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Francesco: io l'ho incontrato

Francesco: io l'ho incontrato

Con il santo di Assisi per le strade del mondo  

di Renato Rosso 

INTRODUZIONE 

Il "nostro" Francesco è stato beatificato da Gesù stesso quando, su quella collina, proclamò beati i poveri, i puri di cuore, i misericordiosi, i miti, gli afflitti, i perseguitati a causa della giustizia, i costruttori di pace.

 

    Sento il dovere di introdurre il lettore di queste pagine per liberarlo fin dall'inizio da alcuni dubbi o interrogativi.

    Tutti sappiamo che esiste il santo Francesco della storia, nato da Pietro Bernardone e donna Pica in Assisi nel 1182, ed esiste il san Francesco della religiosità popolare. Durante i secoli, poi, l'icona di questo santo è stata arricchita di tanto colore e allo stesso tempo di tanta essenzialità da divenire una delle immagini che definiscono meglio il Gesù del Duecento, quindi vicino alla nostra storia e alla nostra cultura. Così anche il Francesco di cui narra questo libro non aggiunge nulla al Gesù dei vangeli, ma lo predica anche nel terzo millennio.

    Chi è questo Francesco?

    È stato dichiarato beato da Gesù stesso quando su quella collina proclamò beati i poveri, i puri di cuore, i misericordiosi, i miti, gli afflitti, i perseguitati a causa della giustizia, i costruttori di pace; è quindi un povero di oggi, puro nel cuore, assetato di giustizia, misericordioso e costruttore di pace. Se volete cercare la sua abitazione, probabilmente è vicina a casa vostra.

    Io ho incontrato tante volte questo Francesco del ventesimo secolo, e voi pure lo avete incontrato, ne sono sicuro. Dobbiamo pur riconoscere che, almeno in qualche istante della nostra vita, abbiamo sentito scorrere anche nelle nostre vene la sua anima e il suo sangue.

    Questo testo, voglio aggiungere, non è autobiografico: non parla di me, ma del Francesco incontrato sulla mia strada, ricco di storia, e se nel testo a volte lo perdo e lo ritrovo, così da far pensare che non sia più la stessa persona, questo è meno importante. Il testo non è un romanzo di spiritualità: non una sola riga è frutto d'invenzione, ma è tutto vero e io ne sono solo un testimone. Se poi stili, linguaggi, generi letterari diversi, appositamente accostati per tematiche diverse, possono creare difficoltà alla lettura, non è questa una ragione per far ritenere il testo meno vero.

    Questo libro è una biografia, una testimonianza. Esattamente come duemila anni fa, o come al tempo del santo di Assisi, così oggi è possibile proclamare le beatitudini con la propria vita.

    Tutti sanno che, generalmente, per dare credibilità anche solo ad un opuscolo è importante avere dei documenti. Da parte mia spesso mi sono trovato senza i documenti necessari e in questi casi ho dovuto addossarmi anche la fatica di stilarne alcuni, con scrupolosa fedeltà. Tuttavia, per vari motivi, ho preferito cambiare nomi geografici, di persone e anche di situazioni.

    Infine, dopo aver detto con tutte le mie forze che quanto scrivo è vero, aggiungo che se qualche storico o qualche procuratore volesse fare ulteriori ricerche per fare santo quest'uomo, dico: risparmi il lavoro, perché non verrà a capo di nulla.

    Anche se il mio Francesco è esistito davvero.

IL RAGAZZO PIU' POVERO DEL MONDO 

    Le prime pagine di questo scritto vorrebbero essere un volantino da distribuire alle migliaia di giovani con la faccia spenta al sabato sera o nel pomeriggio della domenica. Li vedete spesso mentre escono da una sala giochi ed entrano in un bar o viceversa, trascinandosi dietro quei jeans ancora troppo corti. Se poi jeans si sono già allungati abbastanza, li vedete in discoteca assordati da quella musica che, secondo la definizione di una mia vecchia zia, assomiglia molto di più alla macchina per trebbiare il grano che a un complesso di strumenti musicali. Questi ragazzi, con ragione, vogliono essere contenti e divertirsi; ma la società non offre altro. A chi la dirige interessano solo i soldi: tanti e subito, a costo di qualunque cosa.     I ragazzi e i giovani un po' di soldi in tasca li hanno, e spesso ne hanno troppi; per questo attirano gli assalitori: assalitori senza pistole e mitragliatrici, che spaventerebbero gli assaltati e li spingerebbero a cambiare strada. Al contrario, gli assalitori offrono tutte quelle cose che costringono a tornare il giorno dopo e poi tante volte, fino a diventare schiavi: film, giornali, bar, discoteche, droghe e mille altre caramelle come queste. Ecco che gli assalitori cantano vittoria, perché hanno tanti burattini nelle mani i quali faranno sempre di più quello che quei «pochi» vogliono.

    Dunque, proprio a questi ragazzi vorrei infilare in tasca queste prime pagine, a mo' di volantino. Forse qualcuno, prima di andare a dormire, cercando in tasca se gli è rimasto qualche quattrino, trovando queste pagine e leggendole e rendendosi conto che qualcuno lo sta ingannando, potrebbe decidere una vita nuova.

    Queste prime pagine le vorrei dare anche a tutti quei ragazzi e ragazze che hanno capito quali sono le strade giuste, hanno imparato a riconoscere gli assalitori della società e vogliono fare la rivoluzione, quella vera. A questi amici spesso manca solo un po' di forza, di testardaggine, di coraggio per non tornare indietro. La storia di Francesco nei primi quindici anni della sua vita e quella dei suoi amici può offrire questa forza nel modo più sorprendente.

    Si chiamava Francesco ed era il ragazzo più povero che avessi conosciuto: non possedeva nulla. In Africa avevo conosciuto dei bambini molto poveri: alcuni si cibavano di una specie di the con un po' di latte al mattino e altrettanto alla sera: era tutto. In Brasile ho incontrato bambini e ragazzi poveri, sulla strada, costretti a chiedere l'elemosina o a rubare, senza papà, né mamma, né parenti. Nel continente indiano ho visto molti ragazzi poveri, figli della miseria e della disperazione. Però Francesco era il più povero tra tutti quelli che ho incontrato.       Certo ogni povero lo è a modo suo, con le sue caratteristiche, le disgrazie e le poche fortune che la vita gli permette. Il mio amico era il più povero di tutti: non apparteneva al Terzo Mondo, ma viveva in una famiglia meravigliosa.

    Era uno di quei poveri che il Vangelo chiama beati e aggiunge che a loro appartiene il Regno, quindi finiscono per avere tutto. Lui non aveva niente. Non poteva stringerti la mano, quando ti salutava, né chiederti come stai e dirti così la sua gioia per la tua visita. È vero, ti salutava con la sua anima più grande dell'universo, ma aveva pure il diritto di dubitare che qualcuno quest'anima non la vedesse. Non poteva decidere una passeggiata con te, perché anche le sue gambe erano disubbidienti. Non poteva comandare nessuna parte del suo corpo, quindi ovviamente non poteva parlare, né scrivere, né giocare. Non poteva spingere la sua sedia a rotelle né avanti né indietro e non poteva decidere nemmeno come stare seduto o appoggiato. Non poteva pettinarsi, né andare in bagno da solo, né lavarsi o guardarsi allo specchio, né dire quale camicia o quale tipo di jeans o di scarpe avrebbe voluto indossare. Lui sapeva quando avrebbe voluto vedere la televisione o stare con i suoi amici, ma come dirlo?

    Ecco perché era il ragazzo più povero del mondo. Egli poteva comunque vedere, sentire ed elaborare ogni cosa nel suo cervello con una intelligenza bellissima.

Adesso correggerò qualche imprecisione del mio scritto. Ho detto che Francesco non poteva parlare: in realtà non è del tutto esatto. Come Davide ha vinto il gigante Golia con due sassolini, anche il nostro protagonista li aveva a disposizione; in realtà erano due parole, anzi due monosillabi: «Eh» per dire e «ah» per dire no. Con queste due sole parole Francesco all'età di sei anni ha potuto cominciare gli studi come tutti gli altri bambini in una scuola normale.

    A questo punto il lettore sarà curioso di sapere come sia possibile andare a scuola con due sole parole, quando noi, che ne abbiamo così tante a disposizione, sappiamo quanto sia difficile imparare. Rispondo dicendo che c'era accanto a lui un amico insegnante, il quale traduceva tutto in domande che comportavano due sole risposte: «Sì» e «no». Facciamo un esempio: quando Francesco, affrontando i primi calcoli, ha dovuto fare la semplice addizione 2+3, come avrà fatto? Semplice: il suo amico insegnante ha cominciato col domandare: «Quanto fa 2+3? Uno?» E Francesco avrà detto:«No». «Due?» E Francesco avrà detto: «No». «Fa cinque?» «Sì». Il calcolo è stato fatto. E dopo quel calcolo semplice sono venuti i più complessi: le espressioni algebriche, i teoremi, i problemi; e tutte le soluzioni sono state possibili.

    Francesco riusciva a fare le traduzioni dal greco, a distinguere la pronuncia corretta di una parola inglese ed anche a dipingere quadri. Fino ad allora avevo visto quadri dipinti con la bocca, con i piedi, con protesi plastiche, ma quadri dipinti senza mani, senza piedi, senza bocca, senza protesi plastiche, senza... senza... non li avevo visti mai: solo là, esposti nella stanza dì Francesco. Lui poteva scegliere i colori, rispondendo alle domande. Poteva volere una parte sfumata con l'azzurro o con il verde; scegliere dove collocare i fiori del giardino, quale colore dare a questo o a quel fiore. Voi sapete che l'immagine della televisione è composta da un grandissimo numero di punti colorati. Basta scegliere e decidere un punto per volta.     Avete capito? Con paziente amicizia anche voi con Francesco avreste potuto dipingere.

    Avete visto come il nostro amico con due sassolini ha vinto il gigante dell'ignoranza, della pigrizia e dell'emarginazione? Prima però ho fatto un grave errore. Ho detto che Francesco era il ragazzo più povero che io avessi incontrato; in realtà la frase giusta è: Francesco sarebbe stato il ragazzo più povero, se non avesse incontrato nella vita il prezioso dono dell'amicizia.

    Voi avete letto nel Vangelo che un paralitico fortunato (e certo più di uno) ha incontrato Gesù che gli ha detto: «Alzati e cammina». Ebbene, Francesco è stato quasi altrettanto fortunato, perché ha incontrato tanti amici che avevano come Gesù la stessa forza di fare i miracoli. Così uno gli ha detto: «Alzati, cammina, io ti impresterò le mie gambe»; un altro gli ha detto: «Se vuoi correre, ti do i miei muscoli»; e un altro ancora: «Se vuoi scrivere o dipingere, le mie mani sono a tua disposizione». E così il miracolo è avvenuto .

Francesco ha potuto cominciare a camminare e correre, andare a scuola e in montagna con le gambe degli amici. Ha potuto scrivere e giocare con le mani degli amici. Ha potuto cantare e telefonare con la voce degli amici. Il gigante Golia aveva un esercito di soldati alle spalle, il nostro Francesco aveva un esercito di amici con lui...

    A Francesco piaceva molto il gioco del calcio. Ovviamente guardava con piacere le partite alla televisione e ancora di più allo stadio, ma non era il tipo da stare in panchina e i suoi amici, che con fantasia cercavano ogni pretesto e strategia per farlo contento, avevano trovato la soluzione. Ecco una delle prime partite di Francesco. «Francesco, sei pronto? Maglietta, pantaloncini, scarpe, tutto in regola? Per la partita ci faremo aiutare dalla carrozzella. Siamo undici contro undici. Dobbiamo vincere a tutti i costi!» (ovviamente Francesco non era uno in più, ma uno dei regolari componenti). La maglietta del nostro amico portava il numero 3. La partita iniziò e la carrozzella era posta in difesa. Voi pensate che un giocatore immobile poteva fare poco? Vi sbagliate. Quando gli avversari arrivavano nell'area di attacco con tutta furia, da quella parte dovevano arrestarsi: non si poteva mica scherzare con una carrozzella; poi in fondo anche gli avversari erano amici e facevano molta attenzione. Il goal non arrivava mai.

    Nel secondo tempo Francesco indossava la maglia numero 11 ed era all'attacco. Tutti facevano tifo per lui, perché rischiava di essere uno dei più preziosi giocatori in campo. Gli avversari infatti, sempre imbarazzati per la carrozzella, dovevano girare alla larga; invece i compagni di squadra, che conoscevano il loro collega e la robustezza di quelle ruote, tiravano proprio dove c'era lui e dove la difesa si trovava a disagio. Improvvisamente un tiro violento colpì la carrozzella che, solida, lo fece rimbalzare verso il numero 10 il quale prontamente tirò: goal! «Goal su passaggio di Francesco!», «Francesco ha fatto goal!»

    Vedete, quando volete proprio bene a qualcuno inventate di tutto, e il tutto è a vostra disposizione.

    Gli scout sono famosi per essere persone generalmente atletiche, robuste, resistenti, capaci di lunghe fatiche per fare le marce, le escursioni e tutti i lavori dell'accampamento. Vi stupite se vi dico che Francesco era uno scout? No, lui aveva le carte in regola per tutto. E se qualche voce mancava alla sua carta di identità era rimpiazzata dalla fantasia degli amici.    Quando si montava la tenda, la carrozzella serviva per assicurare provvisoriamente la cordicella da un lato, mentre il compagno fissava i picchetti dall'altra parte, e così via. Quando Francesco doveva andare ai servizi o fare un bagno ristoratore dopo un'escursione, i suoi amici provvedevano a tutto: erano dei professionisti dell'amicizia. Poi, quando era pronto, in divisa secondo tutti i canoni di squadra, c'era la riunione di gruppo. Francesco non assisteva, partecipava; doveva dare i suoi pareri, votare, approvare e dissentire. Dopo aver scalato una serie di cime conquistate a spalla dei suoi compagni vinse anche una medaglia. Con una specie di zaino aperto fatto appositamente per queste escursioni, facendo 100 metri con uno, 50 con un altro, 150 con un altro, la fantasia e la generosità degli amici, unita alla pazienza, all'umanità e alla tenace voglia di riuscire da parte di Francesco, avevano fatto sì che anche lui potesse sperimentare l'emozione della montagna, della punta raggiunta dopo pericoli e fatica.

    Fra tanti amici che rendevano bella la vita del nostro protagonista ce n'era uno in particolare: Tommy, giovane prete, che era diventato confidente, consigliere, direttore spirituale e grande amico di Francesco. Tommy dedicava il suo tempo a chi faceva più fatica a vivere, specialmente ai giovani che non avevano avuto la forza di difendersi dalla violenza di una società materialista: le vittime della droga e di mille altri inganni. Tommy si era specializzato a comunicare con la parola, con il silenzio e più ancora con il cuore e l'anima, direttamente al cuore e all'anima dei suoi interlocutori. Questo amico prete, quando era stanco, andava a trovare Francesco e, vicino a lui, riprendeva tutte le energie necessarie; altre volte andava a trovarlo quando era piena­mente in forma e allora il nostro adolescente diventava discepolo e seguiva i passi del suo grande maestro.

    I genitori di Francesco erano una coppia felice, entusiasta della vita, una coppia che non «sentiva» reali motivi per lamentarsi, come fanno invece certi che sempre piagnucolano per la moglie, per il marito, per i figli. D'altra parte avevano avuto tutto dalla vita, compreso un figlio meraviglioso come Francesco, ed essi erano coscienti della preziosità di questo dono che non avrebbero certo voluto diverso da com'era.

Di loro so pochissimo, ma ricordo una cosa che mi aveva colpito. Mi avevano raccontato di aver festeggiato un loro anniversario invitando venti coppie, i genitori di figli che condividevano con Francesco le stesse difficoltà e ricercavano soluzioni simili. Queste famiglie si regalavano molto tempo in comune per fare revisione di vita, inventare nuove piste di lavoro, pregare insieme, fare feste e divertirsi, genitori e figli, come una grande famiglia patriarcale senza patriarca. Vi dicevo che era l'anniversario di matrimonio e, come d'accordo, erano arrivati tutti gli invitati, per complotto premeditato, con scatole enormi: erano i regali, a volte piccole cose, ma confezionate con gusto, nastri e fiori, dentro scatole per televisori, per elettrodomestici ecc. Riempirono la stanza da letto, poi la cucina, poi... Allora si comincio a dire: «Abbiate pazienza, non c'è più posto!» Ma nessuno rinunciava a fare entrare il suo cavallo di Troia dentro le mura. Uno arrivò con una scatola che era servita a confezionare una specie di bar cinese: era enorme e conteneva un fiore con una videocassetta di ottimo gusto.

    L'appartamento ormai scoppiava di papà, mamme, bambini, adolescenti e tante enormi scatole colorate, che lasciarono poi un po' di posto quando si cominciò ad aprirle e schiacciarle nella camera da letto. Molti avevano portato pasticcini vari per fare concorrenza alla mamma che ultimamente, oltre a far scuola, aveva trovato tempo per un corso da pasticciera e quindi ne aveva preparati di tutti i tipi. «La torta, le candele!» qualcuno gridò; e subito accesero le candele, spensero le luci e un gran soffio fu seguito da un applauso. Ma prima che l'applauso fosse concluso, nel buio, scesero dal cielo due enormi piatti di panna montata sui due festeggiati e non mancò la parte per Francesco, divertitissimo. E il classico «Tanti auguri a voi» fu interrotto, tanta era la confusione, ma anche l'allegria, un po' come capita in certi vecchi film, ma là era proprio solo per fare festa.

    Scusate se mi sono dilungato: volevo solo dirvi che questi genitori, insieme ad altri, sapevano essere felici. E la gioia, la felicità vera non si trovano come le ciliegie sugli alberi o le patate bollite in un piatto, ma si incontrano con la pazienza, la fantasia e un'abbondante dose di amore. A conclusione di questo primo capitolo desidero riportare una poesia di un mio grande amico.

 

    Cristologia e handicap

    Tu sei il mio apostolato

    o figlio caro.

    Tu sei la ridefinizione

    della mia vita.

    Tu sei la mia forza rivoluzionaria,

    la mia nuova direzione.

    Sebbene io non debba mai sperare

    di vedere la nostra vittoria,

    io avrò pur sempre qualcosa da offrire

    per il tuo diritto all'esistenza.

    Uno sforzo così grande non è nulla,

    di tutto il tempo che se ne è andato via

    nessun rimpianto.

    Tutto ciò che è fatto in difficoltà

    è ministero offerto a un angelo.

    Quello che è fatto per affermare

    il tuo diritto all'esistenza

    non è carico pesante

    la cui quotidianità stanchi.

    Tu sfidi la programmazione del tempo,

    mio caro ragazzo.

    Ecco, io ora esisto

    perché possa esistere anche tu.

    Ecco, i piuoli piantati per sostenere

    sono come questo mio amore.

    Io ti accolgo non per amare,

    semplicemente io amo te,

    mia gioia, mio ragazzo,

    mia aperta ferita, per questo accetto.

    Più-che-un-Cristo-nato-per-disgrazia,

    tu sei la mia vocazione,

    o mio diletto.

    Si fa sempre più luce in me (ora intendo):

    tu non sei uno spreco.

    Pur essendo una continua causa di preoccupazione,

    tu sei il mio diletto figlio,

    la predestinazione della mia vita.

    Io posso cantare

    perché ci sei tu.

    Tu sei il motivo del mio canto.

    Non importa se questo canto

    non è ascoltato.

    Lascia che sia cantato, mio caro,

    lascia che sia cantato,

    mio Cristo.

 Francis Keen

GUARIGIONI

Francesco lottava con tutte le forze per vincere contro la malattia, amando tanto ed essendo amato all'infinito da quei genitori che solo Dio poteva creare così forti. Poi guarì completamente.

La medicina non ebbe nessuna risposta. Forse fu un miracolo. Forse i genitori avrebbero potuto spiegare qualcosa, ma in quell'anno la guerra civile nel Paese si era intensificata, e furono entrambi uccisi. La maggior parte dei suoi amici, compagni di scuola, morirono in seguito allo scoppio di un camion carico di tritolo schiantato di proposito contro la scuola. Quel giorno Francesco era fuori e fu risparmiato.

Dopo cinque anni un amico lo incontrò nella giungla: era un guerrigliero professionista.

 

Francesco disse: «Avevano ucciso i miei genitori e i miei più grandi amici. I miei capi mi hanno spiegato che il nostro Paese è diventato un mucchio di schiavi. Pochi ricchi politici tengono in pugno il Paese con la forza, perseguitando, ricattando, spogliandoci dei diritti umani fondamentali. Queste cose le ho sentite tante volte dai miei capi: non so più se oggi sono ancora vere o no, ma io le credo. Non ho nessun altro a cui credere se non i miei capi, che mi dicono:

"Abbiamo solo questa possibilità, la rivoluzione armata". L'amico gli chiese: «Pensi che per liberare il tuo popolo l'unica soluzione sia quella di ucciderlo?»

«No! Ne dobbiamo uccidere una parte, ma solo fino a quando gli altri non capiranno, fino a quando tutti questi schiavi si sentiranno abbastanza appoggiati da noi e finalmente avranno la forza di ribellarsi tutti insieme e dire di no: dire di no a quelli che predicano la pace e in realtà ci obbligano ad uccidere. I nostri genitori, non dico i miei, che erano occupati nel salvare la mia vita, ma tutti gli altri, non hanno mai avuto il coraggio di fare nulla per il nostro Pae­se. Hanno solo e sempre detto e invece bisogna dire No».

L'amico gli chiese poi: «Francesco, mi hai parlato del tuo Paese, ma tu come stai?»

«Guardami! Vivo come una bestia. L'unico lavoro è uccidere. Ogni giorno penso a come uccidere di più, con meno mezzi possibili e con meno rischio. Però sono in pace, perché so che quello che faccio è l'unica cosa da fare. Sono ormai cinque anni che vivo in questo modo. Spero che un giorno il mio popolo capisca che ho rinunciato a tutto per loro. E se non lo capiranno, pazienza: sarà una gioia per me rivederli sorridere. Vedere che i loro bambini, e spero i nostri bambini, possono crescere senza il guinzaglio».

«Non ti senti mai solo?»

«E come non sentirmi solo! Vorrei tanto innamorarmi di una ragazza, averla qui con me, tra le mie braccia, anzi vorrei già averla sposata e avere anch'io, come tanti, un bambino in braccio da guardare, da far sorridere, da amare appassionatamente. Il cuore, tu lo sai, ce l'ho anch'io. Sì, vorrei un bambino in braccio e invece guarda cosa ho: un fucile per uccidere. La prima volta che ho ucciso un giovane come me, sono stato diverse notti senza dormire; poi lentamente mi sono abituato e adesso è lavoro di tutti i giorni».

«Che cosa stanno facendo i tuoi amici laggiù?»

«Adesso devo lasciarti e andare anch'io con loro. Stanno preparando l'ultima cena per uno dei miei compagni. È di un anno più giovane di me, eppure è stato scelto per una missione difficilissima. Tutti avremmo voluto essere scelti, ma lui è stato il fortunato. Tra mezz'ora partirà con un camion carico di dinamite e lo schianterà contro una fabbrica. Fra meno di un'ora non ci sarà di lui nemmeno più la polvere, ma sarà nella lista dei martiri per la liberazione del nostro Paese. Lui ha già raggiunto il traguardo. Adesso vado anch'io con loro».

L'amico lo salutò e Francesco gli disse: «Non dimenticarti di me. Io non mi dimentico degli amici. Tu lo sai che il mio cuore batte come il tuo».

Non abbiamo nessun'altra testimonianza di Francesco durante quegli anni.

Dopo cinque anni di lotta armata la situazione politica cambia. E i rivoluzionari lentamente lasciano la giungla, ma senza l'entusiasmo della vittoria, anzi con frustrazioni e delusioni, guardando a un tempo della vita tanto prezioso manipolato da altri più potenti di loro. Essi non sono diventati eroi. La patria non riconosce il loro sacrificio e il rischio crudele corso tutti i giorni per tanti anni. Dopo aver dato tanto per la sua terra, infine, Francesco ne viene espulso e lo troviamo, l'anno seguente, in Bangladesh.

Per lui inserirsi in una cultura tanto diversa, imparare una lingua nuova e specialmente un mestiere «normale», è molto difficile; la vita della foresta era troppo diversa: non ci riesce. Tenta diversi lavori, ma non ce la fa. È ancora troppo ribelle con se stesso, con la società. Non riesce a capire perché tanta miseria, tanta ingiustizia e anche tanta apatia; si chiede: «Perché la gente non si ribella e fa la rivoluzione?» Francesco è debole e malato e non ce la fa nemmeno a lavorare, immaginatevi a fare la rivoluzione.

Incontra finalmente degli amici che gli danno un po' di speranza. Sono dei giovani Bede, zingari dei fiumi, che offrono ospitalità: non nella loro casa, perché non ce l'hanno, ma nella loro comunità. Condivide quindi un piccolo spazio su una barca con due altri ragazzi più giovani di lui, e cerca di adattarsi a questo nuovo tipo di vita.

Nella giungla aveva dovuto difendersi tante volte dai serpenti e fare molta attenzione alle loro insidie, mentre adesso vede che anche i ragazzini aprono cesti contenenti cobra e altri serpenti velenosissimi, giocano con loro, li portano al fiume, li lavano, danno loro da mangiare e da bere. Di tanto in tanto tirano via la pelle vecchia e questi cari animali sembrano ringiovanire e riacquistare bellezza ed eleganza. Ogni mattina qualcuno parte e va di villaggio in villaggio a fare lo show dei serpenti. Fin da giovanissimi sono incantatori professionisti di serpenti, e sono bravissimi ad incantare anche le persone che assistono al loro spettacolo.

Francesco si aggiunge a Firuz e lo accompagna, gli porta i cesti e cerca di capire come si svolge il gioco, per poterlo fare anche lui. Capisce intanto che quel lavoro è adatto al suo temperamento e, anche se lo stanca molto, non lo soffoca. Lentamente anche lui inizia a prendere i serpenti tra le mani, finché si esibisce in pubblico e i primi applausi lo confortano. La sua salute si riprende, e rinascono in lui l'entusiasmo di vivere e la voglia di essere felice.

Il suo gruppo, composto di circa quindici famiglie, si sposta ogni settimana. Infatti quattro o cinque giorni sono sufficienti per raggiungere tutti i villaggi che si trovano in un raggio di dieci, quindici chilometri. Quando Francesco ed i suoi amici arrivano vicino ad un villaggio cominciano a rullare un tamburo e annunciano: «Shap Khelà (alla lettera: gioco dei serpenti): cobra indiano, vipera del Nepal, pitone gigante...»; poi riprendono a suonare il tamburo e gridano ancora più forte: «Shap Khelà: cobra indiano, vipera del Nepal, pitone gigante...». A questo punto, ormai tra le case, cominciano a produrre il suono che accompagnerà l'incantesimo dei serpenti: è un suono stridente, che viene da uno strumento composto da una o due piccole cannucce tagliate, innestate in un tipo di flauto inserito in una cassa sonora (una zucca svuotata). È un suono particolare che non incontrerete mai in nessuna orchestra né in qualsiasi altro spettacolo.

Francesco chiede un chilogrammo di riso per venti minuti di spettacolo, e si diverte più di tutti nel vedere la gente contenta, curiosa ed incantata. Durante la giornata si carica di riso, uova, a volte un'anitra o qualche frutto. Spesso si alleggerisce prima di arrivare alle barche. La povertà del Bangladesh lo ferma. Sa che non può risolvere il problema dei poveri, tutti in condizioni peggiori della sua: madri con i figli piccoli che chiedono l'elemosina, qualche cieco, un giovane senza gambe che si trascina su un carrello che si muove su quattro cuscinetti a sfera... ma, ora a uno, ora all'altro, consegna un chilogrammo di riso, un paio di uova, insomma un po' di quello che ha, e questo lo rende felice. In tanti anni passati ad uccidere, il cuore non si è impietrito. Arriva poi al campo e consegna tutto alla famiglia del capo. In compenso riceve del cibo, qualche vestito, in una parola ciò che gli basta per vivere.

Francesco, pur essendo cristiano, nella giungla non aveva più praticato la sua fede. Di tanto in tanto aveva fatto il segno della croce e ripetuto due preghiere che gli erano rimaste nel cuore: il Padre nostro e l'Ave Maria. Con queste preghiere si era sentito un po' meno orfano sia del padre che della madre, uccisi da quella guerra che lui stesso aveva poi continuato. Il cuore di Francesco non solo non si era pietrificato, ma era rimasto buono nel senso più vero; era rimasto innocente. Ciò che aveva fatto, lo aveva eseguito con scrupolo, sicuro che fosse la cosa migliore: per questo aveva continuato ad essere un ragazzo con l'anima pulita.

Arriva aprile e il gruppo raggiunge Shavar, a un'ora di cammino dalla capitale. È questa una tappa attesa da tutti i Bede del Bangladesh: essi si danno appuntamento in villaggi che sono diventati i loro punti di riferimento e vi si fermano per circa due mesi facendo festa, celebrando i nuovi matrimoni, discutendo i loro problemi, condividendo le nuove scoperte in campo di lavoro, ma specialmente intensificando i legami di amicizia e di gruppo. Spesso in questo periodo i gruppi si riformano, specialmente se durante l'anno c'è stata qualche difficoltà in più con il capo del gruppo stesso.

Francesco ha l'occasione di incontrare nuove persone: in un primo momento lo considerano estraneo, ma lentamente il gelo si scioglie e nascono amicizie genuine e belle. Anche lui decide di cambiare gruppo, ma poco prima di ripartire il suo primo capo, Bantu, gli dice: «Torna con me, lavori ancora un anno e io ti do mia figlia Rina in sposa. Pensaci». Francesco conosce bene Rina, perché aveva vissuto nella sua famiglia per mesi e l'aveva sempre rispettata come una sorella minore. Non aveva mai pensato che lei o un'altra ragazza del gruppo potesse diventare sua moglie. Aveva sì pensato tante volte a sposarsi e in alcuni momenti la solitudine lo aveva attanagliato forte, ma ogni volta che pensava di sposarsi non vedeva mai come questo concretamente potesse avvenire; perché lui era solo, non aveva genitori che potessero decidere il suo matrimonio, né un fratello maggiore che facesse le veci del padre, né uno zio, e in più non faceva parte del gruppo.

In realtà, quando aveva deciso di cambiare gruppo, era per staccarsi in modo indolore: la sua intenzione era di stare non più di una o due settimane nel nuovo gruppo, e poi lasciare definitivamente i Bede, perché là non vedeva futuro per una sua famiglia. La proposta di Bantu arrivò inaspettata e fu un fulmine nel suo cervello. Non ragionò, non pensò nulla; disse solo che non aveva motivi per non accettare, e così riprese a vivere con nuovo entusiasmo, e specialmente vide realizzarsi una grande ragione di vita che aveva tanto sognato e che fino al giorno precedente vedeva così lontana.

Riprese i suoi cestini di serpenti. Intanto il suo amico Firuz si era sposato e aveva una piccola barca per conto suo. Francesco continuò a vivere nella barca del futuro suocero, ma preferì dormire sul tetto della barca stessa. Bisogna ora spiegare come sono fatte queste piccole barche degli zingari bengalesi. Esse sono simili a una carovana di zingari europei: una porta e un paio di finestre. Si può stare dentro solo seduti. Il tetto però è piatto e offre un ampio spazio per metterci varie cianfrusaglie, reti da pesca, arpioni, paletti di bambù, un'accetta, la vela arrotolata, e qualche altra cosa inutile. Quando si viaggia, se la vela è stesa si sta volentieri alla sua ombra, facendo qualche lavoro, riparando reti, cestini, facendo palline di terra che, seccate, diventano proiettili preziosi per la caccia agli uccelli con la fionda. La barca, chiamata nouka, è suddivisa in tre parti: una stanza centrale e due più piccole a forma romboidale alle estremità, in cui dormono i maschi da una parte e le bambine dall'altra.

Il tetto della nouka era quindi diventato la nuova abitazione di Francesco. Lui aveva avuto la fortuna di andare a scuola, ed anche nella foresta aveva continuato a leggere e scrivere. Era intelligente e sapeva di dover usare il suo cervello. Aveva visto che nel suo gruppo erano tutti analfabeti e decise di invitare al mattino, prima di partire per la Shap Khelù, un discreto gruppo di bambini e bambine a casa sua, cioè sul tetto della barca, per imparare a leggere, a scrivere e a fare i conti, per sentire storie che insegnano come comportarsi, come diventare dei buoni Bede e specialmente per insegnare loro ad usare il cervello.

Diventato così anche insegnante, aveva conquistato il rispetto del gruppo e tutta l'adorazione possibile da parte dei bambini che amava veramente tanto. Sognava di averne presto anche qualcuno nella sua famiglia, con quella Rina che ogni giorno guardava con affetto sempre più intenso. All'inizio di giugno Bantu lo chiamò e gli disse: «Mia figlia non è più una bambina, è già abbastanza grande per sposarsi. Se vuoi prendiamo una barca in affitto e tu continui ad aiutarmi; l'anno prossimo ti comprerai poi la barca».

Francesco, in cambio di un regalo tanto grande, ancora una volta non aveva nulla da offrire se non se stesso e il suo lavoro. Bantu, da parte sua, non voleva aspettare troppo, per il timore di perdere un genero così prezioso. Bantu guardava ai suoi interessi, all'economia della sua famiglia e non certo ai sentimenti ed agli affetti.

La cerimonia fu molto semplice e si svolse secondo l'uso delle famiglie Bede molto povere. Venne un Maulana musulmano, il quale riunì gli uomini e i giovani, e recitò alcune preghiere in arabo. (Il Maulana è propriamente l'insegnante di arabo nelle scuole musulmane. Altre figure importanti dell'Islamismo sono l'Imam, che guida la preghiera nella moschea, ed il Mullah, teologo e insegnante del Corano. Ma in molti gruppi islamici del Bangladesh, specialmente nei villaggi, capita talvolta che la stessa persona insegni l'arabo, guidi la preghiera e insegni il Corano, assolvendo i compiti delle diverse figure.)

 Poi qualcuno andò nella barca dove stava Rina a chiedere il suo consenso, perché lei, secondo l'usanza, non partecipava alla cerimonia. Un parente di Bantu fece la parte del padre di Francesco, diede la mano e il contratto di matrimonio fu sancito. Qualcuno mise dei soldi in tasca al Maulana, il quale ripartì come chi ha fretta di fare altre cose più importanti e più redditizie.

La barca affittata era stata preparata con cura, con bandierine e nastri colorati, per il maestro Francesco e per Rina. C'era una famiglia in più nel gruppo di Bantu.

A Rina questo avvenimento dava gioia, ma per lei si trattava del normale destino di tutte le ragazze Bede. Per Francesco invece era molto diverso. Aveva realizzato un sogno molte volte sacrificato per altri ideali. Rina era buona e brava nel lavoro, anche se molto giovane, e non sempre riusciva a capire quanto bene le volesse quel giovane marito. Il lavoro di Francesco già lo conosciamo: scuola e spettacolo nei villaggi, dove però spesso veniva derubato di quasi tutto ciò che aveva. Chi glielo rubava? Qualche ladro? No: era la sua generosità, il suo cuore sensibile a situazioni troppo spesso drammatiche e più difficili della sua, per cui spesso rientrava la sera con quasi nulla. Rina non gli faceva pesare questo, ma quando il suocero se ne accorse cominciò a ricattarlo; in fondo Francesco aveva dei debiti nei confronti di Bantu. Non aveva pagato per avere la sposa, come è normale tra le famiglie dei Bede.

Rina però era molto abile e spesso rincasava con la parte che al marito mancava. Il lavoro delle donne Bede è semplice: vanno di villaggio in villaggio con una singa (un corno di bue svuotato completamente e tagliato alle estremità). Quando si incontra un malato che ha qualche dolore gli si appoggia la singa sulla parte sofferente e si assorbe; dopo alcuni minuti, quando il malato ha un sollievo, dà una ricompensa: un uovo, o un pugno di riso o qualche moneta. I malati sono tanti e normalmente non vanno dal medico o in ospedale, perché distante e sempre troppo costoso.

Nel caso, ad esempio, di una periatrite acuta, l'effetto-ventosa della singa può smuovere l'acido lattico, offrendo così un senso di benessere.

Il gruppo poi fece ritorno a Shavar: fu festa per tutti. Bantu nascose agli amici i motivi di scontentezza nei confronti di Francesco e preferì apparire orgoglioso di questo genero apprezzato da tutti. Rina aspettava il primo figlio e questo, per Francesco, era motivo per dimenticare le tante sofferenze passate da bambino a causa della sua salute, poi da giovane nella giungla e infine nel tentativo di inserirsi in questo nuovo mondo. Adesso Francesco voleva vivere: si attaccò appassionatamente alla vita, pensò di più a se stesso, al bambino che sarebbe nato, a Rina, e questo fece contento Bantu, che riceveva con più regolarità i soldi dovutigli.

Finalmente il sogno si coronò e Francesco divenne padre, ma non per più di due ore. Il bambino morì per complicazioni del parto. Rina e Francesco si ripresero, perché erano giovani e ci sarebbe stato tempo per tanti figli ancora. Ma quello era unico, era il primo, e la sua mancanza lasciò un segno profondo in quella famiglia sino ad allora così felice.

Il cammino riprese: il gruppo scese verso Barishal, Portuakali, arrivò al mare e risalì verso il nord nel mese di ago­to. Arrivati a Maimensin sarebbe ridisceso nuovamente. Intanto Francesco, nei due mesi passati a Shavar, aveva fatto amicizia con un sacerdote cattolico, padre Mothi, che lo aveva aiutato a riscoprire le sue radici cristiane, il senso del suo Battesimo, di quelle due preghiere che gli erano rimaste e che aveva pregato anche le poche volte che era andato alla moschea con i suoi parenti, musulmani ma poco praticanti.

Padre Mothi insegnò a Francesco a riprendere il Vangelo tra le mani e a leggerlo. Dopo alcuni mesi Francesco ebbe il desiderio di aiutare tutto il suo gruppo a diventare cristiano e ci provò con l'entusiasmo di un apostolo e di un missionario zelante. Ma questo creò nel gruppo un grosso problema. Gli adulti si accorsero con evidenza che Francesco, oltre ad essere un forestiero, apparteneva anche ad un'altra religione, e questo, anche se non capivano assolutamente che cosa significasse, era troppo per loro. Capivano infatti che era ancor più diverso di quanto pensavano. Francesco rischiò di essere buttato fuori dal gruppo e perdere così la moglie gravida del secondo figlio. Ebbe pazienza. Quando lo vedevano leggere il Vangelo talvolta gli chiedevano:

«Che cos'è quel libro?» «Il mio Corano», rispondeva. Un volta Firuz disse al padre Bantu: «Se Francesco legge il Corano, diventerà del tutto come noi». Ma il capo non manifestò né gioia né amarezza.

Quando il gruppo ritornò a Shavar, Francesco incontrò nuovamente padre Mothi, ma era del tutto assorto dalla nascita del figlio ormai prossima. Ne era tanto entusiasta da non vedere più null'altro, nemmeno quei poveri da cui prima si lasciava derubare. Un giorno andò dal padre a farsi spiegare una pagina di Vangelo difficile: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25). Mothi lo guardò: doveva correre all'ospedale per un caso urgente. Prese il Vangelo e, sapendo che il giovane era tutto assorto dalla nascita del figlio, gli aprì la pagina della Notte Santa, quando nasce Gesù, e gli disse: «Adesso leggi questo, è più facile» e scappò di corsa. Francesco lesse e rilesse: fu entusiasta nel pensare agli angeli che cantavano dopo la nascita di quel bambino Gesù e anche lui, Francesco, sentiva già i cori di festa sulla sua nouka qualche settimana più tardi. Lo disturbavano i rifiuti incontrati da Maria e Giuseppe, la fuga, Erode, i bambini morti innocenti, ma al di sopra di tutto c'era un Bambino nato e questo bastava per riempirlo di gioia.

Prima di una nuova partenza, Rina cominciò a stare male per il parto imminente. Bantu, il fratello, Firuz, Francesco e gli altri uomini stavano da una parte, mentre le donne erano intorno a Rina. Arrivò l'ostetrica, che dopo pochi minuti mandò a dire al padre Bantu: «Bisognerebbe chiamare un medico o portarla all'ospedale: il parto sarà difficile». Bantu disse: «Mia figlia è forte, non c'è bisogno di nessun medico per un parto». Chiamarono un'altra donna che diceva di saper risolvere molti casi difficili. Prese un po' di carbone in un piatto, vi buttò sopra alcune foglie secche e un po' di incenso, lo passò sul corpo di Rina e ripeté un man tra. Il bambino nacque, ma morì subito.

I mantra sono formule sacre. Usati fin da tempi antichissimi, nel brahmanesimo hanno conservato il carattere di formule magiche che agiscono indipendentemente dalla partecipazione di chi le pronuncia.

Portarono la notizia agli uomini riuniti. Francesco rimase stordito, perché non aveva neppure pensato che una cosa simile potesse accadere, tanto sentiva già quel bambino tra le sue braccia. Dissero a Bantu: «Bisognerebbe portare Rina all'ospedale perché sta male». Ma lui, con la sicurezza di sempre: «Tutte le donne stanno male quando nasce un figlio, ma fra un paio d'ore tutto sarà passato». Francesco si sentiva scoppiare, aveva voglia di gridare, ma non aveva autorità: sua moglie era addirittura in casa dei propri genitori, lui che cosa poteva fare? Non aveva autorità, né soldi e conosceva bene le leggi rigide del gruppo.

Chiesero a quella donna di ripetere il mantra. Lei riunì i carboni, le foglie secche, l'incenso, lo ripassò sul corpo di Rina, recitò più volte il mantra, ma un'ora dopo anche la giovane madre morì. E quando arrivò un dottore, questi si rifiutò di entrare perché gli avevano detto che la donna era già morta. Iniziarono le grida, i pianti di disperazione; la madre, le sorelle e i fratelli gridavano, mentre qualche parente li teneva. Francesco uscì e lasciò il suocero solo a piangere la sua ignoranza e a pagare a prezzo così caro la sua sicurezza e autorità. In Francesco non nacquero né la rivolta né la disperazione, ma una sofferenza così grande che non riusciva più a contenere. Verso l'alba portarono fuori i corpi di Rina e del bambino, ormai lavati e rivestiti. Aquel punto Francesco non contenne più le lacrime e gridò, gridò a tutti che era disperato, che voleva morire anche lui: «Seppellite anche me. Seppellite anche me.!» Prepararono la bara, si scavò la fossa e tutto quell'andare e venire e il lavoro in qualche modo smorzarono un poco la tragedia. Francesco preferiva restare in un angolo, da solo.

Li seppellirono verso le dieci del mattino. Padre Mothi che era già venuto verso il mattino, tornò per il funerale, ma lo avevano anticipato e finito. Parlò un po' con gli uomini. Discussero dell'importanza di non rischiare, in casi come questo, ma di fare già qualche visita medica prima del parto. Uno più coraggioso disse: «lo ho portato mia moglie all'ospedale per l'operazione; ho venduto la nouka e tutto ciò che avevo, ho ricominciato da zero, ma siamo vivi». Un altro disse: «Se Rina fosse stata un uomo l'avrebbero portata sì all'ospedale.» Parlarono a lungo. Bantu taceva e riceveva questa sua condanna dal gruppo. Mothi fece però coraggio anche a Bantu e disse: «Adesso però bisogna pensare agli altri che sono vivi!», e gli diede la mano salutandolo. A Francesco aveva solo messo una mano sulla spalla, senza dire nulla.

Ritornò poi nel tardo pomeriggio. Francesco aveva fatto il bagno ed era andato ad asciugarsi i capelli sul prato. Si era seduto vicino alle due strisce di stoffa a fiori che erano i shari di Rina, lavati e ormai asciutti. Non era lavoro per lui il ritirarli e piegarli, ma lo fece e nessuno osò dire nulla. Poi li dispiegò e li ripiegò ancora, come se avesse voluto farlo meglio. Quando Mothi arrivò, lo vide di spalle seduto in quel prato tra i shari, e stava ora piegando e ripiegando una sottoveste, e di tanto in tanto la stringeva: era terribilmente vuota e lui terribilmente solo.

Il shari o sari, è il costume tipico delle donne del continente indiano, composto da una striscia di stoffa senza cuciture che viene drappeggiata sul corpo senza spille né allacciature.

Mothi avrebbe voluto dirgli:

«Rina non è qui, è in cielo», ma preferì lasciarlo a stringere quel tessuto vuoto e gli disse soltanto: «Ti aspetto: vieni poi a trovarmi». Francesco sembrò svegliarsi per un momento e disse: «Certo, sì, certo padre che vengo», e si lasciarono ancora.

Bantu da parte sua aveva detto a Francesco: «Tu sei libero di scegliere ciò che vuoi; sappi però che se starai con noi sarai sempre mio figlio». Il giovane non aveva scelta, non sapeva fare un altro lavoro: almeno là aveva una barca, un lavoro, un gruppo, e specialmente i bambini della scuola che sostituivano per lui i suoi figli morti. Disse che sarebbe uscito solo un poco, e poi sarebbe ritornato. Trascorsa una settimana pensarono che li avesse certamente lasciati per sempre. Invece Francesco ritornò: disse che era andato a riposarsi un poco presso degli amici; tutti si stupirono che avesse altri amici oltre a loro. In realtà egli era andato dal padre Mothi e si era fermato nel suo Ashram.

L'Ashram è una comunità di cristiani dove si lavora insieme e si mette tutto in comune, vivendo poverissimamente perché si vogliono aiutare anche altri poveri. Nell'Ashram ci sono tante capanne povere, essenziali ma dignitose, pulite e sempre rinnovate nel tetto e nelle pareti; ciascuno abita una capanna e ve ne sono alcune per gli ospiti; nessuno è sposato; testimoniano così che l'Invisibile è un vivente. Francesco era rimasto lì una settimana a meditare, pregare, lavorare e accogliere il conforto di una comunità. La vita gli aveva insegnato tante e tante cose, e in quella settimana le aveva ricapitolate. Si era fatta una grande luce nella sua vita. Dalle riflessioni che faceva, dal suo comportamento, tutti pensarono che si sarebbe fermato. Ma Francesco ripartì, ringraziando e dicendo: «Ci rivedremo fra quattro mesi». Sapeva infatti che, trascorsi quattro mesi, i Bede si sarebbero fermati un mese sul fiume vicino a Torchi per riparazioni varie e anche per riposarsi.

Francesco riprese così il viaggio, la scuola, il lavoro. Fra tornato inspiegabilmente sereno, carico di entusiasmo e voglia di vivere. Qualcuno disse: «Ha certamente trovato da risposarsi ed è contento». Infatti, quando la moglie muore, l'uomo Bede non aspetta molto tempo per risposarsi, a volte poche settimane. Francesco non aveva più debiti e riprese a rientrare la sera senza nulla, o quasi. Almeno una volta al giorno, chiedeva per il suo spettacolo non soldi ma un piatto di riso e dal con un uovo, che consumava velocemente. Così faceva un pasto e il resto lo conservava per i casi di miseria che incontrava. Poi invitava la gente del villaggio a prendersi cura di questo o quel caso, specialmente di vedove o malati.

Arrivati che furono a Torchi, Francesco disse a Bantu: «Guardami la barca: ritornerò fra un mese». Nel frattempo lo stesso Bantu gli aveva presentato una proposta di matrimonio, ma egli disse: «Mi dispiace, ma non posso». E così Bantu pensò che certamente era compromesso con un'altra e che in quel mese sarebbe andato da lei.

L'Ashram lo aspettava e lui aveva atteso questo tempo con impazienza. Non avrebbe certo aspettato quattro mesi per tornarvi, se le sue giornate non fossero state segnate dagli incontri con tutti quei poveri, ai quali offrire qualcosa, o almeno un'attenzione.

Arrivato vicino a Gaptuli si imbatté in due donne che chiedevano l'elemosina. Lasciò scorrere qualche moneta, poi vide da un mucchio di immondizia allungarsi una mano; anche in quella lasciò un paio di rupie, e continuò il cammino. Dopo qualche centinaio di metri si rese conto che l'ultima mano non apparteneva a nessuno, o forse a quel mucchio di porcherie ammassate. Non era possibile. Tornò indietro e ritrovò quella mano, non più tesa. Apparteneva ad alcuni stracci di donna messi insieme, confusi quasi a fare corpo unico con il mucchio di immondizie che in qualche modo la proteggevano. Stava dormendo e sembrava stesse morendo; probabilmente si era sentita alla fine e aveva preferito ritirarsi là che essere aiutata e soccorsa. Francesco svegliò quegli stracci che istintivamente allungarono la mano, ma subito la lasciarono ricadere, forse per morire in pace. Francesco si assentò e tornò con due bicchieri di the caldo, uno per lei e uno per sé. Si sedette accanto a lei, non curandosi di tutta quella sporcizia che lo imbrattò in un momento. Cercò di svegliarle il cervello e farle riprendere forza. Conversarono.

«Tuo marito è qui a Dhaka?»

«No, l'ho perso da due anni».

«È morto in qualche incidente?»

«No».

«Hai dei figli?»

«Sì, tre bambini».

«Dove sono?»

«Erano con lui l'ultima volta che li ho visti».

Francesco si stupì che, così giovane, potesse già avere tre bambini. Lei poi chiese:

«Tu?»

«Anch'io sono sposato e ho due bambini».

Quando Francesco vide che si era un poco ripresa le disse: «Vieni con me!», e l'accompagnò. Lei fece fatica a staccarsi da quel mucchio di immondizie e stracci, se ne raccolse qualcuno attorno al corpo e lo segui lentamente. C'era un albergo, senza stelle ovviamente, di bassa categoria, altrimenti i due non avrebbero potuto entrare; ma era decente, con il bagno nella stanza, quindi era possibile almeno fare un bagno e riposare. Quando arrivarono nella stanza, lei si sdraiò per terra: era troppo stanca. Francesco disse: «Riposati, io faccio un bagno, poi lo fai tu». E lei riprese a dormire.

Francesco fece il bagno, poi, ancora bagnato, si mise solo la gamcia (un tipo di asciugamano) attorno ai fianchi e svegliò la donna che proprio non aveva la forza di lavarsi. La aiutò a togliersi quei due stracci che ancora aveva addosso e cominciò a versare acqua su di lei. Faceva un gran caldo e quell'acqua la fece rivivere. La copri di schiuma di sapone, poi si dedicò ai capelli increspati e incollati, che sembravano una matassa inestricabile di lana prima di essere cardata. I capelli si dividevano a fatica e questo diede tempo a lei di cominciare a reagire e ad aiutarsi in quella pulizia così difficile. Le mani di Francesco, passando sul suo corpo per lavarla, cominciarono a ridarle sicurezze perdute. Sentì le mani di un uomo che la accarezzavano con bontà. Si sentì persino amata come nella sua vita non era stata mai, ma le mancava la forza di assaporare tanta bontà. Stava seduta su quel pavimento, un po' curva su se stessa, e Francesco, di tanto in tanto, la risollevava e se la stringeva addosso, quasi per far rinvenire un corpo morto. Lentamente quel corpo era ritornato bello, ma era molto stanco, perché le poche centinaia di metri percorse per raggiungere l'albergo l'avevano massacrato di fatica. Inutile dire  che Francesco risentì tra le sue mani il corpo di Rina e avrebbe desiderato anche averlo un poco per sé, ma lei che cosa avrebbe pensato? Certamente che era stata tratta da quell'immondezzaio per un interesse egoistico, per averla come in quei due anni tanti l'avevano avuta: comprata a basso prezzo, posseduta e buttata via.

Francesco uscì dal bagno e aprì il suo piccolo fagotto, dove aveva solo tre cose per vestirla: due shari e una sotto­veste. Tornò con quest'ultima, gliela fece scendere lungo le spalle e lei se la accomodò. Solo a quel punto si alzò e sembrava un corpo umano. Francesco le porse poi il shari e lei lentamente lo indossò. A quel punto si stupì che quel giovane non le avesse chiesto di più, ma non riusciva a pensare: si stancava di più a pensare che ad accomodarsi il vestito. C'era pure un botticino di profumo. La festa doveva essere completa. Francesco le disse di aspettare ed uscì. Ritornò con del cibo: riso, dal e the. La sera le portò del pesce. Le disse di riposare: lui sarebbe tornato il mattino seguente.

Francesco andò fuori, dove a poche centinaia di metri c'era la stazione, e dormì là. Al mattino arrivò con una colazione un po' più ricca: ruti (pane) e verdure soffritte con uova e the. Si fermarono tre giorni, fino a che la donna, che si chiamava Pushpo, ebbe ripreso un poco le forze. Intanto Francesco le disse che sua moglie era morta e che quei due shari erano l'unica cosa che gli aveva lasciato. Disse pure che i suoi due bambini erano morti e a questo punto lei pianse a lungo insieme a lui. Poi Francesco le chiese se sapeva dove potessero essere i suoi tre figli ma lei rispose di non sapere neppure se fossero vivi o morti. Lui capì che non poteva fare di più per quella giovane donna e le disse: «Se vuoi, ti porto dai miei amici; ci potrai stare quanto vorrai».

Arrivarono così all'Ashram tra l'entusiasmo di tutti: «Francesco è tornato! Francesco si è sposato! Viva gli sposi!» Mothi sorrideva ma non chiedeva nulla. Presero il the. Pushpo distribuì ai bambini i biscotti che Francesco aveva comprato durante il viaggio e tutti furono contenti e si rallegrarono della visita, anche se più di uno aveva sperato che Francesco sarebbe tornato per restare sempre con loro. Chiesero a padre Mothi due capanne, e così tutti capirono che non erano sposati affatto, ma semplicemente la povertà e le disgrazie li avevano fatti incontrare ed erano venuti là per alimentare le loro anime tanto ferite.

Pushpo rifioriva ogni giorno e Francesco era felice. I giorni passavano in fretta e Francesco voleva sempre di più convertire tutto il mondo: avrebbe voluto che Firuz, Bantu, Ali,... potessero anch'essi fare nella vita l'esperienza di essere amati dal Dio dei cristiani, che è Padre, è Figlio, è Spirito Santo, è tutto. Ogni giorno, con padre Mothi, faceva revisione di vita e si appassionava sempre di più al mistero dell'esistenza. Cominciò a ricordare i «suoi morti»: erano tanti, troppi. Diceva rosari interi ogni giorno ripetendo: «L'eterno riposo dona a loro, e la luce eterna splenda ad essi», e ne ricordava non il nome ma gli spari del suo fucile, gli attacchi, le bombe scagliate. Poi scoprì la preghiera di Gesù: «Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me», e la ripeteva tante volte quante respirava. Infine incontrò una preghiera bellissima che diventò tutta sua:

 

«Padre mio, io mi abbandono a te,

fa' di me ciò che ti piace.

Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio.

Sono pronto a tutto,

accetto tutto,

purché la tua volontà si compia in me

e in tutte le tue creature;

non desidero altro, mio Dio.

Rimetto la mia anima nelle tue mani,

te la dono, mio Dio,

con tutto l'amore del mio cuore,

perché ti amo.

Ed è per me una esigenza d'amore

il donarmi,

il rimettermi nelle tue mani senza misura,

con una confidenza infinita, poiché tu sei il Padre mio». 


Preghiera di Charles de Foucauld. 

 

E ancora chiedeva al Signore:

«Fa' di me uno strumento della tua pace:

dove è odio fa' ch'io porti l'amore.

Dove è offesa, ch'io porti il perdono.

Dove c'è discordia, ch'io porti l'unione.

Dove c'è dubbio, ch'io porti la fede.

Dove c'è errore, ch'io porti la verità.

Dove c'è disperazione, ch'io porti speranza.

Dove c'è tristezza,ch'io porti la gioia.

Dove ci sono le tenebre, ch'io porti la luce

Oh! Maestro, fa' ch'io non cerchi tanto:

d'essere consolato, quanto di consolare;

d'essere compreso, quanto di comprendere;

d'essere amato, quanto di amare.

Poiché sì,

è dando che si riceve,

perdonando che si è perdonati,

morendo che si resuscita a vita eterna» 

Preghiera di san Francesco d'Assisi

 

Così ogni giorno comprendeva di più quel passo difficile del Vangelo: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà». Aveva sempre cercato disperatamente tanto e aveva perso tutto: ora che voleva dare tutto, sentiva di ricevere cento volte tanto.

Arrivò il 29 settembre. Ormai l'Ashram era aumentato di due persone, si era arricchito di tanta grazia e tutto in quella comunità era più bello. Quella sera Francesco disse a Pushpo, passandole accanto, come da tempo aveva cercato di evitare: «Domani vesti di nuovo l'altro shari, mi farai un regalo». Per tutto il mese, infatti, Pushpo aveva evitato di vestire i shari ricevuti da Francesco per non fargli rivivere ferite tanto profonde e aveva usato due shari rosa datile all'Ashram. Quando entrarono nella cappella, Francesco andò ad inginocchiarsi vicino a Pushpo. Non lo aveva mai fatto per tutto il mese. La messa fu semplice e solenne come sempre, ma nessuno osava chiedere a Francesco: «Dopo il mese che hai promesso di passare qui, che cosa farai?». Quando videro che si mise accanto a Pushpo, qualcuno pensò che forse avrebbe chiesto alla comunità, ufficialmente, il consenso per il loro matrimonio, perché tutti capivano che quando i due si incontravano gli occhi brillavano forte e quando uno parlava dell'altro era sempre con grande stima e ammirazione. La celebrazione era quasi finita; dopo la comunione Francesco estrasse un foglio e lesse qualcosa che aveva scritto precedentemente:

«Padre, io mi abbandono a Te, e desidero che questa comunità sia testimone del regalo che mi fai. Faccio promessa e voto di essere povero come Gesù sulla croce, a cui erano rimasti solo più due chiodi tra le mani e uno straccio per coprirsi. Lavorerò solo per i poveri, ma preferirò essere aiutato da essi. Faccio promessa e voto di castità, senza più una famiglia propria, per poter dire a tutti i bambini: miei figli, e per poter solidarizzare con tutti quelli che, pur avendolo desiderato, non hanno potuto sposarsi, o hanno perso la famiglia. A questi voglio poter dire: "Io pure vivo come te, solo, perché tu non senta più la tua solitudine". Faccio promessa e voto di ubbidire a tutto ciò che il Signore mi comanderà e mi farà capire per essere fedele a Lui fino alla morte. Amen».

Ci fu un battimani intensissimo e nessuno riuscì a trattenere le lacrime. Si alzarono e vennero ad abbracciare Francesco: in quella promessa era sottinteso che avrebbe appartenuto all'Ashram per sempre. Dopo la preghiera finale si alzò un canto che qualcuno aveva composto pensando a Dio:


«Dolce sentire come nel mio cuore

ora umilmente sta nascendo amore.

Dolce sentire che non son più solo,

ma che son parte di un'immensa vita

che generosa risplende intorno a me,

dono di Lui, del suo immenso amore.

Mi ha dato i cieli e le chiare stelle,

fratello sole e sorella luna,

la madre terra con frutti, prati, fiori,

il cielo, il vento, l'aria e l'acqua pura.

Dono di Lui, del suo immenso amore».

 

Tutti uscirono per la colazione, sorridenti e festosi. Pushpo era confusa ma contenta. Qualcuno avrebbe ancora voluto fare una domanda a Francesco, ma nessuno osò chiedere più di ciò che lui aveva detto. Durante la giornata Francesco ebbe un lungo colloquio con padre Mothi, ma nessuno seppe mai di che parlarono. Francesco ripartì di notte, mentre tutti riposavano. Prima di partire entrò in cappella e trovò sull'altare il foglio delle sue promesse. Volle aggiungere due righe dall'altro lato: «Amici, ringraziamo il Signore per tutto, amatevi sempre, ma specialmente amate Pushpo. Tutto ciò che farete per lei l'avrete fatto per me. Io sono sempre con voi. Francesco». Nella capanna il giovane lasciò tutto ciò che gli era stato consegnato in quel mese, i pochi soldi rimasti nel portafoglio al suo arrivo, i vestiti, tutto. Tenne per sé solo la gamcia che si mise ai fianchi, e null'altro: era il segno di voler essere scrupolosamente fedele alle promesse fatte.

Oggi sappiamo queste cose di Francesco perché all'Ashram un suo amico e confidente annotò tutto questo. Nei giorni seguenti probabilmente dovette chiedere l'elemosina fino ad avere un altro lunghi (una specie di gonnellone che tutti gli uomini usano in Bangladesh) e una camicia, dopo di che ritornò da Bantu. Non abbiamo nessuna notizia del suo arrivo e quanto tempo si sia ancora fermato. Sappiamo solo che fu espulso dal gruppo in quello stesso anno. Conoscendo l'entusiasmo del giovane Francesco, che avrebbe voluto irresistibilmente offrire la propria fede a tutti per vederli finalmente liberi, è ovvio pensare che avrà provato una seconda volta a proporre il messaggio cristiano, e questa volta fu espulso definitivamente. È probabile che Bantu e tutto il gruppo abbiano sofferto per questo, ma certo essi ebbero paura di venire scomunicati dalla grande tribù dei Bede, ormai tutti musulmani.

A questo punto ho perso le tracce del nostro Francesco. Non ho trovato documenti, né lettere di amici che lo abbiano incontrato. Non so come sia vissuto né dove, e neppure come sia finito a continuare la sua appassionata missione in Brasile. Scoprii che era passato di là quando anch'io andai a vivere con gli zingari in quel Paese per otto anni. Ma, prima di raccontare quella esperienza tra i nomadi circensi del Sud America, riprendo a dire ciò che so di Pushpo. L'ho incontrata nuovamente. In quell'angolo di mondo, nella meditazione, nella preghiera e nel lavoro, è diventata un'aquila di donna, con una spiritualità così solida e profonda da poter sfidare l'impossibile. Sulle orme di Francesco volle consegnare tutto a Dio, divenuto il suo Assoluto. Consacrò a Lui tutto ciò che aveva e che era lei stessa. Lesse anche lei quel foglio delle promesse scritto da Francesco, ma mise la sua firma; poi cambiò nome, come segno della sua volontà di essere una nuova creatura. La sua anima era la stessa del giorno in cui era stata trovata nel mucchio di immondizie a Dhaka, ma mentre là si era spenta, adesso era diventata un roveto infuocato di passione e amore, era ritornata ad essere donna e tutta di Dio, per il servizio degli altri, specialmente dei più poveri del mondo.

Dopo alcuni anni spesi nel servizio di quel Gesù buttato tra le immondizie come lei lo era stata tante volte, si accorse che la maggior parte dei cristiani aveva perduto la fede: essi infatti hanno una grande paura della morte, dettata dalla loro incapacità a credere che essa sia stata vinta definitivamente dal Signore della Vita. Inoltre non sono più convinti che Lui pensa a noi e si preoccupa di noi più di quanto si occupi dei fiori del campo o degli uccelli del cielo, che è Provvidenza ed è vivo in mezzo a noi. Pushpo decise così di chiedere all'Ashram di partire e predicare anche sulla strada che Lui è vivo. Decise di sfidare Dio ad occuparsi in­teramente di lei, perché la sua vita potesse servire di testi­monianza per i cristiani che non si fidano più di Lui. Partì con una piccola Bibbia ed un flauto, senza zaino, e nessuna riserva per il futuro.

Quando la incontrai camminava da sei anni. Ogni sera bussava a qualche porta, per chiedere ospitalità. A volte la porta si richiudeva e lei bussava ad un'altra. Quando doveva bussare a più case pensava: «Il Signore, questa notte, mi riserva qualche incontro speciale». Quando poi la porta si apriva ad accoglierla, rispondeva alle solite domande. Diceva di dove veniva, diceva che non stava andando in nessun posto particolare. Spiegava perché viveva sulla strada e ringraziava perché quella famiglia sarebbe stata per una notte il regalo che Dio aveva preparato per lei. Annunciava, se era possibile, che Dio non ci abbandona mai, anche quando sembra che l'abbia fatto, e che non ha altro da fare se non pensare a ciascuno di noi come fossimo l'unica creatura del mondo. Se lo chiedevano, diceva di non possedere più nulla eccetto la Bibbia e un flauto. Se volevano poi farle un'offerta, diceva con semplicità: «Datela a qualche povero più povero di me. Io non ho bisogno di nulla. A me pensa già Lui. Non mi ha mai lasciato dormire all'aperto, né ho trascorso una sera senza cena. Questa sera ha chiesto a voi di pensare a me (da parte sua)».

Un giorno un signore le chiese: «Non hai qualche soldo in banca?», e lei: «No, tu ne hai?» «Almeno un minimo. Un minimo di sicurezza ce la chiede il buonsenso». E lei: «Tu, quando hai bisogno di qualche soldo o un po' di questa sicurezza, come la chiami, devi andare in banca, fare la fila, vero? Spendi un mucchio di tempo. Da parte mia telefono a Lui. La linea della Provvidenza è sempre libera, perché quasi nessuno chiede nulla. Tutti pensano di aggiustarsi con le proprie forze, perché "non si sa mai, meglio mettersi al sicuro"».

Quando questa donna entrava in una casa, era una rivoluzione. La gente cominciava a confidarle i problemi, a chiedere consigli. Si accorgevano di avere accanto una roccia e spesso in un paio d'ore quella casa si frantumava, scossa da quel terremoto profetico, fatto di nulla, di semplicità, ma di una grande passione. Ogni mattina ripartiva nuovamente. Qualche volta, se un'auto con una coppia di sposi o una signora si fermava per darle un passaggio, accettava e normalmente andava fino alla città a cui erano destinati. In questo modo stava con loro e predicava le stesse cose a tutti: che Dio è vivo e pensa a noi in tutto.

Così passava la vita da una famiglia all'altra, aiutando gli uni a costruire solidamente la propria casa, gli altri a frantumarla fino all'ultimo mattone, se era costruita sulla sabbia. Non ho documenti in mano per dire altro di lei: forse è morta dopo tanta fatica, o forse continua a camminare. La potreste incontrare una sera qualunque, mentre bussa alla vostra porta.

AL CIRCO 

Quando andai a vivere con gli zingari del Brasile, mi incontrai con sorpresa e grande emozione con Francesco. Le notizie che avevo di lui risalivano a molto tempo prima. Egli era arrivato in Sud America come Fratello Missionario. Fratello del mondo, dei bambini, degli adulti, dei poveri in particolare, dei malati, di chi era sofferente, ma anche di chi sapeva cantare, giocare e fare festa. Era stato fratello dei musulmani, degli indù, dei buddisti: era un fratello universale. Incontrai in lui uno dei più preziosi amici della mia vita.  

Per il suo primo lavoro apostolico Francesco si era rivolto ad un circo. Precedentemente io avevo pubblicato un paio di pagine su quel circo: il circo più bello del mondo. Non è il Ringling, il Barnum, il Krone, né il Knie o altri. Con questi grandi circhi ha in comune solo la sinfonia luminosa dello spettacolo e l'abilità degli artisti. Come in altri circhi, si trovano in questo gatti, cani, volatili, scimmie, leoni, cavalli e tutto quel giardino zoologico a cui siamo abituati. Ma per nessuna di queste cose è il circo più bello del mondo. Ecco come è nato.

Un gruppo di artisti e di operai di circo si trovavano spesso per riflettere, per fare revisione di vita e per leggere quel libro tanto rivoluzionario che è la Bibbia, dove si parla spesso di oppressione, di schiavitù e di liberazione. Una sera (o meglio una notte, perché ci si riuniva dopo mezzanotte, terminato lo spettacolo), dopo aver letto una pagina dell'Esodo, un pagliaccio cileno disse: «É proprio così, i padroni portano tutti le scarpe numero quaranta». Un altro aggiunse: «Forse non è possibile che sia diverso». Un altro: «No, è possibile, ma di fatto è così».

In un altro incontro uno disse: «Se il padrone non tratta in questo modo, nessuno fa nulla». E un altro disse: «A noi non interessa molto questo circo, perché non è nostro. L'unico a cui interessa davvero questo circo è il proprietario. Noi oggi lavoriamo qui, domani là, dove ci pagano un po' di più e ci trattano meno peggio». Queste e altre cose cominciarono a brulicare nella testa di tutti e specialmente di uno che faceva anche parte della direzione. Nacque una domanda: «Non sarà possibile rivoluzionare tutto questo sistema? Se per far lavorare, il padrone deve gridare, sferzare, schiacciare, forse il punto debole è proprio nella proprietà». E da essa venne l'idea: «Perché non facciamo un circo noi? Chi ha più soldi li mette, chi ne ha meno mette la sua parte, chi non ne ha mette il lavoro come tutti: una specie di cooperativa». E la realizzarono.

Quando qualche mese dopo, il 18 aprile 1986, passai in San Paolo, incontrai all'ingresso del circo il direttore di ritorno da un'intervista alla televisione. Vestiva uno spezzato marrone di Pierre Cardin: certo non poteva vestire il camice come il veterinario che in quel momento stava curando uno scimpanzé malato. Ma a mezzogiorno tutti, il direttore e il distributore delle locandine, artisti europei e sudamericani, operai e tecnici, sedevano alla stessa tavola e mangiavano lo stesso cibo: una vera festa, pur nella fatica. E, ciò che era più rivoluzionario, ciascuno diceva: «Il nostro circo», perché di fatto lo era. Quel giorno pensai: «Se anche domani un temporale distruggesse tutto, o una bomba facesse sparire ogni traccia di questa meraviglia, il fatto che ciò sia esistito ha già gridato al mondo che lavorare nella libertà e nella dignità è possibile».

Quando Francesco arrivò per la sua prima missione in America Latina, anch'io mi trovavo in quello stesso circo. Scoprii là che anche i suoi nonni erano stati nomadi, ma verso gli ultimi anni della loro vita si erano sedentarizzati. Voleva fare qualcosa per il proprio popolo e, anzi, sentiva questo come dovere.

Anch'io da molti anni vivevo con gli zingari, e così ci accordammo subito su come lavorare. Trovammo nella Regola di san Benedetto lo spunto per cominciare: «Lavorare e pregare». Pensammo che, con il lavoro e la preghiera, con la nostra vita avremmo potuto testimoniare di vivere ciò in cui credevamo e che questo avrebbe potuto diventare la nostra predicazione.

Ben presto Francesco mi diventò maestro e io seguivo con entusiasmo i suoi passi. Di professione Francesco diventò pagliaccio e io feci lo stesso; durante la giornata, poi, dedicavamo diverse ore a dipingere i camion del circo, a fare riparazioni, ed eravamo così un po' i «tuttofare» in quella grande famiglia. Al momento di fare il contratto con il circo, ci eravamo riservati i tempi per la messa e le preghiere nei diversi momenti della giornata. La nostra era una vita da monaci, ma invece di coltivare un orto o fare qualche paziente lavoro di biblioteca, saltavamo e ballavamo in un circo.

Francesco, durante il lavoro, non perdeva nessuna occasione per parlare con gli altri, specialmente con gli operai, spesso incoraggiandoli, o semplicemente ascoltandoli o dando a volte il consiglio giusto al momento opportuno. Era un fratello maggiore per la sua esperienza e per la sua santità. Era stato curato in mille modi dalla Provvidenza e, pur essendo piccolo di statura e mingherlino, era di fatto un gigante di bontà. Di tanto in tanto lo trovavo fuori dal circo: in qualche momento di intervallo raggiungeva le famiglie del villaggio vicino o delle baraccopoli di periferia e là trovava il modo di solidarizzare con loro, con intelligenza, fantasia e cuore. Ogni domenica, poi, il tendone del circo diventava il tetto di una bellissima chiesa dove tutte le famiglie circensi e gli operai saltuari si riunivano per la celebrazione dell'Eucaristia. Si cantava, si predicava, si pregava per sé e per tutti. Durante la settimana il catechismo per i più giovani, incontri biblici e revisioni di vita per gli adulti, tracciavano un vero cammino di fede per tutti.

A questo punto vorrei accompagnare il lettore nel circo e precisamente dietro il grande sipario del picadeiro nell'angolo dei pagliacci: là ci si trucca, si parla, si aspetta, si assistono i colleghi; là durante lo spettacolo ci siamo noi: Francesco, Sombrero ed io. Dal punto di vista professionale Francesco è diventato un circense insuperabile nelle vesti di un pagliaccio pieno di allegria.

«Francesco, non distrarti troppo, altrimenti invece di pitturare gli zigomi e le labbra, sporchi i baffi. E infatti devi già correggere un poco questa truccatura distratta».

«Un po' di matita... il talco...: tutto pronto».

«E Sombrero è pronto?»

Si alza il coperchio di un gran baule e sbuca fuori lui: Sombrero. Bisogna spendere qualche parola su questo pagliaccio. Piccolo, magro, brutto, è simpaticissimo al pubblico e capace di diventare un grande amico se avete un po' di pazienza e tolleranza. E capace di pensare e di tanto in tanto scrive su un diario qualcosa che poi mi fa leggere: quelle righe, devo riconoscerlo, mi aiutano a capire la vita del circo. Sombrero mi passa i suoi ultimi appunti e io leggo: «E ora che non ho più lo specchio davanti, con chi posso parlare? È sempre un momento di emozione prima dello spettacolo il tempo della maschera, del trucco: mi posso vedere nello specchio, posso parlare con qualcuno che veramente mi capisce. Posso vedere quello che è la mia faccia e come la vedono gli altri, già deformata con quel grande naso rosso, le orbite degli occhi bianche, gli zigomi di rosso leggero, le labbra bianche, il tutto ben contornato da matita pesante. Davanti allo specchio posso dialogare un po' con me e con Sombrero che è sempre una parte di me: il pagliaccio del circo».

Sono interrotto nella lettura da Francesco il quale grida sotto voce: «Già stanno suonando l'ouverture e io sono ancora senza scarpe. Oh hop! E le scarpe? Già capito, non c'è da cercarle dove non sono, e se fosse tanto facile trovarle non sarebbe stato uno scherzo ben riuscito. Questi scherzi non mi inquietano, fanno parte della vita dietro le quinte. E poi, non devo nemmeno pensare alla vendetta, perché ho già restituito cento volte tanto. Entrerò in scena senza scarpe e nessuno penserà che è un errore, uno scherzo, una disattenzione mia, ma penseranno tutti che è il mio modo di fare il pagliaccio in questa scena».

Come Francesco entra sotto il faro nel picadeiro, è uno scroscio di applausi prima che inizi a parlare o fare qualsiasi mimica. Con la sua simpatia, con quel sorriso idiota e con gli occhi stupiti di un bambino che vede per la prima volta un fiore, con le mani, le spalle, le ginocchia di chi fa i primi passi e si butta a camminare nel vuoto, sperando di incontrare le braccia della madre, o sarebbe meglio dire una marionetta a cui si sono rotti i fili, ecco, all'incirca così fa la sua prima apparizione, e tutti cominciano a ridere, ridere, ridere e forse a dimenticare per un momento i fardelli della vita spesso troppo pesanti.

«Amici, colleghi, popolo, nazione! Adesso io salgo in cima a quella scala in equilibrio su una mano di Tonce e lassù in cima farò tre salti mortali con piroetta terminando sul paletto di destra, no! quello di sinistra, con la testa in giù».

Francesco parte per la rincorsa ma una serie di avventure gli impediscono di iniziare la famosa scalata. Risate a non finire e applausi, poi termina così:

«No, no! Non lo faccio, non faccio i salti mortali, né la piroetta, né niente! Perché... poi pensate che lo faccio per farmi vedere!»

Ancora un grande applauso, mentre entrano i cavalli bianchi con il domatore tedesco Walker: i cavalli a due, a tre, a sei, fanno ogni sorta di esercizi, poi in piedi su due zampe, per terminare con un bellissimo valzer di Strauss. Quei cavalli sembrerebbero degli appassionati di musica se non fossero solo gli esecutori degli imperativi inflessibili di Walker. Eleganza e bellezza tra luce, musica e la poesia del circo. Il numero termina con grandi e meritati applausi, mentre i cavalli escono, ma già al centro del picadeiro c'è Francesco, che con ampi gesti ringrazia per tutti quegli applausi; poi si rivolge al presentatore dello spettacolo e chiede:

«Da che cosa si giudica l'apprezzamento di un artista?»

«Dagli applausi, ovvio».

«Ebbene, hanno lavorato in sette per quattro minuti e... niente applausi; sono arrivato io... visto?»

E fa per andarsene, ma poi ritorna in compagnia dei due colleghi per divertire con la sua arte. Questa volta solo gesti senza parole e un gran ridere del pubblico affascinato da tanta simpatia.

Intanto viene posto in tensione il filo per «arame d'altura»(Fune d'acciaio posta in tensione su cui gli artisti del circo si esibiscono) e già si cominciano a slegare gli elefanti per preparare la grande parata. Normalmente Francesco quando lavorano gli altri artisti riposa, ma quando ci sono bambini che lavorano li segue con i suoi occhi per poi commentare con loro come è andata. E ora sul filo di metallo teso a grande altezza ecco i Seicovic con Romina (ha otto anni e già è una grande artista!). Su, a quattordici metri di altezza, i genitori di Romina camminano sul filo tenendo una lunga stecca d'acciaio sopra la quale la bambina, con la testa in giù e tutto il corpo sospeso nel vuoto, sembra sentirsi sicura, non tanto perché ha l'invisibile cavo di protezione, ma per la sicurezza che danno papà e mamma. Essi una volta erano caduti da quell'altezza, spezzandosi ossa e tendini e scheggiando la spina dorsale, ma per la volontà di ricominciare appena sette mesi dopo ripetevano un'altra volta il numero, con altrettanta abilità, eleganza ed arte. Francesco li segue dal camerino dei pagliacci: salti mortali, piroette, piramide, tutto su quel filo in tensione. E gli spettatori sporgono il collo sempre più in avanti, partecipando a tutto questo insieme di arte, tensione, rischio, coraggio: il coraggio del circo.

Francesco guarda con distensione queste cose, perché le sa fare anche lui: infatti qualche tempo prima aveva lavorato in un circo piccolo nel quale doveva fare l'acrobata, l'equilibrista, l'acrobata a cavallo, il trapezista e naturalmente il pagliaccio. Il circo piccolo stancava di più, era quasi massacrante, ma c'era un'altra partecipazione. Il circo grande certo richiede alta professionalità, dà una gratificazione diversa, ma è più spersonalizzante; se uno vuole si può isolare e morire d'inedia.

Intanto arriva l'intervallo. Secondo tempo: i numeri si susseguono sempre più belli, sempre più difficili e sempre più appassionanti; tutti conditi dal sale e dal pepe di Francesco. Ed ecco l'ultimo ingresso dei pagliacci per annunciare il finale: una tromba con una musica triste taglia improvvisamente l'aria e nella pista entrano i pagliacci, non più per far sorridere, ma per lasciare quella nostalgia un poco amara di uno spettacolo finito, e il desiderio di tornare. Il presentatore intanto dice: «In un mondo dove il divertimento è basato sulla violenza, sul sesso e la pornografia, il circo è rimasto puro come gli occhi di un bambino. È rimasto quello spettacolo che ogni padre vuole vedere con suo figlio vicino, dando l'ambizione ai bambini di sentirsi già adulti, e la fortuna agli adulti di sentirsi ancora bambini. Buona notte, e arrivederci al circo!» E ora gli artisti tornano nel picadeiro per il loro ultimo saluto. Sfilata degli artisti, musica e l'archibancata si svuota, le sedie, le poltroncine, tutto rimane vuoto e disordinato.

I luoghi sacri di quella liturgia tanto solenne, il palco, il picadeiro, sono attraversati dai tecnici, dagli operai, dal direttore tecnico, che passa a dare uno sguardo se tutto è regolare... Francesco si è già tolto la maschera e il trucco e sta facendo il bagno. Qualcuno ritorna dal bar con un paio di birre da bere con gli amici; chi aveva esercizi eccessivamente pesanti sta cenando solo adesso. Non si grida più, radio e televisori hanno abbassato il volume. Di tutti quei fari e lampade restano solo accese le luci di sicurezza. Si parla sempre più piano, perché i bambini stanno già dormendo. «Buona notte, buona notte». Ci si scambiano gli ultimi saluti e il circo si addormenta. 

Mentre alla domenica si riuniva tutta la famiglia circense a celebrare la fede cristiana, nei giorni feriali, o meglio, nelle notti ci riunivamo solo Francesco ed io. Tra i tanti monolocali viaggianti e le roulotte e i carrozzoni, noi pure avevamo uno spazio che riservavamo specialmente a questi momenti. Leggere la Bibbia, in particolare i Salmi, meditare e celebrare l'Eucaristia rendevano questo tempo il più prezioso della notte. Proprio mentre i bambini stavano tornando a casa dallo spettacolo del circo, ricordando la nostra faccia truccata di pagliacci e forse continuavano a ridere dormendo e sognando, noi, Francesco ed io, eravamo là a ringraziare il buon Dio per la vita di ciascuno, degli adulti e bambini che erano diventati un po' come i nostri figli. Eravamo là a chiedere perdono per noi e per loro, specialmente per chi non sapeva che esiste un Padre in cielo che ci può perdonare. Eravamo là a fare da ponte tra noi, i nostri fratelli, sorelle, figli e il cuore di Dio.

Il nostro programma era di seguire un paio di mesi quel circo, poi passare ad un altro, ad un campo di zingari, di giostrai, in una parola accompagnare tutti quei gruppi umani che, a causa del nomadismo, non potevano avere facile accesso alla scuola o a una comunità cristiana con cui celebrare i momenti importanti della vita.

Ho passato molte ore con Francesco, ma anche con Sombrero, specialmente mentre si pitturavano camion o attrezzi, mentre si beveva il mate (Il mate è una bevanda molto comune in tutta l'America Meridionale; si ottiene ponendo in infuso le foglie essiccate, torrefatte e macinate della pianta omonima) si pranzava e cenava. Francesco e Sombrero si trovavano molto bene insieme perché entrambi di famiglia zingara, come gran parte dei circensi. Una sera Sombrero, dopo una lunga chiacchierata con Francesco e con me sui nomadi, sugli zingari, sui circensi, ci diede da leggere il suo diario di appunti (penso avesse l'intenzione di scrivere un libro).

«Se dovessi scrivere la mia storia, comincerei dai miei antenati che vivevano in Europa, scorrazzando su e giù nella penisola Iberica; poi dalle Alpi giù fino ai Carpazi: posti tanto belli, ma anche tanto poveri. E penso che proprio per questo motivo i nonni dei miei genitori viaggiarono molto in quei Paesi. Erano zingari come lo sono io, e a questo mio popolo non interessano troppo le ricchezze. Noi preferiamo un posto dove ci sono amici a un posto dove si guadagna molto. Preferiamo i fiori ai frutti. Certo, dobbiamo vivere, ma senza troppa preoccupazione di accumulare. Sappiamo che qualcuno si preoccupa di noi più di quanto ci preoccupiamo noi di noi stessi. Questo qualcuno dà da mangiare agli uccellini e veste tutti i fiori dei boschi e poi pensa ancora a noi zingari. Bisogna aggiungere che i gagè (Così gli zingari chiamano coloro che non appartengono al loro popolo) già pensano loro a se stessi, quindi il buon Dio ha molto tempo per oc­cuparsi di bestioline, fiori e zingari. Dunque, parlando del­la mia storia, vorrei partire da quel Paese povero ma bello, dove l'inverno è molto freddo, ma gli occhi e il sorriso della gente sono molto caldi. Vorrei parlare di questi zingari, delle loro feste attorno al fuoco, lontani da tutti e spesso perseguitati, e alle feste di corte, perché noi zingari, stranamente, nella nostra storia abbiamo partecipato alle une e alle altre. Vorrei andare ancora un po' indietro, ai grandi capi zingari Vaivoda e prima ancora, a mille anni fa sulle rive dei fiumi, nella mia Terra Madre, l'India, per vedere se incontro ancora qualcosa di mio, là, in quella terra tanto lontana. E sì,... trovo ancora lo scuro colore della pelle, ritrovo fisionomie di volti parenti, ritrovo la lingua, ma specialmente un'anima orientale che dopo mille anni non si è ancora accostumata all'occidente più freddo, né all'America anche tanto diversa. Ma perché noi siamo venuti via? Perché siamo andati in Europa, perché siamo scesi a sud a fraternizzare con i turchi e perché siamo venuti in America a disturbare i figli degli Incas, degli Aztechi e dei Maya e poi anche a fraternizzare con qualcuno di loro? Se qualcuno risponde a queste domande certo non è uno zingaro né un circense».

Mentre stavamo leggendo insieme queste righe Francesco s'interruppe e disse:

«Hai ragione, Sombrero. Troppa gente ci tratta come zotici e analfabeti. Sì, è vero che alcuni, specialmente tra i più anziani, non sanno scrivere, ma tutti sappiamo leggere: sappiamo leggere la mano e specialmente gli occhi, quando la stretta di mano è sincera o falsa, quando lo sguardo è innocente o malizioso; sappiamo leggere tutte le linee del viso e riconoscere la bontà, ma non ci sfugge la perfidia. Oltre che le mani, gli occhi, il viso, sappiamo leggere anche i piedi: i passi dell'amico che viene e il serpente che cammina alle spalle con l'insidia. Ci siamo abituati a leggere tutti i sentimenti e i desideri: siamo diventati specialisti in umanità. Quando faccio spettacolo e guardo il mio pubblico, rido e piango, canto e grido, parlo e cammino sempre in modo diverso, perché la gente, i bambini che mi osservano sono sempre diversi e io non ne posso perdere nessuno».

Quando Francesco ti guarda con i suoi occhi di bambino ti disarma e la parte più rude, più cruda e spinosa si scioglie e senti rinascere in te l'innocenza. Conversammo un poco e con Francesco riprendemmo a leggere quasi ad alta voce:

«E dopo questa distrazione di mille anni, mi trovo qui, povero Sombrero, nella mia piccola casa viaggiante dopo uno spettacolo, dopo aver conversato con tanta voglia di sognare. La mia faccia è tornata quella che si incontra qui nel circo durante il giorno, un poco triste, ma triste perché? Forse perché io non sono un pagliaccio, ma mi limito a farlo. Devo, tutti i giorni, truccare la mia pelle, altrimenti non esplode tutta quella allegria; io invece vorrei che la mia pelle fosse del colore del trucco e il mio naso grosso e rotondo come quello di plastica rossa che mi appiccico prima di ogni spettacolo. I vestiti, pure, vorrei che fossero sempre quelli del pagliaccio, per sentire esplodere ogni momento attorno a me la festa dell'allegria. E invece io non sono solo Sombrero, ma sono anche un figlio, un marito, un padre, con responsabilità e problemi come tutti i miei colleghi che lavorano nella mia stessa fabbrica di allegria e divertimento che si chiama: circo».

Bene, Sombrero, se scrivi un libro noi andiamo a venderlo: buona notte! 

Sono le sette del mattino e chi non ha il sonno a prova di bomba è svegliato dalle urla dell'ammaestratore di cavalli. Nessuno si spaventa di quelle urla, ma gli animali le temono, perché assieme al suono può arrivare la frusta. I sei cavalli fanno di tutto: saltano, camminano su due zampe, salutano e risalutano il pubblico, si intrecciano nei loro movimenti a ritmo di musica perché i segni dell'ammaestratore, con lo schioccare della frusta, sono ben significativi. Da alcuni mesi questo carissimo conoscitore e appassionato di cavalli sta preparando un cavallo arabo con il fantino ad eseguire un numero di alta categoria circense: si tratta di un ballo della massima eleganza. Durante le ore di addestramento hanno legato le gambe anteriori a due funi tenute da due uomini pazienti. L'ammaestratore impartisce gli ordini che sono urla rigorose, il fantino dà un segnale al cavallo e i due aiutanti accompagnano con le loro funi il movimento delle zampe. Il numero è già impressionante ora, dopo sei mesi di questo paziente lavoro. Fra un paio di mesi sarà tutto pronto e nella pista si slegheranno le funi alle zampe, spariranno gli aiutanti con l'ammaestratore e resterà il solo cavallo con il fantino. Esploderanno fasci di luci colorate e l'irrompere di una musica rigorosa che il cavallo accompagnerà con la massima eleganza, alla guida del fantino, e il tutto sarà un momento di grande spettacolo.

Francesco oggi assisteva seduto sull'archibancata, forse progettando un numero comico da inserire dopo questi minuti di grande prestigio. Intanto sono arrivati alcuni giovani lavoratori per montare la gabbia dei leoni perché oggi alle nove il domatore dovrà iniziare a lavorare con tre leonesse di pochi mesi. Il domatore è già provvisto di forca, frusta e pezzi di carne. Egli sa spaventare e guidare l'animale, comandare con forza e invitare, usare frusta e delicatezza e tutto questo con molta passione. Dopo sarà la volta degli esercizi sul filo di metallo alto, mentre la figlia di Sombrero comincerà gli esercizi di contorsionismo a lato della pista su un piccolo tavolino tutto cromato. La maestra della bambina è la stessa madre che fu una brillante trapezista, ballerina e contorsionista. La pista sarà occupata fin verso mezzogiorno: poi la pausa imposta dall'impossibile calore. 

Ancora dagli appunti di Sombrero:

«Mi allungano le mani, in migliaia, ma tutti oltre la pista e nessuno mi può raggiungere. Sì, è vero, ubriachi di allegria battono le mani, ma nessuno stringe le mie. Tutti mi sentono, ma nessuno mi sa ascoltare e percepire le mie grida di uomo. Nessuno ha il diritto di vedermi piangere, perché la mia fabbrica di festa non lo permette, e nessuno ha il diritto di percepire da vicino i miei momenti di solitudine, le mie paure, le mie insicurezze, perché la mia vita è insicura. A volte sono più spaventato e tremante di un condannato a morte: almeno lui sa di morire, io invece ho il dubbio di vivere e quindi la paura di non saper fare questo lavoro tanto difficile e carico di responsabilità che non è fare il pagliaccio, ma vivere davvero dietro questa maschera di colori bellissimi...»

«Sombrero! E ora, smetti di scrivere le tue storie!»

Giustamente la moglie lo ha richiamato al lavoro, perché manca poco all'inizio dello spettacolo. Questa sera, come tutte le sere, c'è qualcosa di nuovo. Le sedie si stanno riempiendo. Gli occhi dei bambini e non meno quelli degli adulti sono già puntati sul picadeiro mentre quasi a tentoni cercano una sedia adatta, nella posizione migliore, per vedere tutto e il più vicino possibile. Anche le persone più tese e nervose, entrando sotto lo chapiteau ­(è il grande tendone del circo, generalmente in plastica pesante, che di norma si chiude a cupola rotonda o ovale) , si rasserenano, perché il circo ha questo potere magico: i colori, l'odore della segatura o meglio della resina, l'odore della stalla, l'avvicinarsi a qualcosa di selvaggio e primitivo, danno un' emozione nuova che la vita troppo agitata ha spento. Si sono appena spenti i fari e rimangono accese le sole luci di posizione.

L'orchestra inizia con un irruzione di suoni, poi continua in un assolo di tromba: si accende un faro a lato della pista su un mucchio di paglia. La paglia comincia a muovere come se stesse bollendo in una pentola, finché una parte cade a corpo morto nella segatura e un'altra parte ha preso forma. Paglia a forma di che? Del mio collega Francesco! È lui, non può essere che lui! Si dirige verso il centro e, vedendo un tondo luminoso nella pista, come una luna piena dipinta per terra, fa un salto per afferrarla con le mani, ma l'operatore ha già spostato il faro «occhio di bue» un metro più in là e così la palla di luce è sfuggita. Francesco salta un'altra volta per afferrarla, ma nuovamente l'operatore ha spostato il fascio di luce. L'orchestra incalza con un ritmo veloce e Francesco rincorre la palla di luce proiettata sulla pista, salta, fa piroette, un salto mortale in avanti, uno all'indietro, fa di tutto per prendere di sorpresa il pallone di luce, che sfugge ogni volta. Applausi, grida! I bambini impazziscono e gli adulti cercano di nascondere il loro entusiasmo per una cosa tanto semplice, quasi banale, ma eseguita con tanta arte.

Francesco ha afferrato il pallone di luce: estrae con velocità una specie di coltello e fa per tagliare quella torta di luce; con il gesto della mano prende una fetta e la lancia nello spazio di destra, dove si accende un faro, poi un'altra fetta a sinistra, davanti, di dietro, un'altra in direzione del palco, un'altra verso la cupola e ad ogni gesto si accendono i fari e la torta di luce perde sempre una fetta fino a sparire e il circo è pieno di luce, tra la musica, gli applausi e il sorriso più ingenuo che possa esistere al mondo sulla grande bocca di Francesco.

Il presentatore è già entrato, il pagliaccio è sparito e lo spettacolo è iniziato con solennità. Adesso Francesco ha un po' di tempo e si è seduto nel suo carrozzone per riposare; intanto rombano le tre motociclette giapponesi nel globo della morte e il presentatore spiega il rischio che i tre artisti correranno inseguendosi, alternandosi e incrociandosi alla pazza velocità del «globo» senza poter sbagliare, altrimenti la penalità sarebbe un incidente grave per tutti. I tre che stanno per iniziare la corsa in quel guscio di uovo hanno avuto incidenti gravi già molte volte, ma con la forza della volontà e della disperazione sono riusciti a tornare in pista. Non solo il pubblico stringe i denti e serra le spalle, ma anche i tre artisti sentono la paura per il rischio, e la sentono ogni volta che ripetono il numero.

Intanto Sombrero ha aggiunto poche righe ai suoi appunti prima interrotti:

«Come è difficile essere gente

come è difficile essere gente del circo

come è difficile essere pagliaccio

come è difficile essere Sombrero!» 

Francesco era appena uscito dalla pista, dopo una comparsa brevissima all'inizio del secondo tempo dello spettacolo: era un numero buffissimo, fatto a lato della gabbia dei leoni. Adesso stavano entrando i leoni veri, quelli che spaventano i piccoli e i grandi e, bisogna pur dirlo, a volte anche il domatore.

Erano sette tra leoni e leonesse: ciascuno era salito su uno sgabello e il domatore al centro, vestito di colore e fantasia, era pronto per lo show. Il domatore era passato vicino ad alcuni dei felini e aveva fatto schioccare la frusta, per ricordare con la forza, a quei piccoli cervelli, che era ora di obbedire. Denti e unghie di leoni penzolavano al collo e alle spalle del domatore come bigiotteria molto appropriata. Cominciarono il numero due leonesse, passando su un'asta di equilibrio. Poi, dopo essere state in equilibrio sulle zampe posteriori, fecero un salto contemporaneo, incrociandosi, da uno sgabello all'altro. Applausi. Si accese un grande globo di fuoco, si spensero tutte le luci e all'imperativo del domatore la leonessa saltò passando nei cerchio infuocato. Poi i leoni si sedettero a terra, ma uno faceva l'indisciplinato; sembrava terribilmente pericoloso, ma la frusta del domatore lo piegò; infine divenne più mansueto, si lasciò prendere in spalla e trasportare su due piccoli sgabelli, poi si stese e il domatore appoggiò la testa su di lui come per un riposo pomeridiano. Infine la testa del domatore entrò nella bocca del leone. Quando il domatore uscì da quelle fauci, gli applausi lo consacrarono idolo dello show, re dei leoni e ipnotizzatore di un pubblico di tremila persone.

Mancava l'ultimo numero di grande effetto, in cui una leonessa cavalcava un cavallo con tanto di briglie: numero che dimostra a che punto può arrivare quest'arte circense. Ma pochi secondi prima di questo numero finale un leone sfuggì al controllo del domatore; leoni e leonesse cominciarono ad azzannarsi tra di loro: Era la fine del mondo. Non c'era più frusta né forca che li potesse fermare. Quando un leone, con una zampata, tolse la forca di mano al domatore, non ci furono più speranze. Il leone si buttò addosso a quell'uomo che, per non dargli la testa, gli diede la mano: le unghie dell'animale cominciarono ad entrare nella carne e il sangue a coprire il domatore. Si gridò dietro le quinte del circo e tutti arrivarono ad assistere indifesi alla morte del re dei leoni. Le tremila persone rimasero inorridite ma anche «quasi divertite» per essere spettatori eccezionali di uno dei momenti più tragici del circo (già migliaia di romani si erano divertiti duemila anni prima nel vedere lacerare dalle belve uomini simili a loro). La lotta del domatore con il leone era durata oltre un minuto e mezzo, al punto da provocare ferite per più di 270 punti di sutura. Fu in questo momento che Francesco, senza essere mai entrato in una gabbia di leoni, ma appassionato della vita e specialmente di quella di un collega che la rischiava tutti i giorni, aprì la porta e, senza frusta e senza forca, entrò, prese quel povero uomo quasi dilaniato e lo tirò fuori senza pensare alla sua vita: è la legge del circo che chiede coraggio. Ma la tragedia non terminò a questo punto, perché tirando fuori il domatore, uscì pure il leone aggrappato a lui e a quel punto il pubblico fu preso dal panico: la gente cominciò a gettarsi giù dalle archibancate e sarebbe davvero capitata una catastrofe. Francesco, con sangue freddo, prese il microfono e, con voce di attore che sa tradire i sentimenti, cominciò a gridare: «Gente! Ma siete impazziti? Questo è lo spettacolo! Pensate che il leone abbia ferito il domatore? Era vernice e sugo di pomodori! Ah, ah, ah! Ci avete creduto davvero? Questo è lo spettacolo del circo! E il leone che vedete camminare qui fuori della gabbia è ammaestrato e sa benissimo quello che deve fare». Per fortuna il leone voleva solo rientrare nella sua gabbia e non aveva nessuna intenzione di continuare a dare spettacolo, altrimenti non so come Francesco avrebbe concluso lo show. 

In seguito mi separai da quel circo per raggiungere un accampamento di zingari Calão (Calão è il nome di un grande gruppo di zingari che dall'Europa raggiunsero il Brasile circa quattrocento anni fa), e ripassai a salutare Francesco il giorno in cui anche lui si sarebbe congedato dallo stesso circo. Lo vidi solo alla chiusura dello spettacolo. Entrò sotto un unico faro di luce, estrasse una matita dal taschino, se la portò alla bocca con solennità e cominciò a maneggiarla come se fosse un flauto; e un flauto vero, dietro il sipario, suonò le nitide note del Silenzio. Quella matita pareva un mini flauto vero, tanto era usata con arte. Quando Francesco fu al centro della pista staccò la matita dalla bocca; con un gesto rapido la collocò tra le due dita e diede il segnale all'orchestra che entrò con tutti gli strumenti. Così la matita diventò una bacchetta nella mano del pagliaccio-direttore d'orchestra; e quando la musica diventò troppo solenne, quasi patetica, Francesco estrasse un taccuino e cominciò a scrivere qualche autografo, che distribuì tra gli applausi di un pubblico ubriacato da quell'arte circense che esiste solo là, sotto la grande tenda.

IL CORVO DI BADAURRI

A questo punto il racconto continua dando la parola allo stesso Francesco. Riporto l'unico documento da lui scritto di cui sono a conoscenza. In esso Francesco racconta in prima persona di quando passò per Morsabit, in Kenya, arrivando dal Brasile e visitò una missione nel deserto.  

    Mi trovavo all'ombra di un arbusto spinoso, quando avvertii un comportamento per lo meno strano tra uno stormo di corvi, che giocava a vivere sulle ombrellifere della piccola valle. Là le piante non sono molte, circa una ventina, e in quel deserto si ubriacano due volte l'anno, nella stagione delle piogge, e lungo gli altri mesi riescono a vivere con un minimo di humus dando l'impressione che quel piccolo fazzoletto di pietre e sabbia non appartenga al deserto stesso. Le capre e i bovini dei nomadi Gabra sostano spesso nella zona e passano volentieri sotto quella specie di ombra, nelle ore impossibili del mezzogiorno.

    Mi ero intanto avvicinato alla daddacia più grande, (Pianta alta da quattro a sei metri, abbastanza comune nella savana e rara nel deserto) dove un corvo sembrava voler familiarizzare con gli altri senza riuscirvi. Pareva straniero in mezzo ad essi e ciò che mi sorprendeva di più non era il fatto di vedere un corvo solitario, ma un uccello che cerca di mettersi in mezzo ad uno stormo provocandone lo scompiglio e l'improvviso diradamento: questo non l'avevo mai visto. Esternamente l'unica differenza fra quell'uccello e gli altri era che l'uno era tutto piume e ossa, mentre gli altri erano visibilmente ben nutriti.

    Mi coricai sulla sabbia che bruciava e guardai con intensità, cercando di capire ciò che capitava sui rami di quell'ombrellone color verde bruciato. Ad un certo punto, due occhi lucidi, dietro un becco opaco, tra le piume arruffate, fissarono nella mia direzione. Il sangue mi scoppiò nelle vene. Mi sembrò all'improvviso di aver risolto l'enigma del corvo rifiutato, anche se, probabilmente, non avevo ancora capito nulla. «Ovviamente», pensai, «se mi guarda, si è accorto che mi sono interessato a lui, e se è rifiutato dagli altri c'è una possibilità in più per diventare amici». Pochi metri ci separavano; restammo per qualche minuto così, ad interessarci l'uno dell'altro, primo passo per comprendere le nostre lingue diverse. Improvvisamente si tuffò verso di me, come ci si getta affamati su di una preda, ma non mi spaventò, tanto è vero che non spostai di un centimetro il viso. A un metro di distanza da me aprì le ali, per uno stop improvviso. Allungò le esili gambe, restò fermo a trenta centimetri di altezza, sospeso, poi si calò, come nessun danzatore sa fare. Finse di cercare alcune bacche su un ramo di spine e non tardò neppure un minuto a guardarmi ancora, per spiare le mie reazioni. Bisognava instaurare un dialogo e, avendolo provato nelle situazioni più diverse, tentai anche con lui.

    Tirai fuori un'arancia dallo zaino e cominciai a sbucciarla sotto i suoi occhi. Raccolsi le bucce in una mano e con disinvoltura mi portai alla bocca due spicchi; poi lanciai a distanza le bucce, sulle quali si ammucchiarono una trentina di corvi che luccicarono sotto il sole in un brulichio di riflessi. Quindi, con calma, presi altri due spicchi e li porsi al mio vicino. Volevo che si rendesse conto della mia preferenza per lui. Non mi lasciò posare gli spicchi: ancora sulle dita li afferrò con robustezza. Questa fretta mi stupì e la compresi solo quando lo vidi decollare, con irruenza, verso lo stormo nero... Svoltò... scivolò in mezzo, lasciò gli spicchi e gracchiò per condividere, come fa la chioccia con i pulcini, e beccò ripetutamente per invitare gli altri, ma questi si erano già scostati, portandosi tra i becchi qualche pezzo di buccia. Nemmeno questa volta ero riuscito a familiarizzare, pur avendo offerto un regalo così ricercato.

Il corvo tornò indietro con gli spicchi nel becco nero e si avvicinò con la stessa classe di prima, per nulla disperato, ma certamente dispiaciuto. Io allungai la mano senza spaventarlo e dal becco staccai uno dei due spicchi più volte beccato, ma dagli altri non condiviso, a causa dell'incomprensibile rifiuto. Lo portai alla bocca e solo a quel punto vidi il mio vicino risistemarsi il pezzo di frutto rimastogli come boccone amaro e mangiarlo con soddisfazione. Staccai altri due spicchi, uno per me e l'altro per lui, poi altri due: e così, uno a lui e l'altro a me, terminammo il frutto, iniziando a parlare in quella lingua internazionale che troppe persone si sono rifiutate d'imparare o hanno dimenticato. Saltellò ancora lì intorno per un po' e forse pensò di essere indiscreto, per cui risalì ad intrecciare ancora una fune di voli con gli altri corvi; la fune però si strappava sempre. Eppure cantava come gli altri, con la stessa voce, gli stessi suoni; come mai quell'incomprensione? Ad un certo punto lo stormo si radunò nuovamente sulla pista della daddacia, gracchiando in un coro disordinato e si tacque. L'unico suono che sentii proseguire fu quello dell'amico e questa volta, con mio stupore, venne ascoltato.

    Ormai la sabbia dietro la schiena si era raffreddata e stavo meglio. In quella posizione mi riusciva difficile tenere gli occhi aperti, ma furono così grandi lo stupore e la volontà, che mi fecero vincere anche i raggi violenti del sole e rimasi con gli occhi sbarrati e le orecchie tese. Qualche minuto dopo, però, due degli uditori volteggiarono sulla sabbia, all'ombra della stessa pianta; poco dopo altri quattro si spostarono su un'altra delle piattaforme vuote e subito altri due e ancora sei, sette si alzarono nel vento. Così ancora una volta Naghè, il corvo di Badaurri, restò solo. Non avevo più il coraggio di guardare e quando vidi che gli ultimi rimasti stavano spiccando il volo, mi girai sul mio corpo e finsi di dormire. In alcuni momento l'ami­cizia chiede di non essere presenti, specialmente quando l'affiatamento ha bisogno di essere ancora approfondito. Restai un poco in quella posizione e quando mi alzai guardai attorno come per cercare l'amico, in modo che vedendomi non restasse deluso di un mio disinteresse. Ripartii per raggiungere la bisaccia d'acqua, il sacco a pelo, qualcosa da mangiare, il necessario per vivere anche nel deserto.

    Avevo trascorso la notte a trecento metri circa dalla pianta che ospitava il mio nuovo amico. Tutta la notte egli aveva lottato immobile, in equilibrio, con il becco puntato ad est, contro il vento dei monsoni. Il mattino lo trovai pettinato, con il suo colore nero-blu metallico e, ciò che lo ingentiliva, un particolare che precedentemente avevo trascurato: una fascia bianca a due punte sulla schiena. Divisi con lui il solito frutto e subito riprendemmo a dialogare. A questo punto volevo dire molte cose a lui e certamente lui a me. Dovevamo insegnarci a vicenda i nostri linguaggi così diversi. Io volevo dirgli che da diciassette giorni ero nel deserto e da parte sua mi voleva spiegare che da trentatré giorni stava nella valle di Bubissa.

    Da parte mia comunicai i miei segni, poi lui mi iniziò a una vera e propria scrittura: le sue zampe saltellavano e lasciavano dei segni che io intendevo sempre più facilmente. Forse era il linguaggio di una tecnica raffinatissima o il linguaggio del cuore che intendevo al di là dei segni stessi; in ogni caso in poco tempo ciascuno cominciò a capire l'altro. Imparammo i numerali, parole nuove, disegni,...; questi ultimi mi interessarono molto perché erano delle vere e proprie mappe di paesi da lui sorvolati. Di tanto in tanto due colpi d'ala sulla sabbia, e la pagina del nostro quaderno tornava pronta per un altro esercizio. Dai nostri segni risultava una sorta di scrittura cuneiforme, che aveva tutta una sua logica. Non nascondo l'entusiasmo di quella scoperta, pur non rendendomi conto del reale uso che ne potessi fare; infatti, quando si comunicava senza scrivere, il linguaggio era più semplice e sciolto perché i gesti delle ali, delle zampe, il movimento del capo in particolare, i suoni delle sue grida quando doveva incidere in me qualche parola più importante, erano sufficienti. In ogni caso, non chiesi il perché di quel soprappiù che mi aveva regalato e mi accorsi solo in seguito quanto mi fu utile. Di notte sognavo il mio corvo, il corvo di Badaurri che, come danzando la dichira (Danza nomade), scriveva instancabilmente i suoi messaggi su pagine di sabbia, pagine immense, senza orizzonte e lui, quel piccolo esile corpicino, incideva una vita nuova per i corvi del deserto. Una notte sognai che, imperterrito ed ostinato, incideva sulle solite pagine ed il vento violento dei monsoni distruggeva quasi interamente il lavoro, ma sulla quantità, oserei dire, sulla fatica, dietro qualche pietra o un esile arbusto di spine, qualche segno restava a testimoniare una volontà ostinata che gridava la vita a tutti i venti, la scriveva su tutte le pagine possibili, la seminava in tutti i terreni sabbiosi o fertili. 

    Un mattino, al mio risveglio, tutti i corvi della vallata erano in grande agitazione, gracchiavano ed intrecciavano brevissimi voli, con un nervosismo inconsueto. Tutti erano radunati su due piante di ade (Pianta di dimensioni di poco maggiori di un cespuglio; viene usata in momenti rituali come segno di fertilità e benedizione), tre daddacie e alcuni cespugli di rovi, sulla sabbia e su alcune grosse pietre. Compresi solamente le ultime battute del mio amico, che probabilmente parlava già da tempo.

    «E sfortunati voi, sì, sfortunati voi, perché siete ricchi e vi credete i signori di questo cielo. Io vi dico, il cielo è più grande e il vostro regno è veramente piccolo. Quando ve­dete un Gabra che si mette l'arbore, segno dell'uccisione di un nemico, voi ridete ed intrecciate voli di esplorazione per cercare la vittima. Voi nell'ultima siccità eravate in festa, perché le mucche, i cammelli e le capre non riuscivano più a tornare ai pascoli dopo aver fatto l'ultimo sforzo per raggiungere il pozzo che vediamo giù in basso a due miglia. Quando un animale rallentava la marcia e si staccava dal gregge, voi eravate già in cielo a girare festosi, assieme ai falchi e alle poiane, per precipitarvi su di lui appena perdeva l'equilibrio e cascava. Spesso fate esplorazioni ai confini dei Borana per scorgere se qualche bambina, figlia dei Raba, o qualche bambino gemello sia stato esposto perché non sopravviva. Voi vi associate volentieri agli sciacalli e alle iene. La vostra ricchezza è fatta di violenza, di tragedia, di costumi cattivi. Ebbene, io vi dico, i nomadi non uccideranno più per dovere di vendetta, le difficoltà della siccità verranno superate, i costumi attorno a voi miglioreranno ed ecco che, crescendo il bene attorno a voi, voi stessi sarete i più disgraziati, perché la bontà e le vostre ricchezze non possono coesistere. Siate contenti di ciò che la terra ed il cielo vi danno ogni giorno, altrimenti quando vedrete crescere il bene attorno a voi, dovrete fare canti di lutto».

I corvi erano nervosi ma non scappavano più. Io pensavo che il mio amico li avesse ipnotizzati, invece era riuscito ad interessarli. Stupito e contento che li avesse veramente piegati con quel discorso, chiesi, in disparte, spiegazioni all'amico, che ridimensionò il mio ottimismo e spiegò: «Due giorni fa, un piccolo corvo che non aveva ancora raggiunto le tre settimane di vita stava per morire. Riuscii a portare delle foglie medicinali e in meno di due giorni è tornato a volare con noi. Tutti mi hanno creduto uno stregone».

    Mentre Naghè mi parlava, un numero discreto di corvi si era avvicinato per interloquire con lui. Lui aveva capito quali erano i loro interessi e si mise ad urlare, con le piume arruffate e facendo gesti con le ali, contorcendosi: «Lo so, voi mi state vicino. Voi sperate che io risolva i vostri problemi, ma io vi grido che voi stessi avete tutti i mezzi per risolvere le vostre difficoltà. Anzi, potete trovare soluzioni per problemi ben più gravi di quelli che ho risolto io per voi, se vi interessate maggiormente gli uni degli altri. Voi pensate che io sia uno stregone, perché ho trovato le foglie della guarigione, ma io vi grido che se vi foste interessati di più dei corvi che sono ammalati, anche voi avreste già scoperto le erbe medicinali e anzi ne avreste scoperte per malattie ben più gravi. Lo so, voi preferite stare a guardare e convincervi che io abbia dei poteri magici, piuttosto che riflettere sulla responsabilità che ciascuno di voi ha per risolvere gli stessi enigmi».

    Subito scivolò sulla sabbia, puntò il becco verso il vento, scosse le ali e attese che il vento lo pettinasse; poi si ripresentò senza nessuna piuma fuori posto, per riprendere il discorso con me. Da parte mia ero stupito dal fatto che in così poco tempo fosse riuscito a calmarsi e a rasserenarsi. Chiesi spiegazione.

    «È semplice», mi disse, «ho gridato con rabbia. Io non odio nessuno: ho soltanto dovuto faticare per poter dire con tutte le mie forze ciò che dovevo proclamare. Ora la fatica è cessata.     Sono i rancori e gli odi che richiedono molto tempo per essere smaltiti».

    Sorrisi e mi alzai incamminandomi verso il pozzo. Naghè si sollevò, tracciò un volo lento, a spirale, e poi mi superò come una freccia scoccata da un arco. Passò ad un palmo dalla mia spalla senza rumore di vento, mi salutò con un grido e fu sul pozzo. A duecento piedi lo vidi alzarsi, piccolo piccolo, rallentare e scendere. Non notai i particolari dell'atterraggio sulla gobba di un pigro dromedario. Quando mi avvicinai, lo scorsi intento a beccare mosche, zecche e tafani sulla pelle della povera bestia, che pareva sorridere per quel solletico di liberazione. Terminato il riposo del pomeriggio, Naghè disse che bisognava partire. Voleva lasciare per un po' di tempo gli amici, affinché riflettessero su quanto aveva detto loro. Con un'aria canzonatoria mi chiese se lo avrei seguito, come per sottolineare che non avrei potuto fare altrimenti. Senza attendere la risposta, mi indicò la direzione: Badaurri.

«Io torno là», disse, «e tu vieni con me. Seguiremo due piste diverse» e tracciò subito la mia mappa. Avrei preso la strada verso sud poi, svoltando per Maicona, avrei visto le colline di Badaurri. Lui mi spiegò che avrebbe preso l'alta corrente del vento per un primo tratto, poi avrebbe curvato in direzione di Mega, sorvolato la montagna sacra di Forolle dove voleva sostare per alcune ore in meditazione e sarebbe quindi sceso in pochissimo tempo a Badaurri, nella grotta dei corvi. Non avevo ancora detto una parola che Naghè fece tre salti, una corsa di tre piedi e decollò conquistando quota. Fece un'ampia spirale per mostrarmi in quale direzione si sarebbe mosso. Lo vidi piccolissimo nel blu intenso, le ali tese, scivolare verso Mega come dormisse sul vento.

    Raccolsi la tenda e lo zaino, posai il tutto su un fuoristrada che mi trasbordò alla mia nuova destinazione. Piantai la tenda a qualche chilometro dalla grotta dei corvi, vicino a Maicona, perché dovevo fare i conti con i viveri: io non potevo vivere mangiando mosche e tafani. Appena alzai due bastoni per la tenda, Naghè arrivò a complimentarsi con me, perché avevo capito bene le sue indicazioni ed io feci altrettanto con lui per la loro precisione, e aggiunsi: «Perché non sei venuto con me in macchina? C'era posto per decine di corvi. Avresti faticato di meno».

    «Se tu avessi dovuto agitare le braccia a mille miglia di altezza», mi disse, «come ti saresti trovato? Non bisogna mai copiare la strada degli altri. È necessario vedere la direzione, questo sì, ma ciascuno deve percorrere la propria strada, con i mezzi che gli sono congeniali».

    Ascoltai, mentre drizzavo la tenda, interravo i pioli, fissavo le funicelle e assicuravo la tela della mia casetta. Naghè con solennità, senza parole, dopo aver giocato con me, mi indicò la nuova direzione. Lo seguii in silenzio. Lui volava all'altezza di venti piedi, senza intrecciare voli come durante i pasti o per il gioco, ma volando diritto, vincendo la direzione del vento che spingeva verso nordovest.

    Avanzava al mio passo in un volo di meditazione. Era l'inizio della notte e stava per salire all'orizzonte Baati, la luna nuova nel periodo di Somdera (L'islamismo ha lasciato alcune tracce nel popolo Cabra. Alcuni ritengono che Somdera sia un ricordo della fine del digiuno musulmano, quando l'apparire della luna segna l'inizio della festa). Io e Naghè passammo vicino ad una magnatta (L'insieme di dieci-quindici tende di nomadi Cabra che si accampano nel deserto) e tutti stavano scrutando l'orizzonte per vedere il parto del cielo. Sentii un ripetersi di voci: «Wachi Adale». I ragazzi e gli uomini si dipingevano con la bianca polvere di Lila le arcate orbitarie e si ornavano con grani di cumbi e alcune donne, madri di famiglia, avevano legato una giovane agnella all'ingresso della capanna e vi versavano sopra del latte, secondo l'uso del tradiziona­le Sano (Celebrazione rituale).  Intanto mi ero voltato alla mia destra per vedere il piccolo spicchio di luna, mentre il mio amico si era arrestato nell'aria a contemplare la nuova luce.

    Proseguii fino alla grotta e rimasi all'ingresso, mentre il mio compagno di viaggio entrò e lo vidi sparire negli anfratti, dietro le prime insenature della colata lavica che, in tempi lontani, a seguito di qualche smottamento, si era aperta creando questa strana caverna. Rimasi in attesa a guardare: la costellazione di Scorpione con Artemide a 500 anni luce, la Croce del Sud con le due stelle doppie a 400 anni luce, all'orizzonte, a lato dei vulcani di Badaurri, e la Stella polare sull'altro orizzonte. Misurai sulle falangi delle dita la distanza delle due stelle laterali della costellazio­ne Croce del Sud e sulla linea che proseguiva obliqua, verso l'orizzonte, moltiplicando cinque volte quella distanza ritrovai il punto sud. Vedevo entrambi: la Stella polare e il punto sud a pochi gradi dall'equatore. Era un luogo privilegiato per spaziare in quel cielo affascinante.

Il mattino mi trovò imprudentemente addormentato. Accasciato sulla roccia, continuavo a sognare. Entrai in punta di piedi nella caverna e compresi perché Naghè mi avesse insegnato quella scrittura: tutto il pavimento sembrava una miniatura, un'immensa pagina sopra la quale alcuni corvi percorrevano saltellando quei segni per imparare ciò che Naghè aveva scritto. Intanto erano arrivati altri corvi e sentii il mio amico parlare, mentre alcuni, che ormai avevano imparato i segni, scolpivano sulla terra umida le parole del maestro: «Fortunati voi se riuscite a lasciare la vostra impronta in questo mondo». C'era un senso di smarrimento tra coloro che ascoltavano, ma anche di interesse.

    «Certo l'impronta bisogna lasciarla nei cuori: in essa c'è tutta la vostra storia, tutto il vostro passato, la vostra vita. Ogni impronta è una parola, nasce da un gesto, è una piccola cosa, eppure in essa è espressa la vostra totalità; basterà saperla leggere, e nella storia c'è sempre qualcuno che sa leggere le impronte di coloro che l'hanno preceduto. Se poi vi trovate in un deserto, dove non ci sono cuori in cui lasciare le vostre impronte, oppure i cuori stessi si chiudono a voi, allora scrivete sulla terra umida presso un pozzo, o nelle grotte di lava, dove si ferma sempre un po' di terra. Così, se uno lascia molti segni di sé, resta più facile leggere anche per chi è meno esperto. Quando avete scoperto una corrente nuova nel cielo, segnatela, così sarà letta, capita e usata anche da altri. Le vostre scoperte di paesi nuovi e adatti a noi, non tenetele gelosamente per voi: finireste per essere isolati, in quei paesi medesimi, e la vostra paura di condividere diventerebbe la causa della vostra stessa morte. Se un fiore ha paura di essere raccolto, si nasconderà fino a morire senza aver mai incontrato nessuno».

    Alcuni corvi chiacchieravano all'ingresso mentre alcuni altri si sforzavano di entrare nel mondo di Naghè.

Il terzo giorno di Somdera mi ritirai nella grotta e cominciai a leggere un tratto a caso: «Se vi ho parlato di povertà, di digiuni e di lacrime, non significa che io sono venuto per annunciarvi una grande sofferenza. Se così avessi fatto, avrei forse tanti discepoli, e anzi vi dico che temo anche per alcuni di coloro che mi seguono. Temo che non mi abbiano capito. Io, al contrario, vi porto una grande gioia, voglio che la vostra gioia sia piena. Se ci sono bufere, temporali, cataclismi, epidemie, queste non sono lo scopo della vita. Dicendovi che dovete affrontarle per vivere, non significa che queste cose siano lo scopo del vostro vivere stesso. Parecchi di voi hanno una gran paura della libertà e della festa. Qualcuno vi diceva che non dovete insuperbirvi del vostro volo, ma io vi dico: volate in alto. Se veramente sperimentate la vertigine, la bellezza delle correnti alte, non sarete più tentati di pretendere che gli altri vi onorino per ciò che avete fatto, ma crescerà in voi il desiderio di accompagnarli sulle strade del vento. La sola sofferenza che vi potrà restare, sarà quella di vedere qualcuno accontentarsi di razzolare sulla terra e svolazzare attorno alle carogne, con la scusa che là il cibo è abbondante. Ci sono dei corvi che non vogliono salire troppo perché, in questo modo, possono sempre sperare in un'esperienza nuova il giorno dopo o l'anno seguente. Ci sono corvi che preferiscono restare nell'infelicità, nell'angoscia, nella schiavitù per tutta la vita, per avere sempre uno spiraglio di felicità più grande, di libertà più piena il giorno dopo. Hanno paura di salire sulla corrente del vento più alta, dove c'è la felicità, la bellezza, la libertà. Ed è comprensibile la loro paura, perché se in qualche modo falliscono questo volo, non resta loro più nulla da sperare; così vivono tutta la loro vita nell'anticamera della libertà. Volano sulle daddacie, sull'ade, sui rovi, ma non rischiano altro. Ve lo ripeto con tutto me stesso: non arrestatevi, piuttosto rischiate la vita stessa, ma volate in alto».

    Senza lasciarmi fermare a riflettere, Naghè mi accompagnò fuori e mi propose di raggiungere una magnatta a otto miglia di distanza, dove si celebrava un matrimonio. Mi disse che là c'era da mangiare per un buon numero di corvi. Proseguendo verso sud, incontrai il gregge accompagnato dalla protagonista della festa cui stavo per partecipare. Infatti il giorno in cui la madre della sposa e le altre donne costruiscono la capanna del matrimonio, la sposa deve essere al pascolo, lontana dal villaggio, per l'intera giornata. Quando raggiunsi la magnatta, vidi nel villaggio della sposa la capanna dello sposo, che era stata trasportata da oltre centoventi miglia di distanza per celebrare le feste. Passai vicino al recinto dei cammelli, completamente vuoto, vidi in un recinto più piccolo i tre Karaati, i cammelli, due maschi e una femmina, regalati dallo sposo alla famiglia della sposa. Essi testimoniavano il suggello definitivo del matrimonio.

    Naghè e i suoi amici stavano appollaiati vicino e sopra le due ampie ombrellifere, sotto le quali alcune donne friggevano le carni e preparavano i tortelli. Di tanto in tanto una mano si allungava per buttare qualcosa ai corvi. Era festa per tutti. Intanto raggiunsi il gruppo degli uomini e augu­rai allo sposo e agli altri pace, vita e benessere. Mi sedetti anch'io, mentre si consumava il puni, bevanda rituale, miscuglio di the e latte e grani di caffè abbrustoliti. Lo sposo poi si sedette sul barciuma (Sgabellino di legno, alto pochi centimetri) e lo zio iniziò il taglio dei ca­pelli. Rasato completamente il capo, il giovane era pronto per la nuova nascita, come denominò lui stesso il matrimo­nio. Entrò nella capanna, depose gli abiti vecchi, si copri con una sola ampia fardufa (Pezza di tessuto bianco senza cuciture, simile ad un lenzuolo avvolto intorno al corpo) e il turbante in testa. Le donne avevano intanto trasportato la nuova capanna a pochi metri dall'abitazione dello sposo. Lì venne drizzata provvisoriamente in pochi minuti e benedetta. I dabela (Gli anziani capi della magnatta) pregarono e benedissero, dopo di che lo sposo partì con alcuni amici a tagliare i rami di daddacia per metterli a fondamenta della nuova dimora. Quest'albero è infatti segno di prosperità e virilità. Venne stabilita la sede della nuova capanna nel recinto dei cammelli. Tutti rispondemmo alle preghiere e nacque una nuova abitazione.

Intanto Naghè sorvolò, intrecciando più giri e gridando «Darara! Darara! Fiorisci! Fiorisci!» Non penso che i nomadi comprendessero quel linguaggio, ma io che lo conoscevo raccolsi tutta l'intensità di quell'augurio. La sera bevemmo il ciai (The con latte e a volte con grani di caffè), si mangiò abbondantemente carne e tortelli, mentre lo sposo si era seduto all'ingresso della sua abitazione per passarvi la notte attorniato dai canti e dalle danze degli amici.

    Il corvo di Badaurri non voleva disturbarmi e si eclissò in silenzio. Io rimasi fino a tarda notte e mi congedai. La sposa sarebbe stata accompagnata presso lo sposo solo il mattino seguente. Gli sposi sarebbero rimasti nella capanna con due altre donne senza avere la possibilità di rivolgersi neppure la parola: è costume Gabra. Solo dopo que­sto periodo, lavati e quindi purificati, avrebbero iniziato la normale convivenza. Intanto camminavo sulla sabbia, cercando di non inciampare nelle numerose pietre, e pensavo a quella festa, alla vita che cresce e si moltiplica anche nel deserto bruciato. Fino a quando ci sarà un poco di amore, pensavo, la vita non si arresterà e nemmeno i deserti aridi lo potranno impedire.

    Mentre fantasticavo e riflettevo mi raggiunse un grido che mi scosse il sangue: «Darara! Darara!» Era Naghè.

    «A me lo dici?»

    «Sì», mi rispose.

    «Ma io non sono sposato».

    «È nell'amore che c'è la vita, non importa a chi si comunica o come».

    E questa volta scomparve davvero, senza aspettarmi. 

Quando il giorno illuminò l'interno della grotta dei corvi, mi accorsi di una povera bestia disperata che in precedenza non avevo notato. Fra un corvo cieco, appoggiato a due palmi da una pietra concava, la quale raccoglieva poche gocce da un filo d'acqua che scivolava da una fessura della roccia. La bestia aspettava qualche insetto o qualche bacca che i più attenti le portavano ogni giorno. Vidi Na­ghè avvicinarsi a lui forse per la solita lezione. Lo accompagnava con pazienza sulle impronte e lo illuminava. Mi ero appena distratto per osservare una decina di nuovi arrivati quando sentii un grido di gioia: «Vedo, vedo anch'io, adesso posso vedere!» Era il povero corvo cieco che, da quel momento, grazie all'amore di Naghè, aveva intuito la struttura del tutto, aveva ricevuto una illuminazione interiore. Con le zampette, lentamente, riusciva a seguire le impronte, a leggerle e a comprenderne il significato. «Vedo», continuava a gridare, «anch'io vedo». Gli altri uccelli, che pur risultando degli ospiti in realtà erano dei familiari di quella casa, ricevettero un caloroso saluto da Naghè e un immediato rimando al lavoro.

    «Amici», disse, «tornate a parlare ai corvi, non stancatevi, invitate tutti a venire e dite loro con tranquillità: anche per voi che siete ciechi, c'è la possibilità di vedere le parole del maestro; anche se siete sordi le potete sentire: la verità non è nascosta a nessuno. Se qualcuno di voi ha le ali spezzate, non disperi, imparerà a volare».

    Un corvo interruppe: «La cosa peggiore per un corvo è avere le ali spezzate, e tu come fai a guarire anche questo male?»

    «Non c'è male peggiore che accontentarsi dei propri mali e rendersi pienamente convinti della loro irrimediabilità. Se qualcuno di voi si convincerà che è negato al volo, riuscirà a sbagliare il primo decollo e rovinerà ogni volta in basso, distruggendosi. Vi dico di più: un giorno tutti potremo volare nella galassia dei corvi bianchi. In ciascuno di voi c'è una parte che voi non conoscete, c'è un corvo bianco, le cui ali non si spezzano mai, né viene accecato, né stordito, perché così siete stati fatti dal Creatore dei corvi».

    Vicino a Naghè c'era un corvo che non trovava consolazione e disse: «Ma per me non c'è speranza; il mio piccolo corvo, appena dischiuso, è morto e io non avrò più pace!»

    Lo riprese Naghè: «Quanto aspetterai a comprendere le mie parole? Ti ho detto che il tuo piccolo corvo è vivo!»

    Gli altri corvi e io avevamo lasciato questi due, soli, a riflettere insieme. Io ero uscito da pochi minuti. Il corvo, prima disperato, mi passò vicino gridando di gioia: «Il mio piccolo corvo è vivo, è vivo! Sono felice, è vivo», e intrecciava voli, ubriaco di gioia. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, mi si dilatava il cuore al vedere che Naghè riusciva a portare speranza nuova, una nuova visione della vita, specialmente ai corvi che si sentivano esclusi.

    Un giorno era arrivato un ricco corvo di Bubissa, accom­pagnato da un piccolo seguito. Probabilmente era stato af­fascinato da Naghè. Il nuovo arrivato manifestava dal suo incedere di essere una vera personalità per tutti gli uccelli della vallata e della regione. Aveva sentito un fascino par­ticolare per il corvo di Badaurri, il cui nome si era ormai diffuso tra tutti gli stormi dei deserti del Colagalgano, del Cialdi, di Badaurri fino a Torbi. Alcuni lo bestemmiavano, altri lo veneravano, ma nessuno poteva più vivere senza interessarsi di questa realtà: Naghè, il corvo di Badaurri. Dopo alcuni giorni di allenamento, riflessione, studio alla scuola nella grande caverna, il ricco corvo di Bubissa inco­minciò ad intristire: non era riuscito a lasciare dietro di sé il suo benessere, la sua vallata, l'onore che gli veniva retribui­to, in una parola le sue ricchezze. Un giorno, mentre io ero nella grotta a leggere e a meditare, questi rivolse la parola a Naghè e lo interrogò: «Come si spiega, maestro, che io leg­go tutte queste cose, ho imparato la tecnica della scrittura, riesco con facilità a seguire il significato di ogni discorso, infatti fin da giovane sono allenato alle scienze, eppure de­vo riconoscere che non riesco a capire in profondità il tuo linguaggio? Non riesco a capire come quegli altri, molto meno abituati di me alle letture, di tanto in tanto aprano le ali, tendano il becco verso l'alto, con una gioia grande che li solleva nel cielo. Perché io non riesco a capire?»

    «Grazie per quello che mi dici», disse Naghè, «mi dai una prova che queste parole sono vere. Se anche i ricchi po­tessero "comprendere", riterrei questo un torto per i pove­ri. Se i corvi poveri sapessero che voi ricchi oltre al vostro benessere, ai vostri festini, ai vostri onori, aveste anche la possibilità di comprendere queste parole, penserebbero ad un torto. Invece sanno che questo messaggio è riservato ad essi, a chi è semplice, o decide di diventarlo. Voi ricchi do­vete badare a tutto ciò che possedete sulla terra e pertanto non potete innalzarvi sulle alte correnti senza preoccuparvi del domani, come chi non ha nulla. Voi potete leggere dei libri interi sui voli, potete scriverne voi stessi, ma senza mai sperimentarli in prima persona, perché tenete alle cose che avete e non vi preoccupate abbastanza di ciò che potete es­sere nelle imprevedibili strade del vento. Voi sapete tutto delle grandi immigrazioni, vi radunate anche voi nel perio­do della luna nuova, quando ci si prepara a partire, grac­chiate anche voi come chi parte e magari decidete il viag­gio. Ne celebrate tutte le feste e i riti della partenza, ma poi vi si trova nella vostra vallata, sedentarizzati, con tanta paura di perdere ciò che avete. La ricchezza vi tiene abbar­bicati alla terra come le alghe della savana. Se invece faceste come noi, vi abbandonereste al vento, sapendo che il cielo delle galassie provvede il necessario ogni giorno anche ad un piccolo corvo e chi guarda dice nel silenzio: "Beati"».

    

    Un mattino non fu la luce e svegliarmi, ma uno stormo di ali controvento. Da diverse parti stavano arrivando dei corvi. Si erano passati la voce: «Il maestro parla nella grande grotta» e accorrevano con curiosità, perché negli ultimi tempi le parole del maestro si erano fatte sempre più rare. Seppi che a dare spunto ad un discorso in quell'ora del mattino, erano stati alcuni corvi che svegliandosi si erano manifestati gli uni agli altri una pesantezza, un torpore, una stanchezza di vivere. I voli sempre uguali, la monotonia del deserto li avevano stancati.     Dissero a Naghè: «Siamo annoiati. Ci puoi dire se esiste qualcosa di molto bello da cercare che possa dare un senso alla nostra vita? La ricerca ha un grande fascino, tu ci puoi aiutare».

Il maestro aveva a lungo sorriso senza dare una risposta. Un corvo aveva continuato ad interrogano: «Vuoi dire che se le cose belle non le sappiamo vedere qui, non le sapremo vedere in nessun posto del mondo? Vuoi dire questo?»

    Il maestro aveva ancora sorriso. Una richiesta si era fatta più esplicita: «Qual è la cosa più preziosa e più bella che noi possiamo vedere e toccare?»

Naghè si spostò di pochi passi e cominciò a scavare con forza nel terreno che resisteva alle unghie. Ricavò un piccolo mucchio di terra, lo raccolse con le zampe, le ali, il becco e si arrestò, un poco affaticato.

    Gli altri aspettavano ancora la risposta, mentre lui l'aveva già data. Aveva mostrato ciò che è più prezioso e visibile agli occhi: un pugno di terra, di preziosa terra dalla quale sorge, si trasforma, muore e rinasce la vita. Queste poche cose me le spiegò un corvo all'ingresso della grotta, perché quando arrivai il maestro stava già parlando. Aveva appena detto che nella terra morta qualcuno aveva posto una meta ed io stesso sentii il seguito:

    «La terra informe è tesa verso una meta che si manifesta sotto mille forme e mille colori. Quando un seme entra nella terra, la prende per mano e la accompagna lungo il cammino della bellezza. Il seme la spacca, separa, divide, attrae, respinge; la seleziona pesandola e attraverso le piccole e grandi radici fa salire questa terra, questa preziosa terra, che ad ogni passo si trova ad un bivio che la divide, la indirizza verso la meta. Quando la meta è raggiunta, uno di voi, cari corvi, uno qualsiasi di voi, si posa sullo stelo fragile o sul ramo robusto e dilatando gli occhi aperti e il cuore, contempla una bellezza. Amici, ricordate: le bacche, le spine, gli arbusti, le radici e tutti i fiori colorati da mille arcobaleni che spuntano nel deserto, durante la stagione delle piogge, tutto è di terra. Le piante cariche di frutti squisiti, che vedete quando salite a Torbi, o i giganteschi alberi della foresta di Marsabit, che scorgete giù all'orizzonte, tutto è di terra; gli stessi metalli e le pietre che alcuni chiamano preziose: oro, cristallo, zaffiro, calcedonio, smeraldo, sardonica, crisolito, berillo, topazio, crisopraso, giacinto, ametista, tutto è di terra. Vedete quanto è prezioso questo piccolo mucchio di terra».

    «Naghè, tu sei di terra?», interruppe uno dei discepoli.

    Naghè sorrise e riprese: «Vieni vicino, guarda il mio occhio: osservane la trasparenza, la bellezza mentre io guardo il tuo; i nostri occhi sono di terra».

    «Anche le piume?» «Sì, anche le piume».

    «Anche la carne?» «Sì, anche la carne è tutta di terra».

    «Il cuore e il sangue sono di terra?» «Sì, sono di terra».

    Poi venne avanti un corvo magro e anziano, e chiese: «Allora è tutto solo di terra. E vero che la terra è preziosa, ma in essa il nostro cuore si perde. Maestro, la forza di dove viene?»

Naghè si arrestò e volse uno sguardo evasivo all'intorno come se stesse pensando ad altro: ovviamente era per distrarre gli ascoltatori; poi si avventò su uno dei corvi, con violenza, come se volesse distruggerlo. Mi stupii enormemente e vidi le piume sul capo di tutti denunciare uno spavento. Non mi sarei mai aspettato un gesto così assurdo da parte del maestro: «Forse è impazzito», pensai.

    Il maestro si calmò, lasciò affiorare un sorriso e: «Ti sei spaventato molto?», disse a quella povera bestia che non aveva fatto in tempo a rendersi conto, né per difendersi né per capire. «Ecco, questa forza, che poteva distruggerti, dilaniarti, la stessa forza che hanno i leoni della savana, che spesso vediamo avventarsi su zebre o gazzelle, tutta questa energia è fatta di terra».

    Durante la riflessione del maestro, tutti osservavano il piccolissimo mucchietto di terra, quasi in atteggiamento di venerazione. Il maestro disse: «Guardatevi attorno». Essi si erano dimenticati che la terra era sotto i loro piedi. Era la roccia, la sabbia, le piante, e a gruppi cominciarono a volare e a celebrare così la liturgia della terra, a intrecciare voli su quella preziosa terra, dalla quale sorgeva ogni bellezza, ogni forma, ogni colore. Ma uno rimase vicino al maestro e chiese: «Il canto e il volo sono di terra?»

    «Sì».

    «La libertà è di terra?»

    Naghè lo guardò intensamente, poi corse verso la luce con cinque o sei salti, poggiando saldo sulle punte delle zampe; quindi toccò solo più con le unghie e si alzò spiccando un volo verso l'alto di grande solennità.

Volò tutto il giorno. Dopo qualche ora non lo vidi più ed ebbi paura, ma restai anch'io assieme a quell'ostinato corvo che aspettava la risposta che io pure volevo sentire. Naghè arrivò cantando un motivo nuovo, originale, che riempiva di pace. Si spostò su una parte del terreno umido e cominciò a danzare. L'ultimo raggio rosso del sole al tramonto si mescolò al nero-blu metallico di Naghè. Il becco, le piume, le unghie delle zampe e il sole: tutto danzava. Solo al termine di questo concerto mi resi conto che aveva scritto per ter­ra, posandosi e danzando.     Voleva rispondere con solennità, e lessi:

    «Quando sei nella pace e nella sicurezza e vai ad appollaiarti sulla daddacia accanto ad un corvo, al quale la sofferenza ha sbarrato la strada; quando sei all'asciutto e stai per dormire e invece vai fuori a covare le uova in quel nido, dove è morta la madre; quando hai voglia di cantare e taci, quando hai voglia di tacere e canti; quando è notte e tu credi che la luce esiste; quando è giorno e tu credi che esiste qualcosa di splendente più della stessa luce, tutto questo non è terra». Queste sono le parole che sono riuscito a decifrare e a scrivere sul mio taccuino.

    Gli venne ancora chiesto: «Noi vediamo i nomadi Gabra che hanno una capanna: quando si spostano ne smontano i legni e le pelli e se la portano dietro. Quei nomadi hanno dromedari, buoi, capre, ma per noi qual è la più grande ricchezza?»

    Naghè rispose: «Non possedere nulla. Avere delle proprietà significa inesorabilmente attaccarsi ad esse; non potreste volare troppo in alto perché dovreste vigilare le vostre ricchezze.     Se anche tu vuoi copiare dagli uomini, devi mettere dei confini, costruire delle staccionate per dire: "Questa parte di deserto è mia e mi appartiene e gli altri non possono usarne. Le bacche che maturano su questa pianta le mangerò io con i miei figli. L'ombra di questa pianta sarà di ristoro per tutta la mia famiglia soltanto". Dopo aver fatto questo, sentirai l'esigenza di mettere dei limiti anche allo spazio: il tratto di cielo che è sulla tua testa sarà tuo. Questo significa che gli altri non potranno occupartelo, gli insetti che volano in quel cielo saranno tuoi. Ma quando ti troverai al confine del tuo mondo, ti dovrai rendere conto che è piccolo. Ti accorgerai di esserti costruito una gabbia, perché pensando alla tua proprietà, pensavi solamente a limitare gli altri e non a tutto ciò che impedivi a te stesso. Se l'ombra, le bacche, gli insetti, le gocce d'acqua saranno solo tue, proteggendole, ti prostrerai prima o poi dinanzi a queste cose; ti sazieranno, perché si può vivere anche di queste cose soltanto, ma se in qualche momento di distrazione ti accorgerai che queste cose sono di terra e che tu sei sazio di terra, ti ribellerai, cercherai di ubriacarti per non pensare, oppure ti avventerai sugli altri corvi che hanno costruito siepi e limiti sul deserto e nell'aria. Ti scaglierai su di loro magari ammazzandoli, per impadronirti delle loro proprietà e così aumentare ciò che ti appartiene, perché ciò che hai non ti basta e non ti può saziare. E se non si interponessero sul tuo cammino il dolore, la stanchezza, la vecchiaia o la morte, tu cercheresti, ubriacandoti, di conquistare tutto il mondo senza lasciare un solo filo d'erba per gli altri. Cercheresti di conquistare tutta la terra, tutta la terra, tutta la terra per saziarti e, quando ti accorgessi di essere sazio di terra, rischieresti di morire pazzo. Per questo ascolta il tuo maestro. Se una manciata di terra non ti soddisfa, non cercarne due per essere sazio, ti illuderesti soltanto; cerca qualcosa che non sia terra».

    Una notte mi ero dimenticato di andare a dormire ed ero rimasto seduto sulla sabbia con gli occhi dentro la luna piena, su cui ripassavano davanti a me tutte le immagini dell'Africa viste fino a quel giorno. Un battito d'ali ed eccolo là: Naghè.

    «Che fai?», mi disse.

    «Nulla, assolutamente nulla; guardo».

    «Guardare è uno dei lavori più importanti: guardare per vedere, per capire. Guardare in che direzione devi andare. Guardare dove dovrai piantare la tua tenda. Guardare se ci sono dei pericoli, scorpioni o serpenti, guardare se qui potrai realizzare un progetto nuovo o se dovrai andare altrove, guardare, guardare... E tu dici che non stai facendo nulla? Anche tu hai la stessa malattia di tanti: per voi lavorare è mettere pietra su pietra, è conquistare popoli e costruire monumenti; sedersi e guardare non è lavoro, vero?»

    Io ora guardavo lui che continuava imperterrito: «I tuoi prima di te si son tirati le pietre gli uni addosso agli altri, hanno fatto guerre e si sono massacrati, poi hanno messo pietra su pietra e hanno costruito città e imperi. E mano a mano che diventavano forti assoggettavano i deboli e li costringevano a costruire per loro monumenti e dare loro la gloria. Ma quale gloria? Popoli interi, inginocchiati, pro­strati e frustrati in adorazione dei loro oppressori. Gli uni poi comandano di distruggere i monumenti degli altri, distruggere e ricostruire. Questo è il grande lavoro invece di sedersi e guardare».

    Quelle parole mi disturbavano, perché nella vita avevo fatto troppe cose inutili e non ero stato abbastanza seduto a guardare.

«Naghè, tu parli certo del mio mondo, mentre io sono incantato dal mondo dei nomadi Gabra. Sono arrivato qui da poco e li conosco poco, però mi sembrano persone di un altro pianeta.     Mi pare che addirittura non abbiano il peccato originale. Scusa, se uso questo linguaggio: voglio dire che non fanno nulla di gravemente sbagliato contro la loro coscienza. Mi spiego: sono abituato a conoscere me e tanti altri del mio mondo con mille colpe, delitti e castighi. Nel mio mondo c'è chi uccide per un'anguria, chi ruba e rapina per avere di più, chi organizza guerre e stermini di massa, c'è chi vende e compra donne, uomini e bambini solo per guadagnare e divertirsi. C'è chi studia continuamente come organizzare meglio il proprio potere... Capisci, Naghè! A tutto questo mi sono abituato e qui non vi è nulla di ciò. Non ho visto uccidere, non ho visto rubare. Non ho visto costruire imperi più grandi di un villaggio, dove c'è poco più di una decina di capanne. Coloro a cui nasce un figlio ogni tre anni ed hanno gli alimenti ridotti all'indispensabile non possono scherzare con la vita propria e degli altri. Oltre che pensare a se stessi, se non pensano alla sopravvivenza del gruppo sono destinati a finire: il singolo nel deserto non vive, ma solo il gruppo. Insomma, Naghè, questo per me è il paradiso terrestre, è un luogo senza peccato».

    Mi guardò a lungo senza darmi risposta, come chi prepara l'interlocutore ad accogliere una sentenza inattesa.

    «Caro Francesco, non sei stato seduto abbastanza e hai guardato troppo poco. Tu ti esprimi dicendo che qui nel deserto non c'è il peccato originale, o che è comunque molto limitato, e dici il giusto, ma adesso lascia che ti accompagni un poco su una pista diversa. A proposito, parlando di pista, vedi da quella parte? In quella direzione passa una strada. La pista va da Nairobi ad Addiss Abeba e attraversa anche il deserto. Di tanto in tanto passano dei commercianti e vendono alimenti, stoffe e colori che qui non si trovano. Attraverso quella pista sono pure arrivati alcuni insegnanti e sono già iniziate delle scuole. Qui nel deserto ho sentito qualcuno ripetere più volte: "Ecco: scuola, commercianti, poi questo popolo così innocente, così buono e senza peccato finirà per diventare come gli altri; invece di costruire una strada dovevano costruire un grande muro attorno al deserto, per conservare questo popolo sempre così!"». Poi continuò più meditativo: «Vedi, qualcuno pensa che è meglio il muro, altri che è meglio la strada: il primo conserva facilmente la cultura ma può soffocare, il secondo può evolvere ma distruggere. Ti ricordi?», mi disse, «Prima di entrare nel deserto hai visto un grande gruppo di scimmie bellissime: alcune saltavano sull'albero di papaie, altre che erano madri tenevano stretto il piccolo per proteggerlo. Ebbene quel gruppo lo puoi rivedere durante certi giorni che salta, corre e grida in festa. A volte sembra un piccolo battaglione sconfitto e addormentato. Spesso diventa aggressivo, e quando c'è il pericolo di altri animali si coalizza: gli uni sono per gli altri per far sopravvivere se stessi».

    «Come hai detto?», interruppi.

    «Sì», ripeté, «gli uni sono per gli altri, per far sopravvivere se stessi: questo è normale, è la legge dell'istinto. Ebbene molte migliaia, forse milioni di anni fa c'era un gruppo come quello che gridava, saltava, si riproduceva, si nutriva, si difendeva. Anch'essi erano senza peccato. Non uccidevano i propri simili. Non rubavano nulla; nessuno mancava di rispetto all'altro in quanto nessuno esigeva più di quello che l'istinto offriva. Nessuno opprimeva gli altri, nessuno sfruttava gli altri e nessuno bestemmiava. E una notte il Creatore dei corvi, e beninteso di tutti gli esseri viventi, si sedette in mezzo a loro e, mentre la luna piena rendeva ogni cosa confusa, li guardava uno a uno e si interrogava:

    "Che cosa dovrò fare? Un muro o una strada? Se farò un muro resteranno sempre così, meravigliosi, di una bellezza che nessuno oserà contestare. Però è pur vero: saranno sempre e solo così. Se farò una strada potranno ovviamente arricchirsi di nuove esperienze, ma a quale prezzo?" Pensò e ripensò tutta la notte, ma quando la debole luce della luna se ne andò per lasciare posto al mattino, lui si alzò e percorse un tratto di savana, poi di deserto. I suoi piedi avevano cominciato la strada e tutto quel gruppo, compatto, si era incamminato sulla nuova pista mentre altri, molti altri era­no rimasti nella savana».

    Mentre Naghè mi lasciò il tempo per riflettere, pensai che veramente in quel gruppo di nomadi del deserto non c'era nessuna condizione per produrre un Hitler, ma non c'era nemmeno la sufficiente condizione per far sorgere una Madre Teresa di Calcutta. Vedevo con chiarezza che l'orizzonte della loro libertà era così limitato da permettere pochissimo di ciò che io chiamavo peccato, ma anche pochissimo di ciò che chiamavo virtù, altruismo, amore. Così mi affrettai a dire: «Naghè, adesso ho capito la storia della strada e del muro, adesso vedo chiaro che...». Il mio interlocutore mi interruppe e con le piume, gli occhi, il becco e le unghie mi buttò in faccia: «No, non parlare! Se pensi di poter trarre una conclusione sbaglierai quasi certamente. Se è stato così difficile prendere una decisione per il Creatore, se Lui ci ha pensato un'intera notte prima di decidere e rischiare, può invece essere così facile per te?» Dissi io: «Ma adesso dopo la sua decisione anche noi...» e nuovamente mi interruppe. «Vuoi dire che noi conosciamo la decisione da prendere. No, non è così facile. Quella è stata la sua decisione ed è stata giusta ma tu, oggi, qui, adesso, che cosa hai capito di dover fare? A volte certo bisogna avere il coraggio di fare una strada, a volte qualche piccolo sentiero, a volte qualche muro di protezione, ma sempre in punta di piedi, perché decidere è stato così difficile per Lui».

Vidi allora una nuvoletta di sabbia alzata da Naghè e lo guardai mentre andava nella stessa direzione dove ormai stava nascendo il sole. Forse anche noi come il Creatore avevamo deciso qualcosa. Per parte mia decisi che dovevo ancora sedermi e guardare a lungo.     

    Mi ero appena addormentato nelle ore impossibili del mezzogiorno, quando fui svegliato da un urlo di Naghè. Mi sembrò in pericolo. Balzai fuori dall'ombra e corsi. Era scoppiata una lotta all'ultimo sangue. Due corvi, sotto il sole torrido, avevano perso le staffe. È inutile spiegare quale fu il movente che spinse a tanto. L'inizio è sempre insignificante: da un pugno di neve può iniziare la valanga e da un banale bisticcio una catastrofe nel mondo. I due corvi si erano, in ogni caso, azzuffati e tentavano di affondare il loro becco ricurvo nelle vene del proprio simile, con tutta la volontà di annientare l'altro. La guerra tra i due fu inter­rotta da Naghè che, dopo aver urlato e teso le ali in segno di arresto, li rimproverò con occhi roventi. La presenza di Naghè era più tagliente di una lancia dei Borana (Popolazione cuscitica dell'Africa, stanziata tra il lago Rodolfo e il Daua Parma) e il suo grido imponeva il silenzio più del sibilo di una freccia.

    Uno dei due corvi, il più anziano e intelligente, raccolse un po' di forza per giustificarsi: «Maestro», disse, «anch'io sono dell'avviso che non bisogna uccidere, ma in questo caso, io avrei ucciso per non morire. Hai sentito? Avrei ucciso per non morire io». Naghè divenne severo e dolce ad un tempo e aggiunse: «Anche se uccidi solo per non morire, in realtà muore sempre qualcuno e, non essendo tu l'inventore e il creatore della vita, quale diritto hai tu di giudicare se sia meglio la tua vita o quella di un altro?»

    «Maestro, la mia vita è quanto di più prezioso io abbia e poiché sono disposto a dare in cambio tutto per essa è giusto che impegni tutte le mie forze per difenderla».

    «Ma, oggi, per difenderla avresti usato la vita di un altro».

    «Ma la vita è mia, è l'unica ricchezza che veramente mi appartiene».

    «Le ricchezze le costruisci, tu invece non sai costruire la vita, né la tua né quella degli altri».

    «Ho dei figli, sono io che ho dato loro la vita e ora la devo difendere».

    «Tu hai deciso troppo poco per i tuoi figli: non hai deciso la curvatura del becco, la luminosità degli occhi, o la lunghezza delle gambe esili, né delle piume che ora sostengono il volo».

    Poi Naghè provò ad interrogarlo: «Pensi forse ancora che in qualche caso si può rischiare di uccidere per difendersi?»

    «Forse quando un altro è anziano e io sono un giovane».

    «Un anziano che ha ancora dieci giorni di vita ne ha più di un giovane che vivrà solamente un'altra ora. Sulle probabilità non puoi giocare una vita».

    «Forse quando l'altro è violento, cattivo e indegno della vita».

    «Uno che è stato indegno della vita fino ad oggi, potrebbe da domani essere il più grande rivoluzionario, per la causa della vita, della gioia e della libertà nel mondo di tutti i corvi che volano sulla terra».

    Naghè volò verso il sole, mentre gli altri si ritiravano a riflettere, a piangere, a chiedere perdono, a ricostruire una vendetta.

    «Naghè, io amo troppo la vita», disse un corvo rivolto al maestro che tornava.

    «Io temo il contrario», rispose, «perché non sei solo a volare nel cielo e a posare sulla terra. La vita non è soltanto tua, e se ami la tua vita, devi amare anche quella degli altri, di cui fai parte. Così, quando ti innamorerai veramente della vita, sentirai il bisogno di proteggere la tua e, per farlo, non potrai distruggere quella di un altro corvo, senza uccidere un pezzo dite stesso. Tu non puoi vivere solo, senza morire».

    «Devo dunque accettare la sconfitta e spesse volte la schiavitù di qualche parte di me stesso?»

    «Perché la libertà viva».

    «Com'è possibile?»

    «Il cielo è una grande prigione e ogni volta che vuoi volare sono necessarie le chiavi di tutti per aprirla. Ascolta ancora, amico: lo spazio stesso nel quale apri le ali, ti incatena e libera nello stesso tempo, con il suo spessore ti impedisce di raggiungere la velocità del tuo desiderio e ancora ti affatica, mentre alzi, pieghi, riabbassi le ali, eppure è lo stesso spessore, la medesima pesantezza dello spazio che ti permette di restare sospeso in esso e scivolarvi sopra, nella solennità dei tuoi voli».

    Dopo queste parole mi venne vicino, mi accompagnò un poco fuori dal gruppo e mi disse: «Anche i tuoi amici generalmente sono tanto spaventati dal pensiero della morte! Per quale ragione? Di' loro: "Quando vi troverete alla morte non pensate di trovarvi di fronte a un mostro, no. In quel momento sappiate che vi trovate di fronte a una statua che avete scolpito durante tutta la vita e di cui state eseguendo le ultime rifiniture. Quell'opera d'arte l'avevate progettata insieme a chi vi ha dato tutti i mezzi per realizzarla. Avete desiderato tanto di vederla completa, eseguita in tutto il suo splendore. Certo, molti colpi di martello sono stati sbagliati, però chi ha progettato con voi vi ha certo insegnato l'arte del restauro e della correzione e quando quest'ultima non è stata possibile avete dovuto forzare la vostra genialità per modificare il progetto. Ma non dimenticate: l'ultimo momento non è disgrazia, ma manifestazione della grazia della vostra opera. Quando avete iniziato il lavoro, vi ricordate? I colpi erano energici e spesso sicuri. Per quelle prime martellate non c'era bisogno di molta esperienza. Poi passando il tempo, avete dovuto ridurre l'energia e avvicinarvi sempre con più cautela al progetto che stava emergendo. Ecco la morte: le ultime rifiniture dell'opera sono gli ultimi respiri. Il volto che avete modellato con il lavoro di tutta la vostra vita sarà l'immagine che il vostro spirito assumerà per vivere oltre il tempo; preparatevi a cantare l'ultimo inno alla vita"».

    L'ultimo giorno della luna Agaa (È la luna che appare poche volte durante la stagione delle piogge, stagione che può durare poco più di due settimane), terminate le piogge, dopo che tutti gli amici di Naghè avevano sorvolato la zona desertica circostante bagnandosi, gridando al deserto la benedizione: «Darara! Darara!», si riunirono nella grotta per benedire e ringraziare il Creatore dei corvi, perché continuava a dare vita al deserto.

    Mi raccontarono il giorno seguente alcuni corvi che ci fu una piccola scossa di terremoto, cadde del terriccio e tutti spaventati uscirono, inciampando l'uno nell'altro fino ad ostruire l'ingresso. Poi una scossa più forte chiuse l'apertura e Naghè, insieme a due o tre altri, molto fedeli a lui, rimasero chiusi a soffocare. I corvi vicini raccolsero le ultime parole del maestro:     «La morte non ci deve umiliare. Se avete terminato la vostra missione, chiedete al Creatore dei corvi che vi sostenga vivi fino a quel giorno, poi restate in pace. Il corvo bianco che è in me ora sarà riportato nella grande galassia. Le ultime parole che ho scritto per voi sono sulla terra ancora umida del Cialbi, a due miglia dalla strada, presso la grande daddacia. Quelle sono le mie impronte, in esse mi ritroverete».

    Mi riferirono anche che alcuni gli chiesero perdono per essere fuggiti senza pensare a lui e sembra che lui stesso abbia risposto: «Quando avete sbagliato, cercate di compiere gesti di bontà; se ci riuscirete, questi saranno il segno del perdono ricevuto». Quindi vi fu un'ultima scossa, mi dissero, e non si udì più nulla. Quando raggiunsi il luogo dell'incidente, non ebbi tempo di rendermi conto di ciò che era accaduto. Sentii confusamente queste poche notizie da un testimone della sciagura e mi ritrovai subito solo: l'intero stormo si era diretto a leggere il testamento di Naghè. Smontai lentamente la tenda, la sradicai con calma asciugandomi il sudore e gli occhi. Salutai un gruppo di donne con una battuta: «Voi costruite la casa e io la disfo». Queste infatti erano state sulla collina di Badaurri a raccogliere le radici di agave, per metterle a macerare sotto terra, e quindi confezionarle per preparare fasci di fili resistentissimi, e coprire le capanne.

    Nel primo pomeriggio raggiunsi la località della grande daddacia. Con sorpresa vidi che il testamento era scritto in un linguaggio nuovo. I segni, questa volta, erano più incisivi che mai.     Erano le impronte delle ali, del petto, pure la schiena aveva improntato rotolandosi, la testa, l'occhio, il becco ricurvo, con le raggiere delle zampe, che di tanto in tanto comparivano.      Aveva ripetuto quei segni non so quante volte, nella sua ultima danza al termine della missione. Così comprendemmo, i corvi ed io, che il testamento non era un discorso come tanti, ma era lui stesso, e solo chi aveva sentito le sue parole, ora poteva leggere tutto Naghè. Ciò che mi sorprese, fu il fatto che vidi il terreno di colore più chiaro del solito. Accampati in quel luogo, ogni giorno vedevo l'intero deserto del Cialbi diventare sempre più bianco; una immensa distesa di cristalli aveva coperto tutte le impronte.

    Io contemplavo stordito e alcuni cercavano di disincantarmi dicendomi che era un fatto naturale. Mi spiegarono che quel terreno, dopo le piogge, trasuda una grande quantità di sale, e in alcune zone raggiunge strati di dieci-dodici millimetri. Questi discorsi però non riuscivano a persuadermi e mi tornava alla mente una sera, quando Naghè, all'ingresso della grotta, aveva detto con stupore: «Venite a vedere!» e agli accorsi aveva gridato: «Guardate che luna!», mentre un corvo incapace di stupirsi, tornava indietro con delusione, dicendo: «L'abbiamo vista tante volte». Pensai che, dalla lontana galassia, Naghè si rispecchiava sul vasto deserto diventato un unico bianco cristallo. L'orizzonte mi sembrò le due immense ali tese di Naghè che avanzava con il suo mantello di piume bianche e forse vidi il deserto volare. Mi resi conto che la grande galassia non solo si rispecchiava, ma iniziava già ad esistere sul deserto stesso e le prime stelle erano proprio le impronte di Naghè, da cui partiva l'immensa spirale di una vita senza interruzione di voli. Ma tutt'intorno a quella pagina bianca del Cialbi, il resto del deserto, da Bubissa a Mega, da Marsabit a Maicona, alle colline di Badaurri, tutto il terreno era scoppiato di vita, con distese di verde spuntate improvvisamente. Gli animali esplosero in canti e grida di calore. La vita si riproduceva. I prati sterminati di fiori azzurri, rosa, gialli, violacei, un immenso arcobaleno posato sul mantello verde del deserto. Per molti era ciò che avviene normalmente due volte l'anno, dopo le piogge. Per me era la festa del passaggio alla galassia dei corvi bianchi. 

LA MISSIONE DI FRANCESCO 

    Gli diedero uno scossone: «Shomoe hoeche, amra jabo (E tempo, noi partiamo)». Si strofinò la faccia tentando di capire dove fosse e la fredda nebbia del primo mattino lo svegliò defini­tivamente dal suo sogno. La luna visibile, sì, ma velata, lo rassicurò che non era la stessa luna gloriosa della valle di Badaurri, e l'acqua che dondolava la sua barca gli confermò che non era sulla sabbia di un deserto, ma in un'insenatura del delta bengalese. Si annodò la gamcia ai fianchi e scese nell'acqua per un bel bagno, come ogni bengalese fa appena svegliato.

    Lavò il suo lunghi del giorno precedente e vestì quello asciutto, mise camicia e berretto, prese il remo e in pochi minuti fu pronto anche lui. Stava seduto, come al solito, sulla parte frontale della barca-carovana a remare, mentre Kanciõn stava al timone dall'altro lato. La moglie di Kanciõn preparava già la colazione, che è uno dei due principali pasti del giorno, e i bambini continuavano a dormire. Se Francesco non fosse stato là, il più grandicello avrebbe dovuto remare al suo posto. La prima ora di remo, come al solito, gliela lasciavano per la preghiera e lui, in quello spazio di tempo, cantava i salmi e gli inni religiosi che conosceva, con tutte le melodie possibili. In essi inseriva le grida di gioia o di sofferenza del suo popolo e il remo scandiva il ritmo di questa preghiera.

    Quel mattino la sua mente era ancora legata al sogno e non riusciva e non voleva separarsi da quelle immagini: cercava di recuperarle, una per una, per poi annotarle come di fatto fece. A Francesco quel sogno sembrava strano, nello stesso tempo era piacevole averlo vissuto almeno per una notte. È vero, era stato con i nomadi Gabra in quella porzione di deserto nel Kenya, ma erano passati ben vent'anni e rimase sorpreso che la memoria e il pensiero avessero creato le sequenze di un sogno che proprio non voleva dimenticare.

    Alla fine dell'anno Francesco si era accampato a Savar e là aveva incontrato gli amici che erano stati con lui per molti anni nella foresta a coltivare la speranza di una rivoluzione armata.     Molte utopie erano cadute; in alcuni era rimasta la ferita di una rabbia non consumata, in altri la speranza di ricominciare in situazioni politiche migliori; un paio di essi avrebbero voluto portare avanti gli stessi ideali con mezzi diversi. La rivoluzione armata non era stata sufficiente. Francesco si immedesimò nella loro storia, per questo ciascuno lo sentì fratello.      Non cominciò col fare prediche come chi ha le soluzioni facili, ma fece tante domande. Alla fine uno di essi disse: «Certo è probabile che si debba incominciare tutto da capo e in modo completamente diverso, però quali mezzi abbiamo a disposizione? Gli oppressori continuano a soffocare il popolo. I bambini denutriti hanno diritto o no alla alimentazione? I nostri bambini analfabeti non hanno diritto di andare a scuola come gli altri? E non parliamo dei salari irragionevoli, della mancanza di ogni sicurezza e previdenza sociale. In comune con i ricchi abbiamo solo il cimitero».

    Francesco interruppe l'amico e disse: «La lista dei guai è molto più lunga e complessa, ma adesso guarda laggiù», e indicò un grande campo. «Ogni anno circa diecimila Baidda (Gli zingari nomadi del Bangladesh, chiamati jajabor (camminanti), si suddividono in diversi gruppi: i Baidda sono uno di questi) si riuniscono in questa regione per circa due mesi e in quel campo, ogni giorno, circa duecento uomini, quasi tutti capi di gruppi, si riuniscono in un grande quadrato e per circa tre ore discutono tutti i problemi non risolti nell'anno precedente e fanno i piani per il futuro. Quando ritornano a casa, informano le donne che così partecipano, indirettamente, a tutte le decisioni. Si eleggono le persone che hanno la responsabilità delle decisioni finali. Non esiste propaganda elettorale: tutti si conoscono, e quando il gruppo è troppo grande si divide. Sapete qual è il segreto di questa democrazia dove le decisioni sono nelle mani di tutti? Di­pende dal fatto che essi sono direttamente o indirettamente parenti: appartengono a una grande famiglia. Essi devono giudicare chi ha sbagliato ma non possono dimenticare che è figlio, fratello, padre, madre, zia, nipote. Nessuno condannerà a morte un altro se questo è anche figlio, zio, nipote. Gli verrà data una punizione severa perché si corregga, ma è parte della famiglia e questa appartenenza condiziona tutti i comportamenti. Essi bisticciano e spesso, sono umani: ma non fanno la guerra; non ci si uccide in famiglia. I beni capitalizzati da tutti vengono condivisi in qualunque momento, perché chi ha bisogno è uno della famiglia: questo, a mio modo di vedere, è il superamento delle politiche che abbiamo sul mercato. In questo modo, quando aprirò il giornale e leggerò che un giovane è morto in un incidente, o che dieci uomini sono stati vittime di un attentato nella guerriglia, mi arresterò dinanzi alla notizia che mio fratello, o mio nipote, o mia zia, sono stati uccisi; se cominceremo a pensare che gli altri, tutti gli altri sono parte della mia famiglia, allora inizieremo a fare i primi passi nella politica di Dio, e là troveremo la pace».

    Uno lo interruppe: «Allora dobbiamo starcene tranquilli, in pace?»

    «In pace sempre, ma non sempre tranquilli: esistono due tipi di pace, quella del mondo e quella di Dio. Per il mondo sono in pace quando mi sono nutrito bene, ho riposato, ho potuto studiare bene, sono guarito da una brutta malattia, sono assolto da una pena: come hai detto tu, sono tranquillo; mentre essere in pace per Dio è ben altro. Quando un giovane dice in casa: vado a lavorare in quella baraccopoli, vorrei fare volontariato nel lebbrosario, ho chiesto di partecipare a una piccola organizzazione per portare aiuti dove c'è la guerra, o vado in missione, o ancora sto pensando di entrare in un monastero, la risposta generalmente sarà:

    "No, figlio mio, resta qui, in pace, con noi, là c'è troppo rischio, troppo conflitto, puoi essere ucciso nella mischia o da una malattia tropicale, o dalla solitudine; figlio, resta in pace con noi, stai tranquillo qui". E la risposta sarà: "Devo andare, altrimenti non sarei ' in pace ', né con Dio, né con la mia coscienza. Devo andare, se voglio essere in pace". Per gli uni restare in pace significa stare in pantofole a casa, per gli altri essere in pace vuol dire buttarsi nel fuoco: la prima è la pace del mondo, la seconda è la pace di Dio».

    Francesco si aspettava la risposta che non tardò ad arrivare: «Che cosa dici, Francesco? Non è quello che volevamo fare noi e vorremmo continuare?»

    «Dico che è troppo difficile fare una rivoluzione armata continuando ad amare. Lo sapete, siamo molto umani. Come combattere senza sentimenti di rabbia e vendetta quando ti vedi uccidere l'amico accanto, massacrare tuo padre o tuo figlio davanti agli occhi... Noi siamo umani. Solo Dio può togliere la vita; perché quando lo fa può dare molto di più di ciò che toglie.     Ma se noi togliamo la vita con quale moneta pagheremo?»

    Gli amici di Francesco dovevano andarsene, ma si fermarono ancora un momento per pregare insieme. Qualcuno avrebbe voluto dire che si aggregava a Dio per combattere l'oppressione, ma preferì non dirlo e restò nel silenzio con il dubbio che forse gli uomini non hanno tutti i diritti che credono di possedere. In breve il tempo trascorse e si dovettero separare. Francesco li benedisse e all'ultimo riuscì ancora a dire: «Qualunque cosa facciate, non scegliete mai la pace del mondo». E ciascuno tornò sul proprio cammino. 

    Intanto è bene ricordare, per inciso, che Francesco era ritornato da una decina di mesi in Bangladesh come missionario tra i suoi parenti musulmani. Le esperienze precedenti gli avevano insegnato che il fuoco di un missionario che accende le parole per la conversione, in alcuni momenti, lo si deve tenere nel proprio cuore e usare solamente a riscaldare i focolari della carità. Egli lo ripeteva spesso: «Saremo giudicati sulla carità. Quando mi presenterò a Lui, Dio non mi chiederà in primo luogo se sono musulmano, cristiano, o indù, ma se ho amato qualcuno, se l'ho riconosciuto in chi faceva fatica come me».

    Francesco intanto continuò a fare le cose di sempre: pescava e andava nei villaggi incantando i serpenti, i bambini, i giovani, gli adulti, offrendo un po' di riposo alle giornate bengalesi tanto faticose. Verso sera tornava, preparava la cena, si dedicava alla preghiera nella sua tenda, o nella barca-carovana e, dopo cena, dedicava lunghi tempi a stare con il gruppo a raccontare testimonianze di vita, a riflettere insieme e semplicemente condividere la gioia di stare insieme del gruppo.

    Intanto passarono gli anni, e quando vedevo Francesco con i musulmani mi sembrava sempre più musulmano, quando poi lo vedevo con gli indù mi pareva sempre più indù, e lui era sempre più entusiasta della propria fede cristiana e avrebbe voluto incendiare il mondo intero di questa fede.

    Un giorno mi confidò: «Mi trovavo alla festa dell'ID (Vengono chiamate per brevità «festa dell'ID» le due più grandi feste musulmane: Id-ul-fitr, che è la fine del grande digiuno, e Id-hul-ajha, che ricorda il sacrificio di Isacco (per alcuni teologi islamici Ismaele) fatto da Abramo.) con i musulmani, al momento della preghiera, quando centinaia di uomini erano prostrati sui loro personali tappeti stesi in quel campo. Io mi trovavo accanto a loro, anch'io pregando, e mi chiedevo: se per dire "Signore" ho bisogno della forza dello Spirito Santo, con la forza di chi essi si prostrano e pregano dicendo: "Dio, sei misericordioso, sei il Creatore, sei l'Altissimo ecc."? E mi rispondevo: certo lo stesso Spirito Santo che prega in me, prega in loro e li piega di fronte all'Altissimo. Quindi mi dicevo: allora che cosa ci può separare? Siamo tutti bambini di fronte allo stesso Padre, che preghiamo con lingue diverse, preghiere diverse, liturgie diverse, ma dirette allo stesso unico Dio. E se il mondo dovesse finire tra pochi istanti, non dovrei preoccuparmi di correre a cercare acqua da buttare sul capo ai miei fratelli, né essi si dovrebbero preoccupare per la mia circoncisione; gli uni e gli altri siamo battezzati e circoncisi, non nell'acqua, non nella carne, ma nell'unico Spirito Santo». 

    Ero stato a trovarlo una sera per capire meglio come si rapportava con la gente e mi giunse una risposta imprevista: era appena arrivato da un villaggio. Lo avevano chiamato nel pomeriggio due signori perché andasse a visitare un ragazzo paralizzato, figlio del Cearmen (sindaco) del paese. Egli andò facendosi accompagnare da due amici Baidda. Durante il cammino il gruppo si era ingrandito e i curiosi erano aumentati a dismisura. Quando arrivò all'abitazione fu invitato a sedere sotto un grande porticato dove, durante la giornata, diversi operai fabbricavano cestini di bambù. Attese il Cearmen e il malato mentre gli uomini, in poco tempo, riempirono il porticato. Il Cearmen arrivò e si iniziò un dialogo informale: chi sei? Da dove vieni? Cosa fai? Poi arrivò l'atteso ragazzo paralizzato che, in realtà, camminava solo un po' più lentamente degli altri. Francesco lo fece sedere, guardò i riflessi degli arti, gli occhi, le orecchie, poi disse: «Ha avuto la polio, vero?» «Sì», disse il padre. Francesco capì che la situazione del ragazzo non era grave. Una gamba e un braccio un poco più piccoli, più deboli, ma nulla di particolare. Sollevò il ragazzo e lo invitò a camminare sotto quel portico dove gli uomini avevano lasciato uno spazio. «Cammina più veloce!» ripeté più volte Francesco e sembrava che il ragazzo avesse paura a camminare; ma camminò più veloce, poi più veloce ancora, anche se sostenuto dal braccio di Francesco per dargli sicurezza.

    Poi Francesco si arrestò improvvisamente in un silenzio di sorpresa e guardò al papà dicendo: «Si, c'è una medicina che vi posso dare, efficace e non costa nulla, ma non deve prenderla il ragazzo, bensì il padre». Quei duecento uomini sbarrarono gli occhi e si fecero attenti, curiosi e stralunati per la medicina. «Il padre deve mettere nella sua mente una cosa molto semplice: che suo figlio non è malato, può camminare, usare entrambe le braccia come ogni ragazzo della sua età. Vero che non andava a scuola?» «No», disse il padre «non è mai andato». Francesco soggiunse: «Allora lo manderete domani con gli altri; non solo a scuola, ma a giocare come fanno tutti. Il ragazzo ha avuto solo qualche problema di salute all'inizio della malattia, ma l'ha superato bene; invece la sua paralisi è rimasta nella vostra mente». Poi si rivolse ai suoi due amici Baidda: «Andiamo,» disse, «il nostro lavoro è finito. Dio vi benedica» e si incamminò. Il Cearmen lo raggiunse per chiedere come lo poteva compensare, ma Francesco disse: «La vostra gioia è la mia ricompensa. Anche tu, che sei a capo di questo paese, quando puoi fare qualcosa per qualcuno non perdere l'occasione», e partì.

    Quando giunsi al suo campo era arrivato da poco, aveva fatto il bagno nel canale e stava preparando un po' di cena; quando mi vide aggiunse un po' di riso, una patata e un uovo anche per me. Intanto, uno che lo aveva seguito, gli chiese: «Ho sentito che non sei sposato. Se è vero, sai che il Corano dice che l'uomo deve sposarsi?»

    Francesco, continuando a preparare la cena, ma dando tutta la sua attenzione, disse: «È vero che non sono sposato ed è anche vero ciò che è scritto nel Corano. Anzi, nella prima pagina della Bibbia si dice pure che Dio (Allah) ha creato l'uomo e la donna perché abbiano figli e così popolino il mondo. Sì, questa è la strada normale, ma se Allah ti chiede personalmente di percorrere un'altra strada, che rispondi? Mi spiego», e lasciò la pentola per sedersi vicino a lui con più attenzione. «Conosco un amico in Pakistan che è musulmano, laureato in legge, e quando ha conosciuto la situazione dei bambini di strada ha deciso di non sposarsi. Ha rinunciato a una famiglia propria per una più grande e in venticinque anni ha salvato dalla strada circa tremila bambini e bambine, la maggior parte senza famiglia. Che ne pensi? Questo avvocato musulmano pakistano ha lavorato contro il Corano o a favore di esso? Ha lavorato per Allah o contro Allah?»

    Il giovane dimostrò con lo sguardo, il silenzio e l'atteggiamento che si accostava a un mistero che lo superava e, allo stesso tempo, lo affascinava.

    «Vedi», continuò Francesco, «qui c'è una strada che raggiunge la capitale Dhaka: è retta, asfaltata, bellissima. Accanto c'è un canale per le piccole barche e per l'irrigazione. Se mi chiedi: "Qual è la normale strada per Dhaka?", io ti rispondo: "Questa diritta e asfaltata" (come abbiamo detto che è normale la strada del matrimonio). Se però vedo uno che sta annegando nel canale e mi butto per salvarlo, e una decina di metri avanti vedo altri due che stanno rischiando pure di morire e li raggiungo, e una ventina di metri più avanti intravedo qualcun altro che sta annaspando e mi dirigo anche là, se tu mi gridi: "Ehi! la strada normale per Dhaka è questa asfaltata, vuoi mica raggiungere Dhaka nuotando?", io ti rispondo: "Vedi, amico, so che la strada normale è quella, ma se c'è qualcuno che rischia di morire e Allah mi manda là a salvarli, che posso rispondere a Dio? Posso dire di no?"»

    Intanto la maggior parte dei giovani e degli adulti dell'accampamento si erano aggregati e ascoltavano. Le donne, un poco a distanza, sembravano ascoltare con maggiore interesse di chi si era fatto interlocutore. Francesco continuò: «Io penso che il Corano e la Bibbia ci vogliano dire che non possiamo restare soli, a pensare egoisticamente a noi stessi, ma dobbiamo estendere la nostra paternità e maternità fin dove il nostro cuore è capace di raggiungere un altro cuore. Vedi, ho iniziato dicendo che non sono sposato; in realtà non è vero: io ho sposato questo intero mio popolo e tutti questi bambini sono miei figli e figlie, anche se non li ho generati io. Mi chiamano padre e io lo sono, più dei loro genitori che si preoccupano di mandarli qua e là per qualche servizio, a chiedere l'elemosina e avere così qualche vantaggio. Io sono venuto qui senza un tornaconto, ma perché essi appartengono alla mia famiglia. Mi sono occupato almeno di dar loro una scuola con l'insegnante, mi occupo della loro salute fisica e spirituale, li seguo nei loro settimanali spostamenti».

    Intanto alcuni dei Baidda che vivevano con Francesco, di tanto in tanto ripetevano quei concetti nel loro dialetto locale rendendo più facile la comprensione, ma volendo anche dimostrare che i messaggi che Francesco diceva essi li avevano già assimilati e li condividevano da tempo. Poi Francesco congedò l'amico con un arrivederci al giorno dopo. Sono sicuro che quel giovane tornò la sera seguente con almeno cinquanta amici per chiedere a Francesco di ripetere le stesse cose a quanti non le avevano sentite. Così Francesco trascorreva molte serate. 

    Durante la stagione delle piogge Francesco si era spostato con un altro gruppo di quindici tende e questi zingari erano indù. All'inizio cercò di ambientarsi nella nuova cultura e non fu facile, specialmente perché non conosceva il loro lavoro. Essi facevano statue in gesso o in cemento. In passato erano stati artisti di statue in fango dipinte con colori naturali che erano destinate, durante la pujia (liturgia indù), a simboleggiare la presenza delle divinità venerate e che, dopo la celebrazione, dovevano essere portate al fiume e sciolte nell'acqua. Ora gli zingari facevano questo nuovo lavoro più redditizio perché le statue erano destinate a restare permanentemente in tempietti o nelle famiglie stesse. Ogni giorno gli indù mettono fiori davanti a queste immagini, ripetono antiche preghiere e le profumano di incenso.

    All'inizio Francesco chiese alcune informazioni sulla tecnica di quell'artigianato e, guardando e cercando di imitarla, in poco tempo diventò capace di realizzare tutti i lavori che essi facevano. Si era aggregato alla famiglia del più anziano e viveva come loro. I clienti, a volte, chiedevano un immagine della Madonna o della Sacra Famiglia, ma erano fatti rari. I musulmani non richiedevano nessun tipo di immagine, mentre gli indù chiedevano le statue di Ganesh, Shiva, Krishna, le loro divinità preferite. Ogni giorno, nel campo, c'era il via vai di una mini fabbrica all'aperto. Lavare le forme di gomma, preparare il gesso, versarlo a diverse riprese, mettere le statue ad asciugare, correre per proteggerle con pezzi di plastica quando, improvvisamente, arrivava l'acquazzone, preparare i colori, dipingere e verniciare era il lavoro di tutti, grandi e piccoli, in tutto l'accampamento. Per i piccoli, Francesco aveva provveduto ad un lavoro diverso nelle prime ore del mattino: infatti un insegnante che viveva con loro dedicava questo tempo a una scuola mobile in tenda. Dopo la scuola tutti ritornavano alle stesse occupazioni. Qualcuno, un giorno, chiese a Francesco in modo molto indiretto, perché «perdesse» tanto tempo facendo quel lavoro. Egli semplicemente disse: «Questo lavoro è l'insalata del mio monastero: un monaco spesso dedica diverse ore del giorno a coltivare insalata, pomodori, patate ecc., però nessun monaco è entrato in monastero per coltivare l'insalata. Vedi, il mio cuore non si mescola facilmente al gesso che lavoro».

    Intanto due giorni prima della festa indù di Ganesh, il «datore di lavoro» di Francesco, col figlio maggiore, un aiutante e lo stesso Francesco spingevano un carrello carico di statue mentre uno tamburellava e gridava: «Murtiwala! (Ci sono gli statuari!) Prendete una bella statua di Ganesh». Improvvisamente una motocicletta frenò e si fermò davanti a Francesco. Era il parroco della chiesa vicina che, sorpreso, riuscì solo a dire: «Ma che cosa fai?»; e Francesco: «Stiamo vendendo statue; se vuoi, oggi una la prendi per 20 rupie perché fra due giorni queste non si venderanno più». Si scambiarono poi una risata e un arrivederci. Dopo un momento Francesco si congedò dai colleghi dicendo che andava a fare un paio di telefonate e sarebbe passato nella chiesa. Così fece e incontrando padre Leone, il parroco del suo territorio, gli disse: «Sono venuto a prendere un the, per raccontarti ciò che faccio e perché lo faccio.    Ecco, la ragione è la seguente: stando con gli zingari, normalmente condivido con loro lo stesso lavoro, almeno se non fanno azioni criminose. Questo lavoro è bello, sì, mi piace anche se lo farò per poche settimane».

    «Allora voi costruite idoli».

    «No, amico, nessuno di noi fa quello: gli idoli sono i falsi volti di Dio, sono il denaro, il potere, la gloria e molti altri. Per essi tante persone danno la vita, o la spendono interamente.     Noi facciamo solo delle immagini di Dio. Se dai un pezzo di carta e matita a un bambino e gli dai una bella immagine di Gesù da copiare, se il bambino è molto piccolo e non controlla ancora la sua mano, quando avrà finito la sua opera ti lascerà con poco più di uno scarabocchio. E noi siamo dei bambini che cerchiamo di disegnare immagini. Queste sono pure le immagini che Dio ha accettato per parlare agli uomini durante migliaia di anni, prima che Abramo fosse capace di disegnare un altro volto per il suo popolo. Io non posso dimenticare che le statue fatte con queste mani sono un linguaggio che Dio usa per parlare con questo popolo. Sono un linguaggio povero, ma sono sempre sue parole. Tutti sappiamo che Parola di Dio può essere una visione, un testo sacro, una icona, e noi siamo fortunati perché riconosciamo che la Parola di Dio si è fatta carne ed è venuta ad abitare in casa nostra, ma dobbiamo pur riconoscere tutte queste altre Parole di Dio, anche se povere. Quando i miei amici indù vanno al tempio, io vado con loro. Sì, potrei restare fuori, ma testimonierei che sono ateo. Così vado, porto ghirlande di fiori e condivido la loro espressione di fede, poi mi metto in un angolo e dico loro: voi fate le vostre preghiere che io non so, io faccio le mie che conosco. Poi prego il Padre nostro, l'Ave Maria, il Gloria al Padre, ma non lascio di guardare le loro immagini con rispetto e serenità. Credo che Dio cerchi di lavorare nel cuore di ogni uomo e cerchi di convertirlo alla bontà e se, in un tempio di Ganesh, Dio vuole parlare a quei dieci indù  in preghiera, non ha altro linguaggio se non quella immagine. Non può stimolare il loro cuore attraverso l'immagine della Madonna di Lourdes, né di Gesù Crocifisso, né di sant'Antonio o santa Rita, no: ha solo questa immagine a disposizione per parlare al loro cuore. Se Dio le ama, chi sono io per non amarle con loro? Mi dirai che qualche statua non è bella. Ganesh è addirittura rappresentato con la testa di un elefante: d'altra parte quando noi dipingiamo gli angeli, disegniamo capelli, occhi, naso e bocca come noi, li vestiamo di lunghi abiti e aggiungiamo ali come quelle degli uccelli, tutte cose strane per degli spiriti che non possono avere un corpo come il nostro. Noi siamo umani e abbiamo bisogno di immagini per raggiungere il cuore di Dio. Amando anche le loro espressioni religiose, riesco più facilmente ad amare le persone stesse e, in questo modo, vivo la mia missione».

    «Ma non converti nessuno?»

    «Cerco ogni giorno di convertirli, ma non alla mia religione, ciò che peraltro non mi è concesso: cerco di aiutarli a diventare meno violenti, più misericordiosi, ad amarsi di più tra di loro. Ecco ciò che cerco di fare: convertire ogni giorno il mio e il loro cuore. Esistono diversi modi di aiutare gli altri alla conversione; il modo più vero è quello di predicare le verità che conosciamo e raccontare le testimonianze di coloro che hanno vissuto prima di noi e sono diventati santi; questo stimola al bene e può cambiare la vita. Se però, per diverse circostanze, non è possibile parlare della nostra fede, possiamo però predicare a noi stessi, predicare con insistenza e così convertire sempre di più noi stessi fino a diventare santi, in modo che gli altri, vedendoci, vogliano diventare come noi, fare le cose che noi facciamo, lasciare le strade sbagliate e scegliere quelle della bontà».

    «Ma tu, Francesco, lo conosci quell'altro volto: perché non lo riveli loro?»

    «Appena i segni dei tempi e dello Spirito diranno che è tempo, spero di esserci anch'io. Può essere domani stesso. Intanto nessuno impedisce di predicare le beatitudini, la maggior parte delle parabole, quasi tutti i discorsi di Gesù e l'inno alla carità su cui saremo giudicati».

Intanto padre Leone aveva portato il the, ma senza perdere nulla di ciò che Francesco diceva. Avrebbe voluto che tutto diventasse chiaro anche per lui, e allora disse: «Ma per te tutte le religioni sarebbero uguali?»

    Francesco si sentì quasi offeso, ma si riprese subito e disse: «No, no, se qualcuno pensa questo fonda un'altra religione che manca di rispetto a tutte le altre religioni. Io sono cristiano cattolico; se non ho una chiara identità circa la mia fede, come posso fare dialogo con un'altra religione?»

Padre Leone faceva fatica ad entrare in quella conversazione, solo perché non aveva mai avuto l'occasione di innamorarsi di una persona o di una comunità che appartenesse a una religione diversa dalla sua. Prima di congedarsi, mentre erano già in piedi, volle ancora chiedere: «E se tu dovessi dare la vita per la tua fede?».

    Francesco stemperando la serietà della domanda fece una risata e disse: «Ti assicuro che io non sono degno di questo». Ma, facendosi serio: «È uno dei più grandi doni che desidererei ricevere. Vedi, Leone, noi portiamo un grande tesoro in vasi di creta e solo quando vengono spaccati si vede ciò che c'è dentro. Gesù stesso predicò a lungo con grandi segni e prodigi, ma solo quando spaccarono il suo vaso di creta su una croce, quel venerdì santo, hanno potuto vedere il tesoro che portava dentro. Gli apostoli e molti cristiani predicarono con entusiasmo i miracoli, ma i soldati romani, gli imperatori, i patrizi, i plebei, volevano vedere cosa c'era in quei vasi di creta e ne spaccarono tanti. Furono quei martiri, insieme alla croce, a rivelare il tesoro della fede cristiana. Qui nel sud di questo continente la storia sarà la stessa. Già molti hanno scelto la cultura e la filosofia cristiana, ma troppo pochi hanno scelto la fede della nostra religione. Dobbiamo lasciarci spaccare perché essi possano vedere. Quando semplicemente mi ammalo e colleziono una nuova malattia tropicale e non fuggo, i miei amici, gli zingari dei fiumi, mi guardano sempre più incuriositi e si domandano perché continuo a restare, a occuparmi dei loro bambini, di loro stessi e anche dei loro nemici. E proprio quando la malattia mi rende più fragile, più debole, provocando crepe in questo mio vaso di creta, essi, i miei amici musulmani e indù, riescono a vedere più facilmente il tesoro che porto dentro.      Ciao Leone, oggi ho parlato troppo. Ciao».

    «Torna presto, mi raccomando; anzi, vengo io da te. Ciao». 

    Quando mi incontravo con Francesco, ci raccontavamo questi incontri, le nostre esperienze, condividevamo il nostro cammino di fede e, a volte, lo celebravamo insieme incoraggiandoci a vicenda. All'inizio delle piogge, mi ero poi spostato a nordovest e lui era rimasto nel sud del Bangladesh. Restammo molti mesi senza vederci; avevo avuto notizia che Francesco si era aggregato a un gruppo di nomadi ex indù; mi esprimo così perché di religione indù non avevano più nulla: «Né tempio, né sacerdote, né profeta», nulla che li potesse aiutare nella loro fede ed essi, nelle grandi feste, si riunivano sotto qualche albero sacro, ripetevano qualche formula che ricordavano, bruciavano un po' di incenso e ripartivano. Francesco li invitò a pregare con lui e a scoprire il nuovo mondo della fede cristiana. Altri missionari avevano iniziato a fare la stessa cosa. La persecuzione non tardò ad arrivare, e Francesco, che era capace di arrestarsi di fronte a un fiore posato con sincerità di fronte a qualsiasi divinità della foresta, non era certo disposto ad arrestarsi di fronte ad essa.

Il mio gruppo, intanto, si era spostato verso l'India. Dopo qualche tempo ricevetti la notizia confusa che avevano ucciso un missionario in quella regione. Forse la paura, più che il subconscio, mi disse che certamente poteva essere Francesco. Cercai informazioni più dettagliate ed ebbi, in breve, la conferma che non era lui, ma uno proprio come lui. Raggiunsi presto Francesco e sapemmo che l'assassinato era un pastore che, con i suoi due figli, era andato in un villaggio per la catechesi. Il timore che il cristianesimo diventasse troppo popolare in quella regione e i pochi bramini potessero perdere quel briciolo di potere rimasto, aveva mosso qualcuno a legare il missionario e i due bambini nell'automobile e incendiare il tutto. La moglie e madre dei due bambini, accanto alla figlia sopravvissuta, di fronte a quei tre corpi carbonizzati rivelò il tesoro che portavano dentro, quando disse: «Io perdono tutto e tutti coloro che hanno bruciato questa parte di me, perché questo me lo ha insegnato Gesù Cristo e, se me lo permettete, continuerò a lavorare con voi e per voi». I tre vasi di creta erano stati frantumati: molti videro il tesoro che portavano dentro e qualcuno potè dire: «Veramente Gesù è il Salvatore del mondo».

    Quella sera Francesco ed io pregammo insieme. Pregando il Magnificat con quella madre nel cuore ci accorgemmo che, entrando nel terzo millennio, nuovi segni dei tempi e dello Spirito si intravedevano a distanza: stava iniziando un'era nuova, e i nostri vasi di creta tremarono di paura e di gioia.