LA RESISTENZA
ANNO 1943
"Giungemmo a Vipiteno agli inizi del 1943 e lì rimanemmo per il periodo di quarantena che durò 23 giorni. Le nostre condizioni erano pietose: denutriti, stanchi, congelati, col morale distrutto soprattutto per quanto avevamo visto durante la ritirata.
Per renderci presentabili fummo sottoposti a lavaggio, disinfestazione, ci vennero tagliati i capelli e la barba, portati i primi soccorsi, fornite nuove divise.
Quando tornammo a casa per una breve licenza, la nostra forma fisica quasi smentì tutte le voci che erano trapelate, nonostante la censura del regime, sullo stato di salute delle truppe dell'ARMIR e sui suoi trascorsi". (Pietro Carzaniga)
Per i primi sei mesi dell'anno continuarono ad affluire ai centri di raccolta per la quarantena i superstiti della campagna di Russia. Gli ordini dello Stato Maggiore erano:
evitare che il contatto con la popolazione diffondesse in quest'ultima lo spettro della disfatta che era palese nell'apatia che i reduci mostravano. Per secondo tenere isolata l'esperienza di questi sopravvissuti dal resto dell'esercito che ancora, per l'incalzante propaganda fascista, viveva con la falsa illusione di una sicura vittoria finale.
"Dopo il periodo di quarantena, senza nemmeno un giorno di licenza, fummo trasferiti ad Alessandria, nella Cittadella, di stanza presso il ricostituito 270 Rgt. di Fanteria; alcuni giorni più tardi ci ordinarono di prendere i nostri effetti e ci trasferirono in Toscana, dove vigeva, nella Caserma che occupammo, un assoluto riserbo sulla situazione politica e militare della nazione". (Achille Baia)
La disfatta delle truppe italiane in Grecia, in Africa ed in Russia portò a gravi ed insanabili divergenze all'interno dei vertici fascisti. Si delinearono tre posizioni ben definite: la linea filo nazista, capeggiata da Mussolini e sostenuta dagli elementi più oltranzisti come Farinacci, che insisteva nel rispetto dell'alleanza italo-germanica fino alla fine del conflitto indipendente dalle conseguenze che ne sarebbero derivate. La tesi sostenuta era di non tradire tale patto, come era precedentemente accaduto nel 15-18, "costi quel che costi". La seconda linea era sostenuta da Ciano, Attolico, e gli altri componenti del ministero degli Esteri che pur rendendosi conto della gravità oggettiva della situazione bellica, non si decidevano a prendere la decisione di rompere l'alleanza.
La terza, che raccoglieva il più ampio numero di adesioni all'interno del Direttorio, sostenuta da Grandi e dagli altri personaggi vicini alla Monarchia, aveva come scopo prioritario la cessazione del rapporto di cobelligeranza coi nazisti, sostenendo a loro favore l'attenuante che da parte tedesca si era sempre operato nei confronti dell'Italia come se quest'ultima fosse non un paese paritetico, ma sottomesso alla supremazia del popolo tedesco, e l'immediata cessazione del conflitto, con un armistizio separato con gli Alleati.
Questo clima di tensione ebbe i suoi effetti nella destituzione di Ciano da Ministro degli Esteri (carica che verrà assunta dallo stesso Mussolini) e con la nomina ad Ambasciatore presso la S. Sede.
Il 3 marzo, a Lione, Saragat (PSUP), Dozza e Amendola (PCI), Lussu e Trentin (Giustizia e Libertà) stipularono un patto di alleanza, in cui per la prima volta la prospettiva di lotta era rappresentata dalla "preparazione dell'insurrezione nazionale" e vennero previste "azioni armate di partigiani".
La situazione sociale all'interno della nazione aveva assunto caratteri catastrofici. La scarsità di cibo, le razioni alimentari ridotte per consentire il vettovagliamento ai combattenti, l'utilizzo di persone anziane e di donne per supplire la mano d'opera giovanile chiamata a combattere e la saturazione per una guerra di cui non si comprendevano i reali motivi e che, nonostante la censura, si sentiva come persa ed inutile, portarono i lavoratori ad entrare in sciopero il 5 marzo 1943.
Gli operai della Fiat-Mirafiori di Torino alle 10 entrarono in sciopero chiedendo migliori condizioni di vita e la fine della guerra. L'agitazione si estese a Milano ed in altri centri industriali del Nord.
"Fra l'incredulità e lo smarrimento dei fascisti ebbero luogo gli scioperi del Marzo '43, a dimostrare che i lavoratori ripudiavano il fascismo e la sua guerra. Anche a Vimercate gli operai del Linificio aderirono all'agitazione, con la totale partecipazione delle maestranze, nonostante minacce e lusinghe. Gli scioperi rappresentarono il primo scossone alla dittatura e ne preannunciavano la fine". (Ambrogio Scaccabarozzi)
(...) Vissi anch'io, al Linificio, le entusiasmanti ore del primo grande sciopero nazionale antifascista dell'8 marzo 1943. Tutto avvenne di sorpresa: la fermata fu totale, ed anche se nella testa di qualche operaio e operaia c'era un po' di confusione, erano tutti d'accordo sulla necessità di manifestare contro la guerra fascista e contro le penose condizioni di vita che questa aveva originato". (Angehca Villa)
Il 12 maggio si arresero, in Tunisia, l'Africa Korps e la I Armata italiana; con la resa, gli Alleati giunsero in prossimità dei nostri confini territoriali e, inevitabilmente, il 10 giugno iniziarono la "campagna d'Italia" sbarcando a Lampedusa, Linosa e Pantelleria. Il 10 luglio sbarcarono in Sicilia e, nonostante il ridicolo discorso di Mussolini "bisogna che non appena il nemico tenterà di sbarcare, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano il bagnasciuga", nel giro di un mese occuparono l'intera isola. Il clima di instabilità politica si ripercosse anche sulle amministrazioni locali; frequenti divenivano le dimissioni di Podestà o Commissari Prefettizi, incaricati di reggere le sorti amministrative in comuni dove la situazione era divenuta difficile, in quanto l'opinione pubblica, alla luce degli ultimi avvenimenti, stava mutando le proprie convinzioni.
IL PREFETTO DELLA PROVINCIA DI MILANO
lì Podestà di Vimercate, arch. Virginio Pogliani fu Carlo, è scaduto dalla carica per compiuto quadriennio il I marzo 1943 - XXI. Ritenuta l'urgenza di assicurare il funzionamento del comune sino a quando gli organi centrali non si addivenga alla nomina di un altro Podestà:
DECRETA
l'Avv. Mario Cazzani Lovati fu Luigi è nominato Commissario Prefettizio del Comune di Vimercate.
IL PREFETTO
F.to Uccelli
Milano, 8 maggio 1943 - XXI
IL PREFETTO DELLA PROVINCIA DI MILANO
Visto che il Commissario Prefettizio di Vimercate, Avv. Mario Cazzani Lovati, ha rassegnato le dimissioni dalla carica, ritenuta l'urgenza e la necessità di assicurare il funzionamento del Comune;
DECRETA
Il Rag. Bottazzi Luigi fu Francesco viene nominato Commissario Prefettizio del Comune di Vimercate.
Milano, 3 settembre 1943-XXI
IL PREFETTO
F.to D'Antoni
Il fascismo, sgretolandosi nelle sue infrastrutture, perdeva, nei confronti dell'opinione pubblica, quella facciata pseudo-populistica che, con la propaganda, aveva sempre sbandierato per acquistarsi i favori delle masse. Emerse così evidente la scelta di classe del regime, l'appoggio a chi aveva sempre sostenuto ad oltranza l'ideologia fascista:
la classe nobiliare e quella imprenditoriale. Soprattutto per la prima di esse Mussolini stesso ordinò che si attuassero le seguenti disposizioni.
REGIA PREFETTURA DI MILANO
Oggetto: Elenco permanente dei nobili caduti in guerra
Il DUCE, al quale è stato sottoposto l'elenco dei nobili caduti in guerra, completato in base alle segnalazioni pervenute dai comuni ha disposto che l'elenco medesimo sia tenuto accuratamente aggiornato.
Siete pertanto pregato di comunicare tempestivamente i nomi delle altre persone appartenenti alla nobiltà che eventualmente dovessero perire nell'attuale conflitto. Le partecipazioni da farsi con lettera espresso dovranno contenere le seguenti notizie:
Cognome, Nome, Paternità, Titolo nobiliare posseduto. Milano, 8 giugno 1943 - XXI
IL PREFETTO
F.to Uccelli
La divisione politica interna al vertice fascista, secondo le linee già espresse precedentemente, rese necessario un incontro del Gran Consiglio, organo che non si riuniva dal 7 settembre 1939. Durante la riunione Mussolini prese la parola ribadendo la sua intenzione a continuare nell'attuale stato di cose, sottolineando, con meno convinzione, come il Capo fosse ancora lui e come le sue decisioni dovessero solamente essere accettate dagli alti gerarchi. Grandi interruppe la sfuriata di Mussolini, prendendo con autorevolezza la parola, presentando il proprio ordine del giorno, che prevedeva di affidare al Re la direzione della guerra e di sollecitare il corretto funzionamento degli organi costituzionali.
L'esagitato Farinacci propose a sua volta un proprio ordine del giorno, nel quale sosteneva l'incondizionata fiducia nell'alleato nazista e ribadiva la necessità di affidare all'Alto Comando tedesco la direzione delle operazioni militari sul suolo nazionale. Si giunse così ad una votazione, tra il mutismo attonito del Duce, che ebbe il seguente risultato: 19 favorevoli alla mozione Grandi, 8 contrari e 1 astenuto.
Questo fatto decretò, praticamente, la caduta di Mussolini.
Il 25 luglio il Duce si recò da Vittorio Emanuele III per comunicargli l'esito della riunione del Gran Consiglio. "Dimissionato", venne subito arrestato, per evitare da un lato "che possa mettersi i contatto con elementi estremisti del partito e provocare disordini, e dall'altro che antifascisti scalmanati attentino alla sua persona
Fatto salire su di un'ambulanza, venne condotto nella sede del Comando dei RR. CC. di Roma, e concluse la serie dei trasferimenti all'isola di Ponza. Successivamente fu tradotto alla Maddalena ed infine a Campo Imperatore sul Gran Sasso.
Il governo fu affidato al Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, mentre in tutta la nazione esplosero manifestazioni popolari antifasciste di giubilo e per la pace.
"Mi trovavo di stanza a Roma presso il tribunale militare quando, il 25 luglio, in Piazza Cairoli vidi gettare, dalle finestre della sede della Federazione Fascista, materiale di cancelleria e macchine da scrivere; il popolo festante abbattè le effigi di Mussolini e i fasci littori che ornavano le colonne del palazzo". (Augusto Galbusera)
"(...) la mattina del 25 luglio sentita per radio la notizia della caduta di Mussolini, le piazze si riempirono immediatamente di folla esultante, a dimostrazione di come il fascismo fosse divenuto movimento anti-popolare e contrario all'opinione pubblica. Anche noi lavoratori della filatura ci organizzammo ed in corteo uscimmo dalla fabbrica per manifestare la nostra gioia". (Armando Giambelli)
"(...) saputo per radio dell'arresto del Duce, mi riunii con altri antifascisti presso la sede del Fascio di Bellusco, dove requisimmo tutti gli incartamenti e i simboli del regime che vennero bruciati sulla pubblica piazza". (Ambrogio Brambilla)
La gioia manifestata dal popolo italiano ebbe però breve durata. Badoglio comunicò perentoriamente "la guerra continua", nel tentativo di tranquillizzare "l'alleato tedesco", lasciando contemporaneamente esterefatti gli italiani che non riuscivano a capire chi fosse il nemico da combattere. Il 26 luglio, a Milano, si riunì il Comitato delle opposizioni, che approvò un manifesto agli italiani, dove si chiedeva la liquidazione del Fascismo, l'armistizio, il ripristino di tutte le libertà civili e politiche, l'abolizione delle leggi razziali, la costituzione di un governo rappresentativo di tutti i partiti antifascisti.
Badoglio costituì un governo di tecnici e le prime decisioni prese furono:
scioglimento del P.N.F., del Tribunale Speciale, della Camera dei Fasci e delle Corporazioni; impedita la ricostruzione dei partiti politici, la libertà di stampa e ogni manifestazione di piazza. A tal proposito fu emanato un proclama del Gen. Roatta, con disposizioni precise di sparare a vista sui manifestanti. Quest'ultimo provvedimento costò alla popolazione italiana, in episodi di repressione in varie città, 93 morti e 536 feriti.
Vennero date disposizioni per l'arresto dei gerarchi fascisti, la maggior parte dei quali avevano già trovato rifugio, chi in Germania, chi in Portogallo. Durante il tentativo di arresto di Ettore Muti, già Segretario del P.N.F., scaturì uno scontro a fuoco nel quale il gerarca perse la vita. I fascisti ottennero in tal modo il privilegio di portare di fronte all'opinione pubblica il loro martire, al quale vennero in seguito intitolate le più feroci e sanguinarie squadre di repressione.
Sotto la spinta dei partiti democratici il governo Bodoglio iniziò le trattative con gli Alleati per giungere ad una pace separata. Mentre da un lato il 2 agosto vennero presi i contatti suddetti, dall'altra, il 7 agosto, Badoglio incontrava a Tarvisio l'alleato germanico ribadendogli la volontà di continuare le azioni belliche al suo fianco.
Dal 7 al 20 agosto pesanti bombardamenti colpirono le città del Nord: gli Alleati iniziarono così la tattica del bombardamento a tappeto sui centri produttivi della nazione. Frattanto i nazisti, non rassicurati dalle promesse di Badoglio, fecero affluire in Italia ben 15 Divisioni, di cui 6 corazzate. Con lo sbarco degli Alleati a Salerno Badoglio, "rifugiatosi" a Brindisi con la famiglia reale, rese note agli Italiani le clausole dell'armistizio e la nuova alleaza con gli Anglo-americani: era l'8 settembre 1943.
L'esercito, privo di qualsiasi direttiva, venne sopraffatto dai nazisti i quali, in breve tempo, presero possesso dei punti nevralgici dei centri urbani di maggior interesse. I soldati tentarono il ritorno a casa dalle caserme di stanza cercando di eludere la sorveglianza tedesca che in tutti i modi si opponeva a tale esodo.
"Ero capo-stazione di una fotoelettrica antiaerea situata sulle colline alle spalle di Genova, in località Puin, non lontano dal Forte di Due Fratelli, appena sopra il grande cimitero di Staglieno.
Eravamo in sei, isolati non solo da Genova, ma anche dagli altri paesini limitrofi; tuttavia ricevevamo puntualmente ordini dal Comando di Settore e dalle altre stazioni di fotoelettriche a noi collegate. Sembrava un giorno normale. La sola disposizione ricevuta, che aveva creato qualche perplessità, era stata quella di scavare una trincea in direzione della Foce. Dopo qualche attimo di riflessione sull'insolito ordine, incominciammo a scavare senza troppa convinzione. Gli scavi della trincea erano cominciati e, dovendo allinearla nella direzione prestabilita, presi il binocolo per verificare la situazione.
Durante la rapida ricognizione notai qualcosa di sospetto: un gruppo di militari italiani erano intenti a picchettare la zona della Foce. Ancora più sorpreso notai che altri gruppi di militari stavano stendendo reticolati sotto l'ordine di soldati tedeschi armati. Feci osservare la scena anche ai miei cinque compagni e rimanemmo sempre più sbigottiti per quello che stava succedendo. Per dissipare i dubbi che stavano nascendo, chiamai il Comando di stanza a Righi senza ottenere risposta. Mandai a chiedere informazioni presso la batteria antiaerea più vicina: ci fecero sapere di rimanere al nostro posto in attesi di ulteriori ordini. Verso mezzogiono bussarono alla porta delle nostra baracca due ufficiali di fanteria chiedendoci ospitalità. Essi ci spiegarono il motivo della loro presenza: erano dovuti fuggire dalla loro postazione perchè attaccati di sorpresa da una pattuglia tedesca; inoltre le caserme di Genova-Bolzaneto erano state prese con attacchi improvvisi da parte dei tedeschi. A conferma di ciò che si era supposto arrivavano a piccoli gruppi i primi soldati fuggiti dalle caserme; i loro visi esprimevano il dramma di un esercito in fuga, preso dal panico e dall'angoscia. Per quei soldati, senza ordini nè guida, abbandonati a loro stessi, rimaneva solo la rotta e il grande desiderio di poter ritornare alle proprie case. Inoltre si mormorava che lo stesso Generale Comandante la piazza di Genova fosse caduto nelle mani dei nazisti alle 4 del mattino. Militarmente Genova e dintorni era presidiata da circa 10.000 soldati italiani, oltre che dalla Marina, la quale disponeva dell'incrociatore "Garibaldi" e di altre navi di scorta. Per contro gli ex-alleati tedeschi non raggiungevano probabilmente il migliaio di unità. Essendo così evidente il divario numerico, non riuscimmo a spiegarci il perchè della fuga dei nostri commilitoni; anzi, essendo il rapporto di forze così grande, ci si sarebbe aspettato l'esatto contrario. L'incertezza di ogni soldato pareva riflettere quella degli ufficiali, spesso in disaccordo sulle decisioni da prendere; proprio tale incertezza fu una delle componenti principali di tale dramma. Rimane il rammarico di non aver potuto opporre alcuna resistenza ai tedeschi.
Dopo la presa di Genova da parte tedesca, anche il nostro gruppo, inevitabilmente, abbandonò la postazione; verso le due del pomeriggio lasciammo il Puin vestiti con la tuta blu da lavoro e la borsa dei ferri. Dopo aver disinnescato le parti attive del gruppo elettrogeno e manomesso i moschetti, organizzammo la melanconica ritirata. La nostra fuga aveva un significato di ribellione verso l'esercito, che ci aveva lasciato senza ordini, e verso gli ex-alleati tedeschi, ora divenuti oppressori. Scendemmo giù per i sentieri senza incontrare anima viva, attraversammo il ponte sullo Scrivia e, mentre ci avviavamo verso Busalla, ci venne intimato l'alt! da una pattuglia tedesca. Ci fu un attimo di angoscia; dopo una breve riflessione dissi che eravamo una squadra di operai dell'Ansaldo chiamati per un servizio. I tedeschi non sospettarono nulla e ci fecero passare. Lo scampato pericolo ci rianimò, rinsaldandoci le gambe consentendoci di proseguire verso la destinazione prefissata. Giungemmo a Busalla all'imbrunire e decidemmo di dividerci in tre gruppi di due persone ciascuno. Con me rimase un commilitone meridionale che voleva raggiungere Milano.
Alla stazione una compagnia di Alpini armata di tutto punto stava salendo sul treno in partenza per Milano: era il nostro treno. Qualcosa nel profondo ci consigliava alla prudenza. Infatti, poco dopo, sopraggiunsero dei militi tedeschi che bloccarono la stazione, arrestando chiunque trovassero in procinto di partire. Nella penombra riuscimmo a sottrarci ai tedeschi rifugiandoci nei servizi della stazione. Un ferroviere, che aveva intuito la nostra situazione, senza dire una parola ci mise tra le mani una lanterna e ci fece cenno di nasconderci nei vagoni fermi. Era notte fatta quando il nostro occasionale benefattore ritornò, si fece restituire le lanterne e ci informò che tutta la città era ormai in mano ai nazisti; noi eravamo al sicuro perchè il treno, sul quale ci eravamo nascosti sarebbe, da lì a poco, partito per Mortara. Scendemmo ad Abbiate- grasso e, con gli ultimi soldi rimasti, prendemmo il tram sino a Milano. Qui ci separammo augurandoci "buona fortuna". Arrivai a casa che era notte fonda e, il giorno seguente, andai in cerca dei miei amici per vedere se la sorte fosse stata clemente anche con loro". (Carlo Levati)
I destini dei militari allo sbando furono molteplici: ci fu chi, vedendosi precluso il ritorno a casa, decise di resistere immediatamente ai nazisti; chi, durante il ritorno, fu catturato ed internato nei campi di concentramento e di lavoro; e chi, raggiunta la propria abitazione, si dette alla macchia. Fra questi ultimi alcuni, in seguito, aderirono alle chiamate della R.S.I. per evitare ripercussioni sui famigliari, altri costituirono le bande di "ribelli" con lo scopo di combattere i nazi-fascisti.
La fase di resistenza immediata avvenne soprattutto nelle zone fuori dai confini nazionali ancora presidiate dalle nostre truppe. A Cefalonia la Divisione Aqui resistette per 7 giorni allo sbarco tedesco; 4.000 soldati caddero in combattimento, altri 4.500 vennero fucilati dai tedeschi dopo la conquista dell'isola. A Rodi la guarnigione italiana resistette sino al 16 novembre alle preponderanti forze naziste: dei 12.000 soldati costituenti il presidio, solo 1.500 sopravvissero al massacro.
"Cominciò con un colpo di mitraglia, sparavamo contro aerei da bombardamento tedeschi, dopo la caduta di Mussolini, che stavano distruggendo la piccola cittadella del l'isola di Samos.
Fu un colpo solo che partì, ma segnò il prossimo futuro per tutti noi. L'esercito si sfasciava e gli ufficiali, superiori e non, tentavano di mettersi in salvo nella vicina Turchia: questo dopo aver dato ordini di rendere inservibili le armi e di gettare gli otturatori delle mitraglie. La sorte dei soldati non era più di loro competenza; fecero un fascio (questa è la parola) del militarismo, dell'onore, del giuramento, del buonsenso e lo gettarono alle ortiche. Quel colpo di mitraglia isolato segnò la mia decisione di combattere contro il fascismo e il nazismo, per la Libertà vera di tutta l'Umanità. Dopo Lero, caduta da poche ore, i tedeschi sbarcarono sull'isola di Samos e, con pochi uomini, fecero prigionieri forze che, se armate, ne avrebbero fatto un sol boccone. Fummo catturati e portati a Vati (capoluogo dell'isola) ed internati in una fabbrica di tabacco: qui cominciò il duro trattamento tedesco. Passarono giorni senza rancio e personalmente assaggiai gli scarponi di imberbi giovincelli tedeschi, nazisti dell'ultima leva.
Così ebbe inizio la prigionia volontaria di migliaia di italiani che rifiutarono, consapevolmente o inconsciamente, di combattere ancora a fianco delle truppe naziste. Avvenne poi l'imbarco su di una nave già carica di migliaia di marinai, catturati a Lero, che riempivano la stiva (i 1.500 supersiti dell'isola di Rodi). Attraccammo al Pireo e, con una lunga marcia, raggiungemmo Atene dove venimmo alloggiati in un campo, circondato da filo spinato situato sull'Acropoli. Qui trovai molti marinai e fanti vimercatesi; ci colse una grande commozione per il fatto di ritrovarci dopo tanto tempo in tale circostanza.
Da Atene fummo trasferiti a Belgrado; il viaggio durò 8 giorni senza alcuna razione alimentare, senza acqua e con una temperatura glaciale. I lamenti dei feriti e degli ammalati erano il solo rumore umano di quella tradotta; i vagoni erano stati piombati e le piccole apperture erano occluse con filo spinato. L'aria diveniva sempre più pesante ed irrespirabile, il fetore cresceva, nessuno poteva dormire in quella penosa bolgia dantesca. Ad aggravare la già precaria situazione giunse la dissenteria. Finalmente giungemmo a Belgrado, dove fummo rinchiusi in uno dei numerosi lager esistenti; vi restammo per poco: i tedeschi avevano bisogno di mano d'opera, così 50 di noi accettarono di lavorare in una raffineria ai bordi del Danubio. Durante il lavoro cercavamo di fraternizzare coi civili e di imparare qualche parola di slavo. Feci amicizia con un serbo che più degli altri era loquace e capiva la nostra situazione. Lavoravamo molte ore al giorno, finchè una volta tanto quegli aerei, che ogni giorno vedevamo passare sopra di noi, bombardarono la raffineria, distruggendola completamente. Durante il bombardamento i tedeschi corsero nei rifugi e noi ne approfittammo per fuggire, favoriti dall'oscurità della notte. Mi allontanai con 5 compagni e, giunti in un punto più riparato, ci addormentammo nascosti dietro ad una siepe. Ad un certo punto sentii qualcosa di freddo toccarmi il mento, con la mano cercai di allontanare l'oggetto che mi recava disturbo: la mia mano avverti la presenza di una pistola puntatami contro. L'uomo mi fece cenno di non fiatare; mi fece alzare e ci allontanammo di qualche passo.
Solo quando mi chiamò per nome riconobbi in lui il mio amico serbo, mi disse di essere un partigiano e mi chiese se volessi aggregarmi alla sua formazione. Avrei cantato di gioia, vedevo la libertà a portata di mano, ma non fu così. Mirko, così si chiamava, mi fece capire che dovevo rimanere ancora per organizzare una massiccia fuga di prigionieri; mi indicò anche il paese in cui avrei trovato le formazioni di partigiani. Vinta la mia iniziale perplessità, ci salutammo con il tipico saluto partigiano: "Smort fascismu! Sloboda narodna!" ("Morte al fascismo! Libertà al popolo!").
All'alba i tedeschi rastrellarono la zona del bombardamento e ci riportarono in città in una nuova baracca vicino alla stazione. Nei giorni successivi scelsi tra i prigionieri coloro i quali mi davano maggior fiducia: un errore di valutazione voleva dire la fucilazione. Pochi giorni dopo ci fecero spianare le baracche; da ciò dedussi che era giunto il momento della nostra partenza. Dovevo accelerare i tempi del progetto di fuga. Ci venne ordinato di portare i pezzi prefabbricati delle baracche in prossimità della stazione. Si lavorava a gruppi di quattro persone; riuscii a far partire contemporaneamente diversi gruppi, uno dei quali, di volta in volta, scavalcava il muretto di cinta della stazione e si dileguava nel bosco circostante. Io fui uno degli ultimi a fuggire, perchè fino in fondo tentai di persuadere Mario, mio compagno di prigionia divenuto quasi un fratello, a seguirmi. Non accettò, nonostanté le decise insistenze, la mia proposta e rimase; mi augurò "buona fortuna!" e si volse per nascondere le lacrime. Mi avvicinai e lo abbracciai, ci promettemmo di salutare i rispettivi famigliari se avessimo avuto la fortuna di rivederli.
Mario non rivide più i suoi cari.
Prima ancora di arrivare al vagone ferroviario, accortici della scarsa sorveglianza, lasciammo cadere il pezzo che stavamo trasportando e ci demmo alla fuga prendendo la strada della montagna. La paura di essere inseguiti e ripresi faceva sì che continuamente ci incitavamo a vicenda per affrettare il passo. Oltrepassammo la cresta con le ultime luci del giorno; più sotto si intravedeva un pianoro con una casa situata al limitare dello stesso.
Ci dirigemmo verso di essa, si sentivano colpi ritmati: un uomo stava zappando.
Dissi agli altri di stare nascosti e mi avvicinai con cautela finchè l'uomo percepì la mia presenza e, sorpreso, mi osservò interrogativamente. "Pu me partizan?" (Dove sono i Partigiani?) Rispose: "Ti ise?" (Chi sei?) "Gefanghen!" (Prigioniero!). A quel punto la sua diffidenza scomparve, con un sorriso mi disse che lui stesso era un partigiano e che mi avrebbe accompagnato a Ubb, dove avrei incontrato Mirko con le bande partigiane. Chiamai gli altri, venimmo ospitati nella case dove fummo rifocillati e il mattino seguente partimmo per Ubb. Venimmo presentati al capo della formazione; con stupore notai che tra di essi vi erano donne armate di tutto punto e che numerosi civili, venuti dalla città, si erano uniti per combattere per la propria libertà e per la propria dignità di uomini liberi". (Enrico Barazzetta)
Molti militari che avevano preso la via di casa vennero bloccati ed arrestati dai nazisti per essere deportati in Germania. Alcuni di essi furono internati in campi di lavoro, altri, ufficiali e politici, in campi di sterminio; il numero complessivo dei deportati fu di 600.000 unità.
"Dopo il 25 luglio, dopo lo sbarco alleato a Salerno, la mia Divisione, la "Lupi di Toscana" con la "Legnano" venne inviata nei pressi di Roma. Nella capitale erano confluite numerose truppe italiane: la Divisione corazzata "Centauro' 'e la "Pasubio".
L'8 settembre i soldati, rimasti assolutamente senza ordini nè comandi, si dispersero e tentarono il ritorno a casa. Ci dirigemmo così verso il Nord a bordo di convogli ferroviari, ma alla stazione di Firenze venimmo bloccati dalle truppe naziste e portati allo stadio di calcio, adibito a centro di raccolta per i numerosi prigionieri italiani (circa 40.000).
Qui fummo trattenuti per 5 giorni, e, durante questo periodo ci fu un appello da parte di un ufficiale della Milizia affinchè ci arruolassimo nella stessa, in alternativa alla sicura deportazione in Germania nei campi di lavoro. Un solo "No!" esplose nei confronti della proposta. Fummo fatti salire su convogli ferroviari, in carri bestiame che vennero poi piombati, con destinazione Germania. Il viaggio durò 15 giorni, fra le più umilianti privazioni, senza cibo nè acqua, finchè giungemmo al confine con l'Olanda. Fummo fatti scendere e condotti, con una marcia forzata di 8 ore nella notte, fino al campo di lavoro di Solingen, in Renania, una delle zone maggiormente industrializzate della Germania.
Chi aveva una professione manuale, come nel mio caso che da civile facevo l'idraulico, venne portato a lavorare nella fabbrica di armi; gli altri furono utilizzati per scavare trincee e per le opere di mimetizzazione. Venivamo scortati sul posto di lavoro da militari nazisti, che erano preposti alla nostra stretta soveglianza; per dormire utilizzavamo una vecchia birreria ormai in disuso che veniva appellata "blocco italiano". Tutti, compresa la popolazione civile, ci trattavano come traditori e venivamo costantemente insultati, anche dai bambini, coi termini "traditori" e "Badoglio". L'alimentazione era insufficiente e povera, tanto che vidi calare notevolmente il mio peso sino a raggiungere i 43 kg". (Giovanni Colombo)
"Nel 1942, pur essendo esonerato dal servizio militare come orfano di guerra, fui chiamato alle armi e destinato alla Caserma S. Ambrogio di Milano, dove mi presentai con 20 giorni di ritardo. Essendo considerato un sovversivo venni inviato in Russia sebbene la guerra, per noi, stesse già per finire. Arrivato in Cecoslovacchia il treno sul quale mi trovavo si fermò su di un binario morto nei pressi di una stazione, visto che ormai tutto l'apparato bellico era allo sfascio. Nel marzo del '43 fui denunciato all'Autorità militare per atti di antimilitarismo; fui condannato dal tribunale militare a 4 anni e 8 mesi di carcere, pena da scontare presso il carcere di Peschiera, dove venni immediatamente rinchiuso.
Il 3 settembre il carcere fu preso in consegna dalle SS.; l'8 settembre, radunati i 2.000 prigionieri, ci misero su carri bestiame, piombati, e ci spedirono al campo di stermino di Dachau. Arrivammo stremati, ci ordinarono di lasciare i vestiti e i nostri averi. Venimmo lavati e disinfestati, ci consegnarono un vestito a righe sul quale era stampato il nostro numero di matricola, con il quale venivamo chiamati. Nel campo eravamo in 280.000, alloggiati in baracche divise in blocchi a seconda della nazionalità dei reclusi. Vi erano blocchi destinati appositamente alla "soluzione finale", cioè all'eliminazione dei prigionieri. I cadaveri, prima di essere messi nel forno crematorio (ve ne erano 10 serviti da 5 nastri trasportatori) venivano fatti a pezzi, spezzando loro le ossa e i tendini.
Le ceneri erano utilizzate per concimare i campi di patate. Nel campo vi era un blocco riservato agli Ebrei trasferiti da Auschwitz, con viaggio durato 40 giorni su carri piombati senza viveri nè acqua. I sopravvissuti al viaggio raccontarono che per rimanere in vita dovettero cibarsi dei cadaveri dei loro compagni. Tutti questi Ebrei, circa 80.000, vennero trucidati dalle SS. pochi giorni prima dell'arrivo delle truppe americane, il 1° maggio 1945. Nel campo vi erano rinchiusi diversi ragazzi e bambini ai quali le SS prelevavano sangue per i feriti al fronte, spesso uccidendo per dissanguamento i forzati donatori. Le razioni alimentari di noi prigionieri erano scarsissime: solo una fetta di pane nero, un po' di margarina e, talvolta, una patata. Continuamente eravamo sottoposti ad una pesatura e a chi non dimagriva sufficientemente veniva tolta la già misera quantità di margarina. Sono sempre stato di costituzione robusta e, sottoposto alla pesatura risultavo sempre costante. Mi venne tolta la margarina e con essa la possibilità di avere grassi e vitamine necessarie per sopravvivere. Sarebbe stata la mia morte sicura se, alcuni russi, alloggiati nella baracca vicina alla nostra, non mi avessero donato ciascuno una piccola parte della loro margarina, che sommata insieme, riusciva a coprire la mia fetta di pane. Per poter aver qualcosa in più da mangiare ci si doveva arrangiare con qualsiasi mezzo, e chi veniva sorpreso a fare qualunque cosa di non conforme al regolamento del campo veniva percosso con 50 frustate o con bastonature alla pianta dei piedi. I capelli ci vennero tagliati in modo che restasse una linea di cute scoperta che andava dalla nuca alla fronte, chiamata dai nazisti la "via Mosca- Berlino". Nel campo di sterminio non vi era solo l'annientamento fisico, ma si puntava sull'annullamento della personalità, per cui la morte non era che la logica conseguenza della fredda programmazione nazista. I più deboli, non solo fisicamente, cedevano di fatto a tale forzato condizionamento e giungevano, inevitabilmente, a togliere l'incombenza ai carnefici, suicidandosi. Nei più nasceva invece decisa la volontà di "vivere", non per puro spirito di sopravvivenza, ma per ostentare palesemente agli aguzzini la resistenza ai loro metodi. A nulla valeva l'intensificarsi delle punizioni corporali, la riduzione della già insufficiente razione alimentare, l'isolamento, il bombardamento ideologico: tutto ciò non piegava la nostra voglia di vivere grippando il "perfetto" meccanismo nazista. Vivere per noi significava avere ancora la possibilità di pensare, parlare, discutere dei nostri problemi personali e essere informati.
A questo proposito vi era nel campo un vecchio prigioniero russo, che parlava 5 lingue, il quale ci trasmetteva le notizie apprese dai nuovi internati o recepite direttamente dai nostri guardiani nazisti. La vita nel lager era impossibile; per poter avere razioni sufficienti e un minor controllo diretto si doveva uscire dal campo con un "kommando" di lavoro. Riuscii a far parte di uno di questi gruppi addetto alla costruzione di una rete ferroviaria, posta in una pineta per essere ben mimetizzata, spalando e rompendo carbone, materia prima dell'industria tedesca. Il lavoro era massacrante, per contro le razioni alimentari erano leggermente più consistenti di quelle distribuite nel lager. Un giorno, mentre ero intento al lavoro, vidi un gruppo di prigionieri intenti a scavare una fossa comune di enormi dimensioni destinata agli Ebrei del campo".
(Ambrogio Vergani)
Il 12 settembre un commando di paracadutisti tedeschi liberò a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, Mussolini, trasportandolo poi in aereo a Vienna. Il Duce raggiunse in seguito la Germania: qui ebbe da Hitler le disposizioni necessarie, alle quali si doveva strettamente attenere, per costruire la Repubblica Sociale Italiana. Sede del nuovo governo furono alcune località situate sulla riva occidentale del Lago di Garda fra le quali Salò, che diede il nome comunemente usato per indicare tale istituzione. Mussolini, circondato dai suoi più fedeli gerarchi (tra cui Buffarini Guidi, ministro degli Interni, Pavolini, Farinacci e l'allora giovane Giorgio Almirante, sottosegretario al Ministero della Cultura Popolare con sede a Salò), decise il reclutamento di un nuovo esercito personale e, a tale scopo, emise bandi di arruolamento. Coloro che non si fossero presentati alla chiamata del Duce sarebbero stati considerati traditori e, secondo il vigente codice, passati per le armi. L'intimidazione fu estesa anche agli stretti famigliari delle persone interessate al bando.
IL DUCE HA PARLATO AL POPOLO ITALIANO
Camicie Nere, Italiani e Italiane!
Dopo un lungo silenzio, ecco che nuovamente vi giunge la mia voce.
Sono sicuro che voi la riconoscerete. E la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili, che ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria.
Ho tardato qualche giorno prima di indirizzarmi a voi dopo un periodo di isolamento morale.
Era necessario che riprendessi i contatti col mondo. La radio non ammette i lunghi discorsi e non ricordo, per ora, i precedenti. Vengo al pomeriggio del 25 luglio, nel quale accadde la più grande avventura della mia già tanto avventurosa vita.
Il colloquio col Re
Il colloquio col Re a Villa Savoia durò 20 minuti e forse meno. Trovai un uomo col quale ogni ragione era impossibile, poichè egli aveva già preso le sue decisioni e lo scoppio della crisi era imminente. E già avvenuto in pace e in guerra che un Ministro sia dimissionato e un comandante silurato; ma è un fatto unico nella storia che un uomo, il quale, come colui che vi parla, aveva per 21 anni servito il Re con assoluta devozione, sia fatto arrestare sulla soglia della casa privata del Re, costretto a salire su un autombulanza della Croce Rossa - col pretesto di sottrarlo ad un complotto - e condotto, ad una velocità pazza, prima in una, poi in un'altra caserma dei carabinieri. Ebbi subito l'impressione che la protezione era tutta una commedia, tale impressione crebbe quando fui condotto a Ponza e successivamente alla Maddalena e sul Gran Sasso d'Italia. Il piano progettato era la consegna della mia persona al nemico. Avevo però la netta sensazione, pur essendo completamente isolato dal mondo, che il Fùhrer si preoccupava della mia sorte. Goering mi mandò un telegramma, più che cameratesco, fraterno. Più tardi il Fùhrer mi fece pervenire un'edizione veramente monumentale delle opere di Nietzsche.
Fedeltà Germanica
La parola fedeltà ha un significato profondo, inconfondibile, vorrei dire eterno, nell'anima tedesca: è la parola che nel collettivo e nell'individuale riassume il mondo spirituale germanico. Ero convinto che ne avrei avuto la prova. Conosciute le condizioni dell'armistizio non ebbi più il minimo dubbio circa quanto si nascondeva nell'art. 12 - Del resto, un alto funzionario mi aveva detto: "Voi siete un ostaggio".
Nella notte dall'11 al 12 settembre feci sapere che i nemici non mi avrebbero avuto vivo nelle loro mani. C'era nell'aria limpida, attorno all'imponente cima del monte, una specie di aspettazione. Erano le 14 quando vidi atterrare il primo aliante. Poi, successivamente, gli altri; e quindi pochi uomini decisi a spezzare qualsiasi resistenza si avvicinarono al rifugio. Mi aspettavo una grande resistenza. Le guardie che mi sorvegliavano si arresero e non un colpo partì. Tutto era durato 5 minuti.
La colpa della Dinastia
Questa impresa rivelatrice dell'organizzazione dello spirito d'iniziativa e della decisione germanica rimarrà memorabile nella storia della guerra: col tempo diventerà leggendaria.
Qui finisce il capitolo, che potrebbe essere chiamato il mio dramma personale; ma esso è un ben trascurabile episodio di fronte alla spaventosa tragedia in cui il Governo monarchico costituzionale ha gettato l'intera Nazione.
E apparso proprio impossibile all'incredibile ottimismo di molti italiani, anche fascisti, che il Governo del 25 luglio avesse programmi così catastrofici di fronte al Partito, al Regime e alla Nazione stessa.
Ma, dopo i primi giorni, le prime misure indicarono che era in atto un programma, una opera intesa a distruggere un ventennio di storia gloriosa che aveva dato alla Patria un Impero e un posto che non aveva mai avuto nel mondo. Oggi, davanti alle rovine, davanti alla guerra che continua - noi spettatori nel nostro territorio - davanti alla vergogna, sarebbe superfluo cercare formule di compromesso e attenuanti per quanto riguarda le responsabilità e quindi continuare nell'equivoco. Noi viceversa, mentre rivendichiamo in pieno le nostre responsabilità, vogliamo precisare quelle degli altri, a cominciare dal Capo dello Stato; che pur essendo scoperto e non avendo abdicato, come la maggioranza degli italiani si attendeva, può e deve essere chiamato in causa. È la sua Dinastia, che durante tutto il periodo della guerra - pur avendola il Re dichiarata - è stata l'agente principale del disfattismo e della propaganda antitedesca. Il suo disinteresse di fronte alla guerra e le sue riserve mentali si prestavano alle speculazioni del nemico, mentre l'Erede - che pure aveva voluto assumere il comando delle Armate del Sud - non è mai comparso sui campi di battaglia. Sono ora più che mai convinto che Casa Savoia ha voluto, preparato e organizzato, anche nei minimi dettagli, complice ed esecutore Badoglio, il colpo di Stato, complici pure taluni generali imbelli ed imboscati, con invigliacchiti elementi del fascismo.
Non può sussistere alcun dubbio che il Re ha autorizzato - subito dopo la mia cattura
- trattative per l'armistizio, trattative che forse erano già in corso fra le dinastie di Roma e Londra.
"(...)L'8 settembre 1943 divenni renitente alle leva, e da quel giorno non mi presentai mai ai bandi fascisti. Ad Oreno solo 3 giovani cedettero alle minacce fasciste, forse più per non dispiacere alle famiglie che per propria convinzione. Uno di questi fu mandato in Germania, per essere addestrato alla lotta antipartigiana, ma li morì.
Un secondo riuscì a fuggire dalla caserma dove era stato assegnato, mentre il terzo fu arruolato nel G.N.R.". (Alfonso Rovelli)
"(...) partii col mio contingente per Torino, nel 1943, ero nel 30 Bersaglieri; il 25 luglio non ebbi modo di uscire dalla caserma per vedere la reazione popolare alla caduta di Mussolini in quanto ero recluta. In seguito fummo trasferiti a Pinerolo, dove ci colse impreparati l'8 settembre. Giunsero 2 camionette cariche di tedeschi, presero possesso della caserma e fecero prigionieri i militari di stanza. Con altri due compagni riuscii a nascondermi in uno stanzino situato al primo piano della caserma: nottetempo, fuggimmo rifugiandoci presso una famiglia contadina che ci ospitò, ci diede abiti civili e ci sfamò per 10 giorni. A piedi poi raggiunsi Arcore.
Col bando di arruolamento obbligatorio emesso dalla R.S.I. sapevo che non presentandomi sarei stato considerato dal regime "disertore e traditore", quindi passibile di pena di morte. Il pensiero di resistere e di rimanere in Italia prendeva sempre più corpo in me.
Mi presentai alla chiamata del regime e fui inviato a Piazzola sul Brenta, nei pressi di Padova; qui, di fronte alla prospettiva che si era paventata di essere trasferiti in Germania per "l'addestramento", decisi, con Vimercati Luigi, di disertare e di ritornare a casa. Molti contadini ci permisero di lavorare nei campi, per darci la possibilità di sfuggire ai rastrellamenti; ci davano da mangiare e un posto sicuro dove riposare. Nei pressi dell'autostrada vi era una trattoria dove solevano sostare i camion della ditta Domenichelli; un tenente degli alpini, che era al corrente della nostra situazione, prese accordi con un suo amico camionista presso quella ditta e ci fece nascondere sul cassone, nascosti tra il carico. Diverse volte l'automezzo si fermò ai posti di blocco organizzati dai tedeschi che, per fortuna, si limitarono a controllare sommariamente il carico". (Dante Teruzzi)
"(...) ai primi di settembre del 1943 mi giunse l'inevitabile chiamata alle armi; d'accordo coi miei coetanei decisi di non presentarmi al Distretto Militare. Un giorno di novembre un gruppo di fascisti venne a cercarmi a casa, ma io non ero presente, come pure mio padre. Allora essi sfogarono la loro rabbia su mia madre, arrestandola; venne trattenuta per un giorno nella prigione della caserma dei carabineiri. Per evitare ulteriori rescrudescienze verso i genitori, sempre in accordo con alcuni coetanei, decisi di presentarmi per l'arruolamento. Dopo una breve parentesi alla caserma di via Italia a Milano, fui trasferito a Vercelli. Di lì a poco, assieme a due coetanei vimercatesi, fuggii, raggiungendo Novara a piedi; camminavamo di notte nei campi per sfuggire alla sorveglianza ed ai rastrellamenti. In treno raggiunsi poi Vimercate, e mi rifugiai un po' a Rossino e un po' presso alcuni parenti a Cornate d'Adda. Fu in questo periodo di semiclandestinità (erano difatti numerose le mie poco prudenti apparizioni a Vimercate) che cominciai a comprendere come il fascismo fosse inviso all'intera popolazione. Come esempio di ciò posso citare il comportamento degli abitanti della cascina Rossino, i quali, oltre ad offrire rifugio a numerosi renitenti vimercatesi, ospitarono per più di un anno due prigionieri sudafricani, di cui uno gravemente malato e l'altro facilmente identificabile perchè di colore, entrambi fuggiti da un campo di prigionia".
(Ezio Riva)
Nei giorni seguenti all'8 settembre, a Vimercate ritornò una parte dei giovani chiamati alle armi. Essi ebbero modo di rincontrarsi dopo un lungo periodo di assenza forzata, di scambiarsi le esperienze vissute e di discutere sulla situazione che si era venuta a creare. Sui muri della città, come del resto in tutta Italia, venivano affissi i manifesti della "Kommandantur", dove si proclamava che tutti i soldati appartenenti al disciolto esercito italiano dovevano presentarsi nelle caserme o ai Comandi tedeschi.
Chi non si fosse presentato sarebbe stato considerato disertore e quindi condannato alla pena capitale.
"Presi contatto con Aldo Motta, amico d'infanzia, che era rientrato dalla Jugoslavia. Aldo era Caporal Maggiore e comandava una stazione radiotelegrafica in Croazia, dove l'esercito italiano combatteva contro i partigiani di Tito. Mi raccontò che in uno scontro a fuoco il suo gruppo era rimasto isolato e circondato dai partigiani; inoltre la radio era stata colpita da alcune scheggie di mortaio e resa inservibile. Malgrado la concitazione del momento riuscì a trovare la freddezza necessaria per ripararla, mettendosi così in collegamento col Comando: fu la salvezza sua e dei suoi compagni. Insieme cercammo di rintracciare altri amici che avevano anch'essi lasciato il fronte o la caserma. Un fascista vimercatese ci notò e ci apostrofò dicendo: "Traditori! Dovete tornare alle vostre caserme! Se non lo fate vi denuncio!". Ci rendemmo conto che la situazione a Vimercate era assai precaria e decidemmo di prendere la via della montagna.
La mattina successiva, il 10 settembre, Aldo, io e Ambrogio Magni, un nostro amico, partimmo per Imberido sulle alture del lecchese, presso un mio ex-commilitone soprannominato il "Castagna". Questi non riuscì a nascondere le difficoltà che doveva affrontare per il nostro mantenimento; chiese allora collaborazione ad una persona fidata, padre di 5 figli tutti in tenera età, di nome Tocchetti Angelo. Lavorammo nei campi per suo conto, in cambio dello stretto necessario per il nostro sostentamento. I tedeschi, dal canto loro, vedendo che i bandi di arruolamento non avevano dato l'esito voluto, malgrado la minaccia della pena di morte per i renitenti, palesarono l'intenzione di usare sistemi più drastici.
Per noi non vi era altra scelta: il darsi alla macchia era l'unica soluzione per sottrarsi agli oppressori, ma in quei momenti occorreva essere consapevoli dei rischi che si correvano e pienamente responsabili delle nostre azioni. Bisognava chiamare a raccolta tutti i nostri pensieri ed il nostro coraggio; dovevamo sapere che ci apprestavamo ad affrontare un'impari lotta con un nemico reso ancora più furioso dalle sconfitte e dal tradimento del suo ex-alleato. Le notizie che giungevano dal paese, portateci dalla sorella di Aldo, Ida, ci davano un quadro un po' confuso della situazione. Risultava, tuttavia, che molti soldati dell'ex-esercito avevano anch'essi scelto la via delle montagne. Durante questo primo periodo discutemmo approfonditamente della nostra posizione e del prossimo futuro. A vent'anni non si ha certo la maturità completa, ma vivendo come la gioventù d'allora sotto un regime che obbligava sin dall'infanzia a subire le sue ferree direttive, la crescita interiore risultava accelerata; si diveniva in sostanza adulti in guerra.
Ciò era la logica conseguenza della grave situazione in cui il fascismo stesso ci aveva immersi. I nostri vent'anni non mancavano di coraggio, una coscienza maturava in noi sebbene ancora confusa nella metodologia da applicare e nei fini da perseguire. La situazione che si presentava ci spingeva verso la totale ribellione contro gli uni, perchè invasori della nostra terra, contro gli altri perchè ostinati tenutari di idee e di iniziative che non potevano sortire effetto alcuno se non la disfatta morale, dal momento che quella economica e militare erano già state attuate da tempo. In quei giorni ci veniva alla mente quello che i nostri padri ci raccontavano nel silenzio delle nostre case: il modo col quale il fascismo era prepotentemente salito al potere, come le squadracce nere bruciarono le sedi sindacali e le cooperative socialiste e cattoliche, come veniva negata la lettura di alcuni libri.
Certo queste cose vennero subito alla mente quando si trattò di decidere per la ribellione alla dittatura fascista. Questa analisi fece nascere in noi sempre più certa la decisione dì combattere e lottare per far trionfare l'ideale di libertà, che il fascismo per vent'anni aveva forzatamente oscurato. Sostenuti da queste premesse decidemmo di aggregarci ad un gruppo di renitenti che il capitano Milani, ufficiale del 3° Bersaglieri, tentava di organizzare militarmente.
Dopo diversi contatti preliminari ci incontrammo col gruppo del capitano, composto da circa 20 uomini, e chiedemmo di essere inclusi nei ranghi. Fummo accettati. Ci venne comunicato che occorreva trovare una base operativa definitiva: si decise per l'eremo del Monte S. Genesio. Prima di partire, Milani tenne un discorso sugli obiettivi del gruppo e sul fatto che sarebbe stato fondamentale opporsi in ogni modo ai tedeschi. Disse che chi avesse deciso di seguirlo doveva "tagliare i ponti" coi civili, non dare alcuna notizia ai famigliari.
Avute le adesioni, propose un giuramento di fedeltà al gruppo e al silenzio della clandestinità. Partimmo col buio, dopo diverse ore di marcia ci fermammo presso una baita per trascorrervi, inosservati, la giornata. Altri gruppi si unirono a noi ingrossando le fila del nostro contingente. Dopo un'altra notte di cammino giungemmo all'eremo di S. Genesio, che adattammo a base operativa. Eravamo in tutto 90 persone che, volontariamente, avevano costituito un gruppo autonomo sull'esempio di quello più numeroso che nel frattempo si era formato sui Piani d'Erna. Il capitano predispose le norme che dovevano regolare la vita del contingente: turni di guardia, capi settore, servizio d'armeria, ecc. Per qualche settimana si continuò sulla falsa riga della vita militare; unica differenza era il fatto di poter discutere collegialmente sui programmi futuri del gruppo. Aldo, che aveva combattuto i partigiani di Tito ed appreso da questi la tattica della guerriglia, espose i canoni di tale modo di operare: vivere isolati in piccoli gruppi, dormire sotto i teli-tenda, essere sempre pronti a rispondere ad un improvviso attacco, predisporre ed attuare attacchi di sabotaggio alle linee principali di comunicazione e telegrafiche. Tali teorie vennero accettate ed impartite le necessarie disposizioni. Ogni due o tre giorni ci si ritrovava al Quartier Generale (l'eremo) per verificare l'andamento ed organizzare il vettovagliamento.
Quest'ultimo era uno dei problemi più impellenti risolto con l'aiuto di contadini locali i quali lasciavano i viveri in punti prestabiliti senza aver alcun contatto nè diretto nè visivo con gli appartenenti al gruppo. I giorni passavano e la situazione non accennava ad alcun mutamento. Decidemmo, con Aldo e Ambrogio, di sottoporre per l'ultima volta all'assemblea l'opportunità di agire interrompendo le linee elettriche e telegrafiche della zona di Lecco. Alla risposta dubitativa, chiedemmo di poter abbandonare il gruppo.
Ci fu accordato il permesso solo dopo aver giurato che nulla sarebbe trapelato sull'ubicazione e sulla consistenza della formazione. Scendemmo ad Imberido, al nostro vecchio rifugio, dove riprendemmo il lavoro nei campi per aiutare il nostro amico e, successivamente tornammo a Vimercate." (Carlo Levati)
"Ero responsabile del settore giovanile del P.C.l. fin dal 1938 e lavoravo insieme ad Amedeo Ferrari, fondatore della sede monzese del partito avvenuta nel 1921. Appena dopo l'8 settembre con mio fratello Aldo e Ferrari ci rifugiammo sulle montagne del lecchese con la prima formazione di ribelli che aveva scelto di contrapporsi ai nazifascisti.
Eravamo dislocati alla capanna Stoppani in località Pian dei Boi sul Pizzo d'Erna, quando il 17 ottobre fummo attaccati da ingenti forze tedesche. La battaglia infuriò per due giorni e l'esito finale fu lo sbandamento del gruppo di ribelli che furono costretti a ritirarsi sulle vicine montagne. A piedi raggiungemmo Cavenago Brianza, centro nevralgico del movimento antifascista della zona. Con Aldo fui inviato alla fortezza del Monte S. Martino, sopra Varese. Qui era stanziata una formazione di 200 uomini, per la maggior parte costituita da ex-militari, al comando del Colonnello Croce, ufficiale che si definiva "badogliano".
Noi ci rendemmo immediatamente conto dell'errore di quel concentramento troppo vistoso. Occorreva dislocare le truppe in piccoli gruppi in diverse località operando con frequenti e rapidi colpi di mano. Gli ufficiali, con la vecchia mentalità militare, esponevano ordini di servizio, chiamavano il rancio con la tromba, occupandosi maggiormente dell'aspetto estetico che non dell'operatività del gruppo. Vi era anche Don Mario Limonta, concorrezzese, che, oltre a svolgere l'attività di cappellano, fungeva da infermiere. Il C.L.N.A.I. (Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia) tentò di convincere il C.llo Croce a dislocare i suoi uomini su di una zona più vasta; a tale proposito venne invitato, dal Comando Generale, Gianni Citterio (appartenente al Comitato Centrale del P.C.I.). Croce insistette nell'adottare la linea d'attesa in quanto il Monte S. Martino, costellato di grotte e fortilizi risalenti al 15-18, era a suo avviso inespugnabile. Noi giovani premevamo affinchè si compissero delle azioni di guerriglia. Io, Aldo ed altri compagni, esasperati dalla inoperosità, decidemmo di attaccare la caserma della Guardia di Finanza di Luino, dove ci impossessamo di armi, carte topografiche e generi alimentari. Continuammo nel nostro piano di sabotaggio; mentre eravamo di guardia presso la provinciale di Luino, notammo un notevole movimento di camion, decidemmo di scendere per ispezionare da vicino il convoglio.
I camion che transitavano erano tedeschi; rapidamente stabilimmo di attaccare l'ultimo di essi lanciando le bombe a mano che avevamo in dotazione. Durante l'azione sette militari tedeschi rimasero uccisi e l'ottavo venne trasportato, ferito, al nostro accampamento. Eravamo convinti di avere compiuto un'eccellente azione militare. Ci misero in prigione!
Lo stesso colonnello Croce venne da noi dicendo: "Cosa avete fatto? Adesso i tedeschi verranno su" - "Meglio" risposi "siamo qui per questo!"
Infatti il giorno dopo 2.000 Alpenjùger circondarono il monte ed iniziarono l'ascesa; l'attacco fu appoggiato anche dall'aviazione, uno "Stuka" fu abbattuto da un nostro mitragliere. Dopo due giorni di duro combattimento la formazione dovette sciogliersi: era il 16 novembre. Una parte riparò in Svizzera, dove il colonnello Croce, ferito nello scontro, mori; altri, circa una trentina, vennero catturati e fucilati. Io, Aldo, Don Limonta ed altri 5 feriti tentammo di scendere, nottetempo, sulla provinciale per Luino, perchè i tedeschi e i fascisti attaccavano esclusivamente di giorno, temendo le imboscate notturne dei partigiani. Io ero ferito ad un polpaccio, lo stesso Don Limonta mi estrasse la scheggia, e, non potendo camminare, stavo sulle spalle di Aldo che, gravato dal mio peso, non riusciva a tenere il passo degli altri. Fu una fortuna, perchè gli altri 6 vennero catturati da una pattuglia tedesca ed in seguito fucilati: solo Don Limonta venne risparmiato.
Noi due riuscimmo a nasconderci per tempo e, dopo qualche tempo trascorso in silenziosa attesa, riprendemmo con circospezione il cammino. La strada saliva tortuosa; per abbreviare il percorso tagliavamo gli ampi tornati; all'improvviso un rumore, una voce, in milanese, "Domani marco visita!". Pensammo "Allora sono italiani, non tedeschi".
Erano militi della G.N.R., persone arruolate di forza coi bandi della repubblica. Decidemmo di uscire allo scoperto e spiegammo loro che eravamo boscaloli, rimasti casualmente coinvolti nello scontro a fuoco; penso avessero capito chi fossimo in realtà, ma ugualmente ci consigliarono di attraversare la strada di corsa e di dirigerci verso il fondo valle.
Raggiungemmo così l'abitazione di un valligiano, bussammo ed egli ci fece entrare. Raccontammo di essere stati sul S. Martino, e capì la nostra situazione; ci sfamò, ci diede i soldi necessari per prendere il trenino che portava, da Bosco Valtravaglia, a Saronno.
Durante il viaggio apprendemmo dai discorsi fatti dai pendolari che centinaia di tedeschi erano morti nella battaglia. Giunti a Saronno, entrammo in un bar per far trascorrere il tempo in attesa della corriera per Monza. Ordinammo il caffè, ma con stupore vedemmo il gestore giungere con due piatti di spaghetti fumanti. Esterefatti dicemmo di aver ordinato solo due caffè e non tutta quella roba che non potevamo permetterci di pagare. L'oste aveva capito che eravamo partigiani e, dal nostro stato, anche affamati. Ringraziammo e, dopo aver mangiato, venimmo accompagnati alla corriera. Alle 23 giungemmo a Monza, in una sera nella quale i gappisti avevano giustiziato una spia fascista; diversi fascisti armati controllavano le strade, ma riuscimmo ugualmente, con molta fortuna, a prendere la corriera diretta a Cavenago Brianza." (Emilio Diligenti)
Mentre nel Sud del Paese l'offensiva alleata incontrava grosse difficoltà per l'accanita difesa tedesca, nella parte occupata si assistette alla capillare invasione germanica anche nei centri di secondaria importanza.
ORTSKOMMANDANTUR - MONZA
(...) tutte le truppe tedesche che si trovano già in codesto comune o che vi dovranno arrivare, devono prendere visione dell'ordine che segue. Se soldati tedeschi devono trattenersi in questi posti devono essere subito denunciati al Presidio Germanico di Monza.
In qualunque occasione, le truppe tedesche devono esser indirizzate a questo Presidio. Buoni per alloggio o prelievi di merce in genere senza l'approvazione del Comando, sono proibiti. Qualora soldati tedeschi non si attenessero a queste misure, si deve far subito noto di ciò il Presidio Germanico.
In una settimana i comuni devono denunciare:
1°) il numero degli alloggi disponibili e l'indicazione delle misure in mq. (Scuole, sale ecc.);
2°) quanti alloggi privati potrebbero essere disponibili;
3°) quanti edifici militari italiani si trovano sul posto (caserme, magazzini, posti di esercitazione con abitazione);
4°) se ci sono altre scorte militari per quanto riguarda l'approvvigionamento, il vestiario, autoveicoli, ecc.
Indicazioni errate o taciute vengono punite in base alle leggi militari germaniche.
Si effettueranno visite di controllo sul posto.
Den. 20 Ottobre 1943
ORTSKOMMANDANT - Monza Gen. WEIHOLD
COMANDO PRESIDIO GERMANICO PRESSO CASA DEL BALILLA
MONZA
Con riferimento alla circolare del 20 ottobre corr. si comunicano i dati richiesti.
1°) in questo comune vi sono le Scuole del capoluogo con palestra e sala di refezione di circa mq 2.500, ma sono attualmente occupate dalle truppe Germaniche; le Scuole della frazione di Oreno di mq. 240 occupate da sfollati e le Scuole della frazione di Ruginello di altri mq. 240 pure occupate da famiglie di sfollati.
Il salone del Dopolavoro presso lo stabilimento Linificio e Canapificio Nazionale è stato anche adibito per alloggio sfollati.
Vi sono liberi due cinematografi di mq. 400 uno e mq. 500 l'altro;
2°) alloggi privati ancora disponibili: non esistono, perchè presso i privati sono alloggiati oltre 3.400 sfoliati;
3°) edifici militari italiani: esiste la sola caserma dei Carabinieri;
4°) per quanto riguarda l'approvvigionamento di scorte militari in vestiario, autoveicoli, ecc., nulla.
IL COMMISSARIO PREFETTIZIO
Luigi Bottazzi
Le truppe germaniche indicate nella lettera di risposta del Commissario Prefettizio era la 12a Comp. dei 7° Rgt. Brigata "Speer", alloggiata presso le Scuole Elementari, il Collegio "Tommaseo" e la villa del Cav. Elli Leone.
"(...) con l'arrivo dei tedeschi, dopo l'8 settembre 1943, cominciò anche per la mia famiglia un altro periodo di disagi. Noi abitavamo allora in una casa situata in prossimità delle Scuole Elementari; un distaccamento delle forze germaniche si affrettò ad occuparla e, quasi contemporaneamente, requisì pure a noi due locali, per collocarvi gli uffici del Kommandantur. Si può facilmente intuire quale fosse il nostro stato d'animo: ormai avevamo l'impressione di essere degli estranei in casa nostra, costretti a comportarci con molta circospezione per non suscitare la diffidenza dei tedeschi. Si aggiunga a questo il timore di possibili incursioni aeree alleate, in quanto il piazzale antistante le Scuole ed i cortili a queste annessi pullulavano di mezzi militari, facile bersaglio per gli aerei.
Questo stato di cose durò all'incirca fino alla primavera del '44, allorquando i tedeschi improvvisamente abbandonarono le Scuole e partirono per altra destinazione: tirammo un sospiro di sollievo che fu però di breve durata, poichè un cartello appeso poco dopo sul cancelletto d'ingresso della nostra proprietà ci avvertiva che i locali erano sempre requisiti ed a disposizione del Comando Germanico". (Angelo Girardello)
La chiamata della Repubblica Sociale alle armi rivolta ai giovani, nonostante le minacce e le intimidazioni, ebbe una risposta decisa.
AL COMANDO DEL PRESIDIO FORZE ARMATE GERMANICHE
Oggetto: Chiamate giovani nati negli anni 1924 - 1925
In relazione alla richiesta di codesto Comando in occasione delle riunioni del 20 c.m. comunico i dati relativi alla chiamata alle armi dei giovani nati nel 1924 - 1925.
N0 nati in suddetti anni chiamati alle armi con manifesto: 57
Hanno risposto alla chiamata: NESSUNO
Gli stessi sono stati invitati personalmente e con avviso di diffida; e pure in massa si sono presentati agli uffici ove vennero nuovamente invitati ad ottemperare all'obbligo di chiamata.
Vimercate, 22 Dicembre 1943
IL PODESTA'
PREFETTURA DI MILANO
Oggetto: Chiamata alle armi delle classi 1924 - 1925
(...)si comunica che a carico dei famigliari dei giovani delle classi 1924 e 1925, i quali
non si sono ancora presentati alle armi, verranno adottati i seguenti provvedimenti;
1) Arresto del padre del renitente.
2) Ritiro immediato delle carte annonarie a tutti i famigliari in primo e secondo grado del renitente esclusi soltanto i bambini di età inferiori ai 10 anni.
3) Ritiro immediato delle licenze di esercizio e delle licenze di circolazione per auto vetture a tutti i famigliari di primo e secondo grado dei reninenti.
4) Sospensione immediata delle pensioni ai genitori del renitente che ne godono.
5) Sospensione immediata dagli impieghi statali e parastatali ai famigliari di primo e secondo grado dei renitenti.
6) Detti giovani renitenti saranno denunciati al Tribunale Militare come disertori.
Milano, 22 gennaio 1944
IL CAPO DELLA PROVINCIA
F.to Oscar Ucelli
Il tentativo della R.S.1. di riprendere in mano la situazione politica del Paese, riproponendo il Duce come unico tutore delle masse popolari e della borghesia, venne annullato dalla ferma risposta del popolo e dal voltafaccia delle classi dirigenti, quest'ultime strutture portanti del Fascismo fin dai suoi albori. Viste inutili le minacce, Mussolini mise in atto la linea dura suggerita da Hitler: l'epurazione dei vertici fascisti che lo avevano "tradito", nel tentativo di salvare l'egemonia del partito di fronte alla opinione pubblica e di dimostrare la volontà di ripartire da nuove basi ideologiche piu' "sociali". Il gerarca Achille Starace, Segretario del P.N.F. fino al 1939, momento in cui cadde in disgrazia agli occhi del Duce e fu sostituito da Ettore Muti, e Capo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale dal 1939 al 1941, su esplicito ordine di Mussolini venne tratto in arresto a Vimercate, dove era ospite nella villa di Cremisini (Ruginello), nel novembre 1943. L'accusa fu quella di aver scritto due lettere a Badoglio, "traditore della Patria", cosa che per altro lo stesso Mussolini aveva in precedenza fatto.
Starace fu rinchiuso fino all'aprile 1944 nella fortezza degli Scalzi a Verona, assieme a Ciano, De Bono, Cianetti, Gottardi e Pareschi, che vennero tutti fucilati ad esclusione di Starace.
Il 18 dicembre i gappisti uccisero il capo del fascio repubblicano Aldo Resega. Il giorno successivo, a Milano, luogo dell'attentato, per rappresaglia contro l'uccisione del federale vennero fucilati all'Arena 9 antifascisti.
"(...) Giunti a Cavenago Brianza fummo ospitati in casa di Ranieri Innocente, antifascista appartenente all'importante gruppo politico locale, che aiutò diversi partigiani e prigionieri di guerra durante l'occupazione nazista. Durante questo periodo Fumagalli Mario e il cugino Innocente provvidero a curarmi la ferita al polpaccio che mi costringeva ancora all'inattività. La nostra presenza, nonostante tutte le precauzioni attuate, non passò inosservata: già in paese si cominciava a mormorare che "in casa di Ranieri ci sono due partigiani". A questo punto, non essendo più sicuro il rifugio, il partito decise il nostro trasferimento presso un compagno di Milano, Parodi, il cui laboratorio di artigiano era una "base partigiana". Qui, fino alla primavera successiva, militai con mio fratello Aldo nei G.A.P., Gruppi d'Azione Partigiana. Questi nuclei erano composti da 2-3 elementi, estremamente decisi ai quali venivano affidati compiti particolarmente arditi. Il numero limitato dei componenti era dovuto esclusivamente alla necessità di dover operare con rapidità e senza dare nell'occhio."