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Genocidio dei Santi Martiri Armeni - Seconda parte

 

Genocidio dei Santi Martiri Armeni

Seconda parte

d.  Renato Rosso  ©

Sommario

Testimoni e testimonianze


Poiché molte testimonianze mostrano tutta la cruda violenza dei turchi sotto una parvenza di “guerra santa”, ad ogni passo di questo percorso bisognerà chiarire che la violenza non è un fatto costitutivo della fede islamica, infatti Maometto e trenta notabili avevano firmato un’ordinanza riguardante i cristiani:

«È proibito nuocere ai cristiani d’Oriente e d’Occidente; prendere qualsiasi cosa dai loro oratori e dalle loro chiese o oltraggiare le loro mogli. È ugualmente proibito impedire ai cristiani di seguire la loro religione o distruggere le loro case di preghiera, perché questo è ordine di Dio. Io voglio che i loro preti e monaci siano onorati da tutti. Chiunque violerà la presente Alleanza di Dio stesso (sappia) che la collera di Dio Altissimo cade e riposa su di lui». Maometto stesso condanna dunque la violenza che si è scatenata in quel Genocidio e i turchi dovranno onestamente riconoscere che, prima ancora di aver combattuto la fede cristiana, hanno violato la religione islamica.

Può stupire il fatto che molte testimonianze, pur descrivendo perfino con scrupolo gli avvenimenti del Genocidio, abbiano troppo spesso tralasciato la dimensione “fede” per la quale i cristiani hanno dato la vita, al punto che, in un primo momento, il lettore si trova letteralmente confuso di fronte a tanta violenza dei turchi. Se, infatti, essi avessero ritenuto di avere delle ragioni per non fidarsi degli armeni, avrebbero potuto pensare a una loro espulsione dai propri territori, o persino ipotizzare una guerra contro i cristiani, considerati alleati dei francesi o dei russi, ma uno sterminio – che a molti testimoni appare gratuito e immotivato – risulta totalmente irrazionale e incomprensibile, come fatto storico. In realtà, i turchi, ponendosi il problema degli armeni e decidendo di estirpare quella presenza cristiana, tentarono in primo luogo la loro conversione. Si servirono di sofisticate  torture, ma con  lo scopo di convincerli ad abiurare al Cristianesimo e scegliere l’Islam. Se avessero ottenuto la conversione degli armeni cristiani, i turchi sarebbero diventati più numerosi e il fatto che i cristiani fossero intellettualmente più preparati avrebbe arricchito i turchi stessi anche da questo punto di vista. Poiché non più di 150mila armeni si  convertirono all’Islam di fronte alla tortura e alla morte, l’altro milione e mezzo è stato eliminato.

Con le torture inferte generalmente in luoghi pubblici, di fronte a gruppi di cristiani, i turchi forzavano alla conversione e al loro rifiuto venivano uccisi. Se non si considerasse il fatto che le torture sono state inflitte in vista della conversione dei cristiani all’Islam, il Genocidio in Armenia non sarebbe decifrabile. Ma perché le testimonianze sono spesso prive della dimensione “fede”? Perché spesso gli armeni vengono presentati come perseguitati senza ragione, gente caduta in disgrazia dei turchi o, in qualche caso, come eroi della patria e non martiri a causa della loro coraggiosa fede? Una ragione sta nel fatto che i testimoni non sempre erano cristiani, ma semplicemente nemici dei turchi. Un altro motivo è che centinaia di testimonianze e di articoli sul Genocidio furono conservati presso il Comitato Centrale del Partito Comunista Armeno  e negli Archivi di Stato della 

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Repubblica Socialista Sovietica dell’Armenia, due grandi istituzioni di Stato che certo non erano preoccupate della dimensione “fede” degli armeni. Quando, invece, i testimoni erano dei religiosi, venne sottolineata con evidenza la scelta del martirio per fedeltà a Gesù Cristo.

Le testimonianze che seguono – in gran parte già documentate in libri o manoscritti o raccolte personalmente in Armenia dalla viva voce di figli o parenti dei superstiti – non sono solamente elenchi o memorie frammentarie prive di valore documentale, poiché spesso senza timbri o firme di convalida, ma nel loro insieme prove in grado di mostrare un processo attestato da una minuziosa analisi dei fatti. Verjiné Svaslian, doctor of Philological Sciences, ethnographer, ha raccolto personalmente oltre 429 testimonianze oculari di sopravvissuti al Genocidio. Lei stessa me le ha consegnate come frutto di un lavoro durato 55 anni e ne riporto alcune tra le più significative.

Testimonianze oculari dei sopravvissuti

Un fatto drammatico fu raccontato da una madre, deportata con molte altre donne e bambini: quando arrivarono nei pressi del fiume Archak, furono tutti forzati ad attraversarlo a nuoto, pur essendo molto largo. Molti furono subito travolti e trasportati dalle onde. La vicina di casa della testimone cercò di portarsi dietro i tre figli ma, quando la situazione diventò disperata, la bambina più grande si avvinghiò alla madre, paralizzandola al punto che quest’ultima fu forzata a soffocarla, per poter salvare almeno i due più piccoli.[47]

In un villaggio della Provincia di Van, i curdi rastrellarono tutti gli uomini e, poiché questi rifiutarono la conversione, cominciarono a torturare il capo del villaggio. Con un coltello lo scuoiarono e lo accecarono, poi lo appesero a testa in giù. Poiché di fronte a tale dimostrazione nessuno degli uomini rinunciò alla propria fede, gli altri non vennero più torturati, ma solamente uccisi. Raccolsero poi una ventina di bambini di 10, 12 e 15 anni. Pure questi vollero essere fedeli alla loro fede e, mentre venivano torturati affinché rinnegassero la fede cristiana, uno di loro cercava di confortare gli altri dicendo che stavano morendo per la Nazione e per Gesù Cristo.[48]

È impressionante come molti bambini-adolescenti avessero la forza di sostenere le torture per restare fedeli alla loro fede. Normalmente la tortura era sempre inflitta in vista della conversione del torturato o come esempio premonitore per coloro che assistevano, affinché si decidessero a scegliere l’Islam, fosse anche solo per salvarsi o non essere torturati. Si racconta che quando un gruppo di armeni arrivò presso Kurubash, 50 bambini erano stati buttati nel fiume per mostrare che cosa avrebbero rischiato gli altri rifiutando di scegliere l’Islam, poi furono selezionati 12 ragazzi che con coraggio, per fedeltà alla loro fede, sopportarono le torture, che consistevano nel tagliare diverse parti del corpo e infine essere sgozzati.[49]

NOTE:

[47] Cfr. manoscritto NAA, f. 227, rec. 469, pp. 22-26 rev.

[48] Cfr. manoscritto NAA, f. 227 reg. 1, rec. 433, pp. 1-5.

[49] Cfr. manoscritto NAA, f. 227, reg. 1, rec. 469, pp. 36-37 rev.

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Sargis Kaputian raccontò che, dopo aver visto uccidere 16 uomini, fuggì sul monte Sag e, dispersa per 5-6 giorni nella neve, camminò nella tormenta e sotto la pioggia, senza cibo e senza alcun vestito, fino a quando incontrò gente del suo villaggio, che era stato incendiato. Un gruppo di turchi li invitò alla conversione, ma tutti si rifiutarono. Di fronte alla tortura e alla morte, solo il capo villaggio Hovannes e i suoi figli accettarono l’Islam, ma il Mullah, pensando che lo facessero senza alcuna convinzione, obiettò che “il Corano è contrario alle conversioni forzate, sotto minacce con grande paura e altre circostanze”.

Per questa ragione punì gravemente i neoconvertiti, smembrando le parti del loro corpo con dei pugnali.[50]

Il testimone Davit Farmanian, del villaggio di Khachan nel distretto di Berkri, raccontò che il 25 marzo 1915 diversi uomini della polizia entrarono nel villaggio e cominciarono a malmenare Avetis, il capo del villaggio e il prete Ter Mesrob. L’ingiunzione era di consegnare le armi: ne vennero infatti presentate 18.

Il 6 aprile un’altra ventina di poliziotti capeggiati da Amar entrò nel villaggio con 10 servi, che catturarono 32 uomini provenienti da Nazarovè, tutti legati due a due. A questi aggiunsero poi altri 28 uomini di quel villaggio. Verso le 10 di sera portarono tutti, compreso il relatore del racconto, a Ghaymaz, vicino al fiume. Dapprima spogliarono il prete Ter Mesrob e gli dissero: “Se ti converti all’Islam sarai liberato, altrimenti dovrai essere ucciso”. Il prete rifiutò e iniziarono le torture, non solo per lui, ma per mostrare agli altri che cosa sarebbe toccato loro se si fossero rifiutati di convertirsi. Al prete strapparono la barba, poi gli tagliarono le labbra uno per uno e, al termine delle torture, lo decapitarono e lo buttarono nel fiume. Coloro che avevano assistito non mostrarono meno coraggio e, rifiutata la conversione, furono torturati e uccisi. La stessa sorte toccò ad Avetis, il capo villaggio, ad Hakob, Grigor e Avag e pure agli uomini di Nazarovè che avevano rifiutato di convertirsi. I primi furono torturati e in seguito uccisi. I loro nomi sono: Asatur, Hpvsepian, Hakob Petrosian e Baghdasar Galoyan. Di fronte a queste torture, gli altri, rimanendo fedeli alla religione cristiana, non furono più torturati, ma uccisi con fucili. Il giorno seguente si contarono 350 persone uccise indiscriminatamente per età o sesso. In quella notte, il testimone di questo fatto riuscì ad allontanarsi e a buttarsi nel fiume, mentre i turchi tentarono di ucciderlo con diversi colpi di fucile senza riuscirvi e solo altri due uomini seguirono il suo esempio.[51]

Mkrtich Aslanian, unico dei nati in Archesh che sopravvisse, raccontò la storia del massacro di cui riporto alcuni dettagli. Il villaggio di Archesh contava circa 550 famiglie armene e 2.500 famiglie di turchi, per lo più contadini. Alcune informazioni attestano come gli armeni vivessero in una condizione sociale visibilmente privilegiata. Le chiese armene erano due: San Giorgio, meta di tanti pellegrinaggi e San Taddeo. C’erano due preti e il primate Ter Yeghishe. In Archesh vi erano due scuole primarie, una per gli armeni apostolici e l’altra per gli armeni protestanti. Circa 600 bambini di ambo i sessi frequentavano queste scuole. Vi era una biblioteca con sala di lettura con 1.500 libri e 5-6 tipi di giornali. Nel villaggio (solo da parte armena) si contavano 1.500 bovini, circa 600 paia di bufali, 150 cavalli e 300 asini. Almeno 300 commercianti residenti in Archesh avevano altrettante botteghe e trasportavano i beni da Van e Bitlis.

NOTE:

[50] Cfr. manoscritto NAA, f. 227, reg.1, rec. 435, pp. 1-2.

[51] Cfr. manoscritto NAA, f. 227, 1.1, c. 438, ss. pp.1-2.

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Dopo la distruzione e il massacro, la parte armena di Archesh è rimasta una desolazione: la chiesa di San Giorgio bruciata dai Turchi e quella di San Taddeo demolita. Andò tutto distrutto: i preziosi pezzi di antiquariato, i manoscritti e le suppellettili delle chiese. La scuola armena fu bruciata dai russi per qualche ragione militare. La scuola protestante fu bruciata dai turchi. Non sopravvissero più di 100 uomini: 20 erano soldati dell’esercito turco, mentre 10 riuscirono a scappare. Una donna, una ragazza e un ragazzo furono catturati, mentre le altre donne, ragazze e bambini (sotto i 10 anni) si salvarono dal massacro.

Solo dopo la carneficina si seppe che, un mese prima di quel triste avvenimento, al capo distrettuale era arrivato questo telegramma da Costantinopoli: “Uccidete tutti quei cani!” (per ‘cani’ si intendevano ovviamente gli armeni stessi). Il capo del villaggio, non volendo eliminare gli armeni – secondo l’ordine contenuto nel telegramma – ordinò di avvelenare e uccidere tutti i cani (animali) che esistevano nel villaggio. Il 7 aprile, mentre nessuno prevedeva un simile disastro, la polizia entrò nel mercato e chiamò il primate che casualmente si trovava in quel luogo, i preti, tutti gli artigiani e commercianti e, in contemporanea, fece rastrellare tutti gli abitanti del villaggio seguendo il censimento che aveva in mano. Il testimone Mkrtich Aslanian, prevedendo il peggio, si nascose sotto del letame secco e misero sulla testa pile di sottobosco per poter respirare e vi rimase per 32 giorni. I turchi passavano spesso da quella parte e un giorno Mkrtich sentì alcuni di loro fare il programma del giorno dopo. Capì che i preti, il primate e tutte le autorità armene che non avevano accettato la conversione sarebbero stati strangolati, ma prima di ucciderli avrebbero strappato loro la barba e rimosso la pelle, esponendola sul muro del mercato come ornamento.[52]

Il 10 giugno 1915, i curdi attaccarono il villaggio di Nabayn in 200 e, non incontrando nessuna resistenza, radunarono tutto il popolo, poi mostrarono le torture che fecero sul coraggioso e fedele Garnik Kirakosian: in primo luogo gli scuoiarono la schiena, gli cavarono gli occhi e gli tagliarono le mani; da ultimo gli sradicarono i denti mentre era ancora vivo e lo tagliarono in tanti pezzi. Poiché nessuno si piegava ad accettare la religione islamica, continuarono con le torture: presero ancora Abro Buloyan, Rasho Buloyan, Karapet Hokhanian e Hokhan Karapetian e li bruciarono vivi. Prima di dargli fuoco provarono ancora: “Accetta la nostra religione e sarai libero”, ma Abro rispose: “Questo fuoco è meglio della tua religione”. Anche le donne che non si piegarono alla nuova fede pagarono lo stesso prezzo. Sventrarono Nergiz, figlia di Sayd, estrassero il bambino dal suo ventre e lo conficcarono su un palo come una bandiera.

Le donne rimasero pietrificate di fronte all’atrocità usata sui bambini senza cedere. La stessa tortura fu fatta con Seyran, figlia di Poghos e con Khzmo Harutyunian. Per convincere queste madri a scegliere l’Islam, buttarono i bambini a terra e con una grossa pietra fecero sprizzare fuori i loro cervelli. Al termine di tutte le torture, per dimostrare quale prezzo avrebbero pagato rifiutando l’Islam, massacrarono l’intera popolazione. Solamente tre uomini, una donna e un bambino sopravvissero a Nabayin.[53]

NOTE:

[52] Cfr. manoscritto NAA, f. 227, reg,1, rec. 432, p. 12-17 rev. hh.

[53] Cfr. manoscritto NAA, f. 227, reg. 1, rec. 423, pp. 23 e rev.

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Arsen Khachikian ha testimoniato che nel villaggio di Huseinik la popolazione fu invitata a convertirsi all’Islam, ma quando i turchi seppero che un gran numero di cristiani vicini di quel villaggio, convertiti all’Islam, erano tornati al Cristianesimo, non vollero più sentire nessuna ragione: deportarono l’intero villaggio e furono tutti massacrati.

Merita anche ricordare ciò che accadde a Makhsud Boyajian, del villaggio di Hapusi. Durante la deportazione nei pressi di Kharberd, gli armeni furono attaccati dai turchi, che iniziarono a massacrare con “ferocia bestiale”, senza risparmiare alcuno. Lo stesso Maksud riportò 35 ferite. Fu preso e torturato per la sua caparbietà a non voler cambiare religione. Gli tagliarono le orecchie, gli cavarono un occhio e gli staccarono una mano. Pensando poi che fosse morto, lo lasciarono ammucchiato agli altri corpi di armeni uccisi, ma nella notte, strisciando come poteva, lui raggiunse Kharberd ed entrò nell’ospedale americano, dove poi rimase come carpentiere.

Durante una deportazione in direzione di Urfa (probabilmente nell’agosto 1915) da 5mila a 6mila belle ragazze armene furono forzate a sposare poliziotti turchi e gendarmi di Kharberd e Malatia. Se rifiutavano la conversione, venivano torturate in un modo diverso, cioè violentando le mogli davanti ai loro mariti e le ragazze davanti ai loro genitori, anche se le madri avevano tentato di tagliare i capelli e sporcare con sterco secco le guance delle figlie, affinché sembrassero orribili. Molte ragazze e donne erano riuscite a buttarsi nel fiume e a suicidarsi, mentre 3mila bambini maschi di 8,10 e 12 anni vennero inculturati nelle case di turchi e curdi: al momento della testimonianza essi non conoscevano nemmeno più la loro lingua.[54]

Un caso simile a questo era capitato a un gruppo di uomini che, spogliati, furono posti davanti alle loro mogli e invitati a danzare, per convincerli a convertirsi e tornare alle loro famiglie. In quel caso, se la conversione si fosse compiuta, gli uomini sarebbero stati liberati e avrebbero potuto tornare a casa con le loro spose. Al loro rifiuto vennero tutti fucilati[55].

Hovhannes K. testimonia che i turchi, quando entrarono in Tigranakert, portarono via suo padre, un uomo distinto del suo paese. Ricorda che la madre diceva ai figli che il loro papà era stato torturato senza pietà. Gli avevano sradicato le unghie ripetendogli: “Tu devi diventare mussulmano” e il padre rispondeva: “Io non voglio abbandonare né la mia nazionalità, né la mia religione. Sono nato armeno (cristiano) e voglio morire così. Allora i turchi diventarono ancora più furiosi. Lo legarono su un palo e lo scuoiarono tutto, poi portarono la pelle fuori della casa perché servisse da esempio. Se gli armeni del villaggio avessero rifiutato di diventare mussulmani avrebbero avuto la stessa sorte. Nessuno del villaggio si convertì all’Islam e per questo molti furono torturati allo stesso modo. Per sradicare la famiglia del padre di Hovhannes,

i turchi portarono via suo fratello e sequestrarono la sorella che, come lui, non aveva voluto abbandonare la fede.[56]

Nella sua testimonianza, Pargev M. afferma che nel 1908 arrivarono al potere i “Giovani Turchi”, in parte ebrei. In particolare, Talaat Pasha, Enver Pasha, Niazit 

NOTE:

[54] Cfr. manoscritto NAA, f. 227, reg.1, rec. 491, pp. 5-12.

[55] Citazione incompleta.

[56] Hovhannes Kyoroghlian, V.S. 137/137.

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Pasha, Djemal Pasha  erano ebrei, ma diventarono “turchi” (mussulmani) per organizzare il Genocidio. In quell’anno adottarono la Nuova Costituzione Turca dichiarando “Libertà, Fraternità, Uguaglianza”. Armeni e turchi si baciarono gli uni gli altri, per cominciare una nuova politica in cui gli armeni furono attivamente coinvolti, ma dopo il primo anno iniziò il Genocidio di un milione e mezzo di cristiani armeni. Secondo Pargev, il vero responsabile del Genocidio è Talaat. Nonostante la tragedia del Genocidio, Pargev riesce a vedere in questo criminale un aspetto positivo, se pur piccolo: dopo aver tolto dal trono il Sultano, infatti, i “Giovani Turchi” che erano al governo (e Talaat in primo luogo) lo lasciarono vivere, a differenza dei bolscevici che, dopo aver deposto lo Zar di Russia, uccisero lui e tutta la sua famiglia.[57]

Un giovane turista armeno, in Armenia per un reportage sui monasteri, fu invitato ad entrare in casa da un anziano, il quale trasse un antico libro da un contenitore. Il giovane chiese a quanto lo avrebbe venduto. L’anziano rispose: “Nel 1915 tutta la mia famiglia fu massacrata. Io fui portato in un orfanotrofio turco.

Mi hanno circonciso e mi hanno fatto mussulmano. Non ricordo più la mia lingua, in cui è scritto questo libro. Questa è l’unica cosa sacra che rimane nella mia casa. Non lo posso vendere, perché mio figlio ogni sera, quando arriva dai campi, prende questo libro, lo bacia e lo ripone al suo posto. Se questa sera tornando non lo trovasse, perderebbe la sua identità nazionale, che è anche la sua religione”.[58]

A un giovane armeno, in cerca di lavoro presso un capomastro della sua stessa nazionalità, chiesero come poteva provare di essere armeno se non parlava più la sua lingua: egli mostrò una croce tatuata sul braccio durante un pellegrinaggio a Gerusalemme. Disse poi che, dopo aver visto uccidere davanti ai suoi occhi tutti i famigliari, fu cresciuto da una famiglia araba, per cui ora non conosceva più la sua lingua. Lo stesso testimone raccontò che un altro giovane armeno andò a lamentarsi dal suo datore di lavoro perché il salario tardava ad arrivare. La risposta fu: “Stai tranquillo che ti pagherò presto, però ti chiedo un favore segreto. Mia zia (la chiamava così) durante il Genocidio è stata portata a casa nostra da mio padre ed è rimasta sempre con noi. Ora è in punto di morte, ma ha detto di non poter morire fin quando un prete non le potrà portare il sacramento degli infermi, ovviamente in assoluto segreto”. Il giovane contattò un prete armeno che portò il sacramento a quella signora: dopo la Comunione chiuse gli occhi in pace”.[59]

John Gy, parlando di suo padre, dichiarò che era un uomo molto religioso e sempre grato a Dio. Durante il Genocidio soffrì molto perché suo padre e il fratello maggiore erano stati massacrati dai turchi. La sorella, che aveva rifiutato di andare a vivere in un harem turco, per rimanere fedele alla sua religione si era buttata a morire nel fiume Eufrate.[60]. Un testimone affermò di essere stato dirottato alla città di Homs e non a quella di Deyr-es-Zor perché suo padre era un ufficiale dell’esercito turco. Mentre erano là, il prefetto di Adana, Djemal Pasha, volle proteggere gli armeni invitandoli a cambiare il nome: in questo modo poterono essere salvati e nello stesso tempo rimanere armeni, cioè cristiani.[61]

NOTE:

[57] Pargev Makarian, V.S. 272/272.

[58] Cfr. Vilen Nerses Nooridjanian, V.S.60/375/.

[59] Vahagn Vahram Gharibian, V.S. 59/374.

[60] John Gyurdjian, V.S. 39/354.

[61] Mariam Baghdishian, V.S. 294/294.

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Anche Zabel A., che degli 80 famigliari ne perse 64, dichiarò che ad Ayntap era arrivato un ordine dal governo che imponeva a tutti gli armeni di diventare mussulmani, oppure dovevano essere uccisi. Essi cambiarono solo il nome, così diventarono mussulmani solo di nome.[62]

Un altro testimone, Hakob C., confermò che fu Djemal Pasha a dare il consiglio di cambiare solo il nome, mentre secondo lui il vero esecutore del Genocidio fu Talaat, che al termine fuggì a Berlino, dove fu ricercato e ucciso da due armeni: Sohomon Tehlirian e Levon Shant. Questi riferirono che cambiava spesso vestito per non essere riconosciuto, ma un giorno Tehlirian gli gridò: “Talaat!” e questi, voltandosi, ricevette un colpo.[63]. Dalla strada, un giorno si sentì gridare un annuncio: “Ascoltate popolo, in 24 ore dovete scegliere o cambiare religione o cambiare casa!”. La maggior parte raccolse qualcosa di indispensabile e partì. Appena un giorno dopo, vicino al fiume iniziò il massacro: tentando ancora la conversione degli adulti, li forzarono ad assistere al massacro dei figli, che a nulla valse; quindi massacrarono la maggior parte di essi. I pochi sopravvissuti, non convertiti, ripartirono e raggiunsero Yedessia, dove furono raccolti in una grande casa che fu bruciata e il cui tetto collassò. I sopravvissuti dovettero ripartire per Homs.

Tra questi c’era anche il nonno del testimone, che fu ucciso nel cammino. Si salvò solo suo padre, un fabbro di grande esperienza, che chiese di salvare la sua famiglia da Deyr-es-Zor. I suoi parenti, fratelli e sorelle di mamma e le loro famiglie, come la famiglia dei nonni, furono tutti deportati a Deyr-es-Zor e nessuno fece ritorno.[64]. Petros S. S. riporta la stessa testimonianza secondo cui Djemel Pasha, mentre era prefetto di Damasco, invitò gli armeni a cambiare nome.[65]

Anche Karapet T. riporta una simile testimonianza, ma più completa: era in Arabia, vicino a Damasco, quando Djemal Pasha, arrivato con l’ordine scritto di uccidere gli armeni, chiese loro di cambiare solamente nome, in modo da rimanere armeni, cioè cristiani. Così avrebbe potuto inviare un telegramma per informare che non c’era più nessun armeno vivo in quel posto.[66]

Un testimone, riferendo come viveva nel deserto arabo, dichiarò semplicemente: come gli animali, senz’acqua per lavarsi e soprattutto senz’acqua da bere ed essendo sempre accompagnati a vista dai gendarmi persino per le proprie necessità corporali, cosa indecente specialmente davanti alle donne.

E riguardo al cibo? Nemmeno a parlarne. Quando trovavano un poco di sale lo mangiavano con l’erba, altrimenti mangiavano solo l’erba come gli animali. I beduini, arabi cristiani che avevano molte pecore, a volte portavano loro qualcosa da mangiare.[67]

Vergine G.G. riferisce come, davanti ai suoi stessi occhi, massacrarono i famigliari che non si erano convertiti, cioè il padre Grigor, la madre Doudou, il fratello Hakob e la sorella Nouritsà.[68]. La madre del testimone Gevorg era stata portata in un ospedale per lavorare. Mentre era là, un ufficiale le impose di sposarlo. Lei si rifiutò e l’uomo insistette. Per scongiurare il pericolo, in un momento in cui nessuno la osservava, la donna, per fedeltà alla sua famiglia, si buttò dalla finestra.[69]

NOTE:

[62] Zabel Ayvazian, V.S. 270/270.

[63] Hakob Cherdjian, V.S. 266/266.

[64] Nouritsa Kyurkdjian, V.S. 267/267.

[65] Petros Sargis Safarian, V.S. 287/287.

[66] Karapet Tozlian, V.S. 254/254/

[67] Pilaw Yeghissabe Kalashian, V.S. 282/282.

[68] Vergine Grigor Gasparian, V. S. 271/271.

[69] Gevorg Yehia Karamanoukian, V.S. 265/265.

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Anche Hovhannes P. racconta che, durante la deportazione da Eskishehir, perse i genitori, che furono decapitati. Ad un certo punto, i turchi cominciarono a impiccare, ogni giorno, da dieci a quindici armeni, appendendoli agli alberi. Tutto questo diventava insegnamento per convincere gli altri a cambiare religione ed essere salvi. Dopo che la sorella maggiore del testimone fu sequestrata, la sorella di soli 13 anni camminava con la mano stretta a quella della zia, piene di paura. In un momento di distrazione dei turchi, riuscirono a buttarsi nel fiume Eufrate per non cadere nelle loro mani (manca riferimento alla citazione).

Nel 1915 i turchi fecero una strage in Marash. Un giorno essi portarono Hadji Mariam in una stalla e la posero sul letame, dove volevano violentarla, ma lei si rifiutò. Per vendetta le uccisero i due figli, Poshos e Hovsep, sulle sue ginocchia, le portarono via la figlia Poghos, che uccisero dopo aver violentato, le uccisero poi il fratello e la madre. Le uccisero il figlio sposato e la nuora con i tre figli, l’altra figlia e il genero con i loro bambini. Uccisero pure la figlia più giovane di Hadji Mariam, il marito e due figli, mentre il terzo figlio, Serob, riuscì a fuggire e, unico superstite di questa grande famiglia, diventò padre della testimone Ester, che concluse: “Non è questo un reale Genocidio?”.[70]

Sara B. asserisce che, di quaranta persone della sua famiglia, è rimasta viva solo lei. Esiliati da Eskishehir, dovettero camminare senza fine, affamati e senz’acqua. Quando ne chiedevano un po’, la risposta era: “Dateci una moneta d’oro!”. Così erano obbligati a bere l’acqua del fango o l’urina. Sara afferma che c’erano corpi di morti ovunque e che cercavano di non calpestarli: certo questo era peccato, ma come avrebbero potuto fare diversamente? Non avendo accettato la conversione, le madri venivano ancora tentate durante il cammino, massacrando i figli davanti ai loro occhi e uccidendole davanti ai figli. Conclude poi che rivede tutto ciò come in sogno, ma un sogno vero che purtroppo ricorda.[71]

Eva C., ripensando alla deportazione da Zeytun, riferisce che sua madre e i cinque fratelli morirono tutti e che del suo villaggio sopravvisse solo lei. Racconta che, buttati fuori dalle loro case, dovettero viaggiare sotto le frustate, completamente denudati, con le mani legate dietro le spalle. Ad un certo punto cominciarono a spezzare il braccio di uno, la mano dell’altro o la gamba di un altro. Arrivati a Deyr-es-Zor, luogo freddissimo, si scaldavano ammucchiandosi gli uni sugli altri. Al mattino li riunirono tutti e cominciarono a massacrare coloro che erano ancora sopravvissuti, buttando poi i corpi nel fiume Khabur. Qualche superstite aveva cominciato a mangiare pezzi di carne di chi era già morto. Quelli poi che avevano bevuto l’acqua di quel luogo, che era infetta, in poco tempo gonfiavano e morivano. Eva dice di essere venuta fuori dalla cava di morti dove era stata buttata e, unica sopravvissuta, camminò fino ad incontrare un pastore arabo che ne ebbe pietà e la accompagnò nell’orfanotrofio tedesco a Marash.[72]

Qualcuno, come Geghetsik K., annotò le città in cui, durante il calvario da Nikomedia per raggiungere Deyr-es-Zor, passarono i deportati. Sotto le percosse e senz’acqua, transitarono a piedi per Devlet, Eskishehir, Konia, Ereyli, Bozanti, Kanli, Gechit, Aleppo, Bad, Meskenè, Dipsi, Abou-Arar e infine Deyr-es-Zor. 

NOTE:

[70] Ester Serob Antonian, V.S. 263/263.

[71] Sara Berberian, V.S. 207/207.

[72] Eva Manouk Choulian, V.S. 235/235.

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Afferma che delle 12 persone della sua famiglia solo 2 arrivarono vive.[73]

Anche Karapet T. racconta che da Everek partirono 100 famiglie. Il secondo giorno le donne furono sequestrate e i rimanenti vennero depredati da turchi e curdi. Poi continuarono a camminare per otto ore al giorno e in due mesi arrivarono a Katma, vicino ad Aleppo. Ecco le distanze: da Everek a Nidè ci sono 101 km, Ereylì -99 km, Ouloukeshia -44 km, Bozanti -43 km, Garahissar -40 km, Adana -42 km, Seyan -48 km, Toprakkalè -33 km, Osmaniè -10 km, Dertyol -37 km, Kerek-Khan -65 km, Mouslimia -100 km, Katma -15 km. In totale: 677 km, ma non potendo usare le strade vere e proprie, il viaggio fu di almeno 800 km. Una volta arrivati, non c’era acqua e bisognava andarla a prendere a un’ora di distanza, facendo poi tre o quattro ore di fila, per cui furono dirottati a Deyr-es-Zor e a Damasco. Il testimone era nel gruppo che partì per Deyr-es-Zor e che dovette coprire altri 330 km: erano tutti ormai esausti e senz’acqua. I turchi, che fingevano di proteggere gli armeni, continuarono il massacro. Ogni notte chiedevano soldi. Le donne sopportavano le fatiche maggiori. Alcune venivano violentate, ma molte si rifiutavano ed erano decapitate, altre ancora sequestrate. Ormai i sopravvissuti non avevano più nulla: né vestiti, né cibo, né forze. Ad un certo punto di quel viaggio allucinante, alcuni armeni, quasi nudi e mezzi morti, riuscirono ad avvisare di non continuare in quella direzione, perché stavano facendo un gran numero di massacri. A quella notizia, per non cadere in mano ai turchi, molti dei sopravvissuti fino a quel punto si buttarono nel fiume Eufrate.[74]

Endsa racconta della sua deportazione verso Deyr-es-Zor. Prima della deportazione furono registrati tutti gli uomini di tutte le famiglie di Amasya e durante il cammino furono tutti massacrati. Endsa ricorda che un giorno arrivarono due ufficiali turchi per cercare di persuadere gli armeni a diventare turchi, ad accettare la loro fede: così non avrebbero avuto alcun problema e sarebbero rimasti liberi. Ma la madre di Endsa, donna forte, di fede genuina, diede forza a tutta la famiglia. E tutti rifiutarono la nuova religione e furono subito registrati nella lista nera. A inizio aprile cominciò la deportazione. Il cammino dell’esilio durò ben sei mesi, partendo da Amasya per arrivare a piedi a Deyr-es-Zor. Durante il viaggio molte delle ragazze più belle e molti bambini furono sequestrati e portati via. Endsa dice che in quel viaggio, sotto un sole infuocato e sulla sabbia che bruciava, capitò di tutto: dovettero sopportare feroci torture, ma il momento più doloroso fu quando due turchi, sempre per indurli a lasciare la propria religione, presero un bambino dalle braccia di una madre e il piccolo di Endsa, che era in braccio al fratello quattordicenne, perché lei non aveva più forze. I turchi fecero a gara per vedere chi dei due avrebbe tirato più lontano il bambino che avevano preso tra le loro mani. Endsa dichiara di aver dovuto vedere tutte queste cose. I turchi cercarono di violentare la madre ma, vedendo che non aveva più monete, la buttarono nell’Eufrate. Anche una delle sorelle, per sfuggire a quello scempio, si buttò pure lei nel fiume. La testimone afferma che, quando non ce la faceva 

NOTE:

[73] Geghetsik Karapet Yessayan, V.S 231/231.

[74] Karapet Tiran Kelekian, V.S. 189/189.

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più,  pregava Dio di salvare dalla morte almeno quelli che rimanevano in vita e il miracolo accadde. A quel punto, Endsa riferisce di aver avuto una visione: la Vergine Maria scese davanti a lei piena di luce e le disse: “Figlia, il tuo nome è Endsa, che significa ‘dono di Dio’. Non lasciare la tua fede; la salvezza è vicina. Raccogli tutte le tue forze e sii forte”. Dopo quella visione dice di aver ricevuto una forza sconosciuta prima e poté continuare il viaggio fino a Deyr-es-Zor.[75]

Testimonianze inedite di una famiglia [76]

Era la Primavera del 1915. La strage degli armeni continuava sempre più violenta. Pietro, un bambino di tre anni, era in casa con i genitori insieme al fratellino Paolo di un anno. I turchi erano entrati nel loro villaggio, distruggendo e massacrando tra le grida degli armeni colpiti e quelli terrorizzati dallo spettacolo. Minaz e Saida aspettavano ormai il loro turno, che non tardò ad arrivare.

I turchi irruppero nella casa. Cercarono armi o qualche scusa per condannarli: nulla fuori posto. Proposero loro di diventare mussulmani, ma questi rimasero irremovibili, come di granito. Iniziarono subito la tortura come normalmente si faceva, ma a nulla valse. Infine li decapitarono entrambi. Pietro, di tre anni, ricordò perfettamente per tutta la vita quegli istanti indescrivibili. Cominciò a muoversi nel sangue dei genitori e tra quelle due teste che non gli parlavano più. Il fratellino cominciò a gridare per la fame. Quella casa si trasformò in calvario.

Il terzo giorno passò una signora (non ricordo di quale denominazione protestante), di nome Franca e riuscì ancora a salvare Pietro che, pur stordito, reagiva ancora, mentre il piccolissimo Paolo di un anno stava spirando e non fu più possibile fare nulla per lui. Pietro fu portato in un orfanotrofio, come accadde ai pochi privilegiati sopravvissuti, poi in un altro più a nord, poi ancora, per maggior sicurezza, con altri bambini fu portato in Italia, dai salesiani di Cumiana, dove entrò nel seminario, studiando fino al diaconato. Per la specializzazione teologica fu inviato a Beit Jemal, presso Gerusalemme. Tornato in Siria, Pietro incontrò il fratello maggiore Giorgio, che lo invitò a sposare una ragazza di nome Rosa che conosceva molto bene. Giorgio aveva motivato la proposta con il fatto che la sciagura del Genocidio aveva ucciso quasi tutti i loro parenti (una cinquantina di persone). Pietro accettò, a patto che Rosa acconsentisse che il primo figlio/a, se avesse avuto la grazia della vocazione, potesse essere consegnato alla Chiesa con gioia. Oggi quel primo figlio, Rafael, è l’arcivescovo di Yerevan.

Nel 1958, mentre viaggiavano in treno, Pietro e Giorgio incontrarono provvidenzialmente il terzo fratello e lentamente la famiglia si ricostruì, come accadde a molte famiglie armene dopo tanti anni di diaspora. Su questo albero genealogico si moltiplicarono la santità e il martirio. Il bisnonno dell’attuale arcivescovo Rafael, di nome Salim Batanì, era sindaco. I turchi gli chiesero la lista degli armeni che vivevano nella sua città. Al suo rifiuto, iniziò la tortura con ferite e amputazioni. Da ultimo, mentre era stravolto e con febbre, gli appoggiarono sullo sterno una ciotola con carboni accesi per fare il caffè su quel fuoco,

NOTE:

[75] Endsa NshanJemperjan, V.S. 168/168.

[76] Testimonianza raccolta dalla viva voce dell’arcivescovo cattolico di Yerevan, mons.Raphael.

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 ustionandolo gravemente e per venti giorni si ripeté ogni mattina questa vera e propria cottura della sua carne. La figlia Rosa, ancora bambina, ogni giorno andava al commissariato per prendere le maglie di papà e lavarle.

In casa si diceva che, mentre lavavano quelle maglie madide di pus, si sentiva l’odore dell’incenso. (Io penso che in quel modo si forgiano i santi).

Dopo 20 giorni di tortura, comprendendo che da quell’uomo non avrebbero mai cavato una parola,

gli risparmiarono altre sofferenze e lo inviarono con i 300 fedeli cristiani che, insieme al loro vescovo, mons. Maloyan, sottoscrissero il martirio senza che nessun giovane o adulto accettasse l’Islam per salvarsi. Ricordarono poi che il turco incaricato di fucilare quel santo Salim raccolse un poco di sangue per mostrarlo ai suoi figli, forse per aiutarli a distinguere il sangue dei giusti da quello dei perversi cristiani. Ma quella stessa notte una valanga di pietre si abbatté sulla sua casa e perirono tutti i suoi sei famigliari. Di tanto in tanto, segni come questo spiegano che la violenza e ogni tipo di prevaricazione non ha futuro.

Mons. Rafael soggiunse che tra quei 300 martiri uccisi col loro vescovo c’era pure lo zio di sua nonna Faima, il prete Ignazio Patali, che il nipote di questo sacerdote martire diventò il Patriarca armeno cattolico a Beirut e che pure il vescovo Joseph Janarjian di Kamislì, in Siria, è un discendente di questa famiglia.

Da figlio di scampati a quel terribile massacro, conta oggi decine di martiri tra i propri famigliari.

 Testimonianza di una famiglia religiosa: le suore   armene dell' Immacolata Concezione

Allo stesso modo, incontrando suor Aroussiag, ho ricevuto la preziosa testimonianza della sua famiglia di origine e della sua famiglia religiosa. All’inizio dell’incontro domandai se nella sua famiglia aveva avuto delle vittime e, poiché in ogni famiglia ce ne sono state, anche lei mi parlò per un momento di casa sua, con poche parole perché gli armeni hanno in qualche modo rimosso dalla mente e dal cuore tutta quella violenza e quel dolore.

Dietro mia insistenza, suor Aroussiag racconta: “Mia nonna Osanna era in casa con le due figlie (mie zie) di 16 e 18 anni e il figlio Antoine di 11 anni. I turchi erano entrati in paese, devastando, incendiando e uccidendo. Nessuno riuscì a sfuggire”. La suora, poi, continuò a raccontarmi che quando i turchi entrarono in casa di sua nonna, come sempre dapprima proposero la conversione all’Islam, ma in quella casa la solida fede non offrì nessuno sconto ai “Giovani Turchi”. Questi, poi, proposero di salvare le due ragazze se esse avessero acconsentito di andare con loro, diventare mussulmane e sposarsi con uno di loro. Poiché di ragazze ce n’erano molte, gli uomini preferivano portarsi a casa quelle che, in qualche modo, fossero consenzienti a vivere con loro. Ma non ci fu nessun consenso alla proposta dei turchi. Osanna, infine, chiese ai giovani di uccidere prima le sue due figlie davanti ai propri occhi, per essere certa che non sarebbero state

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disonorate nel loro pudore. Madre e figlie, col coraggio dei martiri, quel giorno consumarono il loro sacrificio.

Poi suor Aroussiag continua a parlarmi delle sue Sorelle Armene dell’Immacolata Concezione. Suor Camilla, suor Filiposian e suor Candida cercavano un rifugio per salvarsi dai turchi che erano arrivati in città. Un turco appena arrivato aggredì la giovane suor Candida per violentarla e portarla via. A quel punto, suor Filiposian prese una pietra e la scagliò contro il giovane, ricevendo all’istante una pugnalata che l’uccise.

Le due suore rimaste furono aggregate a un convoglio in deportazione. Suor Ieranuì, molto anziana, per camminare si appoggiava a suor Candida ma, quando le forze vennero a mancare, chiese alla giovane consorella di salvarsi almeno lei, altrimenti era chiaro che sarebbero morte entrambe. Suor Candida dovette abbandonare la consorella, cosa che le fu più dolorosa del martirio.

Suor Iskuhì, della stessa congregazione, terrorizzata nel vedere il comportamento dei turchi, riuscì a buttarsi in un profondo crepaccio per morire laggiù, lontano dalla profanazione.

Suor Anna fu a lungo torturata da un militare che pretendeva la sua conversione all’Islam. La suora rimase irremovibile sotto i flagelli, le ustioni e le amputazioni, fino a quado morì nella fedeltà alla fede in Gesù Cristo.

Suor Emilia, suor Clementina, suor Maddalena e suor Germana furono sequestrate per essere deportate. Un cristiano convertito all’Islam le invitò a cambiare il vestito di religiose con un vestito turco per eventualmente salvarsi, ma esse rifiutarono perché quel segno era l’identità della loro fede. Iniziò così anche per loro il calvario della deportazione.

Giunte presso il fiume, trovarono il loro vescovo seppellito nella terra fino al collo e con la mano destra pure fuori, in segno ironico quasi per dirgli che era autorizzato a continuare a farsi baciare l’anello e la mano. I turchi cominciarono a lanciare pietre in direzione del vescovo. Le suore si buttarono accanto a lui per difenderlo e, invece di baciare la sua mano per gioco, lo fecero per fede. Questo gesto ne provocò l’immediata esecuzione.

Prima di uccidere, i turchi, o curdi o cete generalmente spogliavano le vittime, perché potevano nascondere oro o denaro e gli stessi vestiti avevano un valore. Allo stesso modo fecero con le suore. Suor Emilia, la loro Madre, ottenne che fossero uccise prima le sue tre suore, affinché potesse sostenerle e incoraggiarle negli ultimi minuti, poi chiese ai carnefici il pietoso gesto di coprire con un poco di terra la loro nudità. Anche suor Anna, deportata in un altro convoglio, venne massacrata.

Un giorno, mentre suor Elvis, suor Caterine e suor Clare andavano alla stazione a sostenere e aiutare donne o bambini deportati con cibo e vestiti, arrivò suor Candida e le chiamò per nome, ma esse non la riconobbero, tanto era arrivata distrutta e deformata dopo il digiuno, la fatica e le torture di cinque mesi di

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deportazione, o meglio: di vero e proprio calvario. Persino un militare turco, vedendo questa donna in tale stato, inveì contro i propri colleghi che avevano commesso tanta barbarie. Suor Candida morì poco dopo nel convento.

Suor Santina racconta che altre tre suore della stessa congregazione furono tutte trucidate per difendere le ragazze che vivevano nel loro orfanotrofio.

Ma la peggiore delle torture toccò a suor Shushan, che era stata presa con tutti i suoi famigliari e parenti per essere aggregata al gruppo in deportazione. Mentre venivano radunati, si rifugiarono in una chiesa per un momento di preghiera. L’Eucarestia era ancora nel tabernacolo. C’era nel gruppo un bambino di tre anni e la suora pensò che era certamente il più degno ministro dell’Eucarestia e il bambino distribuì il pane consacrato a tutti. I turchi poi riunirono l’intera famiglia e, vedendo la suora con l’abito religioso, le chiesero se fosse disposta a diventare mussulmana e lei, senza nemmeno pensarci rispose di no, ma in seguito le dissero che, se accettava l’Islam, avrebbe salvato tutti i famigliari e questa suora martire dovette assistere all’uccisione di ciascuno di loro.

La tortura più disumana per la suora fu però quella di dover pronunciare il suo atto di fede di fronte a ogni madre disperata nell’atto di consegnare il figlio per essere macellato proprio di fronte a lei, che avrebbe potuto salvarli da quella morte. Quando arrivarono ad eliminare anche la suora, probabilmente non c’era più nulla da uccidere in quella donna. Si concluse così il martirio delle 13 Sorelle Armene dell’Immacolata Concezione.

 La famiglia domenicana

I religiosi e le religiose che non erano ancora stati arrestati si adoperavano in tutti modi per salvare bambine e bambini orfani. Il vescovo mons. Djibrail Tappouni riuscì, dietro ricompensa in denaro, a salvare un gran numero di cristiani di Mardine e infine a comprare a prezzo d’oro tutti i bambini e le bambine che poteva, per salvare loro la vita e preservarli nella fede cristiana.

Ecco alcune testimonianze della famiglia domenicana:

- suor Radji Bitto (45 anni) deportata e, per la fedeltà alla sua fede, gettata nel Tigri il 21/08/’15;

- suor Radji de Kerendì, uccisa allo stesso modo;

- suor Warda, massacrata per la fede, con due zie;

- suor Seidé e suor Anna, lapidate per aver rifiutato la conversione all’Islam;

- suor Susanne (63 anni), anziana e malata, partì per la deportazione il 12/07/’15 e, durante il viaggio con le altre donne, furono tutte spogliate, uccise e abbandonate lungo la strada stessa

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Il seminarista Abdulkerim Georgis (19 anni) fu massacrato il 20/08/’15, durante la strage di Djezireh. Padre Thomas Cherin, dopo tre anni di servizio pastorale, il giorno 8/08/’15 fu ucciso con tutti i suoi parrocchiani, anch’essi massacrati per aver voluto continuare a professare la fede cristiana.

Padre Augustin Murdjani (35 anni) e i suoi parrocchiani il giorno 8/08/’15 erano stati circondati dai curdi. Prima di morire, il padre poté incoraggiare tutti ad essere forti davanti alle torture, dicendo che in pochissimo tempo avrebbero concluso la loro missione per tutta l’eternità e tutti i 520 fedeli si lasciarono massacrare, senza che alcuno tra i giovani o gli anziani rinunciasse alla fede cristiana.

Durante la deportazione furono pure uccisi padre Hanna Khatoun (28 anni) insieme a padre Elia Issa, il suo confratello Marcos Thomas e il vescovo di Djezireh. Padre Hanna Chouha (32 anni) come succedeva spesso, venne torturato con ustioni e mutilazioni davanti a tutti i cristiani deportati affinché, pensando di essere torturati a loro volta, scegliessero l’Islam e abbandonassero il Cristianesimo, ma tutti preferirono la morte in quel maggio del 1915, sulla strada di Karput.

Sempre durante la deportazione, un soldato dei circassi tentò in tutti i modi di convincere con la tortura padre Gabriele Manache (42 anni) ad accettare l’Islam senza riuscirci, infine gli tagliò il braccio sinistro, poi quello destro e, da ultimo, la gola. Alcuni mussulmani presenti testimoniarono di aver visto, mentre moriva, scendere su di lui una luce, che sparì appena ebbe dato l’ultimo respiro.

Anche padre Hanna Tadè (45 anni) il 14/06/’15 partì per la deportazione con 74 compagni. Fu pesantemente torturato perché scegliesse l’Islam e i compagni, vedendo le torture che sarebbero poi toccate a loro stessi, accettassero la nuova religione. Tutto fu inutile: per questo furono massacrati e buttati in una grotta a terminare gli ultimi istanti di vita.

Anche padre Petros Issa fu arrestato il 5/06/’15 con il vescovo Maloyan e un gruppo di altri preti diocesani.

Si incoraggiarono a vicenda e il 10 giugno Petros partì per la deportazione e fu assassinato il giorno seguente, mentre padre Gabriel Gorguis (35 anni) fu arrestato dai turchi che volevano sapere dove si trovava il suo vescovo: nonostante la tortura, non disse nulla. Lo trasportarono in seguito al palazzo del governatore e cercarono di farlo apostatare e scegliere l’Islam. Le inaudite torture continuarono per tre giorni. Quando sveniva per il dolore lo rianimavano con acqua gelata. Il terzo giorno appoggiarono in diversi luoghi, sulla sua carne, un ferro di cavallo incandescente, ma il padre continuava a invocare il nome di Gesù Cristo, fino a quando morì e il suo corpo fu gettato in una fossa di immondizie.

Mons. Addai Scher (48 anni), arcivescovo di Seert, studioso di Scienze orientali e autore di diverse opere, apprezzato presso tutte le autorità civili oltre che religiose, il 5/06/’15 fu prima convocato in prefettura, poi scortato da un gruppo di curdi verso una destinazione ignota. Il mattino seguente si scontrò con una squadra di turchi e uno gridò: “Siete voi l’arcivescovo di Seert?” e lui confermò. Il turco soggiunse che, a nome del governatore, doveva arrestarlo e uccidere in quello stesso luogo. Mons Addai chiese 15 minuti per prepararsi. Vestì gli abiti episcopali e fece la sua professione di fede in modo solenne.

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 Venne subito ucciso e gli stessi turchi che eseguirono la sentenza, impressionati da una morte così nobile, scavarono essi stessi la fossa e lo seppellirono.

La vicenda della famiglia domenicana che ho riportato è appena un esempio di fedeltà che la accomuna alla maggior parte del clero e dei religiosi/e che, insieme alle loro comunità, testimoniarono col sangue la loro fede.

Mardine e la regione di Arbekir

Riporto la testimonianza di una regione particolarmente cattolica. Vorrei sottolineare come, durante la deportazione, i convogli dei cristiani non fossero privi dei loro sacerdoti e vescovi, i quali, condividendo la stessa sorte, li incoraggiavano ad essere forti davanti alle torture e alla morte.

A Verancheir vennero massacrati 1.000 cristiani con il loro parroco, Djibrail Mamachè.

In un Vilayet di Bitlis vennero massacrati 4mila cristiani con il loro arcivescovo, mons. Addai Sher (caldeo), mons. Thomas, vescovo nestoriano, le suore terziarie domenicane Susanne, Anna, Seide, Radji, Warda,

i preti Djibrail Gorguis e i religiosi siriani Mikael Kurio, Joseph Makdasi e padre Ephrem.

A sei ore da Mardine, 300 cristiani condivisero la deportazione e il martirio insieme al loro arcivescovo Maloyan. Furono sostenuti e aiutati ad essere fedeli alla loro religione cristiana. Insieme a loro furono pure martirizzati padre Baabdathi (cappuccino) e i seguenti preti armeni cattolici: Raphael Berdoa, Petros Issa, Boghos Gasparian, Ignace Chahadian, Augostin Baghdian, Leon Nazarian, Athanase Batanian, Antoine Ohmarian.

A sette ore da Mardine fu massacrato un convoglio di donne insieme al loro vicario generale Der Ohannes Sarkian. Presso Medeat fu massacrato un convoglio di 7.070 cristiani con i loro 16 preti cattolici, un vescovo giacobita e 46 preti giacobiti e tutti si incoraggiavano a vicenda per essere fedeli alla loro fede cristiana.

A Djezireh, a quattro ore da Mardine, furono martirizzati 5mila cristiani, sostenuti e incoraggiati alla perseveranza dai loro vescovi, mons. Michel Melke, e mons. Jacque Abraham (vescovo caldeo), più dieci preti cattolici e tre preti caldei, un seminarista, una suora terziaria domenicana e, da ultimo, si aggiunsero ancora tre preti giacobiti.

Ad Ourfa, dopo il rifiuto a diventare mussulmani, vennero uccisi 25mila cristiani insieme ai loro padri siriani cattolici Youhanna Kandaleft ed Ephrem Rahwali.

A questi sette massacri che ho voluto documentare con alcuni nomi a titolo esemplificativo, bisogna aggiungere che, sempre nella regione di Arbekir e Mardine, furono consumati ben altri 37 massacri per un totale di oltre 100mila cristiani che hanno dato la vita per fedeltà a Gesù Cristo.

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Le testimonianze qui riportate sono tratte da stralci di scritti annotati un anno dopo i fatti da Hyacinthe Simoon O.P., un domenicano testimone oculare di quell’anno di inferno. Esistono tre volumi di manoscritti che riportano le torture dei 50 Vescovi e 50mila preti, registrati nella maggioranza da sopravvissuti delle comunità in cui la quasi totalità di vescovi, preti, religiosi/e furono torturati e massacrati.

Dagli archivi nazionali

In un giorno e una notte, circa 30 villaggi attorno a Karin furono svuotati di tutti i cristiani. Persino i malati furono deportati e morirono in breve tempo sulla strada. Circa 20mila cristiani, insieme al loro vescovo mons. Smbat, vennero tutti uccisi prima di Yerznka. Quando città e villaggi furono svuotati e tutti erano in viaggio, i turchi avvisarono i cete e i curdi, affinché aiutassero a fare la strage. Permisero al vescovo di celebrare la Messa per tutti, forse con l’intenzione di far pensare loro che tutto si stava svolgendo secondo le regole di una deportazione per evacuare una regione a rischio di guerra e nessuno pensasse al massacro che stava per capitare. Ma certamente i cristiani non erano né ingenui, né stupidi. Tutto il tempo della Messa fu un pianto: capivano di certo che era l’ultima a cui partecipavano. Già precedentemente avevano rifiutato di convertirsi all’Islam, per cui rimaneva solo più il massacro e, quando il “lavoro” iniziò, molte tra le ragazze e le giovani donne scelte per essere portate a casa dei curdi o dei cete, si buttarono nel fiume per salvare la loro dignità di cristiane.[77]

Nell’aprile 1915 fu organizzata la deportazione in Karin. Si iniziò con la tortura per forzare quelle famiglie a diventare mussulmane. Distrussero le chiese dei villaggi e, al termine delle torture, uccisero il loro parroco, introducendogli una barra di ferro nell’ano e trapassandolo come quando si fa l’impalatura. Di fronte a tanta crudeltà, 200 famiglie si dichiararono disponibili a diventare mussulmane per sfuggire a quella viltà. A quel punto alcuni mussulmani della città protestarono, dicendo che tutto questo era illegale, per cui i cristiani rimasti fedeli furono portati lontano da quella città per essere massacrati.

L’ordine, arrivato via telegramma, aveva ricordato infatti, per un’ennesima volta, il programma del governo, chiedendo con autorità al governatore di Karin di non fare alcuna distinzione di sesso né di età, ma di trasportare tutti fuori della città e massacrarli.[78]

Khachatur Grigorian (50 anni) testimoniò che il 22 marzo 1915, per il comando di Jevtet, truppe di turchi entrarono in Salmast, distruggendo case e massacrando la popolazione, poi torturarono a morte il parroco del villaggio rev. Vardan Matevosian e altri distinti uomini del Paese. La tortura veniva sempre fatta con una crudeltà inverosimile, al fine di diventare persuasiva e così convertire i cristiani all’Islam. Cominciarono con il parroco: gli scorticarono la pelle della faccia e, sospendendolo per la barba, gli tagliarono le braccia, lo trapassarono con una barra introdotta nell’ano e infine lo pugnalarono 12 volte. Dopo tali torture, fecero

NOTE:

[77] 16/01/1917, Karin. Cfr. manoscritto originale NAA, f. 227, reg. 1, rec.479, pp.1-9.

[78] 25/11/1916. Cfr. manoscritto originale NAA, f. 57, reg. 5, rec.106, pp. 19-20.

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come sempre la proposta della conversione a Yenovk Israyelian, altro uomo veramente distinto e, al suo rifiuto di convertirsi, lo seviziarono come il parroco, tagliandogli orecchie, labbra e naso, poi gli cavarono gli occhi.

In seguito tentarono di convertire Hovhannes Kishmishian, applicando inutilmente la stessa tortura, così fecero con Safar Arakelian: altri 782 dovettero assistere quel giorno a tutte queste torture, sapendo che subito dopo il terribile supplizio sarebbe toccato a loro, ma restarono irremovibili nella fede cristiana. Quando se ne resero conto, i turchi li uccisero senza più tortura. Dieci giorni dopo, quando Khachatur Gregorian tornò sul luogo del martirio, trovò i 786 corpi dei martiri. In un secondo massacro nella regione di Salmast vennero martirizzati altri 400 uomini. Tre delle donne vennero portate via, mentre le altre subirono ogni tipo di violenza e furono infine uccise.[79]

L’ ultima parola a Kevork Hintlian

Nell’ultimo mezzo secolo ha seguito la vocazione di ravvivare la memoria del suo popolo, vittima del primo genocidio dell’epoca moderna. Kevork stesso è figlio di sopravvissuti al grande massacro. Nella sua città furono martirizzati oltre settanta dei suoi familiari oltre alcuni sparsi in altre località più distanti. In cinquant’anni ha incontrato e ascoltato oltre ottocento persone sopravvissute al genocidio dei santi martiri cristiani armeni di cento anni fa. I suoi incontri non furono quelli del ricercatore archeologo che deve scrivere la tesi universitaria. Kevork è un pastore. In questi anni, a nome di Dio e a nome dei Turchi ha potuto chiedere perdono a queste persone. E quando ha incontrato ferite ancora non rimarginate ha potuto offrire la medicina dell’amicizia che vuole solidarizzare a tutti i costi. Tanti incontri! In quegli interminabili tentativi di incontri c’era sempre molta aspettativa, perché questo mio amico sapeva molto bene che quelle erano le ultime parole di testimoni oculari che avevano autorità di ravvivare la memoria di quel passato insanguinato. E quando finalmente incontrava la persona cercata, spesso doveva rimandare l’incontro perché il momento non era adatto o la persona traumatizzata aveva bisogno di altri tempi. Spesso ha dovuto aspettare settimane o mesi e ogni volta che incontrava la stessa persona, non era mai la stessa: le emozioni, i ricordi, e le ferite provocavano un batticuore diverso da una volta all’altra. Poi arrivavano le testimonianze, le ferite ancora aperte, i superamenti e quelle pesanti eredita’ che altre volte avevano ucciso anima e corpo lasciando il corpo con il solo respiro.

NOTE:

[79] Cfr. manoscritto originale NAA, f. 227, reg.1, rec. 424, p.12 and. rev.

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Come sarebbe stata diversa la storia del genocidio senza di loro, senza le loro storie tormentate?

Kevork attraverso le loro storie ha potuto vedere anche lui, i campi di sterminio, la terra armena inzuppata di sangue, i fiumi con migliaia di corpi galleggianti e vere e proprie colline fatte di migliaia di cadaveri insepolti. Ha potuto vedere e sentire le grida nelle gole delle montagne in quei passaggi stretti che servivano da imboscate per un improvviso attacco che non dava più tempo per disperdersi. Il tutto era stato programmato per essere creduto un esilio che doveva pero’ ben presto tramutarsi in annientamento. Quando i profughi si rendevano conto della trappola in cui erano caduti era tardi, troppo tardi. Negli esecutori del genocidio c’era un’unica volontà, quella di annientare i cristiani armeni.

Poi Kevork cambia voce vicino all’iconostasi e apre il sipario della sua memoria per lasciarmi intravedere le Icone sacre dei sopravvissuti: generalmente sono vedove, ma anche qualche orfano meno ferito che e’ riuscito a sfuggire.

Mi racconta di Mayrig nativa di Mush, città così flagellata. La donna si è vista macellare davanti ai suoi occhi i cinque figli. Il marito poco prima aveva avuto la stessa sorte. Mentre sento questo fatto mi ricordo di aver visto una fotografia con la didascalia: “madre accanto ai suoi cinque figli massacrati” e mi domando se potrebbe essere, proprio quella che ho visto, la icona di Mayring, ma subito concludo, chissà quante donne hanno avuto la stessa sorte. Sento, poi che questa madre si e’ ricostruita un nuovo mondo per la sua vita. Due volte al giorno va in chiesa. La stanza in cui vive e’ satura di incenso, e tanti oggetti sacri rendono ancora più benedetta quella cappella. Come le altre vedove vicine, non aveva mai usato un passaporto e mai uscita dal suo mondo, dal suo quartiere armeno. La sua sofferenza aveva raggiunto il culmine per cui non sentiva necessita’ alcuna di cercare altro nella vita. Quell’ottantenne era diventata un’eremita ed era considerata una santa che si muoveva sulla terra in compagnia delle sue interminabili preghiere appena sussurrate. E come i suoi figli, appena usciti da Mush, altri 3000 bambini e donne erano stati uccisi a mazzate o semplicemente legati e buttati nell’Eufrate. Poi il mio interlocutore mi parla di Vartouk un’ orfana, trovata persa, nel deserto della Mesopotamia e diventata ufficiale di polizia, senza sorriso, senza amici e anche coloro che abitavano accanto a lei non erano suoi “vicini”. Mentre era diventata poco più che adolescente le avevano dato un marito orfano anche lui e la prima notte di matrimonio lei si era accorta di un particolare segno marrone sulla pelle simile a quello di suo fratello e parlando si accorse che lui era realmente suo fratello. Lei traumatizzata non si sposò più e si seppellì nel suo mondo, con uno sguardo stordito.

In seguito Kevork mi disse che aveva viaggiato per quattro ore per incontrare un signore già centenario che disperso con tutti i suoi parenti era riuscito a salvarsi e ogni domenica si recava in chiesa per sentire se fosse arrivata qualche notizia di qualche familiare sopravvissuto e dopo oltre quarant’anni aspettava ancora.

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Mi parlò poi di Margot una ottantenne di Marsiglia che viveva a Sivas e parlandomi del giorno in cui aveva lasciato il villaggio e dei tanti ricordi tristi di quel giorno non ricordava quasi più nulla. Infatti lei con le altre donne e bambini e vecchi erano partiti prima degli uomini, caso raro , solo perché in quelle terre c’era una grande produzione di grano e per questa ragione rimandarono la deportazione e l’uccisione degli uomini a dopo la mietitura. Sempre nella città di Margot, 400 bambini da 2 a 6 anni erano stati avvelenati per avere un peso in meno da trasportare. Da Sivas partivano i convogli numerosi, da 1000 a 3000 persone, tutti con lo stesso destino. E la Margot, di quel giorno, ricordava solamente il triste lamento del cane rimasto sul soffitto senza poter seguire il convoglio. Poi Margot aveva parlato di una donna che dopo aver partorito nel convoglio aveva dovuto lasciare il bambino lungo la strada come avevano fatto anche le altre partorienti. Dopo qualche giorno nel villaggio dove si erano fermate arrivarono dei turchi con sacchi chiusi. Riunirono le donne poi aprirono i sacchi che quelle donne pensavano fossero pieni di angurie dalla apparenza esterna. Rovesciarono per terra i sacchi che erano pieni di bambini nati negli ultimi giorni. Dopo che le madri avevano riconosciuto i loro bambini, i sacchi vennero nuovamente riempiti e chiusi e buttati via. Forse queste pratiche erano per cancellare ogni sentimento umano. Poi si parlo’ di Zarouhy del paese di Shoushankan presso Van. Quando scoppio’ l’inferno a Van, una trentina di donne riuscirono a scappare, ma circondate dai Turchi non riuscirono a fuggire. Furono spogliate e assaltate sessualmente e lasciate nude. In seguito pensarono di ucciderle e per fare questo le portarono tutte in un casolare ormai fatiscente e attaccarono le donne con coltelli e accette. In mezzo a quella macelleria crollo’ il soffitto e cosi’ morirono tra le macerie. Zarouhy che aveva nove anni dopo alcuni giorni incontro’ ancora la madre agonizzante che le chiedeva un po’ di acqua, ma Zarouhy non riusci’ a trovarla e quella ultima voce di mamma le rimase nelle orecchie e non la lascio più. Quando poi Zorouhy usci’ da quel rudere fu vista da due Turchi. Lei era completamente nuda. La presero e la pestarono fin quando ogni parte del suo corpo divento’ un ematoma blu. C’era poi il ricordo di Hekimian Sandrouny che nel 1915 era una giovane ragazza e ricorda quando ad Adiyaman, una notte furono arrestati tutti gli uomini e portati verso la prigione, era infatti sempre così, prima si mettevano fuori combattimento gli uomini, per cui con donne, bambini, e vecchi tutto diventava più facile. Dopo alcuni giorni, la donne furono invitate a vedere i mariti nella piazza della città e là erano stati legati con corde a gruppi di cinque ed erano esausti. Si diedero un saluto da lontano e fu l’ultimo ovviamente. Dopo una settimana vennero deportate anche le donne e quando queste raggiunsero il fiume videro già da lontano un centinaio di cadaveri decapitati legati e incagliati negli arbusti della riva dell’Eufrate. Hekkimian aggiunse che quando andavano a prendere l’acqua al fiume, perché non ve n’era altra, spesso trovava gran quantità di depositi di sangue raggrumato lungo la riva. Poi Sarkis ricorda che i Turchi dopo aver scoperto che alcune decine di ragazzi armeni erano ospitati nell’orfanotrofio greco escogitarono un altro trucco.

Di notte, si avvicinavano ai ragazzi e li invitavano a fare una gara in barca di notte.

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I ragazzi strafelici lottavano per non perdere l’occasione. Quando Sarkis si accorse che nessuno di loro tornava indietro cominciò ad avere dei dubbi su di loro, ma quando il giorno dopo li trovo’ sgozzati avviso’ il fratello e fatta una corda con vestiti si lasciarono scendere dalla finestra e fuggirono presso una famiglia di amici greci. Là si vestirono al modo dei greci e vi rimasero fino a guerra finita. Ho ascoltato poi la storia del Dottor Vahan Kalbian che appena laureato nel 1915 andò presso la sua famiglia a Diarbekir per festeggiare la Laurea. Come una festa di matrimonio duro’ ben sette giorni e si concluse con un incidente. La madre infatti danzando si fratturò l’anca. Il neo dottore insistette che si portasse subito a Beirut per l’operazione e così si fece. Con la malata, il marito e il figlio si aggiunsero altre cinque parenti infatti gli Armeni sono molto solidali tra di loro. Queste otto persone furono gli unici della famiglia sopravvissuti, mentre i loro parenti erano morti tutti. 674 uomini erano stati annegati mentre erano imbarcati verso Musul. 12.000 ex soldati di Dyarbakir vennero massacrati sulla strada dei lavori forzati vicino a Palu e 700 giovani uccisi vicino a Urfa. 5000 donne buttate in un burrone. Il 15 settembre 1915 dei 120.000 Armeni del Distrertto di Diyarbakir non esisteva più nessuno o meglio gli otto sopravvissuti a Beirut. C’era poi Housep che da lontano aveva assistito al massacro di 10.000 ex militari ai lavori forzati. Quell’uomo, per tutta la vita si chiuse in una tomba di silenzio quasi assoluto e non fu più capace di parlare con nessuno. Ma chi lo incontrava poteva intravedere nel suo sguardo tutta la violenza che quegli occhi avevano visto. Sentii poi parlare di Mihran che dopo uno dei soliti massacri che i Turchi facevano, decisero di buttare tutti i cadaveri in una grande cava. Pure lui fu buttato con gli altri infatti l’avevano creduto morto. Dopo che tutti se n’erano andati uscì furtivamente senza allontanarsi in quanto avrebbero potuto accorgersi di lui.

Di giorno cercava un po’ di cibo, ma di notte ritornava nella cava con i cadaveri e quell’insopportabile odore asfissiante e là ogni sera vedeva i suoi familiari decomporsi sotto i suoi occhi.

Kevork mi parlò poi anche di Beatrice, nome datole dalla famiglia che l’aveva adottata. Lei aveva perso tutto: i familiari, il nome, la sua identità, gli amici e persino tanti ricordi che la sua memoria aveva rimosso. Era diventata una divoratrice della Bibbia, unico libro che possedeva e nonostante tutto, proprio lei ci teneva a dire che non nutriva sentimenti particolarmente ostili contro i Turchi e questo era certamente un grande miracolo.

Uno degli ultimi ricordi che registro dal caro amico è la fine di Izmir (Smirne)

L’incendio di Smirne. “Smirne ore 6 del 13 settembre 1922”.

Dei 370.000 abitanti della città (quasi 1.000.000 nella provincia) morirono 30.000 cristiani che furono proprio quelli nel mirino dei turchi. Il fuoco brucio’ la città tra il 12 e il 15 settembre, 1922.

Il fatto grave che voglio registrare, capitò poco prima dell’incendio quando delle navi erano arrivate a Smirne per evacuare Inglesi, Francesi e Italiani, ma i Greci e gli Armeni furono rigettati. Per impedire che questi entrassero a bordo li tenevano lontano buttando addosso acqua e olio bollente. I 40.000 cristiani di quella città morirono quasi tutti. Kevork riuscì in seguito a intervistare 15 sopravvissuti di Smirne, ma quante lacrime!

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Il giudizio della storia

È evidente che, nel programmare questo terribile pezzo di storia, i responsabili presero una serie di precauzioni da esibire poi in qualche ipotetico tribunale che volesse chiarirne le responsabilità. I turchi sapevano che quello che stavano per commettere era terribile, ma si lasciarono ubriacare dal sogno di un impero grande, forte e con un’unica religione, l’Islam, per avere un’autonomia unica dal punto di vista politico, culturale e religioso.

I membri del Comitato Centrale Turco sapevano che non potevano uccidere arbitrariamente, per questo truccarono i fatti e crearono le deportazioni, gestite in modo tale che le persone non venissero uccise con un’arma da fuoco, ma facendo in modo che, lungo il cammino, i deportati morissero di fame e di malattie. Le comunicazioni, infatti, venivano date a voce o, se si spediva un telegramma o un foglio scritto, erano sempre in duplice copia: una per comunicare i vari provvedimenti contro gli armeni, che doveva essere subito distrutta; l’altra in favore degli armeni, che rimaneva agli atti.

Essi non potevano non sapere che le loro azioni, i loro metodi barbari e illegittimi non rispettavano nemmeno le leggi e i costumi di guerra ed erano contro i principi dell’umanità (anche la guerra ha delle leggi che tutti sono tenuti a rispettare). Il fatto che i documenti attestanti le loro azioni non siano stati prodotti o immediatamente distrutti prova che sapevano molto bene che le loro azioni sarebbero state condannate da qualunque tribunale internazionale. Se fossero stati in buona coscienza, infatti, non avrebbero avuto paura a documentare ciò che stavano facendo. Quindi, il fatto che oggi non si trovino documenti di tutte quelle centinaia di migliaia di morti non depone a favore dell’innocenza turca, ma contro una sua ipotetica buona coscienza.

Il negazionismo indica un atteggiamento storico-politico che, utilizzando a fini ideologico-politici modalità di diniego di fenomeni storici accertati, nega contro ogni evidenza il fatto storico del Genocidio del popolo armeno.

I testimoni, provenienti da luoghi estremamente diversi e senza essersi potuti accordare prima delle varie deposizioni, hanno sempre constatato che le deportazioni non erano mai state motivate da cause militari, ma erano un semplice pretesto di vere e proprie condanne a morte.

L’inizio, poi, della Prima Guerra Mondiale ha costituito una straordinaria copertura per organizzare il programma di genocidio dentro l’oscura nuvola della guerra.

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Benché il fatto sia storicamente accertato da centinaia di migliaia di testimonianze (e molte di queste non certo di parte), il governo turco ritiene dannoso e antipatriottico ammetterlo per interessi ideologici-politici-storici-culturali-religiosi.

E, alla fine di ogni constatazione, s’impone una domanda ironica, ma legittima: “Come si spiega che, con tutti i documenti in favore del popolo armeno, questo stesso popolo sia stato eliminato?”.

I turchi negano il genocidio

“Presentate più documenti che comprovino le vostre accuse”. Di fronte a qualunque testimonianza, infatti, il colpevole può sempre negare il fatto, se non ci sono documenti scritti accertati e inconfutabili. E questi documenti non sono mai stati prodotti, per cui i responsabili in qualche modo “possono” continuare a negare il Genocidio. Un’altra precauzione usata dai turchi è stata quella di non impiegare mai i soldati dell’esercito: in tal modo nessuno avrebbe potuto dire che il governo era a conoscenza dei fatti. Sono state usate le truppe dell’esercito nazionale solo quando era possibile supporre, se non dimostrare, che una sommossa da parte degli armeni o una loro difesa armata poteva giustificare un intervento militare.

La posizione ufficiale del governo turco è che le morti degli armeni durante i “trasferimenti” o “deportazioni” non possono essere considerate genocidio, semplicemente perché le uccisioni non erano deliberate, né orchestrate dal governo stesso. Le uccisioni erano infatti giustificate dalla minaccia filo-russa costituita dagli armeni e dall’ingerenza di francesi e inglesi che cercavano di muoversi nel territorio ottomano servendosi degli armeni. I turchi, poi, denunciarono il fatto che alcuni armeni, arruolati nell’esercito russo, non gradissero arruolarsi in quello ottomano.

Le aspirazioni di indipendenza che serpeggiavano nel popolo armeno, i partiti armeni e i movimenti rivoluzionari in alcune regioni dell’Armenia stessa e molti altri elementi motivarono un non-buon vicinato tra armeni e turchi, ma nulla che potesse giustificare uno sterminio. Tuttavia c’era una ragione “superiore”: la volontà di costruire un impero grande, forte e compatto dal punto di vista culturale e religioso, con un Islam che potesse modellare tutti i settori della società e ciò non era certamente compatibile con un’Armenia cristiana nel proprio territorio.

La posizione filo-turca arrivò persino a dire che prima del 1943 la parola “genocidio” non esisteva ancora, quindi che sarebbe stato scorretto usare quel termine.

In una conferenza a Losanna, Ismet Inonu concluse: «La responsabilità di tutte le calamità alle quali fu sottoposto il popolo armeno ricade così sulle sue azioni, dal momento che il governo e il popolo turco non hanno fatto altro che ricorrere, in ogni caso e senza eccezioni, a misure di repressione e rappresaglia,

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e questo solo dopo aver perso la pazienza».[80]

C’è poi chi asserisce che non è successo proprio nulla. Si comincia col minimizzare il numero dei morti, riconoscendone appena 200mila contro ogni evidenza, anche contro quelle da parte turca espresse dal governo turco e da alcuni storici, sempre in difesa dei turchi, poco dopo il termine del genocidio stesso. Una sintesi dichiara: «Non è successo proprio nulla e, se qualcosa è capitato, è stato esclusivamente per colpa degli armeni».

Verso gli anni ’60, Hikmet Bayur afferma che «gli armeni si sono ribellati e i turchi si sono difesi, mentre i massacri commessi dalle bande di curdi e da guardie ausiliarie, le malattie contagiose, la fame e la fatica hanno causato la morte di mezzo milione di persone».[81]

Un’altra tesi sostiene che i turchi non hanno mai pensato a un genocidio contro gli armeni, mentre gli armeni sì che avrebbero tentato il genocidio dei turchi e semplicemente non ci sarebbero riusciti.

Si può parlare di genocidio?

Una parziale conclusione è che il Genocidio degli Armeni è assolutamente esistito poiché contro i fatti non ci sono argomentazioni che valgano e, allo stesso tempo, è assolutamente negabile perché il documento scritto che lo condannerebbe ufficialmente non è mai stato accortamente prodotto.

Se qualcuno pensa sia scorretto usare il termine di Genocidio armeno perché parti del massacro potevano sfuggire a questa denominazione, è però legittimo parlare di Genocidio dei Cristiani Armeni, perché è stata chiara la volontà di distruggere se non tutti, il più grande numero possibile di cristiani. I massacri dei cristiani caldei (200mila) e dei cristiani persiani (80mila) dimostra chiaramente che nel mirino c’erano gli armeni in quanto cristiani, più che gli armeni in quanto gruppo etnico. Se il governo turco poteva avere delle paure nei confronti degli armeni, come sopra accennato, e se poteva essere giustificato un esilio nei confronti di persone sospette, non poteva però essere giustificata la volontà di distruggere un’intera nazione.

SOSTEGNO O INGERENZE?

Anche questo non depone molto a favore dell’innocenza germanica. Come ho già detto, non è la Germania che ha progettato il Genocidio dei Cristiani Armeni, ma una vasta letteratura ha parlato di responsabilità di tante nazioni.

Riporto solo alcune ingerenze straniere che, invece di dare aiuto all’Armenia, mentre lo potevano fare, sono state semplicemente spettatrici, pensando al loro esclusivo tornaconto.

NOTE:

[80] A. Mandelstam, Il Libro Giallo, trad. Annalisa Crea, pp. 258-307.

[81] Y. H. Bayur, op.cit., pp. 3-9.

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Precisamente il 10 aprile, quando iniziavano le deportazioni sulle montagne del Tauro, in Armenia, con l’accordo di Costantinopoli e dei Dardanelli, Francia e Inghilterra riconoscevano alla Russia i diritti sui Dardanelli stessi, conservando tuttavia i propri diritti commerciali.

La Francia, poi, si attribuiva con la Siria una parte dei territori popolati dagli armeni, mentre i diplomatici cercavano di privare la Turchia di uno sbocco sul mare; l’Inghilterra, dal canto suo, proteggeva la via delle Indie e la Germania cercava di conquistare l’Impero ottomano non tanto come territorio geografico, ma in quanto spazio economico.

Tutti sapevano che cosa capitava in Armenia: il New York Times dava sistematicamente informazioni sulla tragedia che veniva perpetrata in Turchia a danno degli armeni e altri giornali e riviste europee comunicavano ai lettori le documentazioni ufficiali e le notizie che arrivavano attraverso i consolati e le ambasciate, informazioni, tuttavia, che non ottennero molto più di qualche rimprovero o biasimo, lasciando tutto come prima.

Sebbene molti abbiano esagerato nel caricare di responsabilità la Germania nella questione armena, non si può dire con altrettanta sicurezza che fosse così innocente. Qualcuno definì così il Genocidio dei Cristiani Armeni: “Metodo tedesco, lavoro turco” e questo non è storico. Certamente la Germania non ha organizzato, né provocato i massacri armeni. Tutta la responsabilità di questi crimini contro gli armeni ricade totalmente e senza attenuanti sui “Giovani Turchi”, ma è lecito porre qualche interrogativo. Visto che la Germania aveva uno straordinario potere nei confronti della Turchia, perché non fece nulla per salvare gli armeni? Per capire tale potere, si pensi che doveva fronteggiare la Russia insieme alla Turchia: la linea ferroviaria Berlino-Bagdad parla molto chiaro su quanto l’una avesse bisogno dell’altra. Il fatto che dei funzionari tedeschi fossero presenti nella storia delle deportazioni e, inoltre, il modo in cui la Germania si comportò nell’attuare il suo genocidio contro gli Ebrei non depongono molto a favore dell’innocenza germanica.

Come ho detto, se non è stata la Germania a progettare il Genocidio dei Cristiani Armeni, essa aveva certamente tutta l’autorità per impedirlo, così come le altre nazioni, conoscendo gli eventi tramite i loro consoli e ambasciatori, avevano certamente il dovere almeno di mitigare, se non di impedire, l’irrazionale violenza contro gli armeni.pag. 60