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Quel giorno Teofilo aveva ascoltato molto. Aveva pure annotato alcuni spunti per riflettere in seguito e, dopo un silenzio più lungo del solito, si era rivolto allo starez:
«Mentre quel mattino il buon Dio creava ogni cosa e la dichiarava buona, mentre preparava il primo fiore carico di colore e bellezza, nello stesso istante in cui il fiore schiudeva i petali nelle mani del suo Creatore e ogni parte dell’universo si apriva alla vita, iniziava anche in essa il processo di morte. Questo fatto non avrà dato un po’ di malinconia al buon Dio?».
«Certamente, se si fosse chiamato Teofilo. Siamo noi che, per poterci esprimere, chiamiamo vita l’inizio dell’esistere di ogni essere vivente e chiamiamo morte il momento in cui ci rendiamo conto che questa vita si spegne. Per noi il pesce pescato da un martin pescatore è morto, mentre riteniamo vivo l’uccello che se ne è nutrito e corpo morto il sasso inanimato. Ma sarebbe meglio se riconoscessimo che tutto è inserito in un processo di vita.
Guarda bene quella pietra così immobile, così ‘morta’. In realtà il vento, che stacca invisibili particelle di silicati e metalli, mescolandoli poi alla terra per secoli e millenni, in un giorno qualsiasi può trasformarla in un filo d’erba, in un fiore o nel capello di un bambino. Le stesse molecole del nostro corpo, attraverso i millenni, sono state parti di mille cose: gocce d’acqua dell’oceano, particelle di fiori e frutti, frammenti di piume d’uccello o artigli di violenti rapaci. Hanno volato nella polvere del vento e sono state trasportate dai detriti dei fiumi. Teofilo, la nostra è una storia lunga, ma è solo storia di vita».
«Quando però vedo gli occhi del mio amico spegnersi e congelare per sempre, almeno questo lo chiamerò morte? E a togliergli la vita non può essere che Dio!».
«E se rimane comunque la morte a sfidare la mia ragione, specialmente perché essa rimane sempre l’ultimo mistero, potrò caparbiamente domandarmi: “Se Dio è il Signore della storia, perché toglie la vita a un essere che Lui stesso ha creato?”».
«Ebbene, Dio non toglie la vita a nessuno! Viviamo in questa meravigliosa stanza che è l’intera creazione, con ogni bellezza che i nostri occhi possono contemplare: le galassie a milioni di anni luce; il sole che colora ogni fiore; ciascuna pietra preziosa che emerge dalla terra; gli animali domestici e della foresta con la loro eleganza e l’aggressività che ne garantisce la sopravvivenza; la bellezza di ogni bambino, donna e uomo; le meraviglie visibili a stento o appena conosciute – sommerse come sono nell’indefinitamente piccolo – di tutte le molecole, con i loro atomi, nuclei, neutroni, neutrini e protoni; e gli spazi senza fine tra gli uni e gli altri.
Diceva un ingegnere che il nucleo di un atomo non visibile è come il pallone messo al centro di un campo da football, mentre i neutroni si troverebbero a due km di distanza. Se è così, quando calpestiamo un sassolino, in realtà passiamo sopra a qualcosa di molto più simile a una galassia che a un oggetto buttato via perché insignificante. E come non restare confusi di fronte all’incanto di ogni cellula vivente che si riproduce e accompagna la vita?
La più grande preziosità che possono vedere i nostri occhi è un pugno di terra: ogni seme seleziona in quella manciata ciò che gli è necessario, alimentando la pianta e generando fiori e frutti di ogni specie. Ma non solo: sono composti di terra gli animali e lo stesso corpo umano, nel quale s’insediano intelligenza, sentimenti, emozioni e in cui Dio soffia il suo spirito, rendendolo simile a Lui.
Ecco la meravigliosa stanza della creazione, in cui viviamo ogni giorno. Accanto c’è una porta che si apre sull’altra stanza, quella dei Cieli e della Terra nuovi, preparati dallo stesso Signore della storia. Quando ciò che chiamiamo ‘morte’ ci introduce nel nuovo regno, a noi non viene tolto nessun istante di vita, cambia solo la stanza della nostra abitazione e la porta che resta chiusa provoca lacrime su lacrime a chi rimane al di qua, senza poter continuare a vedere e toccare il corpo vivente di chi ci ha lasciato nella grande attesa.
Già all’inizio delle scritture sacre (versetto 3 e seguenti del Libro della Sapienza) troviamo questa intuizione riguardo a chi ha varcato la porta dell’eternità: “Agli occhi degli stolti parve che morissero: la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche quando agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena d’immortalità. In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé. Li ha provati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un sacrificio”.
Da parte sua, Giobbe (19,1. 23-27) grida: “Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso”. E, più vicino a noi, Gesù (Gv. 6. 37-40) proclama: “Questa è la volontà di Colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto Egli mi ha dato, ma che lo resusciti nell’ultimo giorno”. Prima della sua partenza, è sempre Gesù che promette: “Vado a prepararvi un posto”. Infine, Paolo (1 Corinzi, 15,22) ci rassicura: “Come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo avranno la vita”.
Ecco le parole della grande speranza! Quindi, il tuo amico che dici essere stato vivo per te fino a un minuto fa è semplicemente passato da quella porta per entrare nell’altra stanza della grande casa di Dio: vivo era prima e vivo è adesso. Dio non toglie mai la vita. Egli la accompagna semplicemente per strade diverse, che a noi sfuggono. Oggi nel mondo vivono alcuni miliardi di uomini e fra cent’anni non ci sarà quasi più nessuno di loro sul nostro pianeta. Saranno tutti sostituiti da figli e parenti. Dovranno passare tutti la porta di cui parlavamo, in circostanze diverse: malattie, incidenti, terremoti, coperti dalle onde, ma nessuno potrà accusare Dio di aver tolto la vita a qualcuno».
«Quindi non si può parlare di morte? È una parola sbagliata? Da togliere dal dizionario?».
«Se vuoi, usala per raccontare le parabole, come io ho fatto con te. Usala pure, purché tu sappia che esiste solo la vita, quella per la quale il Creatore si rallegrò al termine di ogni giorno della sua creazione».
«Allora, quando parliamo della morte di Gesù, quella parola non ha senso?».
«Quella che chiamiamo la morte di Gesù è sempre associata alla parola Resurrezione come unico termine. Se poi vuoi parlare di quella morte, ricorda che quell’ultimo respiro è il suo ultimo atto d’amore per, con e in mezzo a noi in questa dimensione terrena, dopo di che continua a vivere nel cuore del Padre, con lo Spirito Santo».
«Padre, ma abbiamo continuato a vedere il corpo di Gesù morto, pietrificato e si è dovuto seppellirlo: questa la chiamiamo morte».
«Perché a noi non è dato di vedere al di là di quella porta fino al giorno in cui Lui lo vorrà. E adesso, Teofilo, concludiamo la giornata con una preghiera di ringraziamento: il prefazio della Messa del 2 novembre, nella commemorazione di tutti i fedeli defunti:
Padre santo, Dio onnipotente ed eterno,
in Cristo tuo figlio, nostro Salvatore,
rifulge a noi la speranza della beata
Resurrezione, e, se ci rattrista la
certezza di dover morire, ci consola la
promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi
fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma
trasformata; e, mentre si distrugge la
dimora di questo esilio terreno, viene
preparata un’abitazione eterna nel cielo.
Per questo mistero di salvezza, uniti agli
angeli e ai santi, cantiamo senza fine
l’inno della tua lode.
Ci rivediamo domani. Il sole ormai riaccende tutti i colori alla ribalta del mondo e non possiamo non contemplare questa Gloria, che è solo Gloria di Dio e della vita che ci dà».
Intanto lo starez fece scivolare uno di quei rotoli che sostengono il cammino e, alla sera, Teofilo poté leggere:
Il ragazzo rimase fulminato dalla bellezza della giovane contadina che era scesa a valle con il padre, per comprare le provviste al monastero. Il padre della ragazza faceva questo lavoro da tanti anni e adesso si era fatto aiutare anche dalla figlia ormai abbastanza grande. Il ragazzo la vide, se ne innamorò e, quando seppe che abitava nella casa più vicina al monastero, s’informò sull’orario della Messa che ogni giorno i monaci celebravano con straordinaria solennità. Ogni giorno il ragazzo saliva alla chiesa del monastero con la speranza di intravedere almeno per un momento la ragazza che aveva invaso tutte le fibre più segrete del suo cuore. Erano sufficienti per lui pochi minuti di contemplazione e tutta la giornata acquistava il suo senso pieno. Spesso anche la ragazza partecipava alla Messa e, in questi casi, per il giovane innamorato non esisteva null’altro in quella grande Abbazia. Non sentiva i canti e non si rendeva conto quando la funzione iniziava, né quando finiva. Non c’era posto per altro nella sua mente e nel suo cuore. Spesso, dopo la Messa, sostava in chiesa a lungo e chiedeva sempre la stessa grazia. Il tempo passava e durante le celebrazioni il ragazzo guardava sempre dalla stessa parte ma, più che desiderarla per possederla come gli capitava all’inizio, ora la contemplava.
Si accorse poi anche degli altri che pregavano e degli stessi monaci, che sembravano essere assorti altrove. Qualche volta riuscì anche a sentire il sacerdote che spiegava la Bibbia. Intanto i suoi interessi si moltiplicarono. Iniziò a pregare per coloro che erano più sfortunati di lui: i malati, i carcerati, i poveri di tutto, i peccatori che non riuscivano a liberarsi dal vizio e dalla violenza e ad amare.
Finita la celebrazione, sostava a lungo e seguiva con la fantasia i monaci che uscivano ed entravano in quel misterioso silenzio: l’ambiente cominciò ad affascinarlo, poi sempre di più si accorse di Lui, del Signore. Contemplava il corpo del grande crocifisso tutto insanguinato ed era sempre più attratto verso quell’Abisso.
Arrivò poi il momento in cui i genitori della ragazza che aveva occupato totalmente il cuore del giovane decisero di sposare la figlia. Il padre pensò: “Andrò in Chiesa e vedrò il giovane che arriva per primo e lascia la chiesa per ultimo. A lui proporrò mia figlia”. Così fece per diversi giorni: arrivato all’Abbazia trovava sempre quel tale che, inginocchiato non lontano dall’altare, restava a lungo in preghiera dopo le celebrazioni. Un mattino aspettò che uscisse dalla chiesa e s’intrattenne con lui per fargli la proposta, con la certezza di dare anche al ragazzo una grande gioia, ma la risposta fu imprevista: “Grazie per la fiducia; in questi anni sono salito sul monte proprio a motivo di vostra figlia, ma adesso é tardi e il mio cuore è già stato occupato”. Così si congedarono.
Intanto il giovane cercava un’occasione per parlare con l’Abate, ma, all’ultimo momento, si trovava impacciato e non sapeva come esprimere a parole il suo desiderio di una scelta definitiva là, nella ‘prigione’ di Dio. Passarono alcune settimane e intensificò la preghiera per trovare le parole adatte per consegnarsi al monastero.
Un mese dopo chiese un appuntamento con l’Abate perché ormai si sentiva sicuro ma, poco prima di incontrarlo, capitò che tutto il monastero venisse assediato e invaso da un’orda di turchi che cercavano cristiani da sacrificare. Quasi quattrocento monaci provenienti da varie regioni si erano rifugiati tra quelle mura proprio per sfuggire al massacro, ma l’intero monastero fu accerchiato e i monaci legati e martirizzati uno ad uno dai barbari, che pensavano così di fare cosa gradita a Dio.
Il giovane, che dapprima era corso a nascondersi e non era stato avvisato da nessuno, ebbe una luce e pensò che fosse giunto il momento di presentare la sua candidatura alla vita monastica. Si avvicinò al mucchio di martiri, ma subito i turchi lo bloccarono per legare le mani anche a lui. Allora, con molta calma, ammise: “Non sarei venuto qui se avessi voluto fuggire”, e lo lasciarono fare. Prese quindi un abito già insanguinato, lo tolse con rispetto, poi lo baciò, si avvicinò alla fila dei monaci che stava terminando e i suoi occhi si incontrarono con quelli dell’Abate. Il giovane gli mostrò l’abito, chiedendo a cenni se poteva indossarlo e gli occhi dell’Abate annuirono. Lo infilò, poi si mise in coda e così trovò le parole adatte per presentarsi al nuovo stato di vita.
Quando si ritrovarono, Teofilo presentò allo starez altri interrogativi:
«Padre, mi rendo conto che parlare di sofferenza, di dolore e morte, anche se in modi impropri, richiede un tempo che non potete più darmi, poiché il vostro cuore è già molto al di là dei problemi miei, che sono quelli dei bambini. Però mi incoraggia ciò che un grande teologo disse al termine dei suoi giorni: “Se questo problema mi avesse tormentato prima, avrei dedicato tutta la vita a riflettervi e a studiarlo. Qualche tempo fa abbiamo parlato del martin pescatore e vedo il mondo pieno di ‘martin pescatori’. Un piccolo coleottero incappa nella ragnatela e ne viene avvolto, perciò subisce la lotta e il colpo mortale del ragno. Dopo un momento, una beccata di uccello uccide il ragno e il cacciatore abbatte il volatile con uno sparo: il mondo mi sembra una grande carneficina. Se la nostra sofferenza può avere un senso, quale senso può avere quella di un agnello sgozzato, di un pesce soffocato fuori dall’acqua, di una gazzella sorpresa dal leone e così all’infinito?».
«Teofilo, se una sofferenza esiste ha certamente un senso, perché Dio – che è solo buono – non poteva fare di tanto in tanto errori di percorso nella sua Creazione. Non a caso, al termine di ogni giorno “vide che tutto era buono”. In effetti, caro figlio, noi usiamo la stessa parola per dire due realtà diverse: la sofferenza che proviamo noi umani e la ‘sofferenza’ che intuiamo negli animali, ma di cui non possiamo fare nessuna esperienza diretta.
Rispetto a questo argomento, parecchi elementi ci sfuggono. Ti può essere utile, tuttavia, considerare come possa soffrire un agnello sgozzato che non ha coscienza, poiché privo di un ‘Io’ come il nostro che gli permette di dire: ‘Io soffro’. In noi umani la sofferenza si relaziona all’Io che abbiamo con tutta coscienza, ma a cosa si può rapportare la sofferenza dell’animale, se è privo di un Io cosciente, il solo che gli potrebbe consentire di affermare: “Io, proprio Io, soffro o mi rallegro?”. Negli animali, infatti, non vediamo i segnali del pianto e del sorriso. Apparentemente così simile all’uomo, lo scimpanzé non sa di essere tale e non può dichiarare: “Io sono”. Quindi, pur avendo tutte le reazioni fisiche della sofferenza, non può dire: “Io soffro”, poiché l’Io non è presente. Proprio pensando agli animali che non hanno coscienza di esistere, mi esplode dentro un grande senso di gratitudine per aver ricevuto dal buon Dio questo dono che ovviamente comporta sia la gioia che la sofferenza ».
«Padre, faccio comunque molta fatica a pensare che in seno a Dio e alla sua Creazione possa esistere il peccato».
«Teofilo, tu sai cos’è il peccato?».
«Penso a un’offesa che l’uomo può fare a Dio e ai suoi fratelli, insomma a qualcosa di terribile, che dovrebbe rattristare molto il cuore di Dio».
«Probabilmente per te il peccato è come una montagna, una montagna di rifiuti che puzza e infesta il mondo. E, se fosse questo, tu avresti ragione a trovarti confuso nel pensare al peccato in mezzo a un mondo dove tutto è dichiarato buono.
Proviamo però a partire da un altro punto di vista. Esistono il bene, la virtù e le infinite azioni di bontà che questa umanità compie ogni giorno e, dall’altro lato, la ‘pigrizia di fare il bene’. Un omicidio, una vendetta, un atto di odio, sono in realtà la pigrizia di perdonare e la pigrizia di amare quella persona o se stessi. Puoi rileggere i Comandamenti e vedrai che descrivono dieci pigrizie di fare il bene. Comunemente diciamo che c’è il bene e il male, ma potrebbe essere meglio dire che esiste il Bene, tutto il bene voluto da Dio quando crea l’uomo; se vuoi, in questo caso puoi usare l’immagine del Bene come un’immensa montagna di luce, perché è un’azione umana unita a una grande Grazia di Dio, il quale vuole sempre il Bene e solo il Bene. La pigrizia di fare il bene, che chiamiamo peccato, è il bene non ancora realizzato, non portato a compimento. Perciò, mentre il bene è un essere, il male è ancora un non-essere in attesa di misericordia, di perdono e di amore». «Padre, ma l’uomo non si distingue dagli animali anche per la libertà di fare il bene e la libertà di fare il male?».
«L’espressione non è così esatta. Noi abbiamo ricevuto il dono della libertà che gli animali non hanno, ma questo grande dono ci è stato dato solo per fare il bene. Con la Grazia di Dio e la mia buona volontà posso compiere degli atti liberi nel fare il bene. Quando la pigrizia di fare il bene mi paralizza e compio un’azione criminosa, posso dire che non sono ancora abbastanza libero di fare il bene, oppure non sono più abbastanza libero di fare il bene.
Il punto di riferimento per chiarire il discorso sulla libertà è Gesù Cristo: Gesù è libero, ma di una libertà così completa che non può fare nulla di male. La libertà è divina ed è solo per fare il bene. Dio Padre e Creatore è di una libertà assoluta, per cui non c’è in Lui nessuna possibilità di compiere il male».
«Padre, nel catechismo si parla di peccati che portano alla morte, ‘peccati mortali’ che meritano la dannazione eterna. Come dobbiamo regolarci di fronte a questo problema?».
«Il catechismo precisa che si verifica quel peccato chiamato mortale quando c’è materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso, ma non dice quanti ne siano esistiti o se ne siano esistiti. Se ci trovassimo di fronte a un’azione simile non potremmo parlare di malattia o schizofrenia?”
Si racconta, penso a titolo di parabola, che un giovane si recò da Pio XII per presentargli la sua angoscia e disperazione: suo fratello si era suicidato e quindi, non potendo più chiedere perdono dopo quell’ultimo peccato, certamente sarebbe andato all’inferno. Il Papa lo invitò a salire sul davanzale della finestra esposta a Piazza San Pietro. Lo incoraggiò a guardare giù tenendosi bene e, in seguito, a staccarsi e a buttarsi nel vuoto. Con un’esclamazione istintiva, il giovane gridò: “Non sono pazzo!”.
Il Papa, allora, gli chiese di scendere e lo aiutò a capire: si era dato la risposta da solo. Se non c’è una distorsione psichica o una malattia mentale grave, come la schizofrenia o la depressione, non si può consumare un suicidio, anche quando qualcuno dice o scrive di essere pienamente cosciente del proprio atto. Potremmo affermare che l’uomo maturo, equilibrato, normale e libero non si suicida.
Ora ritorniamo al peccato mortale del catechismo. Se per arrivare a un suicidio si suppone un attacco schizofrenico, allo stesso modo e molto di più si potrà farlo per un’altra azione che il catechismo chiama peccato capace di meritare la morte eterna: qualora si richiedesse materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso, per passare all’azione e compiere l’atto criminale potremmo concludere che si dev’essere colpiti da una forma di pazzia che può durare anche pochi secondi in mezzo a tutta una serie di azioni apparentemente equilibrate.
Mettiamoci di fronte a un’azione criminale concreta – ad esempio un omicidio – compiuta per il piacere di uccidere e sapendo anche che la vittima è innocente: se, pur di avere un’avvertenza piena e un consenso deliberato, questo criminale pensasse, indipendentemente da ciò che pensa in genere il criminale, la conclusione può essere solo che ci troviamo di fronte a una forma di pazzia, cosciente o meno. A questo punto, se qualche passaggio mancasse alla nostra riflessione, Gesù stesso ci viene in aiuto: “Non giudicate!”. Non tocca a noi giudicare come peccato questa o quell’altra azione. Il Signore si è riservato a sé questo diritto. Potremmo quindi dire che non siamo autorizzati a giudicare come peccato una sola azione compiuta in questi duemila anni, né peccato mortale, per usare il linguaggio del catechismo, né veniale.
Un prete che confessa otto ore al giorno per quarant’anni anni, di fatto non sa se ha perdonato dieci peccati, cento o nessuno (e non possiamo neppure giudicare che una simile azione sia mai esistita). Il confessore e tutti noi dobbiamo giudicare le azioni della storia, per dare il consiglio dovuto, il rimprovero, una punizione o la condanna, se necessaria. Se sono giudice di un tribunale civile, posso anche punire col carcere a vita chi viene giudicato, se non è più in grado di vivere in società senza uccidere, stuprare e altro, ma il giudizio sulla coscienza non spetta a noi. E non sapremo mai se ci siamo trovati di fronte a un peccato».
«Padre, dovremmo cancellare allora la parola ‘peccato’?».
«Teofilo, sei impazzito? Ho parlato dell’atteggiamento da tenere di fronte alle azioni di violenza e odio, di fronte ai furti, agli adultèri e ad ogni tipo di male. E, prima che tu mi dica che Gesù è venuto per cancellare i peccati del mondo, ti ripeto che Lui, al termine della sua vita, nell’ultima cena, quando sintetizza la ragione della sua venuta in mezzo a noi, dice all’incirca: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, questa è la mia vita che io offro per il perdono (il perdono è un atto di amore): questa è la mia vita che offro per amare e perché anche voi amiate in memoria di me”.
Ciò che interessa a Gesù è il perdono. E le azioni che noi chiamiamo insensate sono permesse solo per essere perdonate. Di fronte ad ogni azione che noi chiamiamo peccato, Dio si aspetta solo il perdono (richiesto e donato). Il Signore ci permette di vedere il peccato quasi sempre come un’azione grave e responsabile solo perché noi ci alleniamo alla misericordia e al perdono. Se vedessimo dell’irresponsabilità nel peccato non dovremmo fare nessuna fatica a perdonarlo e non potremmo compiere quell’atto d’amore che è ragione di tutta la creazione e dell’Incarnazione. In ultima analisi, se il peccato – che noi non conosciamo bene nella sua radice – ha un qualche diritto di cittadinanza è solo ed esclusivamente per essere perdonato. Non sapremo mai cosa sia in realtà l’azione che si presenta ai nostri occhi come peccato, cioè offesa a Dio, ma sappiamo per certo che è permesso sempre e solo per un atto di perdono e quindi d’amore, per cui il fine di ogni azione permessa è sempre un Bene. Non sempre il fine, cioè il perdono, viene raggiunto a causa della nostra pigrizia, però rimane sempre lo stesso».
«Padre, questa è una vostra riflessione o esistono dei riferimenti nella Bibbia o nella Tradizione della Chiesa?».
«No, non è affatto una mia riflessione, ma il dogma di Gesù Cristo che ti ho già citato. Sul Calvario, di fronte al Padre, Egli rivela il più grande crimine della storia umana: l’uccisione del Figlio di Dio stesso, spiegando che il peccato dei suoi crocifissori può essere solo pazzia: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che si fanno”.
Possiamo mai pensare che, se avessero immaginato cosa stavano facendo, coloro che hanno condannato, crocifisso, ucciso Gesù, avrebbero compiuto un simile crimine? E nota che il primo peccato riportato nella prima pagina biblica come ‘peccato originale’ viene descritto come azione compiuta con gli occhi ancora chiusi».
«Allora, Padre, qualcuno potrebbe concludere che il peccato non esiste».
«Teofilo, io non impazzisco al pensiero del peccato e di cosa sia; a me interessa ciò che interessa a Gesù, cioè il perdono, che è la più alta forma di amore. Quando Gesù, nella sua vita, incontrava dei ‘peccatori’, non si fermava mai al peccato in sé, quasi non gli interessasse, ma andava subito al perdono».
«Padre, ho iniziato col dire che in Dio e nella sua Creazione mi angosciava il ‘peccato’. Esso era per me proprio come una montagna che dovrebbe angosciare Dio più di quanto possa angosciare me stesso. Ora, dopo questo cammino, se incontrando ogni uomo e donna riuscissi a pensare che possono essere buoni, innocenti o addirittura santi al di là delle loro apparenti azioni di cattiveria e che posso e debbo amarli come li ama Dio, il mondo intorno a me cambierebbe! Questa sarebbe una grande rivoluzione cristiana, una parte del Nuovo comandamento di Gesù».
«Nell’Antico Testamento, di fronte a chi aveva commesso degli sbagli si doveva solo capire come punire o come convertire il peccatore; oggi, con Gesù, per qualunque violenza, inganno o mostruosità possa manifestarsi nell’essere umano che ho di fronte, mi viene offerta una opportunità in più. Con il comando: “Non giudicate!” posso e devo pensare che chiunque può essere innocente e con il comando di perdonare e amare anche i nemici mi viene tracciata la strada di tutta la volontà di Dio!».
«Ecco che mi si fa luce sulla Creazione del sesto giorno, quando Dio creò l’uomo e la donna e dichiarò che tutto ciò che aveva fatto era buono. Tutta la cronaca nera dei nostri giorni non ha il diritto di farmi pensare che qualcuno sia stato cattivo o abbia commesso dei peccati, tanto meno la persona accanto a me, anche se la vedessi ammanettata dopo una rapina o un omicidio o uno stupro». «Guai se dimenticassi che quell’uomo rimane tempio della Trinità. Non domandiamoci perciò perché Dio ha voluto crearci così, cioè con un corpo umano che in alcuni momenti può apparire irrecuperabile tanto è diroccato, eppure nel quale cantano gli Angeli: noi dobbiamo inginocchiarci di fronte a quest’ostia infangata, ma pur sempre consacrata. Mentre ti riposerai, Teofilo, leggi qualche pagina di questo manoscritto di parabole. Oggi abbiamo parlato troppo».
Recitarono l’Angelus e si ritirarono. Appena Teofilo ebbe del tempo libero, aprì il testo dal titolo “Gli occhiali della verità” e lesse:
Un giovane salì sulla montagna e chiese al monaco Teofane se poteva fare un’esperienza al monastero. Lui gli domandò:
“Vuoi diventare monaco?”.
“Certo. È per questo che desidero passare un po’ di tempo presso di voi”, fu la sua risposta.
Il monaco sorrise: “Sì, è possibile, ma per due settimane resterai fuori dalle mura e potrai fare qualche servizio, quando i monaci te lo chiederanno. Sei sempre d’accordo a voler diventare monaco?”.
“Certo – rispose – ti do l’impressione di non essere pienamente convinto?”.
“Sei ancora un poco incollato alle cose del mondo, ma è bene che ti fermi sulla montagna. Aspetta un momento”.
Poco dopo tornò con una brocca e un paio di occhiali:
“Con la brocca andrai a valle dove c’è la fontana del paese. L’acqua di quella fontana è migliore di quella che abbiamo in monastero e ne abbiamo bisogno per un monaco malato. Ora metti questi occhiali, sono gli occhiali della verità. Vai in pace!”. E, benedicendolo, pose la mano sul capo del giovane, che da quel momento rimase muto. Ma scese subito a valle e, man mano che si abituava agli occhiali della verità, vedeva tutto trasformarsi.
Alla fonte c’era una donna. Con gli occhiali della verità, il giovane novizio vide in lei una bellezza straordinaria. Non aveva mai visto prima nulla che assomigliasse lontanamente a un incanto così travolgente. Gli pareva una creatura non di questo mondo, tanto la vide bella. Stava per abbracciarla con un trasporto che nessun amante avrebbe potuto provare sulla terra, ma si fermò. Pensò che, non potendo parlare, quindi spiegare a parole che voleva solo abbracciare e stringere e baciare la sua bellezza, rimase come un passante senz’occhi e senza cuore. La donna non si accorse di nulla, attinse acqua e ripartì.
Là c’erano anche dei bambini che giocavano. Con gli occhiali della verità, il giovane notò in loro una bellezza mai incontrata, che risvegliò nelle sue vene un affetto così paterno che gli venne da correre per abbracciarli ma, non potendo dir loro che li amava e voleva solo abbracciarli e baciarli, pensò che si sarebbero certamente spaventati e si arrestò, immobile. Anche i bambini se ne andarono con i loro giochi.
Il giovane si spostò ancora oltre la fonte e intravide l’inizio di una strada su cui passava un gran numero di persone: uomini, donne, bambini. Ciascuno di loro era come la ragazza e i bambini che aveva appena visto con gli occhiali della verità. Persino i gendarmi, che stavano visibilmente cercando qualche criminale, avevano la stessa bellezza. Ritornò sui suoi passi e, accanto a un cespuglio, vide un uomo che cercava di nascondersi. Era pieno di luce. Pensò che fosse un’apparizione del cielo. L’uomo chiese se i gendarmi fossero andati via e il novizio annuì.
Questi gli raccontò che aveva compiuto un’atrocità di cui si vergognava all’infinito, poi corse verso il monte. Potendo vedere con quei magici occhiali della verità, il giovane ebbe l’impressione di vivere la sera della Creazione, mentre riecheggiavano nella valle le parole di fuoco: “E vide che tutto ciò che aveva creato era buono”.
Il novizio guardò allora la cima della montagna, avvolta da una luce divina. Subito dalle nubi si mostrò il sole con fasci raggianti di mille arcobaleni. Alzò le mani per abbracciarlo e baciarlo, ma era così distante! Anche il monastero trasfigurato era troppo lontano.
Quando abbassò le braccia e anche la testa, mentre il cuore batteva forte, vide la terra di uno splendore che gli fece pensare ai Cieli nuovi e alla Terra nuova, ma questa era già sotto i suoi piedi. Cadde in ginocchio e le dita delle mani quasi entrarono dentro quella terra a cui si era abbarbicato, la baciò rimanendo con le labbra incollate e amò intensamente tutto ciò che gli era concesso di amare.
Passarono due settimane e il monaco Teofane, uscito dal monastero, non vide il giovane. Scese a valle e lo incontrò prostrato e incollato alla terra con le mani e con quel bacio che non si era ancora spento. Lo prese per il braccio e lo accompagnò verso il monastero. Il novizio consegnò allora gli occhiali della verità e quella salita gli sembrò sempre di più la salita del Calvario, dove tutta la luce che aveva visto per quei quindici giorni si era spenta. La vita si stava appesantendo come una croce sulle spalle, ma lui non si fermò, solo pianse ad ogni passo su per la salita. Arrivò insieme a Teofane alla porta del monastero, che aveva visto simile a una Gerusalemme celeste, mentre era solo fatto di pietre grigie.
Entrò e, non appena la porta si chiuse alle sue spalle, il gruppo dei monaci venne a dargli il benvenuto. Gli parve di respirare nuovamente, ma le pietre rimanevano pietre. Tra quegli uomini santi, sulla sua destra, molto vicino a lui, ne riconobbe però uno, che appena due settimane prima era nascosto in un cespuglio, mentre i gendarmi cercavano un criminale: allora lo aveva visto con le ali degli angeli.
Teofilo pensò ancora a lungo, rileggendo quel rotolo e continuando a domandarsi: “Dov’era il peccato nella valle della fontana?” e si addormentò. Ma, nel tempo libero, ritornava su quel libro di Parabole. Un giorno ne scelse un’altra “Il sogno di Dio”.
Le galassie si erano ormai messe in movimento e grandi spiragli di luce fasciavano quella interminabile notte. Uno di quesitiquesiti falò, accesi per preparare il mondo, si riversò sulla terra che mostrò tutti i colori di alberi, fiori, pesci, rettili, uccelli, animali che si destreggiavano ormai a loro agio tra le intricate foreste. Proprio là Dio passeggiava, pensando al suo sogno: un bambino da tenere tra le sue braccia materne e paterne. C’erano già creature viventi bellissime, ma ancora senza sorriso, senza lacrime e senza parola.
Un giorno, prima che sorgesse il sole, le mani innamorate di Dio si misero nuovamente al lavoro. Per settimane e mesi modellò il suo nuovo sogno nel ventre di una madre e, quando il sole illuminò quell’angolo di mondo, un bambino e una bambina erano là, bellissimi e pieni di lacrime: piangevano senza interruzione perché quelle stesse mani innamorate li riprendessero, li stringessero e insegnassero loro a sorridere. Tutti i giorni il buon Dio correva con loro; andavano a nuotare al fiume, raccoglievano i fiori, rincorrevano i leprotti e, appesi alle liane, volavano come uccelli.
Il giovane papà non aveva più altro da fare che giocare con questi bambini da poco messi là per rallegrare l’intero universo. Lui, Dio, aveva lavorato milioni e milioni di anni per preparare quella valle e adesso poteva riposare felice. Non era un papà ingenuo: insegnava loro come difendersi dal morso di serpenti e scorpioni, come evitare i leoni quando sono affamati, quali frutti mangiare e quali evitare, perché velenosi.
Spesso li lasciava soli perché imparassero a cercarlo e altre volte si fermava con loro perché non si sentissero soli. La madre, che li aveva generati insieme all’intera valle, al sole, alle stelle, li guardava senza comprendere che cosa sarebbero diventate queste due straordinarie creature: un uomo e una donna. Con i figli nacque la prima famiglia e quella regione fu chiamata: “La Valle dei miracoli”.
Dio aveva insegnato ai suoi figli ad amarsi, ma anche ad amare la terra, il cielo, il fuoco, l’acqua, le piante, gli animali e ogni cosa, perché solo volendo bene si fa il bene e ci si difende dal male. Se venivano colpiti dalla malattia, da climi glaciali o torridi, Dio arrivava sempre a consolarli, incoraggiarli, o indicare nuovamente la strada. Egli voleva che diventassero forti, ma quando si sentivano tali, li faceva tornare bambini. Se poi disubbidivano a quelle strette di mano del Padre, piangevano sconsolati. Allora Dio arrivava per punirli col volto serio, mentre col cuore piangeva anche Lui.
Una sera li chiamò, si sedette vicino. I bambini giocavano sull’erba e il Padre del mondo parlò a lui: “Quando vorrai parlare con me e dirmi tutti i segreti del tuo cuore, chiama lei”, e gli indicò la sposa. E disse a lei: “Quando vorrai sentire che non sei sola, che qualcuno ti vuol bene e ti protegge, quando in una parola mi vorrai vicino, chiama lui. Mi ritroverete”. Poi, mise le mani sul loro capo, li benedisse e diede loro ancora un messaggio: “Oltre ad amare voi stessi, non dimenticate che la vostra missione si estende fin là – e guardò verso i bambini – essi sono piccoli, indifesi: sono i poveri del mondo, ma sono il mio sogno”. E li lasciò là, nella “Valle dei miracoli”.
Il rotolo era stato strappato e il racconto visibilmente incompleto, per questo Teofilo continuava a domandarsi come mai la storia dell’umanità fosse cambiata così tanto dopo quelle giornate descritte nel rotolo: “Chissà cosa si nasconde dietro questa umanità così perversa e malata di tanta sofferenza. Certamente nel sogno di Dio, che ha impiegato un’eternità per generare questo uomo e questa donna, si nasconde qualcosa che noi proprio non riusciamo a immaginare. Eppure Lui è sempre lo stesso Dio che giocava nella Valle dei miracoli e gli uomini e le donne sono quelli di allora, del primo mattino in cui li strinse ancora neonati tra le sue mani e s’incantò Lui stesso della sua paternità”.
Mentre si commuoveva, Teofilo intravide un altro pezzo di rotolo strappato. Si accorse che doveva essere la continuazione della stessa storia, anche se certamente ne mancavano delle parti. E lesse:
Ormai, dopo tanta esperienza, la sua famiglia poteva fare un passo radicalmente nuovo: amare, amare tutti, ma ci volevano delle occasioni per allenare questo cuore umano ad amare. Per aiutare i suoi figli a non amare soltanto coloro che li amavano, rendendo ancora tanto povero il loro amore, per diventare veri figli suoi, un giorno il buon Dio volle che si allenassero ad amare anche chi all’apparenza era poco amabile. Così una notte, mentre alcuni di questi figli carissimi dormivano, Lui si avvicinò e iniettò in essi dei narcotici. Questi, ubriachi, cominciarono a gridare e, con pietre affilate, ferirono molti dei loro famigliari, poi maledissero tutti, bestemmiarono, mancarono di rispetto ai loro genitori e offesero i figli. Diventarono brutti, proprio nel profondo di loro stessi. A che gioco stava giocando questo Dio?
Poi, nelle notti dei millenni, nel sogno Dio suggeriva ai suoi figli di fare la pace e qualcuno cominciò a umiliarsi e non vendicò quelle offese. Qualcuno si umiliò molto per dare nuovamente la stretta di mano. Qualcuno pensò che quello era un fratello, quindi non poteva continuare a fare la guerra contro di lui. Qualcuno però perse il controllo e fece più male di quanto ne avesse ricevuto, lasciando a terra i corpi dei familiari uccisi o feriti. Poi si ravvide. Le madri arrivarono prima a fare la pace con i figli, in fondo li avevano partoriti esse stesse. Poi anche gli uomini arrivarono a fare la pace con i figli, i fratelli, i genitori. Attraverso i millenni, i figli di questa umanità scoprirono la bellezza del perdono e tornarono ad amare. Lentamente, senza smettere di moltiplicare sbagli su sbagli, di tanto in tanto il perdono si ripeteva più genuino, più fresco, più vero e l’amore cresceva.
Sulla parte finale del testo, qualcuno aveva aggiunto:
Poi venne quell’uomo di Nazareth, che cominciò Lui stesso a perdonare non solo i famigliari, ma anche i vicini e da ultimo anche i nemici, specialmente coloro che non riuscivano a capirlo e gli facevano la guerra. Riuscì a perdonare e ad amare quelli che l’avevano condannato e infine ucciso. Anzi, li amò persino mentre l’uccidevano e, ancora prima di morire, spiegò cos’è il peccato: una pazzia, un’azione criminale causata da narcotici o da malattie psichiche che abbrutiscono l’uomo, rendendolo incapace di amare affinché chi gli vive accanto si alleni ogni giorno ad amare chi non sa amare e vivere perciò l’amore cristiano.
Così, di fronte all’azione più criminale di tutta la storia, l’uccisione del Figlio di Dio, cioè Dio stesso, Gesù ha potuto dire al Padre che quell’azione era pazzia: “Scusali, perdonali, perché non sanno quello che fanno”. In altre parole: se avessero piena avvertenza e deliberato consenso non potrebbero far questo, perché la loro libertà è solo per fare il bene. E quando Dio, che aveva fatto la Valle dei Miracoli, vide questo Figlio di Nazareth tornare a casa dopo tre giorni che era morto, prese un pezzo di liana con cui aveva giocato tanti anni prima, scrisse sulla terra che quel giorno il lavoro della Valle dei Miracoli era concluso e si rallegrò immensamente: aveva finalmente realizzato il suo sogno di avere un Bambino.