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Il dialogo dei monaci - Teofilo sale sulla montagna

Il dialogo dei monaci

Cap. I - Teofilo sale sulla montagna

pag 3-12 

Sommario

Il viaggio   

   Teofilo aveva sentito che un anacoreta viveva in un piccolo eremo sulla montagna. Poiché era diventato molto anziano, Teofilo pensò che avrebbe potuto aver bisogno di qualcuno che, di tanto in tanto, potesse aiutarlo in qualche piccolo servizio.

   S’incamminò perciò sul monte ma, con sorpresa, man mano che si avvicinava all’eremo che aveva intravisto dalla valle opposta, provava un desiderio folle di andarci per rimanere e non tornare mai più sui suoi passi, né dagli amici, né dai genitori. Sentiva inspiegabilmente che si chiudeva un capitolo della sua vita.

   Quando arrivò, si prostrò fino a terra davanti all’anacoreta e, invece di dirgli che era andato per offrirgli soltanto qualche servizio, gli confessò:

   «Padre, sono venuto a vivere con Voi, se mi accetterete».

   L’occhio acuto dell’anziano colse all’istante che nel giovane c’era un’anima grande e, senza una parola di risposta, entrò nell’eremo e uscì quasi subito. Teneva in mano un abito come il suo e gli disse:

   «Questo vestito apparteneva a un giovane che era vissuto con me pochi anni e poi aveva raggiunto il Vero Eremo della sua vita. Non ci sono risposte perché il Signore abbia chiamato a sé un uomo così giovane e abbia ancora lasciato qui questo vecchio. Eccolo, Teofilo: è la tua nuova divisa. Il cammino sarà lungo, faticoso, ma anche affascinante e, se lo vuoi, può cominciare oggi stesso».

   Teofilo baciò quell’abito ed entrò a dividere il poverissimo pasto che l’anziano aveva preparato per sé. S’incamminarono poi sulla montagna, mentre Teofilo iniziò a raccontare un poco della sua vita e come era arrivato all’eremo.

   In realtà su quel monte c’erano due eremi, uno per l’anziano uomo di Dio e l’altro per qualche ospite. Il secondo diventò l’abitazione di Teofilo che, il giorno seguente, iniziò a tagliare legna e portare pietre per costruire un terzo eremo per gli ospiti. 

Il ramo volante  

    Prima della compieta della sera, lo starez disse a Teofilo:

   «Stai iniziando un’avventura nuova, affascinato dal silenzio, dal dono della preghiera e anche dalla vita comunitaria. Siamo solo in due, ma sai che, dove due o più sono riuniti nel nome di Gesù, Egli sta in mezzo a loro. Tuttavia, non tutto sarà festa. Incontreremo momenti difficili, ma non tali da impedirci il cammino che porta alla contemplazione e alla “lode perenne” a nome nostro e di tutta la Santa Chiesa. Ti lascio un rotolo per riposarti, quando avrai un momento».

   Stanco per il pesante lavoro della giornata, Teofilo si addormentò, pensando di ritagliarsi un po’ di tempo il giorno seguente, ma prima utilizzò quel testo come meditazione:

   Da solo, Ariatide non sapeva cosa scegliere di fare nella vita: avrebbe desiderato dipingere e scolpire la gloria di Dio, predicare a tutti il Vangelo di Gesù o, ancora, restare a lavorare i campi con i suoi fratelli e glorificare Dio con una famiglia ricca di figli, chiedendo al buon Dio di aiutarlo nello scegliere la strada giusta.

   Un giorno un Angelo gli apparve: “Mi ha mandato il Signore per aiutarti a scegliere come vivere nella vita”. Poi staccò un ramo da un albero e invitò il giovane a sedervisi e ad iniziare un lungo viaggio per capire il suo futuro. Spiegò ad Ariatide che dovunque avesse desiderato andare, il ramo l’avrebbe trasportato alla velocità del pensiero. Prima di lasciarlo, l’Angelo gli rivelò che, al trentesimo giorno, il ramo si sarebbe nuovamente innestato all’albero d’origine e che lui avrebbe concluso il viaggio.

   Subito Ariatide fu trasportato a Gerusalemme dove, unito a tanti pellegrini, baciò i luoghi santi. Si spostò quindi a Nazareth, a Betlemme e, ricordando i Viaggi di San Paolo, volle raggiungere Atene, dove trovò gli abitanti molto occupati; raggiunse ancora Efeso, Corinto e, la sera dello stesso giorno, si fermò ad Alessandria d’Egitto. Quasi ubriaco per la gioia di poter correre così in fretta, si rese conto che, pur avendo sorvolato tanti luoghi, di fatto non aveva visto nulla. Decise perciò di ripercorrerli e si fermò con un popolo buono e semplice. Si rese conto che ad Atene, per esempio, avrebbe potuto studiare e acquisire quella scienza che gli era sempre stata negata nel suo piccolo villaggio. Mentre sostava, tuttavia, pensò che avrebbe potuto continuare a fare il navigatore anche dopo i trenta giorni concessi dall’Angelo, oppure che avrebbe potuto pescare.

   Ariatide adorava pescare, specialmente di notte. Oh, sì, avrebbe potuto fare il pescatore! Intanto programmò alcuni viaggi a Roma, poi in Africa, e ancora nell’Estremo Oriente: l’avevano sempre affascinato quei paesi sconosciuti. Del resto, aveva ancora due settimane a disposizione prima di poter scegliere il suo futuro. Decise così di ripassare con più calma sul monte Nebo in Giordania, per poi tornare a Gerusalemme, ma lì vide delle grotte e dei monaci che pregavano. Allora si avvicinò e si nascose in una spaccatura della roccia: rimase là per ore e ore, incantato dagli occhi di quegli uomini che vedevano l’invisibile. I monaci contemplavano Dio e Ariatide contemplava i loro occhi.

   Il tempo passò. Si susseguirono le settimane nel digiuno e nella preghiera. Il nostro viaggiatore dimenticò di aver fatto tanti programmi di altrettanti viaggi. Il ramo che l’aveva trasportato si era già innestato da tempo al suo albero e Ariatide, svegliandosi come da un sonno, si presentò all’Archimandrita, che gli domandò:

   «Visto che vuoi venire a vivere con noi, qual è la ragione che più ti spinge a voler essere monaco?».

   «Ho provato tanta gioia a contemplare gli occhi di coloro che vedono l’invisibile» rispose Ariatide.

   «Vorresti vederlo anche tu? Vieni e lo vedrai».

   Ariatide moltiplicò digiuni e penitenze, ma non riusciva a vedere ciò che desiderava. Dopo alcuni mesi si rivolse a un confratello per chiedere se veramente vedeva l’invisibile e questi gli rispose: «Io no, ma la nostra comunità sì».

   Poi lo domandò a un altro, ricevendo la stessa risposta. Andò allora dall’Archimandrita per dirgli che si era sbagliato e che pensava di tornare a casa, forse a pescare, ma prima lo ascoltò: «La comunità è un corpo che contempla l’invisibile. Tu puoi essere una mano, un piede. E la mano non vede, ma il corpo di cui fa parte sì. Tu puoi essere il cuore, ma sai che batte giorno e notte perché il corpo possa vedere, anche se rimane al buio per tutta la vita. Non ti basta?».

   «Resto – disse Ariatide – anche se non lo vedrò mai».

   E, in quel momento, gli si aprirono gli occhi. 

Agostino, monaco di gioia    

    Un paio di giorni dopo, Teofilo si rivolse allo starez:

   «Padre, mi sembra di non poter più fare a meno di questo luogo». 

   L’anziano, invece di dargli una risposta, si diresse verso un armadio dove teneva altri rotoli forse scritti da lui e ne prese uno, che posò sul tavolo.

   Teofilo chiese ancora:

   «Padre, perché mai – senza eccezione per religiosi e consacrati, laici, sposati e no, celibi per scelta o per malattia – ciascuno deve incontrare così tanta fatica per crescere nell’ascetica, nell’umiltà e nella santità?».

   «Figlio, ci sono tante risposte nel Vangelo, in San Paolo, nella storia della Chiesa e nella nostra esperienza personale, ma oggi ti vedo stanco e preferisco farti leggere un altro rotolo, che potrà rilassarti e aiutarti nello stesso tempo».

   Teofilo guardò il titolo quasi banale: “Agostino, monaco di gioia” e si ritirò a leggere.

   Agostino era entrato nel monastero molto giovane. La sua bontà era naturale. Non era fatica per lui il lavoro pesante nei campi, né era sforzo la preghiera prolungata, anzi più tempo poteva dedicarle, più si rallegrava. Essere povero, casto e ubbidiente non gli era mai costato più di tanto: per indole era staccato dalle cose di questo mondo, né aveva pensieri e desideri per sé, ma solo per il bene degli altri e considerava che ubbidire a un superiore gli rendesse ancora più facile la vita.

   Aveva parlato di queste cose con l’Abate – anche perché si avvicinava la scelta dei Voti perpetui – e spiegato come aveva potuto che la vita per lui nel monastero presentava soltanto aspetti positivi. Aveva cercato di digiunare, ma si era accorto che i monaci iniziavano a nutrire una grande stima per lui, perciò aveva smesso e cercato di apparire il più possibile come gli altri, per evitare ogni speciale considerazione.

   L’Abate voleva aiutarlo nella sua vita ascetica, ma si rendeva conto che nulla poteva turbarlo. Per offrirgli qualche possibilità, chiamò perciò il monaco Daniele e gli disse:

   “Per ubbidienza, da domani cercherai di trattare nel modo peggiore Agostino: nel monastero non incontra nessuna fatica e dobbiamo aiutarlo a scontrarsi con una realtà avversa, affinché possa santificarsi superandola”.

   Daniele chinò la testa e sussurrò appena:

   “Proprio a me doveva chiedere questo? A me, che gli sono così amico? Comunque ubbidisco”.

   L’Abate soggiunse:

   “Più riuscirai ad essere crudele, più farai l’ubbidienza e più aiuterai Agostino”.

   Si lasciarono. Andarono a pregare la compieta, poi a riposare, ma a Daniele il sonno non venne. Il mattino seguente, iniziando il lavoro, appena passò accanto ad Agostino, gli diede due schiaffi violenti e senza ragione, tanto da lasciarlo per un momento stordito. Nessuno dei due disse una parola e ciascuno andò al proprio lavoro, ma Agostino si domandò: “Che cosa vorrà dirmi Dio con questo?”. Fece un lungo esame di coscienza e, non trovando particolari mancanze, cercò di aumentare la sua attenzione nel non offendere nessuno. Tuttavia, quando lo rincontrò nel pomeriggio, Daniele lo insultò ancora:

   “Ti rendi conto di quando sei idiota?”. E se ne andò.

   Nella notte, Daniele pianse tutte le sue lacrime e Agostino pregò per il suo amico, diventato avversario per qualche inspiegabile ragione: “Certamente passa un momento molto difficile: lo aiuterò con la preghiera, pensava”.

   Il giorno dopo Daniele cercò di essere meno grossolano, ma più tagliente:

   “Non sono arrabbiato con te, vorrei solo che ti svegliassi un poco. Stai fingendo di essere buono, il migliore, per farti apprezzare. Se ne accorgono tutti e ridono di questo tuo modo di fare. Sei diventato la barzelletta del monastero”.

   Agostino non ebbe il tempo di ragionare per dargli una risposta prima che scappasse quasi furioso. Dopo una settimana, Daniele andò dall’Abate:

   “Fin quando dovrò massacrare l’anima di Agostino in questo modo?”.

   “Continua” fu la sua risposta.

    Anche Agostino confidò all’Abate:

   “Padre, sono molto preoccupato per il fratello Daniele. Probabilmente passa un momento difficile. Preghi molto per lui, faccia pregare e, se può, lo aiuti”.

   Si lasciarono. L’Abate, poi, per evitare che Agostino pensasse che il problema potesse essere Daniele, chiamò altri due monaci e altri due ancora, ai quali diede lo stesso incarico. Quando Agostino capì che non era Daniele, né gli altri che nel frattempo avevano cominciato a farlo soffrire, pensò che il problema fosse tra lui e Dio stesso. A quel punto, si rallegrò molto per aver qualcosa da offrire che prima gli era mancato e cominciò a pregare: “Signore, cosa posso aver fatto di tanto bello, santo e gradito a Te, per meritare di avere qualche lacrima da aggiungere al tuo sangue per la salvezza del mondo?”. E così gioiva ogni volta di più, nelle sue umiliazioni. Qualche tempo dopo, l’Abate gli disse che il giorno seguente avrebbe dovuto lasciare il monastero. Non fu richiesta nessuna spiegazione. Il giovane baciò i piedi del suo Superiore, con il quale non aveva mai discusso l’ubbidienza, e passò l’intera notte in ginocchio davanti all’altare per dire grazie. Finalmente gli veniva chiesta la fraternità, il dono più grande che aveva ricevuto nella vita.

   Se Dio chiedeva questo, certamente aveva un senso. E passò tutto il tempo a ringraziare di poter offrire. Prima che suonasse la campana per svegliare il monastero, si alzò in piedi e intonò il Magnificat a voce alta, pensando di essere solo nella chiesa, ma subito il suo canto diventò un coro fatto di canto e lacrime: era il coro di tutta la fraternità che, per l’intera notte, senza che lui se ne accorgesse, aveva vegliato e pregato per lui nella stessa chiesa.

   Quando si rese conto di ciò che era capitato, prima di voltarsi indietro e rallegrarsi per tutta quella solidarietà, tirò su il cappuccio e abbassò la testa, mentre s’incamminava per uscire. L’Abate, che l’aspettava per salutarlo, appena varcata la soglia, gli disse:

   “Dalla porta che hai appena lasciato finisce il monastero ‘dentro le mura’ e inizia quello ‘fuori le mura’. Resterai appena 40 giorni in questo monastero senza mura, né porte, né finestre. Se non riuscirai a vivere se non recluso, dovrò chiederti di lasciarlo e non potrai più restare con noi. Se dopo 40 giorni tornerai, ci comunicheremo se ti ha avvicinato di più a Dio e ai fratelli il monastero fuori le mura o quello dentro. Mi consegnerai la risposta di Dio e la tua e le firmerò per l’inizio della tua nuova avventura”.

   Mentre Teofilo leggeva quelle righe, si rendeva conto del rischio che correva anche lui, cioè di non essere quasi più capace di vivere senza quell’eremo sulla montagna, e, intanto, avvertiva la necessità di dover essere più libero nei confronti di quello stato di vita che stava scegliendo. Allo stesso tempo, percepiva la grandezza del dono di poter dedicare tutta la vita alla preghiera, alla meditazione, accanto a un anziano che poteva guidarlo all’eterno abbraccio con Dio. Eppure, di tanto in tanto, era scosso dal timore di perderlo. Perciò, riconsegnando il rotolo, ammise:

   «Padre, sono attanagliato da una tristezza infinita. Voi sapete che spesso i dubbi, le paure e persino le angosce entrano con molta facilità dentro le mura del mio eremo interiore e la scorsa sera ho pianto tanto. Mi ha invaso il timore di esserne indegno e di doverlo lasciare, perdendo l’occasione di fare un cammino così prezioso e, in definitiva, di perdere l’abbraccio eterno di Dio, la vita eterna».

   «E per quale ragione Dio dovrebbe negarti il dono della vita eterna?».

   «Nella mia vita ho sempre desiderato amare, ma mi sembra di non esserci mai riuscito. Avrei voluto avere un affetto di fuoco, quando m’inginocchiavo di fronte al Signore o quand’ero vicino a un compagno di viaggio, ma mi sono sempre trovato con un cuore assiderato, un pezzo di ghiaccio. Temo, Padre, di non aver mai amato nessuno. Proprio per questa mia debolezza sento tanto più forte il desiderio di poterLo abbracciare intensamente e per sempre almeno dopo la morte, e in Lui abbracciare l’affetto del mondo intero.

   Padre, vorrei avere la stessa passione, anzi infinitamente più forte, di quel giovane che mi ha confidato: “Non desidero altro che correre, correre e raggiungere lei, poi abbracciarla stretta e poterle dire ‘Sei tutta mia’. Anch’io vorrei correre da Lui, il mio Signore, per abbracciarlo con tutto me stesso, dicendoGli: “Sono tutto tuo”. E non staccarmi più per l’eternità. È un desiderio tanto grande, che sono stato assalito dal timore di perdere questo dono. Non ho alcun diritto di pretendere un simile regalo. Me lo darà certo come mi ha regalato la vita, ma se non me l’avesse data, avrei forse potuto emergere dal nulla e vantare una qualche pretesa per averla? E se, dopo la morte, il mio cuore ghiacciato fosse incapace di accogliere quell’abbraccio, quale diritto potrei presentare?».

   «Ma Gesù Cristo non è morto per te? Non ha dato la vita per te?». 

   «Sì, certo, Lui mi ha dato tutto, ma sono io che non sono stato capace di aprire le mani. Lui ha inondato di luce la mia casa per anni, ma a me sembra di non aver mai aperto le finestre. Se il Signore mi negasse questo abbraccio, che sempre di più desidero, non sarebbe Lui in torto, ma io, perché non mi sono allenato ad abbracciare e potrei trovarmi in quel momento con le braccia paralizzate».

   «Teofilo, sei troppo distante dal capire cos’è un cuore di Dio che vuol solo bene. Vai a riposare, ti richiamerò per continuare il nostro dialogo. Ti lascio la benedizione e una sola parola: Ricordati che tutte le fibre più segrete del tuo corpo e del tuo spirito sono state amate da Lui e quando Lui ama anche solo una pietra, quella non si può più staccare da Lui e diventerà una pietra dei Cieli nuovi e Terra nuova per tutta l’eternità. Buonanotte» e gli lasciò rotolare tra le mani un testo, che subito raccolse.

   «Grazie, Padre, per l’ultima risposta che mi avete appena dato, forse è la parola di cui avevo bisogno».

   Poi s’inginocchiò, baciò la terra, fece il segno della croce e si congedò. Era stanco, ma non poté resistere alla tentazione di aprire quel rotolo e leggerlo. Il titolo, “Lettera a una margherita”, gli parve strano. Non immaginava certo quale messaggio potesse portargli, comunque non solo lo lesse, ma si fermò a lungo a meditarlo.

Lettera a una margherita                            

   Carissima margherita, questa mattina, passandoti vicino mentre meditavo sulla creazione, ti ho detto qualcosa che avrebbe potuto stupirti: “Lo sai che stai dipingendo icone?”. E tu non ti sei distratta, sei rimasta immobile, te stessa, in assoluto silenzio, con i tuoi quattordici petali, ad assaporare la vita e la presenza di un amico che adesso sta vicino a te, e ti scrive una lettera.

   Da alcuni giorni sto pensando a una nuova immagine, a un nuovo volto per un’icona che aiuti a pregare. Oggi mi sono preso una giornata di riposo e ho incontrato te. Ti ho detto che stai dipingendo icone anche tu. Lo sapevi? No, non lo sapevi e non potevi saperlo, però questa affermazione è tanto vera come è vero che io esisto. Tu, che fiorisci per un momento, sei una piccola parte dell’universo e, quindi, del mio corpo. Esso, infatti, non è solo la mia testa, con gli occhi che ti guardano, o i miei piedi, che sono venuti fin qui da te. E i miei polmoni non sono chiusi dentro una cassa toracica, ma si propagano nell’aria, fino alle foglie degli alberi che stanno producendo l’ossigeno raccolto nel vento e fatto circolare da temperature diverse. Anche le tue foglioline hanno prodotto una piccola porzione di questo ossigeno. I miei polmoni, perciò, si estendono abbracciando tutta l’atmosfera con la pressione prodotta dalle masse e quindi dalla terra stessa: nessun granellino di sabbia è escluso dal formarli. Così il mio corpo, radicato in tutte le piante che stanno producendo frutti per la sua vita, è in realtà una piccolissima parte del mio corpo più grande, l’universo.

   Cara margherita, potresti pensare di essere tanto staccata e distante da me da non riuscire a immaginare di essere parte del mio corpo. Cercherò di spiegarmi meglio: le mie mani non pensano, eppure anch’esse stanno dipingendo icone; voglio dire che fanno parte di un corpo che sta dipingendo per compiere la sua missione. I miei piedi, il mio sangue, i miei tendini sono in qualche modo materia non pensante, ma fanno parte di un corpo che sta pensando e scrivendo una lettera a te, cara margherita.

   Ecco, i pochi capelli rimasti stanno pure pensando a questa nuova icona, al punto che finiscono per diventare bianchi o staccarsi del tutto a causa della stanchezza e del tempo che passa, ma dire che i miei capelli stanno pensando e dipingendo è tanto vero quanto il fatto che lo sto dicendo a te. Guarda: ne ho staccati un paio e te li ho messi vicino, perché tu possa capire meglio. Essi erano parte del mio corpo prima e adesso continuano ad esserlo allo stesso modo, anche se ora sono un poco più distanti. Potrei addirittura trapiantarli.

  Come vedi, noi siamo un corpo solo. Per questo mi sento molto responsabile quando compio una qualsiasi azione. Quando riesco ad allungare la mano a qualcuno che ha inciampato ed è caduto, so di prestare questa mano all’intero universo, per rialzare un’altra parte di me. E, allo stesso modo, quando reco qualche danno alla vita, sto obbligando l’intero universo a uccidere una parte di noi.

  Cara margherita, non esiste uccisione che non sia suicidio! Ti ho detto queste cose per ripeterle a me stesso. È arrivato il primo vento della sera e fra poco dovremo interrompere questo momento di grazia. Lascia che ti racconti una storia bellissima di cui tu fai parte. «C’era una volta Dio, o meglio c’è sempre stato e ci sarà sempre. Ebbene, questo Dio fece un sogno e lo amò tanto da farlo esistere: ed ecco il meraviglioso universo di cui noi facciamo parte. All’inizio, il fuoco, le rocce, le acque, le stelle, i venti, i lampi e i tuoni… tutto quanto era l’affetto di Dio cristallizzato e diventato visibile. Ma Lui non si accontentò di questo meraviglioso universo e lo volle vivo: con linfa, radici, fiori e frutti. Così il mondo imparò a esistere come vivente; accompagnato dalle paterne mani di Dio, imparò a nascere attraverso le sue foreste; imparò a vivere e a morire, per rinascere e rinascere in una danza di vita senza fine. E poi la nascita di ogni essere vivente produceva altra vita moltiplicandosi, mentre i fiori che morivano lasciavano semplicemente spazio ad altri boccioli preparati per celebrare la festa della vita.

  Ma il progetto di Dio andava oltre. Voleva il suo universo con sangue, carne e occhi per vedere e, come le pietre rotolavano sul letto del fiume pur facendo sempre parte del grande corpo del mondo, così alcuni pezzi di questo mondo si staccarono, tagliando infiniti cordoni ombelicali, e cominciarono a muoversi.

   Pezzi del mondo cominciarono a correre per raggiungere il cibo; il mondo cominciò a volare con le ali degli uccelli e con i colori infiniti delle farfalle, fino a quando questo universo benedetto, accompagnato con sempre maggiore attenzione dal buon Dio, da corpo diventò corpo e anima; e infine corpo anima e spirito, destinato a vivere l’eterna storia di Dio e quindi capace di pensare e d’inginocchiarsi di fronte a suo Padre per dirgli: “Grazie”.

   Certo che la morte del più piccolo degli insetti, come del più anziano degli uomini, poteva turbare Dio, ma come avrebbe potuto rinunciare a vedere il Suo universo trasformarsi in bambino che nasce, cresce e corre sulla faccia della terra? Avendo Lui soffiato il Suo spirito nel cuore del mondo ed essendo il mondo diventato un Suo figlio vivente, capace di cantare grazie eternamente, Dio pensò che, per vivere una storia così importante e coinvolgente, era bene dare all’uomo la possibilità di scegliere di far parte di questa eterna avventura o no, proprio perché la responsabilità era diventata grande. Così l’uomo, combattuto tra la scelta di esistere con grande dignità e responsabilità e quella più comoda e facile di non esistere, cioè di lasciarsi morire, spesso cominciò a scegliere la seconda.

   Questa pigrizia di vivere, di fare il bene, che chiamiamo ‘peccato’ turbò veramente il cuore di Dio. E, visto che l’uomo ammucchiava peccato su peccato senza aver più la forza di rialzarsi, di chiedere perdono e di essere riammesso a far parte dell’eterna storia di Dio, ecco, è venuto Egli stesso, proprio Lui, per farsi Figlio dell’uomo. Da quel momento l’universo diventò il corpo della seconda persona della Trinità santissima».

   Capisci, margherita, perché ti scrivo? Questi era Gesù, il Cristo: con la sua testimonianza ci insegnò nuovamente come combattere la pigrizia di fare il bene, la pigrizia di vivere e ci rieducò a rialzarci e a scegliere di vivere ancora.

   Cara margherita, scusami se ho scritto cose che interessano forse più a me; tu non ne avevi bisogno, ma grazie per avermi ascoltato. Ormai è tardi, è molto tardi; e adesso anche tu, per ubbidire alle leggi del nostro corpo, hai chiuso la tua testa tra i petali e ti sei addormentata. Verrà la sera in cui mi addormenterò anch’io, poi lo faranno tutte le margherite e tutti i miei fratelli e sorelle, infine si addormenterà tutto il mondo, cioè l’intero nostro corpo.

   Ma, cara margherita, ci attende un risveglio: il risveglio dell’intero universo, perché Dio vorrà far rinascere l’intero corpo del suo Figlio e allora esploderanno Cieli nuovi e Terra nuova ad ospitare la nuova Creazione: noi. Buonanotte.