsi e manifestare alle famiglie così duramente provate il cordoglio dei Vimercatesi, indignati per l'atto selvaggio ed ingiustificato del barbaro nemico.
IL COMM. PREF.
Bollani
IL COM. PRESIDIO G.N.R.
Ten. Nucci Renato
IL COM. PRESIDIO
B.N. Ferrari
Per sostenere lo sforzo bellico il Ministro degli Armamenti tedesco Albert Speer predispose un piano organico per il trasferimento di tutta la forza produttiva dei paesi occupati: oltre alla deportazione dei lavoratori (600.000 i soli italiani) vennero smantellati interi complessi industriali e trasferiti in territorio germanico. La razzia nazista non si fermò solo al materiale bellico, ma coinvolse qualsiasi cosa di valore o di utilità per il popolo tedesco. I gruppi della Resistenza tentarono di ostacolare tale ladrocinio con azioni di sabotaggio alle linee ferroviarie, vie preferenziali per l'espatrio di tali beni.
"(...) il l° distaccamento della103a in accordo col gruppo di Bernareggio decise di sabotare la linea ferroviaria Milano-Sondrio sulla quale, di notte, transitavano i treni merci diretti in Germania. I convogli erano carichi di macchinari e merci di vario genere che, rubati all'Italia con il beneplacito fascista, indebolivano la produttività delle nostre fabbriche ed andavano ad arricchire la Germania nazista. Due ragazzi dell'oratorio ci fornirono l'occorrente per quell'azione: paranchi e chiavi fisse per lo sbullonamento delle traversine dei binari. Partimmo per incontrarci con l'altro gruppo presso il cimitero di Bernareggio. Quindi, attraverso la campagna, arrivammo fino alla linea ferroviaria nel tratto tra Usmate e Bernate; svitammo i bulloni e coi paranchi togliemmo gli spezzoni alle giunte delle rotaie, spostando uno dei binari. Trascorso un breve periodo sopraggiunse un convoglio merci che prima sferragliò e poi si rovesciò su di un fianco. Il sabotaggio era riuscito però solo in parte, poichè la mattina successiva era stato rimesso tutto a posto, cosicchè i nostri sforzi riuscirono solo a ritardare momentaneamente l'ignobile furto". (Carlo Levati)
"(…) io e Nava avevamo procurato gli utensili per l'operazione di sabotaggio alla linea ferroviaria: chiavi inglesi, paranchi e piedi di porco, fabbricandoli di nascosto nella ditta nella quale lavoravamo. Dopo questo atto di sabotaggio i nazifascisti costrinsero, come misura preventiva, i civili arcoresi ad effettuare turni di guardia notturni lungo il tracciato ferroviario. I civili vennero distribuiti in modo tale da coprire ciascuno un chilometro di strada ferrata, ovviamente disarmati, e dovevano rispondere con la propria vita di eventuali sabotaggi nel tratto da loro presidiato". (Carlo Verderio)
Il 5 Novembre 1944 avveniva nella nostra città il primo assurdo delitto: il reduce Emilio Colombo, classe 1918, abitante a Ruginello, sorpreso dopo il coprifuoco, venne vilmente abbattuto con una raffica di mitra dalla ronda fascista. Questo episodio, ed un altro simile avvenuto in Arcore, era indice eloquente della paura che ormai attanagliava il nemico, il quale vedeva partigiani ognidove e si abbandonava a crudeli reazioni anche di fronte a cittadini inermi.
In questo particolare periodo si acuì la contraddizione interna alla Repubblica di Salò: mentre da una parte si promulgavano leggi tese a favorire le classi lavoratrici, leggi che rimasero solo sulla carta, dall'altra ci fu un inasprimento della ferocia nella lotta contro i partigiani o i presunti tali.
"(...) una mattina giunse alla base la notizia che Alberto Paleari e Giuseppe Centemero, partigiani appartenenti alla 104a Brigata Garibaldi, erano stati catturati dai fascisti e, dopo essere stati torturati, la sera del 7 Novembre 1944 vennero fucilati a Monza in Piazza Trento e Trieste". (Carlo Levati)
Il 13 novembre il generale inglese Alexander lanciò un appello radiofonico alle formazioni partigiane operanti nel nord Italia, invitandole a limitare o addirittura a sospendere la loro attività. Motivazione addotta: la particolare rigida temperatura di quell'inverno e il fatto che le condizioni atmosferiche avrebbero certamente rallentate le manovre militari alleate, esortava i partigiani a lasciare le montagne e ritornare al piano in attesa di tempi più propizi. Tale invito non venne raccolto dalle formazioni partigiane che, seppur riducendo il numero delle azioni, non diedero tregua ai nazifascisti. Anche a Vimercate i partigiani della 103a S.A.P. decisero di respingere l'appello: dopo aver ponderato la situazione la decisione unanime fu quella di continuare attivamente la lotta armata, consapevoli che la libertà doveva essere conquistata con le proprie mani senza attendere passivamente l'intervento degli anglo-americani.
Con l'approssimarsi del fronte e l'intensificarsi dei bombardamenti i gerarchi fascisti e i responsabili delle organizzazioni del regime cercarono rifugio in provincia allontanandosi dalle grosse città.
AL CAPO DELLA PROVINCIA DI MILANO
Vi comunico che provenienti da Gorgonzola sono giunti a Vimercate due Direzioni del Ministero della Guerra.
Gli ufficiali e gli impiegati civili di dette Direzioni hanno con loro anche le rispettive famiglie, piuttosto numerose, e tenendo presente che a Vimercate, nella frazione di Oreno, esiste già un'altra Direzione del predetto Ministero, l'alloggiamento di tutte queste persone, anche per il poco tatto usato dalle stesse, che hanno provveduto in parte alle requisizioni senza interpellare l'Autorità Comunale, ha dato luogo a forte malcontento fra la popolazione. Essendo il paese già saturo all'inverosimile si sono dovuti allontanare alcuni profughi e sinistrati; allo stato attuale sembrerebbe che la sistemazione sia raggiunta. Da notizie però attinte dagli ufficiali stessi sembrerebbe che altre Direzioni o Sezioni dovessero ancora giungere a Vimercate. Vi prego quindi saldamente di voler pregare il Sottosegretariato della Guerra, con sede in Monza, affinchè voglia desistere dall'inviare altri dipendenti del Ministero perchè in questo caso occorrerebbe allontanare da Vimercate anche gli abitanti che hanno sempre avuta dimora stabile in questo Comune.
Aggiungo che i Comuni limitrofi di Bernareggio-Carnate-Usmate potrebbero benissimo ospitare altre Direzioni o Sezioni.
Vimercate, 29 Novembre 1944
IL COMMISSARIO PREFETTIZIO
Bollani
Dopo l'attacco del 20 Ottobre 1944, il campo di aviazione di Arcore aveva ripreso appieno la sua attività e, oltre alla messa a punto degli aerei, fungeva anche da officina meccanica per mezzi corazzati e veicoli tedeschi. Venne potenziato il presidio fascista di guardia: 12 avieri, una pattuglia di ronda e alcuni addetti alle squadre anti-incendio.
In tutto 20 uomini. Il 1° distaccamento predispose il piano d'attacco, per il 29 dicembre così articolato:
a) la prima squadra, in divisa fascista, composta da Renato Pellegatta, Aldo ed Emilio Diligenti, Erminio e Mario Carzaniga, al comando di Iginio Rota, dopo aver bloccato e ridotta all'impotenza la ronda fascista che pattugliava le vie dell'abitato, aveva il compito di immobilizzare il corpo di guardia e gli avieri, all'interno dei loro alloggiamenti; b) la seconda squadra, al comando di Carlo Levati, era composta dal gruppo di Rossino, dai giovani del Fronte della Gioventù e dai ragazzi dell'Oratorio. Questi ragazzi furono mobilitati solo dopo aver ottenuto l'adesione personale, pur consapevoli dei rischi che l'azione comportava. Compito della seconda squadra era di penetrare negli hangar, dopo il segnale convenuto, e di provvedere alla distruzione degli aerei con bombe a mano e bottiglie incendiarie.
Luogo convenuto per la distribuzione delle armi: il ponte di legno sul Molgora in Via Quarto.
Consegnate le armi, i partigiani, alle ore 21, partirono a piccoli gruppi attraverso la campagna per raggiungere il punto di ritrovo nei pressi del campo d'aviazione.
"(...) durante il tragitto ricordo i toni scherzosi dei miei compagni i quali, col fucile a tracolla, alludevano ai nostri genitori che, ignari di quanto stavamo facendo, se ne stavano rinchiusi in casa preoccupati di non lasciar trapelare nessuno spiraglio di luce, severamente proibito dalle norme belliche. Quindi, con un tono misto fra autorità e bonaria amicizia, Rota si soffermava tra di noi, di tanto in tanto, per darci utili consigli sui nostri compiti. Arrivati in prossimità del punto di ritrovo, Rota ci ordinò di togliere la sicura alle nostre armi, prima di partire alla testa della sua squadra all'assalto del presidio fascista". (Luciano Mauri)
La fitta nebbia, che gravava sulla campagna, improvvisa si alzò. La luna piena irradiava i campi innevati rendendo l'ambiente circostante rischiarato a giorno.
La prima squadra, raggiunto il corpo di guardia e scambiata per una pattuglia fascista, immobilizzò le sentinelle rinchiudendole all'interno della guardiola. Erminio Carzaniga rimase a sorvegliare i prigionieri mentre Mario Carzaniga si appostò con la mitragliatrice, tenendo sotto tiro gli alloggiamenti. Nel frattempo Renato Pellegatta portò a termine il compito assegnatogli: tagliare i fili del telefono. Emilio Diligenti rimase in prossimità dell'edificio principale, Iginio Rota e Aldo Diligenti si diressero verso l'ingresso dei locali truppa. Iginio Rota spalancò con un calcio la porta intimando: "Mani in alto!"
I fascisti, colti di sorpresa, non opposero resistenza. L'azione procedeva secondo il piano. Un aviere, nascosto nella penombra, guadagnò la finestra e fuggì all'esterno imbattendosi nel partigiano rimasto di guardia. Ne seguì una collutazione nella quale il fascista stava per avere la meglio; il fratello, resosi conto della situazione, aprì immediatamente il fuoco colpendo l'aviere. L'eco dei colpi distrasse per un attimo fatale Iginio Rota: i fascisti, approfittando dell'occasione, cercarono di rientrare in possesso delle armi.
Rota, resosi immediatamente conto di quanto stava accadendo, rivolse l'arma contro i fascisti, e premette il grilletto: il mitra tacque. Si era inceppato. Non altrettanto avvenne alle armi dei fascisti che troncarono la giovane vita dell'eroico comandante. I fascisti si riversarono, armi in pugno, all'esterno dove incontrarono la decisa opposizione della mitragliatrice che ne frenò l'impeto. I partigiani tentarono di recuperare il corpo del compagno caduto, ma senza riuscirvi
L'unica soluzione era quella di ripiegare. Per coprire la ritirata, ordine che venne tra smesso da Renato Pellegatta, la seconda squadra aprì il fuoco di copertura per permettere lo sganciamento. La battaglia infuriò violenta per venti lunghissimi minuti alla fine dei quali i partigiani, per evitare l'accerchiamento, dovettero dileguarsi nella campagna. L'ultimo ad eludere l'accerchiamento fu Erminio Carzaniga che si allontanò seguendo i binari della ferrovia posti a breve distanza dal campo.
"(...) esauriti i colpi della mitraglia mi sganciai e, di corsa, mi diressi verso il punto in cui i componenti la seconda squadra dovevano aspettarci. Con Carlo Levati tornai a Vimercate portando a turno l'arma, badando bene di non farci avvistare".
(Mario Carzaniga)
"(...) attraverso i campi, dopo circa un'ora di marcia, raggiungemmo la base; qui ci rendemmo subito conto di non poter rimanere uniti: ciascuno doveva necessariamente trovarsi un rifugio in attesa di nuove disposizioni. Decidemmo di restare, Mario ed io, a presidiare la base e a nascondere le armi con le poche munizioni rimaste. Restammo un paio d'ore nell'attesa di eventuali rientri, ma nessuno si fece vivo. Il silenzio assoluto, l'attesa nel buio profondo, il dolore per l'amico caduto ci lasciava attoniti. Infine, verso l'alba, lasciammo la base, dirigendoci verso le nostre abitazioni. Verso le sette sentii battere alla porta della mia camera: era Aldo Diligenti, il quale mi raccontò, con evidente dolore, quanto era accaduto e mi informò della sorte degli altri".
(Carlo Levati)
"(...)la sera del 29 dicembre ero con mio fratello Aldo sulla terrazza di casa, stavamo discutendo quando udimmo, in lontananza, degli spari a raffica; vidi Aldo turbato, ma nessuno dei due commentò l'episodio. Il giorno dopo si sposò mio fratello maggiore: durante i festeggiamenti notai che sia Aldo che Carlo non partecipavano alla gioia di tutti e, in disparte, parlottavano tra loro, ascoltando Radio-Londra. Poi giunse la sorella di Iginio, disperata; li vidi precipitarsi verso di lei, mi accorsi della grave preoccupazione che traspariva dai loro volti. Nessuno seppe nulla di cosa fosse successo perchè Aldo e Carlo la accompagnarono fuori". (Ida Motta)