ANNO 1942
Nel febbraio nuovi contingenti italiani partirono per il fronte russo, costituendo così l'VIII Armata o ARMIR. Per garantire l'ordine pubblico in Patria vennero mobilitati, con il decreto governativo del 27 febbraio, gli uomini dai 18 ai 55 anni non arruolati nell'esercito. Il 13 marzo la razione di pane subì un'ulteriore decurtazione scendendo a soli 150 grammi giornalieri. L'andamento alterno della campagna d'Africa, la vicinanza delle zone d'operazione alle coste nazionali e le incursioni sempre più frequenti dei bombardieri inglesi, che avevano ampliato il raggio di azione operativo, resero necessaria l'adozione di nuovi e più precisi provvedimenti di difesa.
TELEGRAMMA URGENTE
È necessario che le disposizioni di oscuramento siano fatte rigorosamente osservare da parte di tutti anche nelle campagne. Qualunque luce può divenire causa di gravissimo pericolo per le popolazioni. Dispongo che la vigilanza sia attivamente esercitata non solo nei centri maggiori ma anche su quelli minori e sui casolari isolati.
Particolare vigilanza dovrà esercitarsi sui veicoli di ogni genere.
Milano, 25 Dicembre 1942 - XX
IL PREFETTO: F.to Tiengo
La propaganda fascista arrivò a censurare pellicole di marca inglesi e americane, ad incentivare la cinematografia italiana con prodotti che inneggiavano alle vittorie ottenute su tutti i fronti dalle truppe dell'Asse. Il monopolio della cultura, esercitato dal potere fascista attraverso il Ministero addetto, condizionò anche i momenti di svago del cittadino. Le proiezioni cinematografiche, dopo l'approvazione di una particolare commissione giudicatrice, erano immesse nel circuito di distribuzione e dovevano rimarcare l'immagine trionfalistica dell'impero romano e dei suoi figli prediletti.
REGIA QUESTURA DI MILANO
Oggetto: Attività cinema religiosi
(...) si comunica il seguente elenco di n. 71 pellicole cinematografiche la cui programmazione è consentita per i cinema parrocchiali o religiosi:
3) Artigli nell'ombra
5) Camicia nera
10) Ebbrezza bianca
15) Radio italiana anno XV
22) La battaglia dell'ebreo
24) Carmen fra i rossi
32) No pasaran
33) il pianto delle zitelle
38) Alba di guerra sul Mar Ligure
39) Atleti dell'Asse
41) In vacanza con i Principini
48) Giappone paese d'eroica felicità
57) La danza dei milioni
60) Oceano in fiamme
63) Piloti e fanti del deserto libico
64) Vittoria ad Occidente
68) Tempesta sui Balcani
69) Guerra ai sovieti
70) Uomini sul fondo
71) Vecchia guardia
Milano, 8 Marzo 1942 - XX
IL QUESTORE: F.to Coglitore
REGIA PREFETTURA DI MILANO
RISERVATA PERSONALE
Oggetto: Attività cinema religiosi
(...) per norma e adempimento si trascrive la circolare datata 22 luglio decorso del Ministero della Cultura Popolare, Direzione Generale della Cinematografia:
"Con circolare datata 24 aprile 1939, XVII, furono impartite disposizioni allo scopo di precisare i limiti entro i quali deve svolgersi l'attività delle sale cinematografiche parrocchiali e gestite da associazioni o enti religiosi.
Successivamente, con circolare in data 10 aprile 1941 - XIX venne rilevato che non in tutte le sale cinematografiche parrocchiali e religiose erano osservate le disposizioni suddette, soprattutto per quanto riguarda le programmazioni di pellicole non comprese negli elenchi periodicamente pubblicati da questo Ministero.
Si richiama nuovamente la personale attenzione dei Prefetti e dei Podestà sulla necessità di stabilire, perciò, più rigide norme per disciplinare l'esercizio delle sale suddette, controllandone più severamente le programmazioni ed imponendo senza eccezione le proiezioni non soltanto del Giornale Luce ma anche dei documentari di guerra".
Milano, 8 Agosto 1942 - XX
IL PREFETTO
F.to Tiengo
Mentre in Italia la consumata propaganda sbandierava vittorie, conquiste e trionfi della invincibile armata fascista, la campagna di Russia già dal suo inizio mostrava le lacune di preparazione e di organizzazione dell'esercito italiano e la disparità di vedute nei confronti dell'alleato tedesco.
"(...) la mia era una famiglia numerosa, eravamo sette figli, di origine contadina. Per ovvi motivi dovetti interrompere la mia istruzione alla IV elementare e cercare un lavoro. Facevo il muratore, avevo 14 anni, e terminata la dura giornata lavorativa, aiutavo mio padre nel lavoro dei campi. Mio padre, socialista, subì diverse purghe con l'avvento del fascismo e noi crescemmo con l'ideologia socialista profondamente radicata.
Successivamente trovai lavoro a Milano presso una fonderia. Riuscii in tal modo ad evitare il premilitare, perchè ad Ornago erano convinti che lo facessi a Milano, mentre a Milano dissi che frequentavo il corso al mio paese. Inizialmente fui destinato, con lo scoppiare della guerra, in marina, ma, a causa di un infortunio ad un occhio, fui riformato per tale arma e destinato alla fanteria. La chiamata alle armi mi giunse nel 1942. Nonostante vi fosse una legge che diceva che un fratello su tre doveva prestare servizio in Patria, tutti noi sei fratelli maschi fummo inviati ai vari fronti: io e Francesco in Russia, Giacomo in Francia, Ambrogio e Giovanni in Albania prima e Grecia poi, Lino in Africa. Il Segretario del P.N.F. di Ornago, per compensare i miei genitori della nostra assenza forzata, periodicamente "donava" generi alimentari alla mia famiglia; mia madre un giorno gli gettò in faccia il contenuto dell'offerta chiedendogli invece quello che le spettava di diritto: il ritorno in patria di almeno un figlio. I miei fratelli erano già partiti per il fronte quando fui chiamato al 630 Rgt. Fanteria di marcia di stanza a Vercelli. Dopo due mesi fui inviato ad Albenga per specializzarmi nei mortai aggregato al 2030 Btg Mortai. Il 20 settembre 1942 partii con l'ARMIR per la Russia come fuciliere, col grado di caporale, e non come mortaista: ci dissero che avevano bisogno di truppe fresche per la prima linea. Giungemmo in zona di operazione sfiancati dall'estenuante marcia forzata, malnutriti, senza viveri, acqua e sale. Durante la marcia vedemmo del materiale bellico in disuso accanto a dei soldati morti fiancheggianti la strada. In un piccolo paese vidi alcuni tedeschi preparare un palco con tre forche: ad una di esse venne appesa una donna.
Tedeschi e fascisti avevano spogliato la popolazione civile di tutti i loro averi e degli animali domestici; noi, nottetempo, rubavamo tali generi alimentari ai tedeschi per poter mangiare qualcosa. La guerra nella guerra: tedeschi e fascisti erano nostri nemici più degli stessi avversari sovietici.
Eravamo in ottobre, la marcia diventava sempre più estenuante, a piccole tappe ci avvicinavamo sempre più al Don. Le vettovaglie non giungevano, feci le mie rimostranze al comandante la compagnia il quale mi propose di sottrarre viveri ai nostri alleati tedeschi che ne avevano in abbondanza. Nei pressi del nostro campo vi era uno scalo ferroviario e, su di un binario morto, c'era parcheggiato un vagone carico di patate, vigilato da sentinelle germaniche. Con altri commilitoni mi avvicinai alle guardie e conversando offrii loro alcune sigarette. I miei compagni, approfittando dell'occasione, cominciarono a prendere le patate nascondendole dentro i pantaloni alla zuava; ritornati sotto la tenda riposero la preziosa merce e tornarono al vagone per ripetere l'operazione.
Giunti in prossimità del Don, in piena zona d'operazione, cominciammo a scavare i camminamenti e a predisporre le baracche interrate. Bisognava scavare in un terreno duro per il freddo, mettere i tronchi da noi abbattuti sul tetto, coprire il tutto con paglia e poi col terriccio. Arrivò novembre ed insieme il freddo più intenso. Montare la guardia a 25° C sotto zero era terribile; durante il pattugliamento alla polveriera mi accorsi che nei dintorni vi erano alcune isbe disabitate. Chiamai i miei compagni di ronda e trovammo, nei pressi di un pagliaio, un rifugio sotterraneo con una stufa accesa: probabilmente luogo di rifugio di altri soldati che si erano trovati in frangenti simili ai nostri.
Entrammo e rinfrancati dal tepore ci addormentammo. Fummo scoperti dall'ispezione: la pena sarebbe stata la prigione a Gaeta. Scoppiai a ridere dicendo che andare a Gaeta significava ritornare in Italia; di ciò rise anche il mio Capitano e, scuotendo la testa, archiviò il rapporto già redatto nei nostri confronti.
La Divisione di cui faceva parte il mio Reggimento era la Ravenna, il nostro fianco sinistro era coperto dalla Divisione Sforzesca nella quale militava mio fratello Francesco. Una notte, mentre ero di ronda, decisi di avvicinarmi a quella parte del fronte presidiata dal Reggimento di mio fratello; volevo incontrarlo e scambiare qualche parola con lui. Durante il cammino vidi diversi cadaveri e tra questi ve ne era uno che scambiai, tanta era la rassomiglianza, con quello di Francesco: mi sentii una stretta al cuore, ma ad un più attento esame notai che questi aveva dei denti d'oro: fu la conferma del mio errore. Non tentai più di raggiungere il mio congiunto e ritornai sui miei passi.
Dalle linee sovietiche alcuni altoparlanti diffondevano in lingua italiana appelli che rendevano noti i piani d'attacco programmati dal nostro comando, che chiaramente avrebbero dovuto essere segreti, incitando alla diserzione o alla resa il contingente italiano. Tale situazione psicologica non giovava certamente al già provato morale degli uomini.
Il freddo, nostro vero grande nemico, aumentava sempre di più: giungemmo a 40° C sotto zero. Seppi poi che mi erano stati inviati dalla mia famiglia 4 pacchi contenenti maglieria pesante: nessuno giunse mai a destinazione". (Achille Bala)
LANA PEI COMBAITENTI
Domenica 26 aprile è stata aperta la raccolta della lana per le Forze Armate. Appositi incaricati passarono di casa in casa a ricevere la spontanea offerta.
La borgata, ancora una volta chiamata a dimostrare la sua generosità ed il suo amor patrio, ha pienamente corrisposto a questo gesto altamente significativo, morale e patriottico. La raccolta fu veramente soddisfacente; fu una vera gara, dal ricco al povero, la cui offerta ha maggior valore perchè compiuta con sacrificio.
Furono così raccolti kg 500 di lana in fiocco e kg 800 di indumenti e cenci di lana. (27)
"Fui chiamato alle armi nel '39: destinazione Imperia. La vita militare, in particolar modo la disciplina, non si addiceva alla mia personalità. In seguito fui trasferito a Ventimiglia e nel luglio del 1941 partii per la Russia col primo contingente italiano. La tradotta si fermò poco dopo il confine sovietico; giunse l'ordine di scendere e di proseguire a piedi. Durante la marcia partecipammo a diversi rastrellamenti nella steppa. Durante uno di questi vidi su di una collinetta tre militari e poco discosti da loro un gruppo di civili. Con un mio compagno di Pessano mi avvicinai incuriosito.
Mentre mi avvicinavo sempre più al gruppo notai che i militi erano nazisti delle SS e che i civili, donne, uomini, e bambini, erano completamente nudi e tenuti immobili sotto la minaccia delle armi. L'ufficiale delle SS ordinava di volta in volta a ciascun prigioniero di scendere in una fossa scavata di recente, e qui veniva ucciso.
Il macabro gioco doveva protrarsi già da tempo: nella fossa vi erano accatastati un gran numero di cadaveri! Intuimmo che i malcapitati erano ebrei. Assistemmo esterefatti ad una scena raccapricciante: l'ufficiale fece scendere nella fossa una donna che teneva stretto al petto il suo bambino di circa 4 mesi e le disse: - Se inneggi a Hitler, ti concedo di morire per prima, poi ucciderò tuo figlio; altrimenti lo ammazzo sotto i tuoi occhi! -. La donna, senza proferire parola, sputò con disprezzo in faccia al nazista che, infuriato, le strappò di mano l'infante, lo scagliò in aria e, ancora in volo, lo sventagliò con una raffica di mitra aprendolo in due parti.
Quindi gettò la donna sui cadaveri sottostanti e la uccise a colpi di bastone. Lo sterminio continuò: avevamo contato 40 ebrei in attesa del martirio. Inorridito dalla barbarie nazista e da quella fascista, impotente di fronte a questo episodio, un'idea prese corpo nella mia mente: combattere fino in fondo il fascismo che metteva al di sopra di ogni sentimento umano la ferocia, la barbarie e i più subdoli ed infamanti aspetti dell'uomo.
L'aver pensato a questo mi fece in seguito riflettere e, durante tutto il periodo della campagna di Russia, altri fatti fecero sì che la convinzione alla ribellione al fascismo divenisse un mio stretto modo di essere. Giunti al Don, quindi al fronte, ci venne ordinato di costruire i ricoveri e le difese. Diverse volte tentammo di distruggere il caposaldo sovietico installato sull'altra riva del fiume, ma non ci riuscimmo a causa delle "amenità" di un nostro commilitone genovese. Tutte le volte che, di notte e col favore delle tenebre, tentavamo di oltrepassare in barca il Don, questi, giunti che eravamo circa al centro del fiume, iniziava a gridare a squarciagola: - Capitano! Nave a dritta!
Nave a dritta! -, con i risultati più ovvi: i sovietici, avvertiti così della nostra presenza, aprivano il fuoco costringendoci a ritornare precipitosamente sulla nostra riva. Gli imponemmo il silenzio, ma la cosa era più forte di lui! Tale strano comportamento era giustificato dal fatto che il poveretto non sopportava l'alcool che ci veniva abbondantemente elargito prima di ogni assalto. Riuscimmo ad attraversare in inverno inoltrato, strisciando sul ghiaccio che ricopriva completamente il fiume. All'attacco del caposaldo nemico partimmo in quattordici e alla fine dello scontro eravamo rimasti solo in otto. I nostri caposaldi distavano, l'uno dall'altro, circa 200 metri, ed erano tenuti da una guarnigione di 14 uomini composta da 7 italiani e 7 tedeschi. Ogni qualvolta giungeva l'ordine d'attacco, i 14 uomini della pattuglia prescelta erano sempre ed esclusivamente gli Italiani di due caposaldi adiacenti; ai tedeschi restava il compito di proteggere l'avamposto di partenza (?)
L'equipaggiamento tedesco era invidiabile: avevano guantoni di lana, tute termiche, stivali invernali, ecc.; il nostro era assolutamente inadeguato." (Giuseppe Ronco)
Nel novembre, fermata a Stalingrado l'avanzata tedesca, iniziò la controffensiva sovietica che portò allo sfondamento della linea del fronte sul Don e al quasi completo accerchiamento delle truppe italiane: iniziò così la drammatica rotta delle nostre truppe.
"Il 2 gennaio 1941, a 19 anni, fui chiamato alle armi e destinato al 630 Rgt. Fanteria Div. Cagliari di stanza a Vercelli. Subito, il 18 gennaio, senza alcuna istruzione militare, fui incluso tra i veterani per la campagna di Grecia. Accortisi dell'errore madornale ci bloccarono che eravamo già sul treno e ci riportarono a Vercelli. Qui, oltre a ricevere la minima istruzione sull'uso delle armi, ci venne notificata la nuova destinazione: Russia!.
Partii nell'agosto del 1942 e dopo circa due mesi raggiunsi la linea del Don.
Dopo un lungo periodo di continui e devastanti bombardamenti dell'artiglieria nemica, il giorno 11 dicembre i sovietici scatenarono l'offensiva, riuscendo a rompere il fronte, tenuto dalla Div. Ravenna, il 16 dicembre. Iniziammo la ritirata lasciando nella neve armi e munizioni; raggiungemmo Katjusha, sede del Quartier Generale, distante circa 6 km dal fronte. Qui aspettammo ordini fino al mattino del giorno dopo; all'alba scorgemmo sulle creste delle collinette circostanti il paese i bivacchi delle truppe russe. Allora un capitano, unico comandante superiore che non si era dato alla fuga, morto in seguito per congelamento, ci ordinò esplicitamente di tornarcene a casa il più presto possibile, seguendo l'esempio degli ufficiali di Stato Maggiore. Quel giorno camminammo per 42 Km., fra interminabili file di cadaveri che giacevano ai lati della strada; alla vista di tale spettacolo qualcuno pianse, ma le lacrime gelavano sul viso e morivano prima di nascere.
Arrivammo a Kaltamirowska, dove vi era il cuore dell'ARMIR, o almeno quel che ne era rimasto.
Mi avvicinai ad alcuni soldati che erano seduti per chiamarli affinchè si unissero a noi, ma, toccandoli, mi accorsi che erano deceduti, irrigiditi in quella posizione più comune ai vivi che non ai morti. La distesa dei cadaveri al suolo infittiva sempre più lungo la via. Centinaia di camion erano allineati su di uno spiazzo gelato, con gli autisti ai loro posti, sembravano attenderci per portarci lontano da quel gelo, da quella distesa di corpi scuri che esasperavano il contrasto col candore della neve. I camion erano inservibili e gli autisti morti al loro posto di guida. Ripartimmo verso occidente camminando nel più assoluto silenzio, i morsi della fame cominciavano ad assillarci. Si andava allora nelle isbe per elemosinare del cibo che sarebbe servito a consentirci ancora un po' di cammino su quella landa ghiacciata ed interminabile. In una di queste isbe ci fermammo il 22 dicembre, e vi restammo per 3 giorni. Ripreso il cammino ci pervenne l'ordine di ripiegare su Vassellaja Gora, ancora 40 km da fare a piedi, e da lì a Borocinograd. Lo sconforto rasentava ormai la completa passività: senza capi, senza ordini, senza il necessario per poter sopravvivere si andava avanti come disperati.
I partigiani sovietici ci aiutarono fornendoci pane e patate che avevano requisito dai copiosi depositi tedeschi ormai abbandonati; anche la popolazione civile divise con noi i loro pochi viveri. Il 27 dicembre raggiungemmo Voroslinograd, dove esisteva un comando tappa; fummo trasferiti con tradotte militari ad un centro di raccolta nelle vicinanze del confine. Gli ordini convulsi che ci pervenivano non erano nemmeno presi in considerazione dagli ufficiali.
In questo centro-raccolta scoppiò una terribile epidemia di tipo petecchiale, che fece strage tra i più deboli. Tutti fummo aggrediti da quei parassiti e cominciò la disinfestazione: rimanemmo così spersi e dimenticati sino alla fine del Maggio 1943.
La popolazione civile ci portava da mangiare mentre i viveri inviatici dall'Armir erano al confronto ben poca cosa. Nel bosco di conifere che circondava il paese vi era una radura di circa 100 metri di diametro, illuminata a giorno da fuochi: li avvenivano i lanci di viveri e materiale bellico per i partigiani sovietici, senza il minimo disturbo da parte dell'aviazione tedesca. Da qui partivano le slitte per il trasporto dei rifornimenti; in cambio di bombe a mano italiane, piccole e maneggevoli, i partigiani sovietici ci consegnavano viveri e vestiario, per noi indispensabili." (Pietro Carzaniga)
"Dopo un forte bombardamento cui fummo sottoposti per diversi giorni, ad una temperatura che oscillava dai -30° C ai -40° C, giunse l'ordine di abbandonare le posizioni e di ripiegare nelle retrovie. Durante la marcia mi aggregai agli alpini della Julia e rimanemmo bloccati nella "valle della morte", una sacca dove i carri armati sovietici ci prendevano d'infilata, con tiro incrociato, ed avanzavano incuranti passando sopra vivi e morti. Diverse volte i fascisti e i tedeschi imposero agli alpini di fermarsi e di opporre resistenza al nemico. Gli alpini organizzarono una prima linea di tiro e, poco più indietro, una seconda linea di copertura costituita da mortai; intanto fascisti e nazisti alzavano i tacchi lasciando il più in fretta possibile le linee di fuoco. Rimasi per alcuni giorni con gli alpini, finchè mi accorsi che diveniva troppo pericoloso restare con loro, più abituati a tenere un elevato passo di marcia a quella temperatura: decisi di sganciarmi da loro. Nel frattempo aerei sovietici lanciavano manifestini con un procalma di Stalin che esortava esplicitamente la popolazione e i partigiani russi a sostenere ed aiutare gli italiani che stavano ripiegando. Ripresi la marcia in compagnia di un commilitone siciliano; attraversammo alcuni villaggi e fummo ospitati dalla popolazione civile nelle isbe. Spesso le madri, alle quali ricordavamo i propri figli anch'essi al fronte, vedendo le nostre pietose condizioni fisiche ci aiutavano riattivando, con massaggi fatti con neve fresca, la circolazione nei nostri arti assiderati. Una notte incontrammo due partigiani russi, i quali, resisi conto che eravamo disarmati, ci fermarono e ci dissero di seguirli. Ci accompagnarono in un bosco, dove esistevano rifugi sotterramei.
Prima di entrare notammo una decina di tedeschi impiccati ai rami degli alberi; pensammo che ormai per noi fosse finita, invece ci accompagnarono nel sottosuolo.
Meravigliati scoprimmo lì sotto un intero paese con donne, bambini, vecchi e uomini abili, che vivevano in quel luogo come se fosse l'ambiente più naturale per la vita. Venimmo portati al cospetto del capo-villaggio, il quale ci mostrò un ritratto di Mussolini chiedendoci se fossimo fascisti; sostenemmo di essere soldati italiani e non fascisti. Visto il nostro disgusto nell'osservare un ritratto di Hitler ebbe la palese conferma di ciò che asserivamo di essere: semplici soldati in ritirata venuti a combattere un nemico lealmente e, sconfitti, cercavamo di rientrare nel nostro paese. Ci rifocillarono e ci fecero accompagnare, su di una slitta trainata da cavalli, in prossimità del Comando tappa italiano. Durante il percorso, a causa del freddo intenso, ci vennero date delle foglie secche con le quali coprirci. Presentatici al Comando riprendemmo la ritirata fino al confine polacco." (Giuseppe Ronco)
"Durante la ritirata, divenuta immediatamente un rotta, ci accompagnava sempre il buio poichè le ore di luce, in quella stagione e a quella latitudine, erano poche. Mentre ci ritiravamo su di un terreno collinoso, tenendo sempre presente la direzione da seguire, fummo presi di mira da un carro armato che riconoscemmo solo da vicino essere tedesco.
La neve sprofondava sotto i nostri piedi rendendo difficoltoso il proseguire, un colpo del mezzo corazzato scoppiò molto vicino: un soldato, che mi era di fianco, fu colpito a morte, io venni scaraventato in aria dallo spostamento. Quando fummo vicini al carro cominciammo a gridare di cessare il fuoco perché eravamo italiani; questo fece dietro-front, si diresse sulle truppe sovietiche, che presidiavano la cima delle colline, ed aprì il fuoco.
Giunti in un paesino vedemmo un gruppo di nazisti appartenenti al contingente volontario, riconoscibili per la tuta bianca e l'elmetto col teschio impresso, i quali ci imposero di fermarci ed opporre resistenza al nemico. In mezzo alla confusione generale, riuscii con altri a sottrarmi al pericolo e deviammo per una valletta laterale che ci occultava alla vista dei tedeschi Da qui vedemmo come la maggior parte degli italiani era stata fermata e veniva riarmata dai nazisti. Mentre avveniva il riarmo apparvero nel cielo degli aerei sovietici che iniziarono a mitragliare e bombardare il folto gruppo arrestatosi per il blocco tedesco. Terminata l'incursione una drammatica visione apparve ai nostri occhi: la maggior parte dei soldati giaceva morta o morente nella neve arrossata dal sangue, mentre nere nubi si levavano dagli automezzi tedeschi in fiamme. Ci allontanammo da lì e poco oltre notai un camion che aveva rallentato la sua corsa a causa dell'incursione. In cabina vi erano due tedeschi; senza farci notare tentammo di salire sul cassone coperto. Con sorpresa, mentre inutilmente tentavamo la salita, ci accorgemmo della presenza di tre prigionieri russi i quali ci tesero le mani aiutandoci ad issarci a bordo. Ci nascosero, coprendoci con sacchi di farina, alla vista dei militi tedeschi. Quando il camion giunse nei pressi di Kaltamirowska, rallentò la corsa e i sovietici ci fecero cenno di smontare. Di corsa attraversammo il paese dirigendoci verso la stazione ferroviaria.
Un ricognitore russo si abbassò e lanciò spezzoni incendiari sul nodo ferroviario: anche quel posto non era sicuro! Riprendemmo la marcia verso il lontano confine lasciandoci alle spalle il paese. La ritirata continuava in maniera disordinata, con amici si costituivano piccoli gruppi e si proseguiva, con la speranza che la direzione fosse esatta, nella neve e nel buio, passo dopo passo, in silenzio. Il freddo intenso ostacolava e rendeva quasi impossibili le normali azioni quotidiane: mangiare, dormire, camminare e anche urinare erano problemi. Intanto la marcia continuava. Un giorno notammo i binari di una linea ferroviaria li seguimmo come se fossero una strada maestra con la speranza di incontrare un convoglio.
Ed eccolo finalmente! Era un merci coi vagoni scoperti, sopra ai quali vi erano ammucchiati, certamente per riscaldarsi, uomini in divisa. Il treno procedeva lentamente, gettammo sopra gli zaini e a fatica ci issammo. Dopo diversi istanti necessari per riprendere fiato, ci accorgemmo che i passeggieri erano soldati bulgari ed ungheresi, chiedemmo la direzione del convoglio: ci venne risposto "Mosca". Scendemmo dal treno e ritornammo sui nostri passi: un'altra delusione! Dopo un giorno di cammino trovammo una colonna di camion italiani.
Un veicolo non riusciva a partire, era carico di viveri in scatola, e venne abbandonato. Avvicinatici vedemmo la popolazione di un piccolo villaggio poco distante si era radunata intorno al veicolo; tra questi vi erano delle persone anziane in uno stato di forte denutrizione. Per evitare una disparità di divisione del cibo, prendemmo l'iniziativa di distribuire ai civili, in modo equo, le vettovaglie. Questi, per riconoscenza ci fecero accompagnare con una slitta per circa 100 Km. ad una colonna italiana in ritirata. Ci aggregammo e con questa giungemmo a Gomel, città ucraina circondata da boschi, dove trovammo, finalmente, un centro di smistamento che, con camion, aveva la funzione di trasportare i militari in prossimità del confine polacco. Qui cercammo di organizzarci per trovare un rifugio e di riordinare la truppa per varcare il confine. Nelle foreste circostanti vi erano numerosi partigiani sovietici che, accanitamente, lottavano contro i tedeschi; in cambio di vitto e alloggio noi cedevamo le nostre armi ai partigiani e scambiavamo, con la popolazione civile, spesso razziata dai nazisti, la nostra razione alimentare.
Pronti per varcare il confine, giunse un gruppo di tedeschi che volevano costringerci a combattere i partigiani; i nostri superiori si opposero fermamente, adducendo le condizioni di sfinimento di ciò che rimaneva del corpo di spedizione italiano, che quindi doveva forzatamente rientrare in Patria al più presto. Passammo in Polonia nella primavera del 1943 e da qui, con una tradotta, giungemmo a Vipiteno per la quarantena e per dare notizie dei commilitoni che non erano ancora giunti al punto di raccolta, o lasciare le piastrine dei caduti". (Achille Baia)
"Nel settembre del 1942 fui mandato in Russia col contingente italiano e venni destinato ad un caposaldo sul Don, dove nel dicembre fu sferrato l'attacco sovietico con conseguente disfacimento del fronte. All'inizio si pensava di ripiegare nelle retrovie dove costituire un fronte di opposizione; ma quando arrivammo dove una volta esistevano i comandi divisionali, non trovammo più nessuno. La ritirata avvenne esclusivamente a piedi in quanto i tedeschi non ci consentivano di salire sui loro camion. Personalmente mi ritengo fortunato perché la strada da me seguita non portava alle sacche dove i soldati italiani venivano circondati da quelli sovietici e dove gli scontri a fuoco erano all'ordine del giorno ed estremamente cruenti. Raggiunsi dopo inenarrabili difficoltà il confine dove vi era il punto di raccolta di noi profughi. Dopo un periodo di quarantena fummo rimpatriati". (Angelo Rurali)
In Italia frattanto si intensificarono i contatti tra i politici dei partiti messi all'indice dalla dittatura. Pur rimanendo nella clandestinità si cominciava a coinvolgere l'opinione pubblica, portandola a conoscenza della grave situazione politica ed economica in cui il fascismo aveva e continuava a condurre la nazione.
Nel mese di luglio riprese ad essere diffuso l'organo clandestino del P.C.I. "l'Unità". In ottobre a Milano, con un convegno clandestino, si costituì la D.C.
A novembre si formò a Torino un primo Comitato Unitario Antifascista, dove i partiti democratici stabilirono unità di intenti contro il comune nemico: il fascismo!