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Diario 1965-1983

Diario

1965 - 1983

1965

Trovai annotato nel diario del 1965 come avvenne il primo incontro con gli zingari. Scrissi queste righe quando quella prima esperienza era già finita. 

Gli zingari se ne erano andati ma avevano lasciato una certezza nella mia anima: che quella storia sarebbe continuata forse fino alla fine della mia vita. 

Prima di riportare quel testo premetto che nel ’65 gli zingari potevano essere i più poveri tra i poveri della periferia albese, o almeno io così credevo.     

Nel Seminario di Alba si respirava l’aria del Concilio Vaticano II a pieni polmoni e io avevo vent’anni. Non solo la Chiesa ma tutta la società brulicava di nuovi fermenti. Il sessantotto non era distante. I miei animatori del Seminario (don T. Boero, don G. Lisa, don N. Bussi, don A. Vigolungo) non erano certo preoccupati nel tarparci le ali. 

In questo contesto mi incontrai con gli zingari che diventarono la passione della mia vita.

Verso le 13 del pomeriggio, dopo aver attraversato il ponte del Tanaro ero sceso da una scarpata per costeggiare un tratto del fiume. Ero insieme a Luciano, un mio carissimo compagno di scuola. 

Avevamo deciso entrambi di raggiungere un accampamento di zingari ben visibile dal ponte stesso che avevamo lasciato alle nostre spalle. Avevo già provato precedentemente ad atterrare su quell’asteroide, ma ad ogni tentativo avevo trovato delle difficoltà tipo “oggi il tempo non è adatto e potrebbe piovere”, oppure “forse posso fare tardi e oggi devo preparare l’interrogazione di domani”, o ancora “oggi non mi sento molto in forma ed è meglio aspettare un altro giorno”. In realtà c’erano delle paure in me che non riuscivo a vincere, per questo invitai un compagno di scuola e grande amico per non trovare poi qualche scusa all’ultimo momento che mi facesse tornare indietro. Adesso eravamo in due. Quando arrivammo a pochi metri dall’accampamento ci arrestammo in silenzio e da parte mia mi chiesi come fossimo riusciti ad arrivare già così vicini al nostro luogo di battaglia: due mondi e due culture così diverse. Io avevo l’impressione di entrare in una foresta vergine dove puoi trovare qualche raro esemplare di fiore esotico sconosciuto, o puoi trovare il morso di un serpente velenoso. Gli zingari, bisogna ammetterlo, erano un tabù per me e Luciano, ma anche noi lo eravamo per i nostri pretesi interlocutori.

Il primo zingaro che non si fece incontro a noi ospiti del momento, ma si pose solo in atteggiamento di protezione nei confronti degli altri rimasti seduti fu Ciaciò, uno zingaro anziano. Lo avreste pensato un settantenne mentre di anni ne aveva poco più di cinquanta. I tratti del mento e degli zigomi erano eccessivamente sporgenti, il colore ben abbronzato. Uno sguardo che mi raggiungeva fin nel profondo e un’espressione per nulla rassicurante si nascondeva dietro i baffi. 

«Buongiorno» dissi, cercando di raccogliere tutte le forze che mi rimanevano per rendermi meno detestabile avendo capito di essere un intruso. Il vecchio emise un suono inarticolato e si voltò come se noi due avessimo già deciso di tornare indietro. E invece No. Il monologo proseguì in un chiaro dialetto locale. «Eravamo tanto stanchi di stare con gli occhi sui libri – dissi – e siamo usciti a fare due passi fino al ponte, poi di là abbiamo intravisto dei bambini. Sa, a me piace tanto giocare con i bambini anche se sono già grande», nel frattempo avevo direzionato il mio sguardo verso i due più piccoli che giocavano con un cagnolino. «Ciao, come siete belli!» e costruii un sorriso il meno idiota possibile. Nel frattempo mi ero messo a sedere cercando di giocare con i bambini e il cane, esattamente come potrebbe fare una marionetta comandata da fili invisibili e per di più una marionetta molto impacciata che però recitava la sua parte. Dico “recitavo” nel senso che avevo perso ogni spontaneità.   

Intanto mi resi conto che avevo azzeccato giusto nel cominciare a familiarizzare con i bambini: forse era l’unica strada che avevamo in quella circostanza. Le donne e alcuni più giovani ironizzavano nella loro lingua con battute spezzate senza però lasciar capire una sola parola e dimostrando allo stesso tempo di essere molto incuriositi.

Il vecchio non aveva ancora detto nemmeno una parola e non si poteva supporre quale sarebbe stata la prima. Solo con gli occhi seguiva ogni movimento di noi due rimasti forestieri. Intanto Luciano aveva fatto scivolare alcune caramelle per calmare i due piccoli che già avevano cominciato a piangere. A quel punto mi rivolsi al gruppo dicendo: «I bambini che abitano là in quelle case per divertirsi hanno bisogno di una montagna di giocattoli e poi non sono mai contenti come questi in compagnia del loro cane». E qualcuno disse «Ma quello è un giocattolo vivo, non è finto!».

Incredibile ma la voce era del vecchio Ciaciò che per altro si era nuovamente rinchiuso tra le sue rughe e dietro i baffi quasi avesse ecceduto nella famigliarità. Io rimasi sorpreso ma non persi tempo: «Se vi piacciono i cuccioli domani ve ne portiamo uno, siete contenti?». I due bambini restarono senza gesti né espressione, «Allora, siete contenti?»disse Luciano ma ancora silenzio da parte dei nostri diretti interlocutori, mentre una donna si fece avanti e «Sì, portatecelo un cane, ne abbiamo proprio bisogno! Avete anche qualcosa da mangiare? un po’ di pasta, zucchero, olio, noi abbiamo bisogno di tutto. Unavolta erano venuti dei giovani come voi e ci avevano portato tanta roba». Non aveva ancora finito di parlare che Toni, un ragazzo sui 15 anni, aveva ripreso: «Se avete delle scarpe per me, o se troverete dei pantaloni che mi possono andare bene, o anche una camicia, vedete, che questa è già quasi finita», «Noi siamo tanto poveri» replicò una donna mentre due bambine seguite da tutti i bambini e bambine che erano spuntati all’improvviso come se fossero stati accartocciati tra le pieghe delle ampie gonne di quelle donne sedute ripresero in coro: «Mi dai qualcosa?», «qualcosa signore!», «mi portate domani qualcosa!», «Mi porti un vestito?», «Sì, un vestito anche a me!». 

Luciano ed io non sapevamo più che pesci pigliare, quando ci tolse dall’imbarazzo il vecchio Cianciò. «Basta adesso, non si fa così con la gente!». «Allora ci rivediamo domani» conclusi. Il saluto fu quasi festoso da parte dei bambini speranzosi. E partimmo.

Dopo un lungo silenzio Luciano disse: «Abbiamo messo i piedi nelle sabbie mobili» e io «Hai ragione, chi ne esce? Ma a questo punto abbiamo dato la parola». Mi rispose. «Si, non c’è alternativa, bisogna andare avanti – e aggiunsi: tornare indietro significa essere vigliacchi o almeno paurosi». 

La sera cercammo indumenti tra gli amici, caramelle, biscotti, ma niente cane. Il giorno seguente facemmo ritorno all’accampamento, ma per la via più lunga in cerca di “provvidenza”. Ad un certo punto «Guarda! – disse Luciano – in quel cortile ci sono dei cani!». Infatti c’erano due cani grandi e tre cuccioli. Dissi a Luciano che avremmo potuto prendere il più piccolo e anche brutto. Luciano precisò: «A noi serve un qualsiasi bastardo, purché sia un cane e la promessa sarà mantenuta». Detto fatto; un pezzo di pane che non a caso ci eravamo portati dietro e la cattura fu abbastanza semplice. 

Arrivammo al campo degli zingari: «C’è il cane! C’è il cane!» gridarono quasi in coro e subito: «Cosa mi hai portato?». «Ci sono le scarpe?», «e la camicia – aggiunse un altro – c’è?», «hai detto che avresti portato le caramelle!». Abbiamo dovuto calmare per un momento i più piccoli, anche se i più grandi non erano meno invadenti. «Questo è mio!»disse una bambina di 7 od 8 anni, e si era già tirato dietro un pezzo di stoffa che risultò un paio di pantaloni da uomo e corse via dietro una carovana inseguita dal fratello. Un istante dopo si sentì piangere mentre il fratello ritornava con i pantaloni già vestiti e venne per vedere se c’era ancora qualcosa. Intanto due ragazze già abbastanza alte si erano prese per i capelli contendendosi una camicetta. Due bambini piangevano in disparte probabilmente a causa dell’ingiustizia distributiva. Tutti gli altri bambini più piccoli erano per fortuna attorno al nuovo ospite dell’accampamento, voglio dire quel brutto cagnolino nero e si divertivano un mondo. 

Il vecchio Ciaciò seduto non si era scomposto, come se nulla fosse accaduto, ma bisognava essere ingenui per non pensare che i suoi occhi e le sue orecchie non registrassero tutto mentre il fumo della pipa si arrestava con pause troppo lunghe. Ormai tutti si erano serviti e Luciano ed io restammo al centro di quella scena come due scatole vuote.

Nel frattempo due donne con un bambino di pochi mesi rientrarono nell’accampamento con una notevole quantità di alimenti e vestiti più una brutta notizia: «Abbiamo visto un incidente a pochi metri da noi in via Macrino, vicino all’Ospedale, ed è mancato poco che Belài restasse sotto una delle macchine». Il sangue mi diede un giro violento nelle vene. Questo significava che erano passate proprio vicino alla casa di dove proveniva il brutto cane nero. Le zingare erano certamente state viste a motivo dell’incidente. Per questo pensai che se alla famiglia di Via Macrino fosse saltato in mente di dubitare che le zingare avessero rubato il cane e se avessero voluto cercarlo e pretenderlo indietro … ahimè sarebbe stata la fine di un’amicizia appena abbozzata. E che vergogna se gli zingari avessero pensato che quel cane era stato rubato! Ogni tentativo di uscire da questo inghippo era vano per questo risolsi di andare a confessare la meschinità. 

La sera stessa percorsi la Via Macrino, entrai nel cortile dove stavano ancora quei quattro cani, bussai la porta e mi presentai: la vergogna era tanta che mi usciva dai pori della pelle, dagli occhi, dalle orecchie, dal naso, dalla bocca e perfino dai capelli che si erano come raddrizzati sulla testa. Raccontai il fatto come era avvenuto, anche se cercai di incartarlo con qualche bugia per evitare di dire dove era finito il cane, conclusi poi dicendo che il cane non l’avevo più e i soldi per pagarlo nemmeno. 

Deve essere stata tanto grande l’impressione che feci in qualità di penitente tanto strano che al termine dell’accusa di tanta idiozia Tonio, il capo famiglia sbottò in una risata per togliermi da tanta confusione e aggiunse “Sai che per tre chilogrammi di uva io ho fatto sei mesi di prigione! Vedi, fino a pochi anni fa noi giravamo con un carrettino e un asino, poi con un piccolo camioncino”. “Noi però non abbiamo mai rubato – intervenne subito la moglie – noi non siamo come tanti altri che … lei sa …”. Le debite pause erano significative. “Giusto – affermò il Tonio – non abbiamo mai rubato e abbiamo cresciuto sei figli. Beh! diciamolo pure, avremo preso qualche patata, qualche patata dico, un pomodoro, della frutta, una gallina, quello sì, o quei tre chili di uva di cui avevo detto prima”. “Ma quello non è rubare – interruppe la moglie – rubare è quando si ruba a quei poveri diavoli che stentano a vivere o quando si portano via i milioni con la pistola o si ammazzano dei poveri innocenti: quello si che è rubare”.

Io ascoltavo, annuivo e di tanto in tanto sollevavo la testa poi la riabbassavo con mille pensieri che mi passavano per la testa, ma specialmente mi sentivo profondamente assolto e pensavo “meno male che non abbia ammazzato nessuno, non ho preso milioni, meno male davvero"! Ma perché quel cane maledetto!” poi alzai la testa e abbozzai un sorriso di circostanza e “So comunque che quello che ho fatto non va bene però riconosco anche che senza quel cane non avremmo fatto amicizia. Se siete contenti ripasserò di qui per conoscere anche la bambina e i due maschietti che stanno con voi. Adesso vado, perché ho fatto tardi arrivederci!”. “Aspetta – interruppe Tonio – mia moglie ha già preparato il caffè, il caffè si prende sempre”. La Lucia rovesciò la bevanda nelle tazze mentre Tonio prese la sua, uscì sulla porta e ne rovesciò qualche goccia per terra. Io, non sapendo se quello era un rito necessario o superfluo (seppi dopo che era un’offerta in memoria dei defunti) ripiegai con una piccola gomitata e un po’ del mio caffè cadde sul pavimento: poteva essere interpretato voluto o un semplice incidente. 

Non passarono molti giorni che ad un appuntamento con gli zingari ecco un ospite veramente indesiderato: Tonio per caso ci aveva preceduti e si trovava già vicino al fuoco; il brutto cane nero gli girava tra i piedi. Lo aveva riconosciuto anche troppo. Ci salutammo tutti e da parte mia feci per abbozzare una qualche conversazione mentre ero diventato rosso di nome e di fatto fino all’inverosimile. Mi sedetti molto vicino a Tonio e mentre si faceva abbastanza chiasso mormorai sottovoce con un sorriso per lo meno confuso: “Sai Tonio, ti prometto che per tutta la vita non dirò mai più una bugia, voglio dire, anche quelle bugie piccole piccole che proprio perché sono piccole hanno le gambe corte”. Infatti non avevo detto che il cucciolo era stato preso per darlo a degli zingari. Avevo pensato di complicare le cose con l’essere troppo sincero, ma adesso come si poteva smentire il fatto? In conclusione a Tonio il tutto non dispiacque perché capì che in me e in Luciano c’era della simpatia per gli zingari che in realtà erano suoi parenti.

«Io comincerei a mandarli a scuola questi bambini – disse Tonio per cambiare discorso – io ho fatto dei sacrifici con i miei ma adesso sono contento e anche la più piccola, l’anno che viene, ci andrà e imparerà anche lei quello che sanno gli altri, domani vedrete che sapranno difendersi meglio». Totò e Giac, i due figli maggiori di Ciaciò abbozzarono un sorriso ironico e Giac disse: «I tuoi che sanno leggere e scrivere pensi che metteranno la toga in Tribunale?». «Non metteranno la toga, ma certamente passeranno meno tempo dalla parte degli imputati. Non vedete? Si va sempre in galera!», poi Tonio continuò: «fra qualche anno questi bambini vi rinfacceranno che non li avete mandati a scuola. Pensate un po’ se io avessi studiato»  e Totò lo interruppe mentre attizzava il fuoco «saresti tale e quale», «ma tu – aggiunse Giac – che cosa volevi diventare? Il presidente della Repubblica? Ebbene non ci sei riuscito, mi dispiace per te; io invece volevo restare uno zingaro e lo sono e per di più non me ne dispiace affatto e i miei figli faranno la vita che ho fatto io, mio padre, il nostro povero nonno e tutti gli altri; se invece vorranno cambiare non sarò certo io a impedirglielo». 

Tonio si fece più calmo e riprese con tono più discreto: «Ci sono questi ragazzi. Dite loro di insegnare almeno qualcosa ai bambini», poi si rivolse a noi: «Non potreste voi fare un po’ di scuola?» e Totò aggiunse. «Certo, se vengono loro io sono ben contento, anzi vorrei anch’io imparare almeno la firma». «E poi che cosa ne fai – disse Giac -­ di una firma più lunga, anziché una firma più corta? Mi riferisco a quella specie di croce che sappiamo fare tutti». «Sì, è anche vero – riprese Totò – ma quando devo prendere quella penna in mano io mi sento sempre tanto vergognato». Ciaciò rise e «Già, nemmeno se dovessi firmare tutti i giorni. Ma tu, che cosa sei Totò, non sei mica un avvocato, un maestro? E allora sta tranquillo … piuttosto guarda! … guarda il cavallo che si è impigliato con la corda, si può far male!». Totò e Giac balzarono dal cavallo mentre una ragazza serviva il caffè

Il discorso si spostò sui cavalli poi della disgrazia che aveva avuto il Cicio cui era morto l’asino. Nel frattempo Ciaciò informò Tonio che tra alcune famiglie avevano già raccolto quaranta mila lire e nei giorni successivi pensavano di completare la cifra necessaria per comprarne un altro. Tonio si mise in disparte, tirò fuori qualcosa dal portafoglio e lo diede a Totò. “Metti questo insieme alle quarantamila, vorrei fare di più ma in questi giorni alcune cose mi sono andate anche troppo di traverso. Spero di fare di più un’altra volta”poi si diresse verso il camioncino e invitò noi due: “Se venite a casa vi posso portare”. Accettammo.Quel viaggio tutto traballante, la tensione del pomeriggio in accampamento dove io mi ero trovato tutt’altro che a mio agio, mi diedero un  certo malessere e dopo aver salutato e ringraziato Tonio mi fermai a un angolo della strada per vomitare e riprendermi dopo essermi seduto un momento. Intanto Luciano mi disse: «non so proprio se stiamo recitando l’Amleto o una commedia, comunque il tutto è interessante». Dopo una pausa: «Allora – disse Luciano -­ domani cominceremo la scuola?» e mi pare che dissi. «Lasciami pensare, o meglio, non ho voglia di pensare. Domani cominceremo la scuola, d’accordo». 

Diversamente dalle altre volte il giorno seguente anziché andare in accampamento con caramelle, giacche, pantaloni, camicie, andammo con un sacchetto di fascicoli illustrati.Portammo anche qualche quaderno e parecchie matite colorate. L’accoglienza del giorno seguente fu meno trionfale, ma abbastanza carica di curiosità. «Cosa facciamo oggi?» disse qualcuno. «Cosa giochiamo?» aggiunse un altro. «Oggi – precisò Luciano – giochiamo a fare la scuola! Vedrete che bel gioco!». Ci accovacciammo in cerchio sotto i pioppi: erano tre bambini e quattro bambine. Il più piccolo aveva tre anni e mezzo e la più alta ne aveva già compiuti tredici. 

«Che cosa facciamo a scuola?» disse Ciài interrompendo i preparativi. «Vedi Ciài – le dissi – io ti insegno tante cose che tu non sai ancora. Per esempio dov’è la luna adesso?». Ciài guardò in cielo e si fermò, poi «Ma adesso è giorno!», «E voi non l’avete mai vista la luna di giorno?» chiesi agli altri. «Sì, è vero – riprese Ciài – l’ho vista» - «l’ho vista anch’io» disse Marco. «Anch’io, anch’io l’ho vista» aggiunse la Checa. «Ma – ribadii io – oggi però non si vede. E il sole dov’era questa notte? A dormire? Dormirà il sole di notte? Vedete io e Luciano, a scuola, vi insegneremo dove sta la luna quando non si vede e dov’è il sole di notte. Impareremo poi come si chiamano i fiori. Lo sapete che ogni fiore ha un nome? Proprio come i bambini. Poi impareremo il nome degli insetti, degli uccelli, Pensate che bello, li potremo chiamare tutti per nome». «Se li chiamiamo per nome – chiese la Checa– ci risponderanno?». Luciano rispose prima «Certo che risponderanno, ma solo agli amici. Anche il cane, il gatto, il cavallo rispondono solo agli amici. Dimmi Checa, come si chiama il tuo cane più grosso?». «Tin»  e Luciano fece subito «Tin … Tin …Tin» poi fischiò ma il cane si girò appena senza scomporsi troppo, poi sempre alla Checa disse: «Adesso chiamalo tu, voi siete già amici e vedrai cosa capita». «Tin, Tin» e il cane balzò sulle ginocchia di Checa, si rotolò, allungò la lingua per leccare il collo e poi la faccia mentre leicercava di respingerlo per l’eccessiva confidenza.

«Guardate laggiù – dissi con finta sorpresa – là vicino alla seconda arcata del ponte, vedete, c’è un altro sole. Che bello, un altro sole!». Invitando tutta la scolaresca verso il ponte continuammo a scandire «C’è un altro sole, un altro sole, uno in cielo e uno nel fiume». Il sole intanto si stava spostando verso la terza arcata e mentre lo rincorrevano, quel sole si avviava verso la riva opposta. Luigi si fermò e quasi deluso «Quel sole è finto, non è vero!». «Bravo, hai ragione – disse Luciano – ma lo sai perché lo vedi uguale a quello che c’è in cielo? Andiamo tutti vicino all’acqua». Io mi accertai che nessuno scivolasse e poi «Guardate qui, c’è un altro Luigi, un’altra Checa, un Marco, una Ciài, un Luciano, un altro Renato». Anche la Ciài fece la sua parte e disse: «Ma io avevo già provato a guardarmi nell’acqua!». «Anch’io» disse Marco e poi tutti lo ripeterono. 

Infatti, con Luciano cercavamo di far osservare le cose che i bambini erano abituati a vedere tutti i giorni ma senza riflettere e chiedersi il perché delle cose che vedevano.«Ciài, và dalla mamma a chiedere uno specchio, poi vi spiego perché vediamo il sole nell’acqua». La Ciài andò e tornò, naturalmente senza specchio. «Mia mamma non ha nessuno specchio, che cos’è?». «Lascia stare, mi è venuta un’idea. Luigi và a prendere un pezzo di vetro là dove c’è il demolitore e ne faremo uno». Presi una caramella con la carta stagnola e intanto arrivò il vetro. Dopo cinque minuti un rudimentale specchio era pronto, e tutti specchiarono il proprio naso in quei pochi centimetri quadrati di vetro.     

Nei giorni seguenti si cominciò a scarabocchiare sulle lavagne che ovviamente erano le pietre del fiume, le più grandi e ben levigare, mentre i gessetti erano sostituiti da pezzi di carbone che non mancavano mai. Dopo due giorni si interruppe l’esperimento perché era così deprimente lo spettacolo dopo un quarto d’ora di scuola che risultò impossibile continuare. Si tentò il disegno sulla carta con scarsi risultati. I fogli di carta appoggiati sulle ginocchia finivano pieni di buchi e in pochi minuti inutilizzabili. Poi ci fu un’evoluzione nella tecnica. Dopo aver tentato anche sulla sabbia, delle assi abbastanza grandi fecero la funzione dei banchi e cartoncini relativamente robusti servivano per queste prime opere picassiane. I bambini si divertivano un mondo. 

Quando poi Luciano ed io raccontavamo le storie vere degli insetti c’era addirittura entusiasmo. Seguivamo per esempio una formica mentre trasportava una briciola, poi altre venivano in aiuto. Spesso il viaggio durava molto tempo e a turno noi, maestri improvvisati, facevamo notare i particolari di quel lavoro faticoso fin che si arrivava a un buco piccolo e scuro dove, una per una, le formiche entravano. A quel punto Luciano o io accompagnavamo le formiche facendo lavorare la fantasia dei piccoli fin sotto terra nei depositi e in quei labirinti di mille stanze tra le formiche operaie, le guardiane, le dirigenti. Che bello il mondo delle formiche! E così passavano a turni gli altri insetti. 

Dopo qualche giorno ci fu la visita dell’ispettore. Chi poteva essere l’ispettore di una scuola così privata, così poco scuola, dove di vero c’era così poco: né veri banchi, né veri maestri, né veri alunni, né veri libri o veri quaderni?

L’ispettore ci fu: il vecchio Ciaciò. Si era spostato di qualche metro, venne ben vicino poi si rivolse alla Checa, la più alta: «Allora, hai imparato a scrivere?». La bambina mi guardò in cerca di difesa. «Di al nonno che presto saprai anche scrivere – dissi – e poi farai la maestra a tutti i più piccoli». Ciaciò sorrise poi aggiunse: «Io al vostro posto avrei già imparato tutto. Siete sempre su quei fogli e non sapete nemmeno fare la vostra firma», poi sorrise bonariamente e tornò vicino al fuoco con la sua inseparabile pipa. Io commentai sottovoce con Luciano: «Nonostante tutto la faccia di Ciaciò ci dice che possiamo continuare».

I bambini aumentarono di numero con l’arrivo di nuovi parenti: Luciano propose di fare due gruppi e si raggiunse il numero di 13 alunni. La scuola proseguì fino ad aprile. Un pomeriggio Luciano ed io, arrivati sul ponte, ci rendemmo conto che non c’era più l’ombra di uno zingaro. Sotto i pioppi trovammo un carretto sfasciato, stracci, carta: un deserto. Ci sedemmo senza commenti e restammo a lungo a contemplare i resti di quella festa che era durata per più di tre mesi. Luciano poi ruppe il silenzio.

«E’ stato bello, anche se è finito e poi … certamente ritorneranno e continueremo», e io «Se i piccoli non hanno imparato molto, qualcosa almeno noi lo abbiamo imparato, e poi c’è da dire che di sbagli ne avremo fatti più di uno, d’altra parte ci siamo incamminati su una strada senza conoscere in che direzione saremmo andati. Volevamo fare una scuola adatta a loro, alternativa non secondo i nostri schemi, ma come avremmo potuto? Non sappiamo chi sono gli zingari, che cosa ci stanno a fare in questo mondo, qual è la loro storia, i loro costumi, né conosciamo la loro lingua». «E chi le sa queste cose? – ribadì Luciano – da chi possiamo andare ad impararle se non restando con loro?». «Si – aggiunsi – ma come restare con loro? Facendo scuola, giocando a bocce, restando in compagnia di Ciaciò attorno al fuoco ad ascoltare?». «Forse si possono fare queste diverse cose insieme» suggerì Luciano. «Hai ragione – dissi – e in ogni caso abbiamo già iniziato a fare queste cose. E ciò che mi rende molto sereno è che ci siamo voluti bene. Io ho fatto questo con tutto me stesso e anche tu. La nostra amicizia e la loro non si cancelleranno facilmente. Hai visto come i genitori dei bambini sono diventati diversi nei nostri confronti? Come ci volevano bene il Totò, il Giac, il Carlo, Angelo e più di tutti il caro Ciaciò: bastava una sua approvazione con un sorriso abbozzato e l’entusiasmo continuava per una settimana certi di essere approvati. Anche la mamma della Checa, dopo i primi giorni cessò di piagnucolare. La Stella era tanto gentile con noi. Quindici giorni dopo il primo incontro non ci chiesero più una lira né una caramella. Penso che possiamo ritornare a casa contenti. Forse dobbiamo abituarci a vedere di più il bello che c’è attorno a noi». 

Riprendemmo così a salire il ponte senza poter trattenere qualche sguardo verso…. 


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La relazione è troncata qui. Ho incontrato questo testo dopo 40 anni. Non era una pagina di diario bensì la brutta copia di una composizione fatta per l’insegnante di italiano. Adesso la incollo qui così com’è perché quell’esperienza mi portò otto anni dopo a convivere con gli zingari almeno fino ad oggi e sono passati ormai 40 anni da quel giorno in cui li “incontrai” per la prima volta. Non dico che in quella circostanza li vidi per la prima volta perché fin da bambino ero abituato a vedere gli zingari però sempre dalla finestra o il buco della serratura. Mi nascondevo sempre spaventato. Mia madre chiamava le galline “cicie, cicie,cicie! … ci ci ci cicie! …” Mia zia a poca distanza ripeteva quel suono che in poco tempo chiamava a raccolta tutto il pollame. Mia nonna camminava su e giù sulla strada provinciale che costeggiava le nostre due case e cercava di seguire tutte le azioni fin quando gli zingari ripartivano dopo aver venduto un po’ di chincaglieria o chiesto elemosina. 

I tre mesi di visite all’accampamento degli zingari guarirono quella mentalità distorta di vedere gli zingari come pericolosi e ladri di galline. La paura ormai si era cambiata in amicizia. 

Continuai fino al 1972 a visitarli durante i mesi scolastici. In quegli anni presi contatti con d. Modesto Savoiardo, un grande amico degli zingari, con il Centro Missionario Charles de Foucould di Cuneo specialmente con Don Andrea Gasparino, poi con i Piccoli Fratelli con d. Mario Riboldi di Milano che insistentemente chiedeva al suo Vescovo di iniziare a convivere con gli zingari; presi poi contatto con l’Opera Nomadi che in quegli anni stava nascendo per opera di don Bruno Nicolini e la dott. Mirella Karpati. 

Poiché i Piccoli Fratelli avevano deciso di iniziare a convivere con gli zingari, io nell’estate del ’71 li precedetti a Mestre con una tenda canadese ed essi, Fr. Tullio e Fr. Luigino, mi raggiunsero dopo una settimana con un caro gruppo di zingari. Si scandiva il tempo con preghiera e lavoro. Raccoglievano metalli nell’immondezzaio di Venezia insieme a diversi Rom che svolgevano questa occupazione da tempo. Mi fermai tre mesi con i Piccoli Fratelli e questi zingari veneti, dopodiché a settembre rientrai per l’ultimo anno di teologia e diaconato. Intanto don Mario Riboldi fu liberato dall’impegno parrocchiale e con la mia tenda lo raggiunsi nell’estate del ’72, pochi giorni dopo la mia ordinazione sacerdotale.

1974

Lettera personale – Stralcio  

Mi trovo a Torino in un accampamento di Khorakhanè. Sabato e Domenica aiuto nella parrocchia di Santa Caterina e in questo modo cerco di conoscere almeno un poco la realtà ecclesiale di Torino dove cercherò di vivere con gli zingari di queste periferie almeno per alcuni anni. Sono arrivato poco tempo fa dalla Lombardia dove per un anno e mezzo ho avuto la grazia di fare comunità con don Mario Riboldi, prete diocesano di Milano. Avevamo due tende, una lambretta con un piccolo carretto per trasporto delle nostre cose: vestiario, masserizie, libri e tutto il superfluo che uno può immaginare. La dimensione di questo rimorchio era di poco più di un metro di larghezza e un metro e mezzo di lunghezza e ancora trenta centimetri di altezza. Il tutto era sormontato su due ruote da bicicletta. 

Avevamo quindi tutte queste cose e soprattutto un entusiasmo che nostro Signore dà quando si deve iniziare un cammino nuovo. 

Negli ultimi mesi si erano aggiunti un religioso: Padre Luigi Peraboni, e una consacrata: Angela Maria. Essendosi ingrandita la comunità, pensammo di poterci estendere in altre aree. Io tornai in Piemonte, o meglio a Torino per iniziare qualche attività pastorale anche in questa regione. 

In questo periodo, mentre vivo a Torino ho trovato un tipo di lavoro molto adatto. Faccio lo scaricatore di frutta e verdura ai Mercati Generali di Torino. Mi alzo alle quattro del mattino, faccio due ore di lavoro e mentre l’accampamento si sveglia sono generalmente di ritorno. In questo modo posso testimoniare l’importanza del lavoro ed avere un’indipendenza economica più che sufficiente. Da qualunque accampamento io mi trovi posso raggiungere facilmente i Mercati Generali che mi offrono questa opportunità. 

Lettera personale - stralcio

Presento qui un’altra storia umana di zingari Rom, non Sinti, ma che vivono nella periferia di Torino. A chi inizia la lettura di questa storia, chiedo di non interromperla perché la parte finale è tutt’altro che prevedibile. 

«Durante un incidente automobilistico era morta una madre Khorakhanì. Uno dei sei figli era al volante ed aveva provocato l’incidente a causa di un’imprudenza. Il padre, rimasto vedovo, quando beveva rinfacciava l’uccisione della moglie al figlio responsabile dell’incidente. Quando anche il figlio era ubriaco l’accampamento si incendiava. 

Generalmente qualcuno spingeva il figlio da una parte e altri portavano il padre dall’altra, ma questa buona volontà di evitare una colluttazione aveva generalmente un effetto peggiore: si formavano due gruppi con conseguenti spari e grida da una parte e dall’altra. C’era in tutto questo dell’emulazione, e quasi un rituale per celebrare il coraggio, la forza, la superiorità e generalmente finiva tutto nel riposo della notte e il giorno seguente nessuno si preoccupava di ricordare ciò che era capitato. 

Una sera capitò la stessa vicenda, ma non finì come al solito. Nel buio, il padre andò ad abbracciare il figlio per dire qualcosa come “Basta adesso, facciamo la pace” e in quel momento un proiettile certamente involontario colpì l’uomo che cadde morto tra le urla e la disperazione dei figli e figlie: «Papà e morto!» - «Sì, lo ha ucciso lui» e tutti gridarono pensando che fosse stato il figlio ad uccidere il padre. 

In quel momento dove l’istinto e la rabbia potevano avere il sopravvento quello sfortunato figlio si nascose e fuggì perché in quella circostanza non si poteva ragionare. Seguì il lutto, i pianti dei parenti e specialmente dei figli. La figlia maggiore gridò e pianse i canti di lamentazione per un’intera notte e un giorno fino ad essere esausta. La notizia aveva raggiunto i vari accampamenti e i Rom arrivarono a piangere, a pregare e non risparmiavano maledizioni a quel figlio che tutti credevano responsabile dell’omicidio. Il ragazzo infatti non aveva avuto il tempo di difendersi prima di fuggire. 

Io ero stato informato e il giorno seguente raggiunsi il luogo dell’incidente. Si era deciso nel frattempo di portare il padre nel Monte Negro in Jugoslavia. I figli non potevano accompagnare il padre perché privi di documenti. Io ero riconosciuto dalla famiglia più che un parente e così accettai di viaggiare con il feretro, il giorno seguente, per riportarlo nella sua terra. 

Prima di partire ci riunimmo tutti attorno alla bara per una preghiera e l’ultimo saluto. La figlia maggiore seduta e accasciata tra le braccia della zia raccolse tutte le forze per l’ultima lamentazione cantata in un singhiozzo disperato. Poi pregammo. Io invitai a sentimenti di misericordia e pregammo per il defunto. A questo punto, dopo aver sentito gridare per due giorni espressioni di vendetta contro il presunto omicida, ho udito delle parole che nessuno poteva prevedere. Il figlio maggiore del defunto era fuggito e rimaneva il secondo, ventenne, e toccò a lui dare il saluto finale al papà anche a nome della famiglia. 

Pregò a lungo poi all’incirca disse così: «Papà, sei stato ucciso, e io chiedo quello che è giusto per te, chiedo che tu sia vendicato. Devo chiedere che tu sia vendicato, ma chi ti ha ucciso è mio fratello (lui era convinto che fosse stato il fratello a ucciderlo deliberatamente) ma io non voglio che mio fratello muoia. Ti chiedo di lasciarlo vivere. - Poi si rivolse al cielo – Lascia che viva! Chiedo però ugualmente la maledizione per chi ti ha ucciso perché così si deve (fece un lungo silenzio) però chiedo che questa maledizione invece di cadere su mio fratello cada sopra di me». 

Nessuno trattenne le lacrime e tutti abbracciammo quel ragazzo, quel giovane capofamiglia dicendo con parole diverse: «Dio sia con te»».

1975

Lettera personale – Stralcio 

“… Quando mi chiedono che cosa faccio con gli zingari dico all’incirca così: «Prego per me e per loro, lavoro per me, mi occupo di alfabetizzazione e catechesi». Sono queste parole altisonanti, ma poi, di fatto, la mia preghiera è quella di un povero tapino, il lavoro manuale anche come tempo è molto ridotto e l’alfabetizzazione con la catechesi che vorrebbero essere il centro della mia attività spesso non riescono a superare la sfera dei desideri”. 

Testo del 2001 riferentesi ai primi anni  

Intanto in quegli anni gli zingari mi facevano scuola di vita nomade, come vivere con l’essenziale, apprezzare le piccole cose, vivere in simbiosi con la natura: il fuoco, il sole, il caldo, la luce, il vento, il freddo, la notte, le notti buie e quelle stellate, o ancora quelle illuminate dalla luna, le notti estive o invernali, l’acqua, le fontane, i fiumi, le nuvole che fanno ombra ma anche la piccola ombra di un albero, gli alberi carichi di frutta, i campi, le colline dove si può chiedere anche in elemosina un buon vino, formaggio, carne. In questo modo, quando sotto la tenda recitavo il terzo capitolo del Cantico di Daniele, esso acquistava un altro sapore. 

Nel ’78 poi lasciai la tenda e scelsi per i miei spostamenti un carretto (in piemontese Cartón) con due grandi ruote in legno e rivestite di ferro coperto da un buon tendone simile ai carri del Far - west normalmente trainato da cavallo, ma cinquant’anni prima gli zingari poveri lo spostavano a mano e così facevo io. Pesava circa duecento chili ma in pianura doveva solo essere accompagnato, senza alcuna fatica. La mia voleva essere una contestazione nei confronti di alcune famiglie che si stavano arricchendo molto, con macchine e roulottes di prestigio pur vivendo senza un lavoro onesto. Mi ero messo così dalla parte degli zingari poveri e devo riconoscere che quel carretto parlava un linguaggio molto eloquente. 

In quegli anni alcuni preti zelanti andarono ripetute volte dal Cardinal Michele Pellegrino, perché impedisse a me di vivere trainando un carretto a mano per le strade di Torino in quel modo e dicevano: “Che disonore per noi preti!”. Il Cardinale li ascoltava poi mi incoraggiava a continuare in quella maniera. 

Negli anni settanta, a Torino, diverse persone si coinvolsero nella storia degli zingari. L’Opera Nomadi con il carismatico dottor Secondo Massano, l’AIZO guidato dalla dottoressa Carla Osella, le Suore Luigine che iniziarono a convivere in accampamento con una carovana. All’inizio erano Suor Anna, Suor Carla, Suor Rita. Si aggregarono agli zingari Allegretti Marilde e Bernardi Edda vivendo in una carovana con i sinti. Poi Alda Milioretti e Vittoria Cinza si alternarono per alcuni tempi a vivere pure in roulottes con i Rom Khorakhanè provenienti dal Monte Negro e dalla Bosnia. 

A questi si aggiunsero molti collaboratori, alcuni dei quali, in seguito, assunsero responsabilità molto significative. Tra questi si occupò molto della cultura zingara Sergio Franzese che divenne poi specialista delle lingue zingare a livello nazionale e Pio Caon, che insegnò per molti anni in accampamento e continuò ad essere sempre amico fedele di questo popolo. 

L’ultimo anno in cui rimasi in Italia don Lino Alessio fece comunità con me vivendo negli accampamenti dei Sinti e quando andai in Brasile continuò come responsabile per la pastorale degli zingari, incaricato dall’Arcivescovo della Diocesi di Torino. 

Questi sono alcuni degli amici più significativi con i quali in quegli anni, in modi diversi, collaborammo insieme. 

Lettera personale- Stralcio 

”… I sinti di giorno o alla sera raccontano volentieri le storie mentre stanno attorno al fuoco, ma non le storie di Cappuccetto rosso o degli orchi e delle fate, bensì raccontano le storie della loro storia dove la verità può essere interpretata, riflettuta, drammatizzata, e in alcuni momenti non mancano le pennellate dell’epopea, ma è sempre e specialmente storia vissuta. Da un accampamento all’altro, tra una guerra fatta e una pace conquistata, la gioia di una festa, una maledizione espressa là dove la debolezza impedisce di presentarsi a volto scoperto, e ancora tra un’ingiustizia subita e una ferita procurata, o tra una bontà eroica che ha fatto vincere o una cattiveria che ha meritato sconfitta, la vita degli zingari passa e si racconta nelle loro storie”. 

Vorrei riportare qui una lunga storia che ho raccolto, proprio attorno al fuoco, dalla viva voce di uno dei più grandi amici tra i Sinti Piemontesi, Michele Jussi, soprannominato Balin. 

La mia curiosità e il desiderio di un’amicizia sempre più profonda mi facevano interrogare quell’uomo e ricavare quasi una biografia anche se breve che ci fa cogliere qualcosa dell’anima sinta della regione piemontese. Riportai poi tutte queste risposte in un unico testo che venne firmato da lui stesso e pubblicato poi dal giornalista astigiano Armando Brignolo. 

Aggiungo a questo testo un pezzo di lettera che si riferisce allo stesso gruppo sinto e a parenti non troppo lontani della famiglia di cui ho ampiamente parlato.  

Lettera privata 

Quest’anno ho avuto l’occasione di passare lunghe ore con il mio amico sinto, il Balin. Ho raccolto, accanto al fuoco, qualcosa della sua storia. Vi mando questo testo per darvi la possibilità di capire qualcosa del mondo in cui vivo. Vorrei che anche voi lo poteste apprezzare, anzi amare come lo amo io.  

Ecco il testo che ho raccolto dalla viva voce di IUSSI MICHELE, detto Balin:

SINTI - UN MODO DI VIVERE 

IL GIOCO

I momenti più belli e più importanti della mia vita li ho vissuti in tempi troppo difficili per aver avuto la possibilità di gustarli in profondità. O forse, proprio il fatto di avere dovuto soffrire in questi momenti mi ha fatto amare di più quegli istanti che nella vita di ogni uomo lasciano una traccia incancellabile. Il matrimonio, la nascita del primo figlio, il primo abbraccio del secondo figlio mentre arrivo dal campo di concentramento: tutto questo nella triste cornice della guerra. 

Il primo ricordo della mia vita risale a quando avevo quattro anni: una rissa molto seria che si aggravò con un conflitto a fuoco; erano le famiglie di due miei zii in lite con altri sinti. Erano arrivati i carabinieri e a quel punto tutte le famiglie in lite cambiarono obiettivo e si coalizzarono contro il comune nemico e la sparatoria continuò, ma tra sinti e carabinieri. In conclusione, qualche ferito e i sinti ammanettati. Mi ricordo bene quando portarono via i sinti ammanettati in mezzo a un caos che pareva la fine del mondo. In seguito ho perso il conto delle belle e tristi esperienze che gli anni accumularono. 

Quando ero ragazzino, mio padre aveva il carro e il cavallo, per cui la vita era abbastanza serena. In casa ci si voleva bene, vivevamo con poco, ma non mancava mai l'indispensabile. Le difficoltà di tutti i giorni venivano compensate da1le piccole feste, dall'allegria di tutti i giorni e dal gioco.

Io ero appassionato di un cerchio di ruota da bicicletta, che mi faceva compiere ogni tipo di acrobazie, su strada, attraverso le scarpate, persino saltando i fossi: una continua gara tra me e il cerchio: lo spingevo e subito cercavo di superarlo, ma nel momento in cui stavo per passare oltre, lo spingevo più forte. Arrivava sempre prima il cerchio grazie alla mia spinta: una gara che non poteva mai finire; non c'era mai un vinto e un vincitore, c’era solo la gara. Capitava spesso che eravamo in quattro o cinque a gareggiare insieme. 

Mi piaceva molto il gioco delle bocce. Andavo spesso con i grandi quando sfidavano a bocce i sedentari del paese e mi sentivo orgoglioso perché noi Zingari vincevamo sempre. Mi piaceva un mondo giocare con gli amici, andando a caccia con la fionda: questo gioco occupava spazi assai lunghi ed era divertentissimo. C'era qualcuno dei più grandi che con la fionda era riuscito a colpire un bersaglio a quindici metri. Uccidevamo i passerotti sulle piante e un mio amico riusciva ad abbattere anche qualche uccello in volo: era un tipo eccezionale con la fionda in mano. 

Altre volte facevamo le gare ai cavalli: uno di noi faceva il cavallo, con una fune che passava sulle spalle, sotto le ascelle e arrivava a quello che faceva il fantino. Quando eravamo due, tre, quattro coppie iniziavamo le gare e ci divertivano più che all'ippodromo. 

Un altro mio hobby che avevo da ragazzo era il canto. Avevo dieci o dodici anni e la sera mio padre mi chiamava con lui a cantare. Se andava al bar mi portava insieme e mi chiedeva sempre di cantare e io mi divertivo un mondo. 

Ricordo quando ero più piccolo che a volte mio papà arrivava tardi verso mezzanotte, l'una, si sedeva vicino al mio letto di paglia, mi svegliava e mi chiedeva di cantargli una canzone. Io ero così contento, e cantavo. Ricordo che lui piangeva quasi sempre di commozione, poi riprendevo a dormire.

 

LE FESTE

Le feste nella mia vita hanno certamente avuto una grande importanza soprattutto per colmare vuoti, incertezze, rabbie con i sedentari che troppe volte provocarono la mia sensibilità fino all'esasperazione; allora un bicchiere in più, una serata di canzoni, qualche ora con gli amici aiutava a ripartire, a riprendere il coraggio di vivere. 

Come ogni giorno ha le sue preoccupazioni così ogni giorno deve avere un po’ di festa e questo è necessario per vivere. Da noi sinti, per fare festa, non era necessario un motivo particolare, era sufficiente che a qualcuno stesse bene di far festa e tutto era fatto. Adesso molte cose sono cambiate, comunque, quando ero ragazzo ricordo che alcune famiglie si trovavano con rendez vous e facevano festa spendendo tutto quello che avevano di soprappiù, poi si ridavano l'appuntamento al mese seguente o più tardi ancora e tutto ciò che si era riusciti a mettere da parte si consumava con le famiglie degli amici, e si ripartiva ricominciando il tutto. 

C'erano poi alcune famiglie particolarmente allegre che davano un tono di festa ag1i incontri che nessuno sapeva eguagliare. Erano questi sinti dei veri e propri giullari di strada, che però non divertivano le corti dei signori bensì gli zingari, i loro compagni di viaggio e quindi la gente del proprio sangue. Alcuni sinti erano gelosissimi della loro arte, della loro musica; alcuni avrebbero potuto far carriera nello spettacolo, perché erano veramente artisti. Ricordo un amico che quando suonava ci faceva piangere dall'emozione, e suonava soltanto per noi, si sarebbe sentito umiliato a suonare per quegli altri (i gagè). 

Anche a me è sempre piaciuto cantare, anzi da giovane penso che con la mia voce arrivavo all’incirca dove desideravo e a volte mi commuovevo io stesso: una notte intera di canzoni senza intervallo e il giorno dopo tutto come prima: ebbene io non mi rifiuto di cantare con i gagé ma mi trovo meglio con la mia gente. Il canto attorno al fuoco non è ricompensato, è gratuito, ma è libero, è canto per la festa. nto, e cantavo. Ricordo che lui piangeva quasi sempre di commozione, poi riprendevo a dormire.

Mio nipote penso sia il miglior cantore ch'io abbia conosciuto nella vita; e noi sinti siamo quelli che abbiamo avuto 1a fortuna di sentire i momenti più belli della sua arte: un'arte che non veniva incisa nella pietra, né scritta su un foglio, e neppure registrata su qualche apparecchio, ma era l'arte che ci veniva regalata come le fiamme del fuoco, che dopo un secondo non esistono più, ma erano state così intense. I sinti del buon umore, quelli della musica, del canto sono sempre stati i protagonisti della festa. In ogni caso non è giusto misconoscere che alcune giornate avevano un significato tutto particolare: il giorno del matrimonio, la nascita di un bambino, Natale, Pasqua, un particolare onomastico. 

Voglio raccontare alcuni particolari della festa del matrimonio così come l'ho vissuta io. 

Il matrimonio di mio fratello fu una delle feste più incisive per me sia perché ero ancora bambino e sia perché era la prima grande festa della mia famiglia. 


IL MATRIMONIO 

Il matrimonio del mio primo fratello è un fatto che ricordo per motivi belli. C'è da precisare che il matrimonio presso di noi non aveva questa sola formula, infatti, in alcuni casi avveniva anche mediante la richiesta del consenso, senza la fuga, ma questi erano casi abbastanza rari, perché il futuro sposo e ancor più la futura sposa, nel mese o due che li separavano dalla festa e quindi dal rito del matrimonio vero e proprio, rischiavano una valanga di ironie da parte dei giovani coetanei non esclusi alcuni anziani che non perdevano alcuna occasione per dar libero sfogo al loro sarcasmo. Tutto questo non è da confondere con la volgarità; piuttosto è da considerare come tentativi di demitizzare alcuni tabù riguardanti la vita matrimoniale. Ho ben presente un caso di matrimonio avvenuto secondo questa usanza più rara. Ricordo bene il fatto perché avevo già undici anni e poi perché si trattava di un mio fratello. 

Mio fratello aveva diciannove anni e 1a ragazza che chiedeva in sposa ne aveva ventuno. Un nostro cugino-primo si era assunto il ruolo di far richiesta del consenso presso i genitori della mia futura cognata. Normalmente il consenso non viene chiesto né dal ragazzo interessato, né dai suoi fratelli, ma da un parente prossimo, che può essere uno zio, un cugino, come nel caso di mio fratello, o un amico di entrambe le famiglie. Ricordo che in quella circostanza il consenso era stato dato appena dopo un giorno e mezzo di trattative mentre spesso si fa attendere almeno una settimana, un mese o più mesi e in alcuni casi non viene dato mai. Dopo aver ottenuto il consenso, mio padre era stato dal papà della ragazza chiesta sposa per accordarsi sulla festa. L'appuntamento venne fissato a Quargnento vicino ad Alessandria. L'intervallo di tempo lasciato prima della festa aveva lo scopo di dare 1a possibilità al1e famiglie di racimolare un po' di soldi per fare la festa più bella possibile e onorare così i due giovani sposi e le rispettive famiglie. La mia famiglia era arrivata a Quargnento la vigilia del giorno stabilito per i festeggiamenti degli sposi. Eravamo arrivati nel primo pomeriggio nella piazza di quel simpatico paesino. Non faceva ancora molto caldo perché si era all'inizio della primavera, ma il freddo fastidioso dell'inverno non si sentiva più da un pezzo, ciò nonostante la prima cosa da fare era accendere il fuoco. Mio padre sistemò il cavallo, il cartòn, mentre mia madre sistemava pentole e tutto il necessario per la cucina e io con mio fratello eravamo andati ancora in cerca di legna anche se ne avevamo già procurata. Nel tardo pomeriggio arrivarono altre famiglie di parenti, zii e cugini. Arrivò pure la famiglia della mia futura cognata e il gruppo fu quasi completo. Non mi accorsi che passarono delle ore e fu subito tempo di cenare. In un certo senso si poteva dire che 1a festa era già cominciata perché c'erano tutti, c'era allegria tra noi, c'era il fuoco e per di più il clima di una festa che non capitava tutti i giorni. Si proseguì quindi con la cena: un pasto normale con la sola differenza che fu più festosa. Arrivò poi vicino al fuoco una chitarra spuntata non so da quale parte e le canzoni hanno così colmato la festosità.

Le donne per conto loro facevano i preparativi del pranzo per il giorno dopo. Io certamente non potevo fare attenzione a queste cose ma mi è facile ricostruire. I conigli alla sera erano stati messi in infusione. I due agnelli da cuocere allo spiedo e altri conigli erano stati preparati con i ripieni. Le ga1line sono state preparate quella stessa sera, perché dovevano iniziare la cottura al mattino seguente. Quando questi lavori sono stati ultimati anche le donne si sono accostate, da parte, vicino al fuoco, e il bere, fumare, cantare accomunò tutti. Io mi sono poi addormentato ma altri hanno continuato fin verso le tre del mattino. La permanenza così prolungata era anche necessaria per riscaldare il terreno sotto il fuoco fino a una discreta profondità, e avere la possibilità al mattino di cuocere la carne nella creta sotto terra (piatto tipico e squisito dei sinti). Il mattino seguente dopo un risveglio poco più tardi del solito, mio padre e mia madre sono andati con una bottiglia di liquore e quattro tazze dai genitori della futura sposa a portare il segno dell'augurio e quasi uno scambio di benedizioni. Questo è un rito importante che si fa sempre. Se per disgrazia il padre o la madre non ci sono più li sostituisce uno zio o un fratello che fanno 1a parte dei genitori. Poi mio padre e mia madre hanno ancora offerto da bere a tutti e si ripresero così i preparativi. Mia madre e mia zia prepararono la pasta per tagliatelli e ravioli, mio padre poi spostò il fuoco, fece alcuni buchi nella terra caldissima e inserì in questa i blocchi di fango disposto attorno alle galline ripiene ma non spennate. Rimise i carboni e la legna accesa sopra e per tre o quattro ore non fu più necessario curarsi di questo. La durata del tempo di cottura era condizionata dal tipo di terreno più o meno sabbioso che poteva richiedere più o meno tempo. Prepararono poi gli spiedi e il tutto sembrava un grande arsenale di lavoro. A metà della giornata il tutto fu disposto e si poté cominciare. Erano ormai tutti al loro posto; le ragazze e le donne stavano terminando gli ultimi lavori; allora mio cugino, che già si era interessato per ottenere il consenso e che potremmo chiamare il padrino di quel matrimonio, chiamò la futura sposa e la fece sedere accanto a mio fratello. Questo era il momento più importante di tutto il rituale.

Qualcuno ha aperto bottiglie di vino bianco e tutti abbiamo brindato alla salute degli sposi. Questa era la conclusione delle trattative, dei consensi e del progetto accolto di una nuova famiglia. Questo momento molto allegro ma anche molto carico di serietà ospitò un discorso da parte di quel cugino menzionato prima. Io non ricordo cosa si disse in quella circostanza, ma pressappoco quello che si dice sempre in questa circostanza: un energico richiamo sulla responsabilità del matrimonio, sull'educazione dei figli, la necessità e la bel1ezza dell'accordo con le famiglie di entrambi gli sposi. Si continuò poi il pranzo in un clima molto festoso. In seguito tornò alla ribalta la chitarra, le canzoni, il ballo, e tutto questo intervallato dalle battute scherzose agli sposi che non mancano mai. Con intervalli più o meno lunghi, la festa durò tre giorni. Altre volte durava la sola giornata e la notte seguente oppure poteva protrarsi fino a sette otto giorni. In quel periodo gli sposi non restavano insieme oltre il tempo ristretto dei pasti per evitare tutte le serie di ironie che nessuno avrebbe risparmiato, né la sera dormivano insieme ma restavano presso la propria famiglia. 

Quella volta gli sposi erano partiti dopo i tre giorni di festa con due bicic1ette che allora erano certamente un lusso. Spesso quando gli sposi erano molto giovani (15 o 16 o 17 anni) restavano normalmente presso la famiglia della sposa ma anche in quel caso, la sera andavano a dormire fuori, in un altro cascinale, comunque non nell’accampamento e ritornavano il mattino dopo. In questo periodo la mamma della sposa normalmente faceva da guida morale in questo primo periodo in cui la giovane coppia affrontava la vita matrimoniale. 

 

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Il matrimonio di un mio carissimo amico inaugurò il dopoguerra. Ero vicino a Trana con mia moglie e i miei due figli. L'amico mi lasciò l'incarico di accordare le famiglie e lui scappò secondo l'usanza con una sinta piemontese che però normalmente non girava in quella regione. Ho avuto quel compito di estrema responsabilità non perché ero parente stretto, né per la mia anzianità, tant'è vero che ero giovane ma ero amico intimo della famiglia della ragazza come lo ero di lui e così cercai di fare del mio meglio. Sono andato subito dalla famiglia della ragazza a rassicurarli, perché non pensassero male per il ritardo della figlia che come al solito era partita per andare a manghel ma diversamente dal solito non era rientrata. Notai subito che la madre della ragazza non era entusiasta di quel matrimonio, infatti, i fratelli di questa madre avevano avuto qualche lite con la famiglia del futuro sposo, ma questo non ha avuto importanza perché il parere della madre non era mai stato tenuto in gran considerazione. Nel primo pomeriggio, si sono riuniti il padre del1a sposa e i fratelli di lei. Un cugino era partito per avvisare l'ultimo fratello che mancava, e questi arrivò prima di cena. Non dicevano di no perché non avevano grandi motivi ma tardavano a dire di sì. Furono consultati i cugini di primo grado, mentre il nonno già abbastanza anziano se ne stava in disparte sapendo di non essere chiamato in causa. 

lo continuai a fare presente gli aspetti più apprezzabili del futuro sposo e della famiglia stessa. Poi sottolineai il disonore che ne sarebbe venuto per la loro figlia stessa qualora la figlia non avesse ottenuto il consenso e fosse rimasta in casa in attesa di un nuovo matrimonio certamente difficile. Ci lasciammo la sera con il proverbio «La notte porta consiglio». 

Il giorno dopo sono tornato per riprendere gli accordi e li ritrovai più raggelati del giorno precedente. Avevano, infatti, parlato anche con la madre che pur non avendo potere decisionale aveva però influito ugualmente e in questo caso in modo negativo. Ricordai alcuni casi spiacevoli che si erano verificati. Uno in particolare lo ricordavano bene essi pure. Un sinto infatti che non aveva ottenuto il consenso dalla famiglia della ragazza con cui era scappato aveva detto: «d'accordo io vostra figlia non la prendo perché voi non volete, però sappiate che nessuno la prenderà a1trimenti dovrà rimetterci la vita», era scappata in seguito con un altro, e dopo due giorni era morta, queste mescolanze di onore e di violenza sono sempre stati motivi gravi. C'erano stati altri casi dove il consenso rifiutato aveva fatto parlare le armi, e la violenza non riesce mai ad avere ragione a lungo termine. Si parlava anche di queste cose assieme ad altre più belle. Dopo due giorni mi dissero che erano d'accordo. Il terzo giorno io stesso sono andato dal mio amico presso una cascina dove avevamo appuntamento per portare la notizia. 

Io sono rientrato subito e il mattino dopo è arrivato il mio amico presso la casa dei futuri suoceri. Lui è arrivato una mezz'ora prima della ragazza perché normalmente nei primi giorni gli sposi evitano ogni occasione di farsi vedere insieme dai parenti o dagli amici. Quando è arrivata la sposa, ha avuto subito l'accoglienza della madre che non le ha risparmiato due schiaffi piuttosto pesanti, così il fratello più anziano. Lo schiaffo della madre e del fratello anche quando c'è pieno accordo non viene mai risparmiato perché fa parte del rito di perdono, e quindi di consenso. 

La famiglia del mio amico avvisata pure da me è arrivata nel pomeriggio e così ci si accordò per 1a festa. Abbiamo deciso di spostarci in un altro paesino sempre vicino a Trana su una piazzetta adattissima e ci siamo accampati sotto grosse piante dove non si dava fastidio al paese e neppure si era troppo distanti per gli acquisti, e poi non avevamo nessun motivo di nasconderci nelle foreste per fare festa. 

Il giorno dopo le donne hanno cominciato i preparativi per i festeggiamenti. Il padre dello sposo essendo abbastanza ricco aveva venduto il cavallo perché la festa fosse degna della propria famiglia che aveva un discreto prestigio. I preparativi furono lunghi e gli invitati parenti e amici furono numerosi. Il mattino seguente come è di uso il padre del ragazzo andò con la moglie dai genitori della ragazza ad offrire il cognac e a fare gli auguri per la giornata di festa in onore dei figli sposi. I medesimi offrirono poi liquore a tutti così la giornata cominciò come al solito nella circostanza del matrimonio, all'insegna dell'allegria. Si ripresero i lavori: galline ripiene nella creta sotto la brace, gli spiedi degli agnelli e dei conigli e quella vo1ta prepararono anche la porchetta. E tutti i piatti vennero cucinati secondo le antiche usanze fino ai dolci, con abbondanza di ottimi vini genuini. A mezzogiorno toccò a me chiamare gli sposi per sedere vicini per il pranzo: il momento più solenne salutato dallo spumante e dagli auguri. Pochi minuti dopo, ricomposto il silenzio, ho parlato agli sposi sull'importanza della loro scelta, la bellezza e la responsabilità del loro matrimonio... Si continuò con il pasto, dopo i primi bicchieri di vino, il buon umore cominciò a caricarsi con battute più o meno riuscite ma sempre scherzose canzonatorie e ironiche nei confronti degli sposi. La ragazza spesso arrossiva, ma il tutto era normale. Due chitarre e tante canzoni si intervallarono a battute a discorsi e verso sera si cominciò a ballare attorno al fuoco. La festa continuò per cinque giorni. Era stata pure un'occasione particolare per smaltire tutte le sofferenze della guerra appena finita. 

I due sposi è ovvio dirlo, per tutti i cinque giorni continuarono a restare presso la propria famiglia evitando di farsi vedere insieme o anche solo vicini. La ragazza come capita sempre cercava di non dover neppure servire a tavola lo sposo per evitare ogni occasione di canzonatura e questo atteggiamento durava almeno i primi due o tre mesi di vita matrimoniale. 

Siamo ripartiti poi ciascuno per la propria strada dopo cinque giorni come avevo detto, in attesa di una prossima festa che ci potesse riunire al più presto. 


IUSSI SI SPOSA 

Vorrei adesso parlare del mio matrimonio, descrivere tutti i particolari, ma il tutto si dice in poche righe perché è avvenuto senza festeggiamenti, senza rituali particolari, perché è avvenuto sotto la cappa di piombo della guerra ed è tutto detto. 

All'inizio di febbraio del 1941 arrivato dalla Grecia e Jugoslavia, ho avuto una licenza premio di un mese. Sono venuto a Torino e la mia famiglia non c'era, né sapevo dove trovarla. Mi sono fermato presso la famiglia dei miei futuri suoceri per tutto il tempo. Mi sono sposato verso la fine di quel mese, secondo l'usanza più tradizionale che consiste nella fuga. Era il 22 febbraio, nelle vicinanze di Moncalieri abbiamo trascorso le prime giornate della nostra vita matrimoniale in attesa che mio cugino terminasse le trattative per il consenso presso la famiglia di mia moglie. C'era il freddo, la neve, la guerra, la paura; ma tutto questo non riusciva a spegnere la bellezza di noi due che cominciavamo una famiglia. Ho poi saputo che il consenso veniva accettato e siamo cosi rientrati in accampamento. Ottenemmo il consenso delle famiglie e a quel punto sarebbe stato bello anzi normale fare festa ma la crudeltà della guerra non permise nulla di tutto questo; infatti sono dovuto subito rientrare perché la licenza era finita. Quando la guerra terminò ripresi la vita normale quindi anche l'allegria occupò il posto di sempre nei momenti forti della vita. Durante il primo anno di matrimonio non avevo il carro né il cavallo. Mi spostavo con mia moglie e poi con il bambino, portandoci dietro qualche sacco di indispensabile vestiario, masserizie e poco più. Passavamo di casa in casa chiedendo pane, farina, uova, vino, formaggio. 

Ogni luogo era adatto per fermarsi poche ore per il pasto. Quando c'era 1a neve facevamo un po' di spazio per accendere il fuoco. La legna si trovava abbondantemente. Quasi in tutte le vigne c'erano cataste di fascine e tralci secchi. Vicino ai boschi di castagni rami e legni in abbondanza. Se spennavamo una gallina bruciavamo fino all'ultima piuma e l’intestino, per non lasciare nessuna traccia di quelli che potevano essere i gravi furti di allora che da generazioni ci vengono attribuiti e per i quali abbiamo meritato un odio pressappoco incancellabile, lasciando su ciascuno di noi un marchio che dice disonestà, delitto, violenza, delinquenza, come se tutte queste cose avessero preso corpo in ciascuno di noi. Durante la giornata il continuo bussare alle porte, per le cose più elementari, per l'acqua, per un po' di paglia, per un posto da alloggiare ci rendeva fondamentalmente convinti di valere assai poco come persone nei confronti dei sedentari, che, invece, avevano tutte queste cose che davano sicurezza. 

D'altro lato i continui rifiuti, le porte che si chiudevano, gli allarmi che scattavano ad ogni nostro arrivo presso una borgata o un cascinale, le donne che uscivano per chiamare a raccolta i bambini e le galline, il nome del marito urlato dalla donna per non dare l'impressione che fosse sola, i bambini che inciampavano persino scappando, appena ci vedevano; tutto questo costruiva una così grande avversione per non dire odio nei confronti dei sedentari, e spesso fare dei dispetti ai sedentari, più che una licenza, diventava un dovere per scaricare tutta questa aggressività. 

Spesso capitava che i sedentari ci trattavano bene, perché avevano paura, nello stesso tempo ho incontrato molte persone umane che non solo ci trattavano con rispetto, ma ci volevano veramente bene specialmente quando ci conoscevano meglio. Queste persone sapevano compatire le nostre aggressività e i nostri delitti che consistevano nel furto della gallina o delle patate nel campo, ma questi sapevano di essere rispettati come uomini e come lavoratori. 


CRONACA QUASI NERA 

È stata l'unica rapina che ho fatto nella mia vita o meglio che avrei fatto se le cose fossero andate diversamente. 

Mia moglie aveva avuto il primo figlio, in condizioni difficilissime e, a distanza di cinque giorni, era uscita dall’ospedale. Mio cognato ed io eravamo disertori, dovevamo quindi fuggire dai carabinieri che in quei giorni ci cercavano. La neve era da ottanta a novanta centimetri e in certe zone raggiungeva il metro. 

Io, mio cognato e sua moglie facevamo strada calpestando la neve il più possibile per evitare troppa fatica a mia moglie che era appena uscita dall'ospedale. Abbiamo viaggiato per la campagna per più di tre ore, cercando di far perdere le tracce e di raggiungere un casolare disabitato, che conoscevamo nella zona. Mia moglie, che aveva pure perso gli zoccoli nella neve, era ormai all'estremo delle forze e mi sembrava di colore viola per il freddo. Ci siamo fermati, abbiamo rubato i pali di un mezzo filare di viti, abbiamo tolto un po' di neve e abbiamo acceso il fuoco, per evitare qualche seria complicazione alla salute di mia moglie che stava solamente in piedi per 1a forza della disperazione. 

In una pentola abbiamo sciolto della neve, scaldato dell'acqua per lavare il bambino e rimetterlo asciutto nel suo «paglierino» che consisteva in un ampio cuscino di fieno o paglia sul quale veniva fasciato una seconda volta il bambino. In questo modo anche il freddo più intenso non faceva soffrire il piccolo. Dopo la breve sosta, accanto al fuoco, siamo dovuti ripartire per non rischiare che ci sorprendesse la notte, prima dell'arrivo al cascinale, perché questo avrebbe complicato le cose. Siamo arrivati, abbiamo riacceso subito il fuoco, e mia cognata ha bollito una gallina, nostro pane quotidiano, che non ci si poteva permettere né di comperare, né di chiedere in elemosina. Dove ce n'erano tante se ne pigliava una. Tornando a quella casa vuota e squallida, devo aggiungere che l’unico vantaggio era una certa tranquillità di non essere trovati facilmente, e questo non era poca cosa. Eravamo però troppo distanti, non dico dal paese, ma anche da qualche borgata o cascina abitata e io continuavo ad aver paura per mia moglie e per il bambino. 

Due giorni dopo, abbiamo deciso di ripartire per andare in un cascinale dove c'era una famiglia molto ospitale. Quando siamo arrivati a Barge ci assicurarono che ormai i carabinieri non pensavano più a noi.

Siamo arrivati da quella famiglia di notte e nella stalla abbiamo trovato finalmente un posto da cristiani. Ricordo che qualcuno ha portato un po' di brodo a mia moglie, poi mi sono addormentato quasi subito, come capitava spesso, non solo a me, ogni volta che si capitava in una stalla, dopo essere stati una giornata o più giorni al freddo, bagnati, quasi senza mangiare e senza dormire. In quelle condizioni entrare in una stalla sembrava di entrare in una realtà nuova dove il caldo ti ubriacava e ti addormentava subito. 

Mia moglie aveva lavato le fasce e la biancheria de bambino restando sveglia fino a tarda notte; infatti lei aveva una resistenza eccezionale. Per asciugare in fretta gli stracci del bambino oltre a metterli sulla schiena dei buoi li metteva anche sotto la propria schiena e sopportava tutto questo con una forza eccezionale. Riusciva a stare giornate intere bagnata come un pesce, al massimo strizzava i capelli quando arrivava al riparo, per evitare quello sgocciolare freddo e continuo nel collo. Tornando a quella notte, mia moglie dormì poche ore e il mattino seguente assieme a mia cognata uscì per andare da alcune famiglie per chiedere qualcosa da mangiare. Mio cognato ed io evitavamo di farci vedere in giro. Siamo riusciti a stare presso quella famiglia cinque giorni, dopo di che è arrivata la triste notizia che i carabinieri avevano continuato a darci la caccia e così siamo ripartiti verso una borgata ad una decina di chilometri. Dopo aver camminato una giornata in mezzo alla neve, senza mangiare, bagnati, pieni di freddo e di paura, abbiamo cominciato a chiedere un posto da dormire o sotto un portico o in una stalla. 

Dalle 5 alle 9 di sera non siamo riusciti a trovare un posto. Tutto questo era comprensibile perché la gente aveva terribilmente paura e d'altra parte rischiava forte, ma nonostante questo noi non avevamo nessuna intenzione di morire assiderati. A quel punto ero diventato idrofobo. Ho deciso di avere un posto o con le buone o con le cattive. Fu quella l'unica volta nella vita che ho deciso di fare una rapina, non una rapina ad una banca o ad una casa di un privato, neppure una rapina per poter mangiare, bensì una rapina per poter dormire. Ho preso una pistola - durante la guerra di armi se ne trovavano anche troppe - l'ho messa in tasca, poi ho detto a mia moglie: «in quella stalla là! Adesso andiamo e se non saranno d'accordo ci lasceranno un posto per forza». 

Nella stalla c’era una minuscola luce perché stavano veg1iando. Sono entrato senza bussare e ho guardato in faccia i presenti, con gli occhi, penso piuttosto stralunati e ho semplicemente detto: «Stiamo cercando un posto, diteci se questa sera ci mettiamo da questa parte o da quell'altra». C'è stato un momento di silenzio, poi il padrone di casa molto gentile ha detto: «entrate senza paura, abbiamo mai mandato via nessuno, potere stare qui, il posto c'è». Era una famiglia molto buona che si è fatta premura di scaldarci una cena povera ma sufficiente e ci ha dato la possibilità di respirare un po’ di calore umano dopo tanti rifiuti e indifferenze. Ho poi chiesto scusa del mio arrivo senza mezze misure ma mi hanno capito quando ho detto loro che erano 4 ore che cercavo un posto. Il giorno seguente siamo ripartiti e nel primo pomeriggio abbiamo trovato un posto sotto un portico alto e carico di paglia. Appena abbiamo acceso il fuoco è arrivato il padrone di casa spaventato pensando che potevamo dar fuoco alla paglia, si è indignato e innervosito. Io non ho spento il fuoco, ma ho cercato di persuaderlo che eravamo abituati e pratici e in tutta la vita non avevo mai sentito dire che qualcuno avesse dato fuoco al pagliaio mentre si scaldava o faceva cucina, pure attorniati dal pericolo della paglia. Quella sera abbiamo tenuto il fuoco acceso fino a tardi, poi verso le 3 o le 4 del mattino ricominciò a nevicare e, essendo il portico alto come la maggior parte dei portici in quella zona, la neve vi scendeva sotto, come nel cortile. Noi eravamo coperti con pochi stracci e molta paglia, per questo bisognava restare immobili e svegli perché ad ogni movimento la neve scesa sulla paglia che ci copriva, e vi penetrava bagnandoci. 

Il mattino ci siamo alzati bagnati, carichi di neve e di sonno, per incominciare un'altra di quelle maledette giornate e devo aggiungere che giorni peggiori di quelli li ho trovati solamente nei campi di concentramento in Germania. Con poche varianti, queste fatiche si ripetevano ogni inverno.


LA MOGLIE RACCONTA 

La vita già piena di stenti a causa della guerra raggiunse l'impossibile. 

Erano le 9.30, un carro di grano attirò l'attenzione dei tedeschi e noi che eravamo nelle vicinanze fummo bloccati; mio marito e mio fratello portati via. Il mio primo figlio Dino aveva due anni e due mesi e aspettavo il secondo. Sono partita con mia cognata e a Torino abbiamo cominciato a cercare perché eravamo certe che trovandoli li avremmo fatti rilasciare. Siamo passate così, dal quartiere dei tedeschi al carcere delle Nuove, e infine alle casermette. Qui siamo riuscite ad entrare. Io sono passata in un corridoio tutto spruzzato di sangue, tra le urla disperate di giovani uomini, forse sotto torture, pressati dagli interrogatori. 

Non riesco a dire quello che ho visto e non so come sono uscita viva da quella macelleria umana. Non avevo visto né mio marito né mio fratello. Ormai, rassegnata ero tornata con mio padre, mia madre, mia sorella e mio fratello più piccolo. Mio marito, intanto, era stato trasferito nei campi di lavoro e poi in quelli di concentramento. 

Il giorno 3 marzo, in ospedale a Piossasco, ho avuto il secondo figlio. Non erano passate cinque ore che a causa del bombardamento bisognava cercare riparo. Chiesi un paio di scarpe alla suora, un grembiule e una sciarpa. Così sono uscita dall’ospedale e a poca distanza ho incontrato mia madre che stava venendo da me. Ero certa di morire, ma cercavo di fare tutto quello che potevo per quella creatura. Ho avuto intanto la fortuna di potermi sdraiare sul carro e là mi sembrò di rivivere. Ma a distanza di due ore ci siamo imbattuti in un gruppo di uomini con le divise delle «SS». Non c'era molto per difendersi e non avevamo nulla per dimostrare che mio marito e mio fratello erano stati presi dai tedeschi. Ci chiesero dove erano i partigiani. Abbiamo risposto come sempre che non sapevamo nulla. Ci fecero camminare tutti avanti con i mitra spianati. Mia madre chiese di lasciare me sul carro, perché da sole sette ore avevo avuto il bambino e in quel modo avrei rischiato di perdere il latte da dare a mio figlio.

Uno di essi rispose: «Può venire anche lei, tanto il latte non dovrà più darglielo». Così con il cuore chiuso abbiamo camminato fino all'interno del bosco che si trova tra Torino e Stupinigi. Mio padre, mia madre, la sorella, mio cognato, il fratello ed io eravamo là in attesa della morte, infatti non c'erano alternative. Chiesero ancora una volta dove erano i partigiani e come sempre abbiamo continuato a dire che non sapevamo nulla, anche se lo sapevamo. Ci saremmo comunque lasciati uccidere tutti piuttosto che parlare; d’altronde mio padre ce lo aveva insegnato: «Non possiamo mai far uccidere decine o centinaia di giovani per salvare noi». Allora chiesero mia sorella; la volevano a tutti i costi. Mio padre disse: «prima di prendere una delle mie figlie dovete ammazzarci tutti». Fu allora che tentarono un altro espediente. Mi presero il bambino di due anni e mezzo e lo buttarono per terra, poi mi strapparono il bambino che aveva solo sette ore e mezza di vita e lo gettarono sulla neve. Io mi precipitai sopra, cercai di proteggerli, ma senza più nessuna speranza per nessuno di noi. A quel punto mio cognato prese un foglio che teneva nascosto mia sorella e disse: «Guardate, voglio che sappiate chi sono prima di ucciderci - e lesse la sua identità - sappiate che sarete ripagati con la stessa moneta». Qualcuno di essi sorrise; poi ci dissero che non erano delle «SS» ma dei partigiani travestiti. Si interruppe così un incubo che non durò molte ore ma fu sufficiente per portarne un pesante e incancellabile ricordo.

Quando il secondo figlio Paolo ebbe qualche settimana cominciarono delle interminabili piogge. Si sciolse la neve, l'umidità divenne impossibile e non ci si poteva più asciugare tra un acquazzone e l’altro. Io non avevo neppure le scarpe: era veramente la miseria. La sera lavavo le fasce del bambino, e le disponevo in una stalla, che una brava famiglia ci aveva concesso, poi altre volte per asciugarle meglio e in fretta le mettevo sulla schiena dei buoi. Quando siamo andati sotto un portico meno asciutto, freddo e senza più i buoi, mi diventava quasi impossibile asciugare i panni del bambino, così pensavo: «Piuttosto che resti bagnato lui che è piccolo è meglio che resti bagnata io stessa». Allora i panni del bimbo, bagnati, per asciugarli li mettevo sotto la mia schiena, mi coricavo sopra e così riuscivo a cambiare i panni del bambino e tenerlo sempre asciutto. Tutto questo capitava perché vicino a quel portico, non era possibile accendere il fuoco a causa del fieno, della paglia e del coprifuoco. Per noi, la vita senza fuoco era quasi impossibile. In seguito ci siamo spostati a Moncalieri, dove ci attendeva uno dei tanti bombardamenti. A differenza dei sedentari che si riparavano negli scantinati, noi restavamo sempre all'aperto. Ricordo quel giorno che il rombo del primo aereo mi ha spinta a ripararmi sotto il carro. Mi ero messa i due bambini sotto e pensavo ingenuamente che almeno sarei riuscita a proteggere loro, ma le bombe caddero proprio là, vicino al mio carro. 

Mi accorsi che il cavallo legato alla ruota, mi aveva spostato il carro e così sentii sparire anche quella piccola difesa mentre gli scoppi continuavano. Rimasi coperta dalla terraglia, ma riuscivo ancora a respirare. Quella copertura mi diede di nuovo sicurezza, ma tornarono altri scoppi. Mi accorsi che attorno a me c'era l'inferno. E quelle giornate, quegli spaventi si ripeterono troppe volte in quegli anni”. 


(termina qui la testimonianza della Signora Rosa moglie del Balin) 


L'ESPERIENZA DEI LAGER 

Il mio triangolo era bianco, segno distintivo dei deportati civili. 365 era il numero scritto sul rettangolo di tela cucito sulla mia giacca; quando me lo consegnarono, un polacco mi disse: «Ti porta fortuna quel numero, è dispari»; infatti sono uscito fuori vivo da quel campo, però se la fortuna che mi profetizzò il polacco è quella vissuta in quei 45 giorni, assicuro che voglio essere sfortunato per tutta la vita. 

Il campo dove sono vissuto quei giorni si chiamava Rechenaw e lo chiamavano «campo di punizione», anche se sarebbe stato più giusto chiamarlo «inferno». 

In mezzo a tutta quella disperazione, l'unica speranza che restava, per molti di noi, era quella di morire, morire in fretta per non dover più soffrire. Io mi sarei tolto la vita più volte se non ci fossero stati degli amici da lasciare e la mia famiglia. E così si continuava a decidere di vivere. 

Si arrivava in quel campo dalle destinazioni più diverse e si restava in quell'inferno da una settimana a cinque settimane, che era il massimo della pena. 

Io ero il solo ad avere il massimo della pena sui 700 uomini che eravamo internati. Per questo motivo avevo ancora un altro distintivo: un cerchio rosso fissato, sulla giacca, all'altezza del cuore, centro dove avrebbero potuto sparare i sorveglianti per una mia qualsiasi infrazione. D'altra parte mi avevano mandato a Rechenaw come alternativa alla pena di morte. 

Cosa era capitato? Quale era stato il mio grande delitto? 

Dopo essere stato preso in un rastrellamento e portato al carcere Nuove di Torino, fui mandato a lavorare in Germania in una centrale elettrica; questa era una delle pene che si dava generalmente ai disertori. Sul lavoro io mi occupavo specificatamente di due trasformatori in una grande Centrale elettrica. Là erano installati i serbatoi contenenti il quantitativo di due autocisterne di olio. Quando si cambiava l'olio, era necessario svitare i bulloni sul coperchio del contenitore, cambiare il liquido e avvitare. Il mattino in cui salii sul serbatoio, per avvitare gli oltre 400 bulloni, la temperatura raggiungeva i 24° sotto zero. Ho preso la chiave senza pensare che fosse stata esposta a quella temperatura e mi restò come incollata a1la mano. Ho preso uno straccio per riparare alla meglio, ma la mano ormai era piena di vesciche e mi era impossibile continuare il lavoro. Sono sceso nella baracca, dove un sergente maggiore mi gridò: «perché non lavori?». Io con la rabbia dentro, che mi rodeva perfino il midollo delle ossa cercai di spiegare con dei segni: allora non sapevo ancora par1are il tedesco e feci vedere le mani, cercando di far capire l'assurdo che mi chiedeva. 

Senza parole mi arrivò uno schiaffo sulla testa, che, ribattendo contro il muro, mi lasciò stordito. Ma in pochi secondi mi ripresi, più per la forza della rabbia, che per 1e poche energie che mi restavano ancora. Ho perso le staffe, mi precipitai su quell'uomo e se gli amici non mi avessero diviso da lui, lo avrei mangiato, dico mangiato o sbranato come una belva offesa si butta sulla preda. 

Sei militari sono arrivati e mi hanno portato dal maresciallo che, fortunatamente o per disgrazia, era di Bolzano, per questo è stato possibile farmi capire sul come era accaduto il fatto. Mi fece scegliere tra la pena di morte e il campo di punizione con il massimo della pena. 

Il maresciallo mi aveva motivato la sua decisione dicendomi: «Tu devi sapere che qui siamo nel Grande Raik». Ma io dissi: «Cosa vuol dire che siamo nel Grande Raik? Il Grande Raik non rispetta le leggi internazionali di Ginevra? I prigionieri di guerra sono prigionieri di guerra o sono persone che devono morire a tutti i costi?». 

Dissi quelle cose perché mi sembrava di intuire il disastro che stava per capitare. Si capiva vedendo quelle persone, che ormai avevano perso ogni senso di umanità e si erano dimenticate che gli altri erano uomini e che uomini lo erano pure loro. 

In questo modo ebbero inizio i miei 40 giorni d'inferno nel luogo che per molti è stato l’anticamera di Mathausen, Dakau, ecc., oppure la tomba medesima. 

Vi giunsi una sera poco dopo le diciotto. Il viaggio era stato pieno di incognite. Non riuscivo ad immaginare che cosa mi avrebbe atteso. La nebbia era quasi fitta e il freddo pungente come gli aghi dei pini e degli abeti, che, carichi di neve, si distinguevano a mala pena in quel paesaggio senza colore, senza vita, coperto dal ghiaccio, dalla neve e privo di qualche speranza. Ci fecero scendere dal vagone, come si usa con i buoi da macellare. Ci presero gli abiti a brandelli e consegnarono la nuova divisa in quattro pezzi: una camicia di tela, una giacca di tela, un paio di pantaloni sempre di tela e un berretto. 

La temperatura oscillava tra i 16 e i 25° sotto zero. Quella divisa non serviva a nulla se non a morire vestiti anziché nudi.

Si iniziava alle ore 4 del mattino. Uscivamo dalle baracche nudi e inquadrati attendevamo l’appello. A quell'ora la temperatura raggiungeva una media di 20° sotto zero e restare fuori immobili da 15 a 30 minuti, nudi, con quella temperatura, non poteva far desiderare altro che la morte. E quasi tutti i giorni la morte esaudiva qualcuno. Coloro che morivano erano sopratutto gli anziani, ma anche giovani, che cascavano come candelotti di ghiaccio, assiderati. Rientravamo poi per la doccia, con acqua fredda. L’asciugatoio, che serviva dopo questo bagno, era grande come un fazzoletto da naso. Ci si asciugava in parte e si restava sempre bagnati... poi quella camicia di tela e quei pantaloni che aderivano alla pelle come una lamiera ruvida. Dire che il tutto ere orribili, ormai è superfluo. 

Si faceva colazione prendendo la scodella di brodo e correndo per tutta la circonferenza del campo. In questo circuito che noi percorrevamo mangiando e correndo c’erano dei sorveglianti a poca distanza gli uni dagli altri e quando si perdeva il ritmo arrivavano frustate che penetravano nella schiena. Quando il percorso terminava si metteva il cucchiaio in un recipiente, nell’altro la scodella. Quando uno di noi sbagliava si trovava sotto le frustate di sei persone e una volta uno è addirittura morto sotto i colpi di quelle corde di cuoio intrecciate a coda di topo con la punta di piombo. Ogni sferzata era micidiale e durante le torture tanti ci hanno rimesso la vita. 

Si partiva alle ore 5 del mattino per il lavoro e si arrivava alle 18. In questo spazio di tempo la mezz'ora per il pranzo che consisteva ancora in quella scodella di brodaglia e poche briciole di pane: (un chilogrammo di pane da dividere fra 13 persone ogni giorno). L'impressione era di un’organizzazione perfetta, si sopravviveva, si moriva, si subiva ogni angheria e nessuno poteva chiedersi il perché. 

Chi non poteva uscire per il lavoro, restava nel campo con 1a sola differenza che non mangiava. Tutto contribuiva a morire. Le occasioni per le punizioni erano molte. All'arrivo del lavoro, durante la perquisizione, se si trovava un solo fiammifero, qualche briciola di pane, qualunque cosa insomma nelle tasche, c'era il Bunker che attendeva e questo equivaleva a una condanna a morte. 

Il Bunker era una cassa di cemento 80 x 80 cm. La punizione consisteva nell'essere chiusi dentro per un periodo che poteva variare da un'ora e mezza a due ore. Alcuni venivano tirati fuori con difficoltà perché stecchiti congelati e attaccati al cemento. Il Bunker era posto nella zona più fredda del campo. 

Quando invece si era chiamati con il proprio numero e per distrazione qualcuno non rispondeva, veniva condotto, durante la giornata, sotto la grondaia della baracca, inginocchiato sul ghiaccio formato dalla neve caduta in precedenza. Se all’individuo non veniva sospesa la pena nell’ora meno fredda, quando si scioglieva un po' di neve le gocce cadevano sulla testa e scendevano impregnando di acqua i vestiti, quando poi la temperatura scendeva nuovamente sotto zero - e questo al massimo dopo un'ora - gli abiti diventavano un pezzo di ghiaccio e non restavano alternative alla morte. Si rovesciavano per terra e venivano trascinati nei gabinetti dove restavano fino alla sera, prima di essere caricati su di un camion che ogni giorno arrivava puntuale a prelevare i morti, e questi erano sempre troppi. 

I 40 giorni finirono e io rimasi vivo, anche se con tante ferite dentro, che solo la mia famiglia avrebbe poi potuto curare.


UN NUOVO MODO DI VIVERE 

Rinunciare al mio nomadismo? Non me la sentivo, nello stesso tempo avvertivo che qua1cosa poteva essere modificato. Molti di noi, zingari piemontesi, eravamo senza lavoro, costretti a vendere qualche chincaglieria o ad elemosinare quando non era necessario ripiegare sul furto per vivere. 

Con l'inizio dell’industrializzazione molti artigianati sono andati persi. Mio zio a fare un cestino di vimini impiegava due ore; una fabbrica oggi lo produce in due minuti. Una pentola di rame richiedeva mezza giornata di lavoro specializzato, oggi una pressa in 3 secondi la produce e richiede solamente qualche rifinitura. Si commerciavano i cavalli. Mio padre era un intenditore; oggi, per essere a livello di mio padre dovrei avere una concessionaria di automobili ed essere sedentario. 

Dal 1960 in avanti ho cominciato a rendermi conto in modo nuovo di quante ingiustizie subivamo noi zingari per il fatto che appartenevamo a quel gruppo. La polizia, i carabinieri, i tribunali, i giudici e persino gli avvocati, i preti, la chiesa tutta, tutti erano contro di noi. 

Ho cominciato a sentire l'esigenza di chiedere giustizia per il popolo a cui appartenevo e appartengo tutt'ora. Sentivo l'esigenza di una promozione collettiva. Sentivo un forte desiderio di rivendicare dei diritti, di combattere i soprusi che ogni giorno ricevevamo tutti insieme. Avevo voglia di chiedere giustizia per l’emarginazione in cui eravamo gettati. Volevo promuovere una lotta di classe (non con questo nome) per riscattare me, la mia famiglia, gli amici, in una parola tutti noi zingari. Ma in tutto questo c'era dell'ingenuità: era l'atteggiamento di uno che era in mezzo al pozzo e chiede aiuto, chiede una fune, qualcosa insomma per venirne fuori, ma essendo debole pretende che qualcuno scenda, lo prenda di sana pianta e lo porti fuori.

Pensavo che in fondo lavoravamo anche noi e facevamo una vita dura, ma un giorno un fatto mi ha dato la possibilità di vederci più chiaro: vicino al nostro accampamento, un giovanotto dell'età di mio figlio smontava il motore di un'auto rubata. Era senza attrezzatura, ma con una discreta dose di abilità e lavorava con più fatica di qualsiasi meccanico in officina


CAMBIO DI ROTTA 

Pensavo com’era ingiusta l'accusa che continuamente ci sentivamo rivolgere: «vai a lavorare !». Sono arrivate più tardi le donne. Alcune erano state a vendere altre semplicemente a chiedere l’elemosina ed esse pure erano stanche. E così mi è riuscito di pensare che si poteva lavorare senza essere utili alla società, o meglio, ci si poteva stancare facendo un lavoro non produttivo. Mi sono accorto dei diritti che avevamo ma anche dei doveri. Mi sono reso conto che eravamo perseguitati ma anche persecutori. 

Non sarebbe giusto dire che non avevo mai pensato a queste cose prima di allora ma in quel momento le vedevo con una problematica inserita in un processo sociale più ampio. Forse erano le letture che risvegliavano in me una dimensione nuova della vita, sta di fatto che sentii l'esigenza di cambiare strada senza però rinunciare al nomadismo, ai valori tradizionali che mi portavo dietro e di cui sono orgoglioso ancora oggi. Si è così fatta strada in me l'esigenza di una dignità civile lavorativa per me e per la mia famiglia. La goccia che però ha fatto traboccare il vaso per fare il passaggio a un’attività lavorativa remunerata e dignitosa è stato il pensiero o l'ossessione sul futuro dei miei figli. I ragazzi della loro età cominciavano a non accontentarsi di tirare con la fleccia (strumento simile alla fionda) nella testa di una gallina, né si fermavano a rubare una bicicletta: il rischio era troppo evidente. 

Sarei morto di crepacuore se avessi dovuto vedere i miei figli entrare nelle file della criminalità e fare la spola tra il carcere e l'accampamento e magari, irrimediabilmente tra l'accampamento e il cimitero, perché i rischi grossi, spesso, si pagano con la vita degli altri o della propria. 

C'era ancora un ostacolo da superare ed era lo scandalo di persone apparentemente oneste che vivono nella società degli onesti. Infatti, dopo aver capito che il furto era una fatica, ma non propriamente un «lavoro», che si poteva pertanto smontare motori rubati da mattino a sera, senza fare un lavoro «produttivo» quindi utile per la società, mi accorgevo contemporaneamente che molti settori dell'economia, del commercio, dell'industria e della politica agivano allo stesso modo, cioè lavoravano disonestamente. Tutto questo stava ad indicarmi che il lavoro solo non bastava a risolvere i problemi di uno zingaro come me, perché si poteva continuare a fare dei lavori disonesti. Nonostante tutto mi resi conto che era giusto rischiare di intraprendere un lavoro cercando di farlo nel modo più onesto e offrendo così alla famiglia un indirizzo nuovo. 

Nel 1964 ho preso una giostra a catene, ritenendo questa decisione indispensabi1e. Non ho mai sconfessato il mio gruppo né ho cessato da allora di considerarmi zingaro e di vivere in pieno il nomadismo. Oggi continuo a spostarmi da un posto all'altro divertendo tutti, specialmente i piccoli. Dopo due tre anni da che avevo la giostra ho capito che la categoria aveva tutta una serie di problemi che dovevano essere affrontati. 

Ho pensato che il sindacato doveva essere un mezzo molto importante per un cammino politico. Ho cominciato a pensare al sindacato e a un partito politico con il quale poter portare avanti una maturazione sociale più approfondita. Conoscendo più da vicino la categoria dei lunaparkisti e rendendomi sempre più conto che pur essendo dei lavoratori a pieno titolo eravamo spesso degli emarginati, considerati degli intrusi che disturbavano la tranquillità pubblica. 

Ho deciso di fare qualcosa appena si è posta l'occasione. 

Nell’autunno del 1972, assieme ad alcuni amici, in particolare con Piero Sperta e con Pietro Tessa, per organizzarci meglio e per darci una fisionomia politica più precisa, abbiamo iniziato una «cellula» del partito comunista. Lo stesso Pietro Sperta che allora era consigliere nazionale dell’ANSVA mi ha proposto il ruolo di segretario della medesima cellula e io ho accettato perché ero convinto che ci fosse molto cammino da fare e anch'io dovevo fare la mia parte. Cinque anni dopo ho dovuto lasciare l'incarico perché la salute non me lo permetteva più. Una delle iniziative più stimolanti che certamente ha inciso nel cammino politico sindacale dello spettacolo viaggiante è stato uno sciopero organizzato alle Porte Palatine di Torino. 

Pochi mesi dopo l'inizio della piccola cellula, che è cresciuta via via fino a raggiungere oltre un centinaio di persone, nel febbraio del 1973, il Comune di Torino aveva ridotto le piazze in modo impressionante, infatti negli ultimi 12 anni erano state vietate, a noi lunaparkisti 18 piazze. Mettendo in agitazione la nostra categoria abbiamo cercato di alzare la testa e far sentire la nostra voce anche se non è stato possibile farlo in modo compatto. Naturalmente coloro che nella categoria avevano una certa voce non avevano bisogno di rischiare troppo perché già abbastanza al sicuro, mentre i piccoli sono destinati a restare sempre tali. E fu così che noi piccoli ci siamo ribellati. 

Il mio amico Nano (anche il nome dice che non è un vatusso, ma ha in compenso un cervello e un cuore che fa invidia a molti), quest'amico dunque ha iniziato a piazzare il suo mestiere, abusivamente, nel piazzale di fronte alle Torri Palatine. I vigili, subito arrivati, hanno fatto notare che l'area usata da questo mio amico non era considerata agibile per i baracconi. Il giornale «L'unità» del giorno dopo, martedì 6 febbraio riporta questo fatto dicendo che Pietro Tessa (detto Nano) è «salito sul cornicione di uno dei vecchi muri dell'antica porta romana esponendo un cartello con la scritta - smetterò lo sciopero della fame quando il comune di Torino affronterà seriamente i problemi dello spettacolo viaggiante -. Con il suo gesto, il Tessa intende infatti richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica e delle Autorità sulla difficile situazione in cui è venuta a trovarsi questa categoria di lavoratori, per le difficoltà e le restrizioni continue che la giunta comunale ha frapposto per la concessione delle piazze e delle aree per l’esercizio delle loro attività». 

Noi infatti volevamo aprirci una strada a tutti i costi per avere lavoro, per ottenere una maggiore continuità nella programmazione del futuro, dal momento che eravamo stati riconosciuti. 

Non siamo andati subito a fare richieste particolari alle Autorità competenti per lasciare tempo che il fatto divenisse di dominio pubblico. Il mattino stesso di quello sciopero, Tessa mi aveva detto di andare a trattare in comune e che lui sarebbe rimasto fino a quando avessi ottenuto una programmazione diversa delle piazze. 

In Comune erano stati già informati della dimostrazione ed io ho aggiunto che il Nano era disposto a restare per oltre una settimana in equilibrio sul muro delle torri. Quando l'assessore mi ha chiesto che cosa volevamo la risposta fu ovvia: «vogliamo le piazze per lavorare», ma rincalzando mi disse che non vi erano più piazze per l’estensione del carnevale, e che sarebbero state assegnate qualora fossero state disponibili. Io chiesi che volevamo poter lavorare nelle 18 piazze tolte negli ultimi anni, e immediatamente chiesi la piazza Arbarello. Mi dissero che non era possibile perché da 20 anni era ormai interdetta ai baracconisti:. «Ebbene - risposi - il Nano resterà sulle torri fino a quando vi sarete decisi a concederla», e feci ancora presente se questa richiesta non veniva concessa e se nell'immediato futuro non venivano ridate tutte le piazze tolte avremmo inscenato una dimostrazione in Torino con camion, carovane e tutto il personale fino al Municipio, con tutto ciò che quel fatto avrebbe comportato. A quel punto le richieste erano ben precise: l'assessore con gli altri responsabili si sono riuniti per consultarsi dopo di ché la risposta affermativa mi permise di raggiungere le «torri» e dire al Nano: “La prima partita è vinta, scendi e andiamo a piantare il mestiere in piazza Arbarello”. Intanto i giornali erano usciti riportando il fatto in grandi caratteri con commenti e foto «Clamorosa protesta del titolare di una giostra». 

«Sale per protesta sulle Torri Palatine perché il Comune nega le piazze ai Luna-park». «Il baracconista a cavalcioni su una finestra delle torri». «Stamane l’assessore incontra i sindacati». 

Ancora un articolo del giornale l'Unità riportò la richiesta di Pagano: «Non pretendiamo - ci ha detto Pagano dirigente dell’ANSVAD - di avere le aree sulle quali si insediano servizi sociali e verde attrezzato», ma riteniamo che il Comune possa trovare soluzioni valide per garantire il diritto al lavoro anche agli spettacoli viaggianti». I dirigenti dei sindacati si sono subito messi ad appoggiare la protesta e a fare le richieste per noi». Ancora lo stesso articolo continuava dicendo: «i dirigenti dei 5 sindacati della categoria - ASSVAD, ENAV, SNISV, UIL-Spettacoli, ANESEV - ieri pomeriggio hanno inviato al sindaco e all'assessore alla polizia la richiesta di un incontro urgente per trovare soluzioni ai problemi posti ora drammaticamente dalla protesta del Tessa, fatta in nome di tutta la categoria. L'assessore Migliano si è impegnato ad incontrare i sindacati stamattina». 

Il seguito di quel fatto fu un progressivo cammino della categoria che con l'appoggio e la richiesta di tutti i sindacati, nella primavera di quello stesso anno, la maggior parte delle piazze erano state recuperate.

Mentre sto raccogliendo stralci di lettere e di diari di questi 33 anni di convivenza con gli zingari non posso tralasciare il testo che racconta il mio Kumuri (rito di Alleanza con una famiglia di Khorakhané. Se a distanza di tanti anni mi trovassi nella stessa circostanza probabilmente troverei elementi nuovi e diversi per vivere una celebrazione così significativa, ma non modifico in nulla ciò che feci e scrissi quando ero un giovane prete trentenne. 

1976


Testo integrale 

    

«Il Kumuri è stata la conclusione di due mesi vissuti in un clima di profonda amicizia con una famiglia mussulmana del gruppo Khorakhané (alla lettera significa coloro che mangiano il Corano, cioè i lettori del Corano)

Saim è un bambino di 10 anni. I suoi capelli biondi, fino a qualche giorno fa arrivavano a metà schiena. Da quando è nato, i suoi capelli non erano mai stati tagliati, infatti il primo taglio è avvenuto nel corso di un rito chiamato Kumuri

Il bambino a cui vengono tagliati i capelli e chi compie questo atto pubblico e sacro si chiamano Kume. Ci sarà tra i Kume il massimo legame di amicizia e di “parentela” e quindi il più alto rispetto. Non si può dire nulla di falso al kume; non si può rubare nemmeno per scherzo al kume e così via: tutta una minuta legislazione stigmatizza questo legame. I termini di “fratello” e “amico” non sono sufficienti per esaurire il significato della parola “Kumo”: è qualcosa di più. Al di sopra del Kume c’è solo Dio che è il “Grande Kumo” di tutti.

Il rito ha anche lo scopo di allargare la parentela immettendo nella propria famiglia un elemento che vi entra a sua volta con tutti i suoi parenti e questo dà sicurezza al gruppo. In alcuni casi il Kumuri è pure il sigillo di una pace ricostruita dopo qualche grande offesa sanata. La consegna di un Kumo al gruppo famigliare perdonato è il suggello più chiaro di una pace duratura. 

Arif, papà di Saim, è vedovo con quattro figli e tre figlie. La più piccola – Brjida – ha circa due anni, il più grande – Micio – sposato con tre figli ha 25 anni. Nessuno degli altri è sposato. 

Dopo lunghi preparativi si è iniziata la cerimonia di presentazione del nuovo Kumo al gruppo che viveva insieme quei giorni. Erano circa 200 gli zingari accampati in quella zona di periferia. Un grande fuoco davanti alla tenda più grande e tutta la gente seduta attorno. Di tanto in tanto qualcuno arriva in ritardo, ma senza creare disturbo. Arif mi presenta e dice: «Questo è il mio Kumo!». Per coloro che mi conoscono è cosa normale, ma gli zingari arrivati da pochi giorni si stupiscono che il Kumo sia un gagiò (un non zingaro). Arif spiega il nostro profondo legame di amicizia che ci ha portati a questa conclusione.

Si serve racìa (grappa) o whiskey a tutti. Si fanno preghiere e auguri di fortuna, di salute e di felicità a tutti i familiari che da quella sera diventeranno Kume. Si termina in festa. Nessuno è ubriaco e ci si congeda con l’arrivederci a presto per la seconda parte del kumuri. Non è stato possibile terminare il rito con il taglio dei capelli perché un fratello di Saim e la cognata non hanno potuto essere presenti per forza maggiore. 

Ci siamo salutati non più con il nostro nome proprio, ma con il nome di Kumo: “Kumo abbi fortuna”, “Vai con Dio, kumo”, “Arrivederci Kumo”, “Dio venga con te Kumo”. Da quella sera, anche se non era stato terminato il rituale, io sono stato considerato Kumo di tutti i fratelli e sorelle di Saim, del papà, (la mamma è morta), i nonni, gli zii, zie e tutti i nipoti e cugini. 

Due mesi dopo la famiglia di Arif è a Molfetta in provincia di Bari. Tutti possono partecipare. Io scendo a Molfetta due giorni prima e pure uno zio e zia di Saim vengono con me. Il Kumuri è importante e non si può mancare. La vigilia della festa è caratterizzata dalla visita di molti amici dei diversi accampamenti circostanti, i quali vengono per fare gli auguri, bere racìa insieme, parlare e dimostrare che si è vicini per questo avvenimento. Il giorno dopo, durante la cerimonia sarebbero stati presenti solo i parenti stretti. Intanto si fanno acquisti e si fanno tutti i preparativi. 

Lo scambio di doni dei due Kume consiste in giacca e pantaloni. Io ricevo il dono e ne offro a mia volta uno come è di uso. iamo arrivati a Barge ci assicurarono che ormai i carabinieri non pensavano più a noi.

Arriva il giorno atteso da tutti. I parenti stretti sono appena 30 persone. Il pranzo è pressoché rituale. Le portate sono caratteristiche della circostanza, non si mangia molto, ma un po’ di tutto e si beve poco contrariamente ad altre festività. Al termine il papà di Saim racconta una parabola: 

“C’erano due Kume e una sera uno di essi va dall’altro e chiede un po’ di grano per fare il pane ma il kumo rifiuta. Di notte questi va e ruba il grano, ma tra le dita perde dei chicchi lungo la strada ed è per questo che il mattino dopo il kumo derubato, seguendo la strada del grano raggiunge la casa del Kumo e dice: «Perché kumo mi hai derubato? Io sono tuo Kumo!» -«Perché tu mi hai rifiutato il grano? Io sono tuo kumo!» rispose l’altro. Il kumo che era appena arrivato fece un momento di silenzio poi disse: «Se io ho sbagliato con te questo non giustifica te a sbagliare anche con me». Poi il mio kumo Arif si è rivolto a me e ha detto. «Ascoltami bene, Kumo. Affinché noi ci ricordiamo sempre che non dobbiamo farci del male, Dio che è il grande Kumo di tutti ha preso quella strada fatta di chicchi di grano e l’ha scritta nel cielo, ecco, lassù, tutte le notti noi la vediamo (la Via Lattea), è la strada dei Kume e noi ci ricordiamo chi siamo e che cosa dobbiamo fare e non fare». 

Questa era la pagina di Vangelo di quella liturgia. 

Subito dopo Arif prese il figlio sulle braccia tra la tenda e il fuoco. La sorella maggiore era vicino a noi per raccogliere le tre trecce di capelli man mano che io le tagliavo. Nel frattempo le consegnava al Padre per conservarle tra i pochi oggetti preziosi, tutta la vita. 

Quello era il segno della nostra Alleanza. 

Terminato il taglio dei capelli mi guardai attorno e vidi tutti con le lacrime agli occhi, in uno straordinario raccoglimento che diceva quanto fosse importante quel rituale. Al termine la sorella Feima servì ancora un vassoio di peperoni ripieni con riso e carne. In seguito ho rotto il silenzio chiedendo se erano contenti in quel momento di fare una preghiera a Dio, il nostro «Grande Kumo». 

Interrompo per una breve premessa: i Khorakhané hanno un’identità mussulmana ma conoscono pressappoco nulla di questa religione. Sono rimasti i nomi di due feste di cui ignorano anche il significato. Lo stesso nome di Allah lo sostituiscono con DEL (Dio). Presso di loro l’uso di alcool e sigarette è pure normale. Con loro avevamo parlato diverse volte di Dio, di Gesù, della Bibbia, avevamo cioè fatto una catechesi se pur informale.

In quella circostanza dissi all’incirca così: «Se voi lo volete facciamo la preghiera che Gesù ha fatto la sera prima di morire. Ha invitato i suoi amici che da alcuni anni vivevano con lui e ha fatto il Kumuri con loro, proprio come noi abbiamo fatto oggi, ma allora non si usava tagliare i capelli. Lui, Gesù, ha preso del pane (e pure io presi del pane che avevo precedentemente preparato con il vino) e poi ha detto: “Questo è il mio Corpo che io do per voi”. E noi adesso mangeremo tutti un pezzo di questo pane; è come se mangiassimo un pezzo di Dio, di Gesù, ma voi sapete che non si può mangiare solo un pezzo di Dio: Dio viene tutto dentro di noi e noi saremo tutti legati come da una catena che è Dio stesso (io ho preso un pezzo di quel sacramento e poi ho passato il resto agli altri). Gesù poi ha ancora preso del vino, così come facciamo noi ( e riempii un bicchiere di vino) e ha detto: “Questo è il mio sangue, segno del mio Kumuri che faccio con voi”. Noi sappiamo che quando Gesù è morto sulla croce il suo sangue ha lavato i nostri peccati e adesso questo vino che è diventato sangue di Gesù, anche se sentiamo il gusto del vino. Questo sangue di Gesù può lavare tutti i nostri peccati ancora oggi. 

Adesso facciamo un momento di silenzio e pensiamo alle cose sbagliate che abbiamo fatto e chiediamo scusa a Dio, poi quando berremo questo laverà tutti i nostri peccati».

Ho ancora proposto di fare lo sdraubio, l’augurio che ci si scambia prima di bere insieme. Sdraubio significa “giovi alla tua salute”. In questo modo ho aggiunto una preghiera di offerta. «Dio Grande Kumo, noi ti offriamo questo per tutti noi e i nostri amici, per mio padre vostro kumo che è morto e per la vostra mamma mia Kuma che è morta: essi vivono con Dio. Ti offriamo questo per tutti i nostri kume che sono in Italia e in Jugoslavia, così ci sentiamo molto uniti da te Dio che sei il nostro Grande Kumo e ci sentiamo come un solo corpo». 

Dopo aver bevuto ho fatto passare il bicchiere perché tutti potessero bere. 

Un particolare che mi fece riflettere fu quando vidi il papà di Saim che accortosi di avere un pezzo quasi invisibile di briciola di quel pane benedetto sulla mano, lo raccolse con l’altra mano e lo portò ancora alla bocca con grande venerazione. E dire che io non avevo fatto grandi discorsi sulla transustanziazione o altro, eppure nulla era più reale della presenza di Dio in quel segno che raccoglieva insieme l’Alleanza nuova dell’ultima cena e l’Alleanza del Kumuri. 

Si terminò ancora con una preghiera, poi io mi ritirai nella mia tenda». 

Al termine di questo pezzo di storia vorrei dire che se condividiamo la stessa vita delle persone a cui siamo mandati, queste modificano i termini del nostro annuncio. Nel caso specifico del fatto appena raccontato non voglio concludere che la convivenza (oltretutto breve) con quel gruppo mi abbia fornito i segni e i gesti più adatti per una liturgia inculturata e contemporanea, bensì mi ha appena aperto un po’ il cuore per non dire mai di no di fronte a qualsiasi opportunità che ci viene offerta per un atto di evangelizzazione.

Lettera personale - Stralcio

Mi avete chiesto di sintetizzare ciò che so del popolo zingaro. Ho annotato queste pagine, senza pretese di fare una tesi universitaria. Scrivo sotto una tenda. Scrivo qualcosa della nostra vita. 

Gli zingari: figli del vento, del sole, della pioggia e della tempesta

A scanso di equivoci comincio con il dire che tutti i nomadi non sono zingari. Ci sono nomadi in Africa, in Oriente, nel Nord e Centro Europa, o in America che pur essendo nomadi non sono zingari. Coloro che vengono chiamati con questo nome vivono in Europa e in America. Con questo ultimo nome si vuol significare un gruppo caratteristico etnicamente specifico, che ha una sua lingua, usanze e cultura propria. Da 1000 anni è presente in Europa, da 500 in Italia. In questo saggio ci occuperemo degli zingari piemontesi appartenenti all’ampio gruppo Sinto pur non tralasciando indispensabili riferimenti agli zingari di diversi Paesi europei che pure sostano per lunghi periodi dell’anno in Piemonte. 

Poiché gli zingari non hanno una tradizione scritta è stato difficile da parte degli studiosi ricostruire le tappe della storia di questo popolo nomade. Le testimonianze conservate non superano comunque i 1000 anni di storia. Circa la preistoria degli zingari stessi non si sa quasi nulla. Mille anni fa, circa, un gruppo di essi ha intrapreso il cammino verso l’Europa. Esistono tuttora in India numerosi gruppi nomadi ( Banjara, Rabari, Pardi, Bhill etc.) che assomigliano agli zingari d’Europa anche se tanti anni di storia separano gli uni dagli altri. Verso il 1322 troviamo la presenza degli Zingari nell’Isola di Creta, e poco tempo dopo nelle Isole del Mediterraneo. Dal decimo al tredicesimo secolo si costituiscono due gruppi: uno che proseguì verso l’Asia Occidentale, Siria, Palestina, Egitto; l’altro che raggiunse l’Impero Bizantino. Nelle regioni Bizantine, gli zingari entrarono in contatto con il mondo cristiano incontrando proprio nella zona presso Modon i pellegrini cristiani diretti verso la Terra Santa che arrivavano dall’Italia, dalla Francia e dalla Germania. Compresero che il pellegrino era un viaggiatore privilegiato. Da quel momento pensarono di seguire la strada dei pellegrini stessi al loro ritorno dalla Terra Santa facendosi considerare pellegrini essi medesimi. Così verso il 1416 alcuni gruppi di avanguardia lasciarono quel territorio in cerca di nuovi Paesi e di nuova fortuna. 

Abbiamo la prima testimonianza degli zingari in Italia a Bologna e venti giorni dopo a Forlì. Alcune righe di questa prima testimonianza italiana: “Addì, 18 luglio 1422, venne a Bologna un Duca di Egitto, il quale aveva nome Andrea, e venne con donne, putti e uomini del suo Paese e potevano essere ben cento persone. Il qual Duca aveva rinnegata la fede cristiana. E il Re d’Ungheria prese la sua terra e lui. 

Esso Duca, disse al detto re di voler tornare alla fede cristiana e così si battezzò con alquanti di quel popolo che furono circa 4000 uomini. Quei che non si vollero battezzare furono morti. Dappoiché il Re d’Ungheria gli ebbe presi e ribattezzati vollero che andassero per il mondo sette anni e che: dovessero andare a Roma al Papa e poscia tornassero in loro Paese. Quando coloro arrivarono in Bologna erano andati cinque anni pel mondo e n’eran morti di loro più della metà…”. 

Con questa ed altre storie ottennero la possibilità di introdursi nei diversi Paesi. Nel 1423 circa 3000 zingari arrivarono in Ungheria. Nel 1433 un gruppo raggiunse la Baviera, la Boemia e l’Austria Occidentale. Nel 1447 un gruppo consistente entrò in Spagna. Nel ‘500 arrivano in Russia. 

Potremmo dire che alla fine del quattordicesimo secolo gli zingari erano presenti in quasi tutta l’Europa. Dopo un primo momento di accoglienza benevola da parte degli Stati Europei che avevano creduto questi nomadi dei pellegrini, si scatenò dopo il ‘500 una persecuzione che non ebbe più fine. 

Una delle persecuzioni riportate dagli storici fu l’editto del 1492 emanato da Ferdinando di Spagna che ordinava lo sterminio di tutti gli zingari se non avessero abbandonato le sue terre entro la Pasqua dell’anno dopo. Carlo V fece una proscrizione contro di loro ma ebbe breve durata. Massimiliano V di Germania e altri Principi tedeschi con la Dieta di Augusta del 1500 li espulsero accusandoli di essere spie al servizio di altre potenze europee. Nel codice tedesco non esisteva nessun tipo di condanna per chi uccideva uno zingaro in quanto l’assassinio non agiva contro le leggi dello Stato. Le altre diete del 1530, 1544, 1548, 1551 rinnovarono gli stessi provvedimenti i quali vennero riassunti e pubblicati in un regolamento di Polizia nel 1577 a Francoforte. Dieci anni dopo la Francia e la Svizzera (15l4) seguivano la politica degli Stati tedeschi con le offerte di taglie a chi consegnava g1i zingari. Anche l’Inghi1terra non fu da meno. Enrico VIII nel 1531 cercò di sbarazzarsi di loro e alla sua morte Elisabetta I promulgò un secondo editto imponendo loro la pena di morte. Il Portogallo, nel 1538, emise un editto obbligando la fustigazione e la deportazione degli zingari vietando a chiunque di vendere qualsiasi cosa alle carovane che circolavano nel territorio. Nel 1561 Francesco I li espulse per la seconda volta, tutti i governatori del Regno ebbero l’ordine di “sterminarli col ferro e col fuoco”. I decreti contro gli zingari in Italia furono tra i più gravi in tutta l’Europa. A Milano non solo fu vietato il domicilio, ma perfino il transito. Nel Ducato di Milano, il 15 marzo 1663, fu promulgata una grida contro di essi, nella quale veniva proibito agli zingari l’accesso al Paese sotto pena di sette anni dì galera e la mutilazione di un orecchio per gli uomini, e la fustigazione pubblica per le donne. Chiunque poteva svaligiarli delle loro cose ed ucciderli in caso di resistenza. 

Tale grida venne rinnovata molte volte, ma ebbe ben poco effetto. Allora ne venne promulgata un’altra nel 1693 ancora più severa. Con questa si minacciava di impiccagione qualunque zingaro che si fosse mostrato sul territorio milanese. Ogni cittadino era libero di perseguitarli, quindi aveva diritto, non riuscendo a prenderli prigionieri “di ammazzarli e levar loro ogni sorta di roba, bestiami e denari che li trovasse”. 

Questi sono semplicemente alcuni dei dati più caratteristici degli zingari al loro apparire in Europa e il fatto che queste grida si ripetessero mentre gli zingari continuavano a rimanere nei territori proibiti ci dice quanto fosse grande l’intelligenza, la caparbietà e la forza di sopportazione di questo popolo. 

Per raccontare questa forza, basterebbe ricordare il fatto che all`arrivo in Francia, ancora stranieri in questo Paese riuscirono a rimanere accampati per due settimane alla Porte Belle di Parigi mentre questa città era assediata dagli Inglesi. Quindi tra i due fuochi riuscirono ad attirare la curiosità delle Signore della Città che andavano a farsi predire il futuro dietro alti compensi e spesso anche derubate dei soldi nelle loro borse (ovviamente in seguito furono cacciati).


Usi e costumi degli zingari

Parlando di usi e di costumi degli zingari bisogna sottolineare che questi non sono i medesimi presso tutti i gruppi. Ci interessiamo particolarmente delle usanze presso gli zingari piemontesi detti “sinti”.


L'infanzia. 

Quando nasce un bambino nell’accampamento c’è un momento di grande gioia perché è uno degli avvenimenti più importanti. Il bambino cresce al ritmo della vita della famiglia. La sua sicurezza fisica è affidata in gran parte ai bambini più grandi che giocano con lui, mentre il gruppo intero cerca di fornire gli stimoli per il suo sviluppo a tutti i livelli. 


L'adolescenza. 

Il periodo tra l’infanzia e il matrimonio è caratterizzato dall’apprendimento progressivo dei ruoli che i ragazzi e le ragazze dovranno esercitare da adulti. Essi ascoltano, osservano, partecipano alle discussioni, alle veglie, anche se in disparte, partecipano inoltre in modo sempre più responsabile alle attività professionali fino a rendersi autonomi e in grado così di staccarsi dalla famiglia per formarne una propria con il matrimonio. 


Il matrimonio. 

Non esiste un rito nuziale uniforme presso gli zingari. Riporto qui il rito del matrimonio presso i Rom per poi coglierne le differenze. Il gruppo dei rom, dà molta importanza alla decisione del padre del giovane che sceglie la futura moglie del figlio. In questo caso durante gli accordi tra la famiglia del ragazzo e quella della ragazza si stabilisce pure il compenso da dare alla famiglia della ragazza poiché viene privata di un notevole aiuto economico e inizia così il periodo di fidanzamento che può durare da pochi giorni a qualche mese. In seguito viene fissata la data della festa che dura alcuni giorni con un rito che varia da gruppo a gruppo. I due giovani fidanzati vengono così accolti pubblicamente nel ruolo di marito e di moglie all’interno del gruppo. Presso i sinti sono il giovane e la ragazza a decidere del loro futuro matrimonio. Essi organizzano una “fuga nuziale” separandosi così dal gruppo per alcuni giorni (cfr. Una descrizione più dettagliata nella testimonianza di Michele Iussi)


La vecchiaia. 

Gli anziani sono presi a carico dei figli e fino alla morte restano l’orgoglio del gruppo, i depositari della cultura, e coloro che rinsaldano le relazioni della parentela. Il loro giudizio è importante durante i conflitti e le loro decisioni spesso sono determinanti. 


La morte. 

Quando si avvicina il momento della morte, i parenti anche se si trovano lontano, vengono avvertiti attraverso la rete delle comunicazioni orali. 

I congiunti si ritrovano al capezzale del moribondo e se non fanno in tempo, al loro funerale, ed è proprio in questa occasione che dal numero dei partecipanti al lutto si intuisce il prestigio del morto. Il momento della morte si traduce in un momento di crisi per i sopravvissuti. Da un lato le esequie devono essere grandiose, per quanto possibile, in modo che il nome del defunto e il suo prestigio vengano ricordati più a lungo e aiutino a rinforzare il prestigio dei membri sopravvissuti della famiglia del clan, dall’altro lato i legami che si erano intrecciati col vivente vanno, lui morto, definitivamente sciolti in modo che la struttura sociale non ne venga appesantita. 

La cerimonia funebre, presso i sinti, è uno dei momenti importanti per la coesione del gruppo e la continuità della tradizione. Secondo una tradizione simile a quella seguita anche da altre popolazioni nomadi, per aiutare a sciogliere i legami affettivi, presso quasi tutti i gruppi di zingari c’è l’usanza di distruggere o cedere a persone non appartenenti al gruppo ciò che è appartenuto al defunto. Se sono oggetti personali o con i quali il defunto è stato a contatto, vengono generalmente bruciati. In alcuni gruppi, specialmente presso i sinti, è stato, fino a poco tempo fa, abbastanza normale l’uso di bruciare la stessa carovana del defunto con tutto ciò che a questi apparteneva. Oggi la roulotte generalmente si vende a degli estranei. Spesso vengono conservati oggetti poco ingombranti che possono essere una catenella, un bracciale, qualche moneta d’oro che è stata donata come ricordo dal defunto stesso. Questi oggetti sono scrupolosamente custoditi. Alla morte segue il lutto. Presso alcune comunità il lutto consiste nel cambiare abbigliamento e vestire di nero, in altri casi alcuni dei parenti più stretti fanno voto di astenersi dal vino, dal caffè, da qualche altra bevanda o dal fumo per un periodo che varia da sei mesi a un anno o anche per tutta la vita. Il voto, come il giuramento, sui morti è mantenuto rigorosamente. 

1979

GLI ZINGARI E LA LORO CONDIZIONE GIURIDICA

Il 2 marzo 1979 gli zingari hanno ottenuto un riconoscimento ufficiale da parte dell’Onu.

“Sparsi in aree remote o centrali all’interno dell’Europa si trovano tangibili esempi di piccole nazioni o di comunità etniche le quali, durante i secoli passati, sono state divise da frontiere o incorporate in modo artificiale nei confini delle nazioni Stato. Nate da conquiste, guerre e divisioni arbitrarie di territori nazionali, le minoranze nazionali sono, da tempo, ormai diventate le popolazioni dimenticate dell’Europa ed oltre. 

Come tali sono state vittime di oppressioni e di poteri arbitrari esercitati dagli Stati accentratori nei quali sono situate. I membri delle minoranze nazionali e delle comunità etniche sono stati perciò privati di quei diritti umani e di quelle libertà fondamentali che la comunità internazionale riconosce ormai da tempo come diritti legittimi dell’individuo”. Tra queste minoranze gli zingari. In quanto cittadini italiani, gli zingari dovrebbero godere al pari degli altri dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione agli articoli 2 (diritti inviolabili dell’uomo), 3 (diritto di eguaglianza), 6 (tutela delle minoranze linguistiche), 13 (diritto di libertà), 16 (libertà di circolazione e di soggiorno), 34 (diritto alla scuola), 35 (diritto al lavoro) e 38 (diritto all’assistenza e alla previdenza sociale). 

I nomadi zingari hanno questi e altri diritti ma spesso, convinti di essere cittadini di seconda categoria, non fanno valere questi medesimi diritti. 

Gli zingari pur essendo un gruppo etnico socioculturale ben specifico, a causa della loro diaspora sono diventati estremamente deboli, pertanto bisognosi di attenzione da parte della legislazione affinché vengano tutelati i loro diritti. Voglio sottolineare la debolezza di questo popolo, che pur essendo presente in tante parti del mondo non è mai diventato un gruppo di potere in nessuna nazione. Questo medesimo gruppo non ha avuto la possibilità di coalizzare un numero significativo di nomadi zingari che potesse, in qualche modo, esercitare una pressione e imporsi. Sono sempre stati gli altri a decidere le loro sorti. Spesso sono sopravvissuti contro la volontà repressiva degli altri. Oggi dichiarazioni, fatti, associazioni internazionali, statuti, tutelano i diritti delle minoranze, quindi anche degli zingari, ma spesso queste restano solo parole perché non sono ancora diventati patrimonio di una nuova mentalità pluralistica che dovrà, più che i decreti, garantire la coesistenza e lo sviluppo di gruppi etnici e culturali diversi. “Mentre si sostiene che una nazione è una società umana che occupa il suo territorio il quale è noto agli altri Stati, anche se non sempre da loro rispettato, ed è caratterizzata dai suoi vicini ma da differenze di lingua, cultura e storia così da formare un’entità riconoscibile; una minoranza nazionale, d’altra parte, è una nazione distinta o parte di una nazione distinta che è territorialmente o politicamente inclusa entro i confini politici o governativi di uno Stato o Stati in cui la maggioranza dei cittadini sono di una o più nazionalità diverse; entro i limiti di uno Stato e di una nazione all’interno di quello Stato possono esserci delle differenze basate su tradizioni, storia, dialetti, economia, situazioni geografiche diverse, differenze prevalenti in modo tale da poter dire che costituiscono culture regionali distinte”. Per tutelare i diritti delle minoranze, e quindi degli zingari, è necessario ottenere la parità di diritti nello Stato in cui si vive. L’importanza di essere riconosciuti e non esclusi solo in nome della propria appartenenza di gruppo è di capitale importanza. In questa linea si è espressa la Carta dei Diritti delle Comunità Etniche Minoritarie e delle Minoranze Linguistiche di cui riportiamo qualche stralcio di articolo.

 

Articolo 1: 

le diverse comunità etniche e linguistiche o religiose, come pure i loro membri, godono degli stessi diritti in seno allo Stato. Nessuno potrà essere discriminato né in diritto, né in fatto a causa della sua appartenenza a un gruppo minoritario. Ogni incitazione all’odio etnico o razziale costituisce un delitto. 


Articolo 2: 

lo Stato è tenuto a riconoscere la personalità morale di diritto pubblico di tutte le comunità etniche e linguistiche autoctone. 


Articolo 3:

...nel caso che i limiti della comunità etnica minoritaria non siano chiaramente definiti, commissioni di esperti e commissioni arbitrali procederanno alla loro constatazione. Quando si tratta di una comunità etnica diventata minoritaria sul suo territorio tradizionale o di una comunità etnica sparsa dovrà essere accordata un’autonomia di tipo personale. 


Questa comporterà la pienezza di competenze culturali ed un’appropriata partecipazione agli organi comuni gerenti le competenze di ordine pubblico. 


Articolo 12:

1). Gli Stati sono tenuti ad assicurare ai membri della comunità etnica minoritaria un impiego sul posto ed a promuovere lo sviluppo delle attività professionali ed economiche della stessa.

2) Lo sviluppo dell’economia non deve essere per conseguenza la sommersione etnica della comunità minoritaria per mezzo della popolazione di un’altra comunità etnica.


Riportiamo alcune parti significative della risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvata il 22 maggio 1975:


Il Comitato dei Ministri, 

 

1. Considerando che lo scopo del Consiglio d’Europa è il raggiungimento di una più grande unità fra i suoi Membri al fine di salvaguardare e di attuare gli ideali e i principi che sono loro patrimonio comune e di facilitare il loro progresso economico e sociale; 

 

2. Notando che la situazione dei nomadi in Europa è stata notevolmente aggravata dallo sviluppo industriale ed urbano nonché dall’estensione dei programmi urbanistici; 

 

3. Ricordando che non sono ancora scomparsi negli stati membri pregiudizi ed atti discriminatori della popolazione sedentaria contro i nomadi; 

 

4. Ritenendo che i nomadi dovrebbero beneficiare di un’appropriata protezione sociale; 

 

5. Ritenendo che dovrebbero essere prese misure speciali per favorire la piena integrazione dei nomadi nella società; 

 

6. Riconoscendo che il basso livello di frequenza scolastica dei figli dei nomadi ostacola gravemente le loro possibilità di progresso sociale ed economico; 

 

7. Tenendo presenti le preoccupazioni espresse nella Raccomandazione 563 dell’Assemblea Consultiva sulla situazione degli zingari e di altri nomadi in Europa;


Raccomanda ai governi degli stati membri di prendere tutte le misure che ritengono necessarie per l’attuazione dei principi indicati nell’appendice della presente risoluzione, di cui costituisce parte integrante. 


Invita i governi degli stati membri ad informare, nei tempi opportuni, la Segreteria Generale del Consiglio d’Europa sulle azioni compiute per l’attuazione delle raccomandazioni contenute nella presente risoluzione. 


...(raccomanda)... 


l. La scolarizzazione dei bambini nomadi promossa con i metodi più adatti, i quali devono tendere al loro inserimento nelle classi comuni. 


2. Nello stesso tempo, ove sia necessario, si promuoverà l’istruzione generale degli adulti, ivi compresa l’alfabetizzazione. 


3. I nomadi e i loro figli dovrebbero poter effettivamente. Accedere alle varie istituzioni esistenti per l’orientamento, l’addestramento e la riconversione professionale. 


4. Nell’ambito dell’orientamento e dell’istruzione professionale si terrà sempre il massimo conto delle abilità naturali. 


5. Si darà il massimo aiuto ai nomadi nell’ambito delle strutture nazionali per la protezione della salute e del benessere sociale; ciò implica la collaborazione dei servizi sanitari e sociali di ogni specie. 


6. Qualora ce ne sia bisogno, gli assistenti sociali saranno informati sui problemi dei nomadi e sarà incoraggiata la formazione di operatori sociali provenienti da famiglie nomadi.


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Il 2 marzo 1979 gli zingari hanno ottenuto un riconoscimento ufficiale da parte dell’Onu. Infatti l’Unione Internazionale Romany composta da rappresentanti zingari delle diverse nazionalità accomunati dalla stessa etnia e cultura sono presenti come organismo riconosciuto ma non governativo con uno statuto del quale riportiamo gli scopi: 


l) Gli scopi della Rij sono umanitari. Nel loro spirito tollerante e unitario essi dovrebbero costituire un arricchimento per ogni forma associativa in cui i rom di volta in volta si uniscono. Gli scopi fondamentali della Rij corrispondono alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo all’Onu. La Rij si pone al servizio di tutti i rom, dovunque. 


2) I rom sono cittadini dello Stato in cui vivono. Sono impegnati a rispettarne le leggi. Gli Stati permettono ai rom di vivere nei luoghi da loro scelti. 


3) La Rij interviene nei modi opportuni nei casi di massicce discriminazioni o di ingiustizie nei confronti dei rom per tutelare i loro diritti. 


4) La Rij raccomanda ai rom di collaborare con le istituzioni statali per servire gli interessi del Popolo romano e per favorire una migliore comprensione. 


5) La Rij si preoccupa perché sia garantita l’istruzione dei bambini e degli adulti e tutela la cultura, lingua, canti, danze, letteratura, eccetera, che sono la vera ricchezza dei rom, come pure l’artigianato e il commercio. Per questi scopi devono essere usati, anche in parte considerevole, i mezzi finanziari provenienti dai risarcimenti di guerra. 


6) La Rij rappresenta sul piano internazionale di tutto il mondo tutte le organizzazioni nazionali o regionali dei rom in modo che la Jekhethanibe, l’Unione di tutti i rom, aumenti. L’insieme dello Statuto, pur con molti limiti, segna un momento significativo nella vita del popolo zingaro e ne lascia intravedere un futuro più ricco di scambi culturali e riconoscimenti reciproci. si curarono che ormai i carabinieri non pensavano più a noi.

PERSECUZIONE E STERMINIO DEGLI ZINGARI 

Tralasciando tutta una serie di considerazioni pure importanti, ricordiamo che, nell’ultima guerra, oltre mezzo milione di zingari finì nei forni crematori assieme ai sei milioni di Ebrei. Solamente nel campo di Auschwitz gli zingari regolarmente immatricolati furono 20.933, e fra questi sono compresi 360 bambini  [1] nati nel lager che hanno vissuto a sufficienza per ricevere il numero di matricola. A questi vanno aggiunti 1.700 zingari mandati nelle camere a gas appena arrivati dalla Polonia nel marzo del ‘43, i quali non avevano ricevuto neppure i numeri di matricola. Durante un finto allarme aereo notturno furono tutti gassati perché “portatori di tifo”. Tutta una serie di testimonianze orrende potrebbe trascinarsi all’infinito. 

Riporto in questo saggio quella del massacro finale con quanto ci viene detto da chi ha assistito alla strage di circa 4.000 zingari all’inizio dell’agosto ‘44, riportato da G. Puxon: 

“La sirena annunciò il principio di un coprifuoco rigorosissimo. I camion furono sul posto alle ore venti”. “Gli zingari avevano previsto quello che stava per capitare ma i tedeschi fecero di tutto per confondere loro le idee; all’uscita dalle camerate ciascuno ricevette una razione di pane e salame, così furono in molti a credere che si trattasse semplicemente di trasferimento in un altro campo”. “Eravamo a portata d’orecchio quando, negli ultimi orrendi istanti, furono scatenati nel campo contro donne, bambini e vecchi, i detenuti comuni tedeschi armati di mazze e coadiuvati dai carri. 

Improvvisamente l’aria fu lacerata dalle urla di un ragazzino che in lingua cèca implorava: “Vi prego, vi prego, signor SS mi lasci in .vita”. Gli risposero soltanto i colpi di manganello. Infine tutti furono sospinti a mucchi nel camion e condotti al crematorio. Cercarono ancora di resistere con tutte le forze, molti invocando ad alta voce la loro nazionalità tedesca. “Si verificarono scene strazianti: donne e bambini si trascinarono in ginocchio davanti a Mengele e a Boger implorando: “Pietà, abbiate pietà di noi”. Invano, furono abbattuti a randellate, calpestati, trascinati fino al camion, caricati con la forza. Fu una notte terribile, allucinante. Nei cassoni degli autocarri furono gettati anche quelli che avevano perso la vita sotto i colpi di clava. “I camion giunsero al blocco degli orfani verso le ventidue e trenta e a quello di isolamento verso le ventitrè. Le SS e quattro detenuti comuni portarono fuori, a braccia, tutti i malati ma anche venticinque donne in perfetta salute che erano state isolate con i rispettivi figlioletti. Alle ventitre giunsero altri camion davanti all’ospedale - in un solo camion furono caricati da cinquanta a sessanta internati, e fu così che giunsero fino alle camere a gas, gli ammalati. 

Udii le grida fino a notte fonda e così capii che cercavano ancora di opporre resistenza. Gli zingari protestarono urlando e dibattendosi fino all’alba..., cercavano di vendere la vita a caro prezzo”. 

Queste testimonianze sono dei cartelli posti sulla strada che percorriamo nella nostra storia e ci dicono dove possiamo arrivare se non decidiamo di accogliere in profondità le diversità. 

 [1] “Quando nasce un bambino nell'accampamento c'è un momento di grande gioia perché è uno degli avvenimenti più importanti”.

TANTI PUNTI INTERROGATIVI 

Perché il razzismo è così violento nei confronti degli zingari? 

Nei confronti degli zingari o degli Ebrei o dei negri d’America il razzismo ha sempre trovato la radice nell’incapacità di accettare le diversità. E errato dire che non esistono differenze, che tutti gli uomini sono uguali. Non si tratta di dire che un nero è bianco o viceversa, ma si tratta semplicemente di accogliere le diversità e il pluralismo in tutte le sue manifestazioni. In questo secolo il razzismo non fu semplicemente una forma di darvinismo sociale ma un’ideologia composita che aveva attribuito le virtù, la morale e la rispettabilità dell’epoca ai suoi stereotipi e le aveva ritenute qualità innate della razza superiore. Gli ebrei, gli zingari, i negri non corrispondevano all’immagine-tipo che ci si era costruita. Il razzismo si è appropriato delle virtù dell’epoca e ha condannato come degenerato tutto ciò che era l’esatto contrario della rispettabilità. Non incarnare il tipo ideale dell’“Americano tutto d’un pezzo” o dell’“Inglese dalla vita onesta” era segno di razza inferiore. È sempre latente in noi la possibilità di diventare razzisti con la pretesa di essere onesti. Il razzista invece di correggere gli errori che ritiene tali, condanna semplicemente, e la separazione è distruzione.      

A differenza di molti popoli nomadi (Unni, Goti, Visigoti, Vandali, eccetera) che in passato si sono scontrati con la nostra storia occidentale e sono scomparsi almeno da un punto di vista etnico, gli zingari sono sopravvissuti. Perché? 

Quando si sono affacciati in Europa hanno trovato i territori già lottizzati. Non potevano pretendere di fare una qualche guerra perché erano un numero esiguo. Per sopravvivere non potevano stare nello stesso posto, hanno così cominciato a frazionarsi in piccoli gruppi. Quando in seguito diventarono numerosi, erano già sparsi in tutto il Continente e non trovarono mai più la possibilità di coalizzarsi per ottenere uno Stato solo per essi. Pertanto il segreto della loro sopravvivenza sta nel fatto che non hanno mai intrapreso guerre. Non sono mai stati vincitori né vinti. Non hanno mai conquistato il potere di un qualche piccolo o grande Impero e non hanno mai perso la loro esile libertà di esistere. Sono stati perseguitati ma sopravvissuti. Qualcuno ne ha tentato il genocidio ma ha solo potuto farlo nel suo territorio. Così sono oggi presenti non solo in Piemonte ma in molte parti del mondo. 

Scherzosamente si potrebbe dire che gli zingari sono i soli eredi di Carlo V, con una frase che rimase celebre: “Sul mio regno non tramonta mai il sole”. Forse è il solo gruppo etnico su cui non tramonta mai il sole pur non possedendo regni, anche se ogni zingaro si consi­dera un re mentre dai sedentari è considerato un pezzente. 

Lavorano o rubano? 

Alcuni pensano addirittura che i sinti rubino i bambini. Attorno a questo tema si ebbe tutta una certa letteratura rosa incominciando da Cervantes con la “Gitanilla” del 1612. Queste accuse nacquero dalle manie dei genitori di creare nei loro figli la paura che qualcuno volesse rapirli, in questo caso furono gli zingari a farne le spese. Ancora oggi, specialmente nelle campagne, per far paura ai bambini si dice di stare buoni perché altrimenti arrivano gli zingari a portarli via. Un po’ la storia del vecchio “Barbabrut” col sacco. Dal canto suo lo zingaro dice ai suoi bambini di stare buoni altrimenti arriva il gagiò (il non zingaro) e li porta via. Al di là delle leggende e dei pregiudizi dico questo: alcuni degli zingari lavorano, altri vivono di espedienti, altri ancora lavorano e rubano allo stesso modo come fanno i torinesi sedentari, gli astigiani, gli alessandrini e tutti i cittadini e paesani del mondo. Per ciò che riguarda il lavoro bisogna notare che con l’inizio dell’industrializzazione in Italia, e in particolare in Piemonte, tutta una serie di lavori artigianali quali: lavorazione di vimini, lavorazione del rame, eccetera, ha subito un collasso lasciando molte famiglie senza mezzi di sussistenza e con l’incapacità di riconvertire in poco tempo il proprio lavoro. Oggi una gran parte di essi ha ristrutturato la propria attività economica e ciò che sorprende è l’estrema varietà delle attività esercitate. I sinti piemontesi, in particolare, esercitano attività nei Luna Park con piccoli o grandi mestieri. Cominciano con un tiro a segno, una rotonda, poi la giostra a catene e, se gli affari vanno bene, si arriva agli autoscontri e alle moderne attrazioni dei parchi di divertimento. Altri lavorano nei circhi, perlopiù a conduzione familiare, mentre altri sono proprietari di grandi circhi di fama internazionale. In questi casi il personale (300-400 persone) è quasi interamente gagiò (non zingaro). Altri sinti svolgono la loro attività recuperando metalli. Questo lavoro costituisce un’attività relativamente importante. In ogni accampamento sono presenti macchine rotte pronte ad essere demolite. È sorprendente vedere con quale destrezza un veicolo viene smontato, dividendo e classificando i pezzi per la vendita. Spesso con i rottami si fanno anche buoni affari. Questo lavoro però comporta molti spazi di terreni dove si possano ammucchiare i rottami, spazi spesso difficili da trovare. Tra le diverse attività, la più importante resta il commercio. Tra i sinti che possiedono una buona agiatezza finanziaria si trovano commercianti girovaghi che vendono tappeti, lenzuola, biancheria, pizzi, copriletto e tendaggi; che rappresentano un giro di affari apprezzabile.

C’è poi chi vende nelle fiere e mercati come ambulante o con banco e clientela ormai fissa. Qualche gruppo sedentarizzato ha intrapreso attività varie come garagisti, macellai, mercanti di bestiame e impresari. Pochi di essi lavorano nelle fabbriche dove, d’altronde, la loro assunzione crea delle difficoltà. Essi non trovano interesse per il lavoro della terra, in genere, ma sono interessati alla raccolta delle mele, pere, pesche, un po’ ovunque, alla raccolta delle nocciole nel cuneese, e infine alla vendemmia nel cuneese e nell’astigiano. Poi c’è tutta una serie di gruppi zingari rom che sono giunti in Piemonte negli ultimi decenni, quindi considerati gli stranieri. Essi lavorano il rame. Sono buoni indoratori, incastonatori. Un gruppo significativo di essi è specializzato in affilature e temprature di coltelli, frese, lame industriali e bisturi (numerosi Ospedali delle principali città piemontesi fanno riferimento a questi specialisti per la tempratura dei bisturi). Queste attività lavorative permettono un’ottima agiatezza finanziaria. C’è poi chi non lavora e vive di elemosina o di furto ma non è certo la maggioranza. 

A conclusione di questo argomento si può dire che gli zingari non considerano il lavoro come fanno i gagiè che pensano alla produzione e alla validità del lavoro, ma lavorano per sopravvivere giorno dopo giorno, non pensando al domani. Esistono comunque grosse difficoltà a livello economico: ci sono gli arrivati, chi vive a stento e quelli più miserabili. C’è tutta una gamma che va da coloro che possono pagare le tasse a chi dipende dagli aiuti di beneficenza.

Hanno una lingua propria? 

La lingua degli zingari è il più ricco documento della loro storia. Attraverso di essa è stato in parte possibile ricostruire il cammino geografico e cronologico, almeno a grandi linee, e i 1000 anni della loro storia. Gli influssi dei dialetti locali sulla lingua originaria dei nomadi hanno rivelato i loro stanziamenti più prolungati. Fino ad oggi tutti gli zingari del mondo hanno mantenuto scrupolosamente la propria lingua di origine indiana che pur con inevitabili diversificazioni dialettali è rimasta sostanzialmente simile. I sinti piemontesi, e in genere gli altri, tentano di non divulgare la loro lingua che, sconosciuta agli inquirenti, ai poliziotti, permette loro di comunicarsi le linee di difesa quando vengono a contatto del mondo gagió legale così incomprensibilmente complesso. La lingua è tuttora un elemento importante per distinguere i nomadi zingari dai nomadi non zingari. 

Che si pensa degli zingari? 

Un’indagine eseguita nel nostro Paese nel 1971 permise di costruire lo stereotipo dei nomadi secondo l’italiano medio. Egli li considera: sporchi (59%), ladri (46%), attaccati alle tradizioni (42%), molto uniti (38%), astuti (35%), violenti (35%), pigri (34%), eccetera. 

Come si vede uno stereotipo dai contorni molto netti che tradisce la nostra paura nei confronti di un popolo i cui valori diversi ci sono ignoti e incomprensibili. L’indagine citata poco prima accertò che i due terzi degli italiani avrebbero paura a trovarsi di notte nel mezzo di un accampamento di nomadi. La percentuale scendeva a un terzo nel caso ciò si possa avverare di giorno. La paura genera l’odio e infatti l’indagine diede modo di osservare che un terzo della popolazione ha un atteggiamento decisamente contrario ai nomadi. Un altro terzo considera la loro presenza un problema mentre il terzo rimanente ha un atteggiamento di disponibilità verso di loro in quanto esseri umani anche se con valori diversi dai nostri. 

I bambini sinti vanno a scuola? 

Oggi in maggioranza frequentano la scuola pur non senza difficoltà. Negli Stati europei sono state prese numerose iniziative a favore dell’istruzione scolastica dei bambini zingari. I diritti dell’uomo e gli Stati sono impegnati a garantirli per tutti senza eccezioni. 

In ogni caso il continuo spostamento crea difficoltà. I diversi gruppi zingari hanno sempre rinunciato a mettere i bambini in collegio per il periodo scolastico perché la famiglia è inseparabile ma hanno accettato di fermarsi più a lungo, in certi periodi, cominciando a dare qualche possibilità alla scolarizzazione. Le difficoltà maggiori incontrate sono un’istruzione che ricalca necessariamente un sistema di vita completamente estraneo ad essi e la paura da parte dei genitori di ricevere un figlio totalmente cambiato. I testi scolastici e l’insegnamento concepito per un modo di vita diverso da quello nomade con riferimenti, pensieri e storie che non tengono conto della realtà zingara. Spesso gli insegnanti non comprendono le difficoltà alle spalle di chi vive in un accampamento quali l’irregolarità di frequenza, la mancanza di tempo per fare esercizi e studiare. Spesso si è avvertita l’incapacità di far nascere nella scuola uno scambio vero tra culture diverse. I genitori degli zingari, pur intuendo l’importanza della scuola, non sempre sono stati capaci di dare continuità a questo impegno che spesso si sono presi con i figli perché essi stessi non ne hanno fatto l’esperienza. Queste difficoltà che hanno giocato un ruolo determinante in passato non sono del tutto scomparse e per venire incontro a soluzioni delle medesime sono state intraprese iniziative un po’ in tutto il mondo. In Italia, nel ‘65, sono state istituite scuole specializzate per bambini zingari promosse dall’Opera Nomadi. 

Nel ‘73 è partita una prima “scuola viaggiante”, nel nostro accampamento per opera dell’insegnante Angela Maria (.....) che assunse in tutto e per tutto la causa dei nomadi e offrì questo servizio a tempo pieno (24 ore) e resta l’esempio più profetico. In Francia i nomadi sono stati invitati a soste prolungate per permettere la scuola nelle classi normali. In Svezia, essendo in gran parte sedentari, i nomadi hanno solo chiesto un insegnamento integrativo. In Olanda è stato favorito un sistema di aree-camping con espletazione di servizi autonomi: scuola, chiesa, circoli, eccetera ma piuttosto isolati. In Irlanda si sono costituite scuole speciali con la collaborazione tra insegnanti statali e volontari. In Inghilterra si è tentato di raccogliere i diversi bambini zingari sparsi nei quartieri e portarli in un istituto dove ricevono l’insegnamento scolastico. In Piemonte ci sono delle scuole specializzate per sinti, in particolare per favorire ai ragazzi che hanno più difficoltà all’aggregazione. A Torino, per esempio, una scuola pubblica (guidata dal dott. Massano e un asilo privato gestito dalla dott. Carla Osella hanno disposto un servizio di pullman che permette ai bambini sinti nei diversi accampamenti di poter accedere alla scuola. L’asilo, nella stagione bella, si trasferisce nei campi. Questi periodi di scuola particolare hanno una durata limitata a qualche mese o ai primi anni, poi i bambini sinti vengono inseriti nelle classi normali dove le famiglie sono accampate. Nei pochi spostamenti invernali i bambini cambiano scuola. I genitori più sensibili al problema sostano a lungo nella stessa zona per favorire la scuola. Alcuni genitori, pur spostandosi, per non mettere a disagio il bambino che dovrebbe cambiare scuola sovente, lo accompagnano in macchina alla stessa scuola addossandosi un onere non indifferente. Ci sono poi scuole per adulti fatte da volontari negli accampamenti e dall’anno ‘78 vengono stimolati e aiutati adulti a frequentare le 150 ore per la scuola media. 

I sinti hanno una loro musica? 

I sinti, come tutti gli zingari, sanno cantare e suonare. La loro è una musica che non ha fretta di esprimersi e non ha bisogno di dire tutto subito e in poco tempo con irruenza. La musica zingara parla a chi ha tempo di ascoltare, a chi si avvicina sempre più, richiamato da alcune note o ritmi non usuali. Né musica classica, né moderna: è musica zingara. 

È un’arte che scompare con la morte dell’artista, rare volte viene incisa. In quel caso, comunque, non è più originale. La musica zingara è fatta di suono, dì canto, di danza e di clima di festa. La testimonianza di un sinto piemontese ci dice: “C’erano alcune famiglie particolarmente allegre che davano un tono di festa agli incontri e nessuno sapeva eguagliarli. C’erano questi sinti, dei veri e propri giullari di strada che però non divertivano le corti dei signori, bensì gli zingari, i loro compagni di viaggio e quindi la gente del proprio sangue. Alcuni sinti erano gelosissimi della loro arte, della loro musica, alcuni avrebbero potuto far carriera nello spettacolo perché erano veramente artisti. Ricordo un amico che quando suonava faceva piangere dall’emozione e suonava soltanto per noi, si sentiva umiliato a suonare per gli altri (gagiè). Anche a me è sempre piaciuto cantare, anzi, da giovane, penso che con la mia voce arrivavo all’incirca dove desideravo e a volte mi commuovevo io stesso. Una notte intera di canzoni senza intervallo e il giorno dopo tutto come prima. 

Ebbene io non mi rifiuto di cantare con i gagiò, ma mi trovo meglio con la mia gente. Il canto attorno al fuoco non è ricompensato, è gratuito ma è libero, è canto per la festa. Mio nipote, penso, uno dei migliori cantori che abbia conosciuto nella vita, ebbene solo noi sinti siamo quelli che abbiamo avuto la fortuna di sentire i momenti più belli della sua arte: un’arte che non veniva incisa nella pietra, né scritta su un foglio e neppure registrata su qualche apparecchio, è l’arte che ci veniva regalata come le fiamme del fuoco che dopo un secondo non esistono più, erano state cosi intense”. 

I sinti, uscendo dai propri accampamenti, hanno anche dato alla storia della musica dei grandi nomi, per esempio Giango Reynard considerato universalmente uno dei più grandi jazzisti di chitarra del mondo. Resta però sempre vero che l’arte zingara più autentica è là, attorno al fuoco nell’accampamento. 

C’è una poesia zingara? 

La poesia zingara si esprime nei canti di festa, nei lamenti funebri e, in rari casi, anche in poesie, versi tramandati, ma sono casi rari.  

CENERE. 

Cenere diventano i grandi fuochi, 

le nostre cenciose tende furono squarciate dalle bufere. 

La spiaggia deserta dei senza patria è il nostro approdo, 

non abbiamo amici. 

Nella lunga notte del nostro peregrinare 

spegnemmo le sfavillanti faci delle nostre anime, 

piangiamo e temiamo l’oscurità 

perché i bavosi mastini del tempo continuano, 

a ringhiare sotto le nostre finestre, 

ci strappano la loro luce. 

Ahimè, perché ho dovuto giocare con luride 

bambole di stracci, 

perché, o madre mia, mi insegnasti le ninne nanne? 

Perché gioisti al notare 

dalla mia sporca sottoveste il turgore dei miei seni? 

Tu ancora non sapevi 

che anche il sole si è oscurato? 

Nella nostra querula lingua non sappiamo che lamentarci. 

Gemono i nostri violini sul muro, 

grattate stridule hanno spaccato le nostre corde 

e noi singhiozziamo e temiamo la notte 

perché amici non abbiamo, ma soltanto miseria. 

 

(Anka Lakatos) 

LIBERTÀ. 

Noi zingari abbiamo una sola religione: la libertà.

In cambio di questa rinunciamo alla ricchezza, al potere, 

alla scienza e alla gloria. 

Viviamo ogni giorno come fosse l’ultimo. 

Quando si muore si lascia tutto: il miserabile carrozzone come 

un grande impero. 

E noi crediamo che in quel momento sia molto meglio essere stati 

zingari che re. 

Noi non pensiamo alla morte, non la temiamo, ecco tutto. 

In nostro segreto sta nel godere ogni giorno le piccole cose che 

la vita ci offre e che gli altri uomini non sanno apprezzare: 

una mattina di sole, un bagno nella sorgente, 

lo sguardo di qualcuno che ci ama. 

È difficile capire queste cose, lo so. Zingari si nasce. 

Ci piace camminare sotto le stelle. 

Si raccontano strane storie sugli zingari. Si dice che leggano 

l’avvenire nelle stelle 

e che possiedano il titolo dell’amore. 

La gente non crede alle cose che non sa spiegarsi. 

Noi invece non cerchiamo di spiegarci le cose in cui crediamo. 

La nostra è una vita semplice, primitiva. Ci basta avere per tetto il 

cielo, un fuoco per scaldarci e le nostre canzoni, quando siamo tristi. 


(Spatzo)

Rivelano poi un’arte squisita alcune massime e proverbi zingari: 

-Un cane che corre da solo pensa di essere il più veloce del mondo. 

-Un uomo che si vanta è come una tenda con l’apertura rivolta verso il temporale carico di vento

-Il topo con una rosa nell’orecchio è sempre un topo. 

-Dipingi l’erba con qualsiasi colore è sempre erba 

-Chi vive in un carrozzone fatto di vetro non può gettare le pietre 

-Quando non vuoi vedere a che serve una stella

-E inutile accendere una candela al vento. 

-Se ti siedi sul cavallo al contrario quello continua ad andare avanti. 

-Una lepre nella pentola vale per sei nel campo. 

Senza data : verso il 1983  

Lettera personale – Stralcio 

C’era stato un bisticcio violento tra persone che quando non erano alterate dall’alcool non avrebbero “fatto del male ad una mosca”. Essi avevano una sensibilità straordinaria e una capacità non comune di intessere amicizie profonde. 

Si tratta di una relazione difficile tra un padre di cinquant’anni circa e il figlio di venti. Quando bevevano eccessivamente diventavano violenti con tutti e anche tra di loro. Poco fa quest’uomo, con furore incontrollabile arrivò a tirare l’accetta contro il figlio che per miracolo non uccise. Cose simili erano capitate spesso, per questo i due evitavano di vivere nello stesso campo. La settimana scorsa il figlio era venuto a far visita al Padre e avevano bevuto alcool in gran quantità e cominciarono a rinfacciarsi parole e violenze l’uno con l’altro. 

Il padre picchiò a sangue il figlio che diventò così esasperato da partire con alcuni amici dopo aver giurato su tutti i suoi morti che sarebbe tornato con un revolver per sparare una volta per tutte contro quell’uomo che era suo nemico e padre. 

Il padre del ragazzo fu portato in carovana e nel suo letto. Tutti fuggirono per non essere presenti al conflitto di questo figlio impazzito con una rabbia furiosa contro il padre. Solo un amico rimase a vegliare quell’uomo ubriaco fradicio e addormentato. Mi disse che si era chiesto: “Se il figlio gli spara, si porterà una ferita così grande nel suo spirito che difficilmente riuscirà a rimarginare e le conseguenze potranno essere sempre più gravi, come capita spesso a chi non è riuscito a far pace con il proprio padre”. Decise di sfilare la giacca a quell’uomo e la indossò. Si mise il cappello di quell’uomo e rimase in attesa del figlio, vegliando tutta la notte. Pensò: “Se arriva, mi metterò di schiena sulla porta. La mia statura è pressappoco simile a quella del padre. Se sparerà a me non lo farà più di certo contro suo padre, e rendersi conto di aver sparato contro un amico lo potrà correggere anziché renderlo probabilmente peggiore per tutta la vita.” 

Quel ragazzo era per quell’amico come un figlio e lui voleva salvare sia il padre che il figlio. Mi disse poi che non considerava quel gesto come un fatto eroico, ma un’azione istintiva di chi vuole salvare a tutti i costi due amici che sono uno come un figlio e l’altro come un fratello. Mi disse ancora che nessun padre che si mette davanti alle armi per salvare un figlio deve essere considerato un eroe. Mi raccontò che, presa la decisione si sedette e sentì una profonda pace dentro di sé. In ogni caso il suo animo era alterato in quanto coesistevano in lui, al tempo stesso un senso di pace, di paura e delle emozioni che non aveva mai provato prima. Rimase in attesa con una serenità in più in quanto aveva trovato una strada per salvare entrambi dalla follia. Probabilmente gli amici di quel figlio furioso riuscirono a farlo desistere da quella pazzia. 

Queste storie capitano negli accampamenti e ci dicono qualcosa di chi sono gli zingari.