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Chi era Gesù? Reportage annozero

Chi era Gesù?  Reportage annozero

di don Renato Rosso

Da  "Il Piccolo" 

Vita della diocesi di Faenza - Modigliana

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Parte la nuova rubrica del missionario don Renato Rosso che ci racconta Cristo vicino ai poveri

   


Portare, con un linguaggio popolare, la notizia che riguarda Gesù là dove la voce dal pulpito non sempre arriva.

È questo l’obiettivo della nuova rubrica sul nostro settimanale a cura di don Renato Rosso, missionario italiano in India e Bangladesh, la cui storia avete potuto leggere su il Piccolo in diversi articoli a firma di Raffaele Gaddoni del Comitato di Amicizia. In questo primo articolo introduttivo don Renato ci scrive alcune direttrici che ci accompagneranno in questo viaggio.

Gesù e la nostra storia

Gesù è certamente l’uomo più straordinario della storia dell’umanità e la sorpassa.

Tutti i teologi e i filosofi della storia (almeno degli ultimi duemila anni) hanno sentito il dovere di porsi di fronte al fenomeno Gesù per adorarlo o condannarlo, per prenderne le distanze o, ancora, per combatterlo, ma non hanno potuto fare a meno di confrontarsi con Lui.

Migliaia di teologi cristiani e padri della Chiesa hanno studiato, approfondito e sviscerato il mistero di Gesù, Messia e Figlio di Dio. Solo nel secolo XIX (quando il libro cartaceo aveva ancora un’importanza rilevante) sono stati scritti oltre 62.000 libri su di Lui.

E anche un filosofo come Benedetto Croce scrisse: «Il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto». Kant, Hegel, Marx e tutti i filosofi degli ultimi venti secoli hanno

dovuto porsi il problema di quest’uomo.


Nell’arte

Che cosa non hanno prodotto l’arte pittorica e la scultura – incaricate di raccontare e approfondire i misteri della fede – nelle migliaia di chiese, musei e case nostre?

Quale personaggio ha occupato più spazio su tele, mosaici, pareti affrescate e in tutta la statuaria del  mondo? Anche i milioni di cappelle, chiese, cattedrali e basiliche in tutto il globo testimoniano una fede in Gesù Cristo robusta, equilibrata, espressa in straordinaria bellezza. E la musica? Quanti milioni di spartiti per strumenti musicali hanno prodotto inni, canti, sinfonie e corali nelle chiese, nei teatri e nelle case, glorificando questo nome: Gesù?


Il Dio di Gesù

Il racconto che verrà proposto nei prossimi articoli ci farà intravedere il Dio predicato da Gesù Cristo, il Dio buono, il Dio dei poveri e dei peccatori, che hanno solo bisogno di perdono, misericordia e compassione. 

Mentre prega, alcune volte Gesù rivolge gli occhi al cielo, ipnotizzato dal Padre, ma non perde d’occhio nessun uomo, nessuna donna, nessun bambino che possa aver bisogno di Lui. I poveri e i malati sperano che ritorni presto nel loro villaggio e nei loro accampamenti, perché hanno proprio bisogno di Lui. 

Negli articoli che seguiranno si incontrano i dubbi e le risposte più comuni, affinché in modo semplice, ma non superficiale, ciascuno sia in grado di dar ragione della propria fede. Avere dei dubbi è segno che pensiamo e quindi è un bene, ma rimanere senza risposte è anche segno di pigrizia. 

Un pensatore sosteneva che chi pensa poco non ha mai la tentazione di dubitare, ma non ha nemmeno tanta probabilità di ottenere delle certezze.

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Pensatori non cattolici di fronte a Cristo

Nelle righe che seguono intendo  presentare in particolare alcuni pensatori che, pur senza aver raggiunto la fede nel vero Gesù del Vangelo, non hanno potuto fare a meno di soffermarsi a riflettere su di Lui.


Kant. 

Ha professato un cristianesimo «nei limiti della pura ragione» e la riduzione della religione a pura razionalità morale. 

Il cristianesimo è ritenuto da Kant la più perfetta delle fedi, la religione più pura e la più vicina al modello di religione ideale della ragione. In ogni caso, anche questo filosofo non ha potuto continuare le sue riflessioni senza fermarsi per tempi prolungati a pensare al mistero di Cristo.


Hegel. 

Nella sua Vita di Gesù, Hegel – nel racconto dell’ultima cena – mette sulla bocca di Gesù stesso queste parole, rivolte agli apostoli: «Conservate nel vostro ricordo colui che ha dato la sua vita per voi, e fate dinanzi a Dio fermo proponimento di consacrare tutta la vostra vita alla virtù». Il Gesù di Hegel non ha raggiunto tutto il vero Gesù dei Vangeli, ma ne ha intravisto il fascino.


Marx. 

Giovane credente, nel 1846, nel testo Gegen Kriege, Marx specificò che le radici del suo pensiero erano due: la legge cristiana dell’amore universale per l’uomo e l’analisi delle condizioni del proletariato oppresso.


Sartre. 

Prigioniero nel lager nazista tedesco di Treviri, nel Natale 1940, su invito dei colleghi, tra cui alcuni amici sacerdoti, Sartre scrisse un testo teatrale sulla Natività di Gesù, inscenato nel lager stesso. Dice che quel 

bambino che nasce da Maria è «come una nuova edizione del mondo. Tu ricreerai il mondo». È il testo che ha permesso all’ateismo di Sartre di lasciarsi incrinare almeno per un momento.


Napoleone

Testimoniò che «Nessuna persona al mondo sostiene il confronto con Gesù, il suo Vangelo, il suo cammino attraverso i secoli, tutto rappresenta per me un miracolo. È un mistero insondabile. Tra il cristianesimo e qualsiasi altra religione c’è una distanza infinita».


Mahatma Gandhi. 

Di religione indù, con la sua grande anima arrivò a dire: «Credo che Gesù appartenga non solo al cristianesimo, ma al mondo intero, a tutte le razze e a tutti i popoli». 


Rabindranath Tagore. 

Pure lui indù, in un libro su Gesù, scrisse di Lui: «Il suo immenso amore per me sa ancora attendere il mio amore».


Albert Einstein. 

In un’intervista a proposito della propria fede, afferma: «Da bambino ho ricevuto un’istruzione sia sul Talmud che sulla Bibbia. Sono un ebreo, ma sono affascinato dalla figura luminosa del Gesù di Nazareth».


Gesù, il cuore della storia. 

Per tanti pensatori non cristiani, e tra questi i maggiori filosofi di questi 2000 anni che si sono confrontati con Gesù Cristo, Gesù è morto quel venerdì pomeriggio e ha lasciato nelle loro mani solo 

la ricchezza dei suoi insegnamenti morali e del suo comportamento della più nobile virtù. Essi non hanno fatto in tempo a incontrarlo risorto e vivente, ma hanno testimoniato di aver incontrato in Lui il cuore della Storia e nessuno da porre a confronto con Lui.

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Cristo, un incontro tra storia, fede e ragione

Fede e ragionevolezza.

Prima di raccontare la storia di Gesù di Nazareth e di riflettere sulla fede della Chiesa dei primi cristiani, bisogna premettere che, mentre la ragione e la ragionevolezza sono indispensabili alla fede, il razionalismo, ovvero il voler considerare vero solo ciò che è dimostrabile, visibile e sperimentabile, può trasformarsi in grande pericolo per la fede. Se, nel tempo, migliaia di eresie hanno attaccato il solido "corpo teologico" che portava con sé il contenuto della fede della comunità Primitiva, specialmente negli ultimi due secoli alcuni studiosi hanno tentato un approccio volto in qualche modo a cancellare il Mistero Cristiano. Alcuni, spogliandolo di tutte le prerogative divine, hanno considerato Gesù soltanto come uomo, altri hanno preferito considerarlo un mito. 


A Gerusalemme dicono che un uomo è risorto

Dopo che Gesù fu crocifisso e sepolto, gli amici di Gesù caddero in un silenzio di grande delusione. Avevano sperato che finalmente liberasse il paese dai nemici romani e diventasse Lui il Re di Israele. Quel piccolo gruppo non si era ancora reso conto che Gesù era morto, quando fu travolto da un'esperienza straordinaria e assolutamente imprevedibile: lo incontrarono vivo. La notizia che Gesù era risorto si diffuse in breve. 


La comunità primitiva rilegge le Scritture per capire chi è Gesù. 

Subito dopo la straordinaria esperienza della Risurrezione di Gesù, i discepoli e la piccola comunità della prima ora hanno pur dovuto interrogarsi: "Ma, allora, chi è stato e chi è Gesù?". Mentre la mente dei discepoli lentamente si illuminava ed essi cominciavano a rendersi conto di essere stati compagni di viaggio dell'uomo più straordinario della storia di tutti i tempi, iniziavano pure a riformulare un nuovo interrogativo: "Quale Regno dunque?". Gesù non ha fatto la rivoluzione, non ha liberato Israele dai Romani, ma allora chi è stato Gesù? 


Consultano le Scritture. 

Bisogna considerare chei membri della Comunità primitiva e i discepoli di Gesù erano ebrei fedeli all'Eterno Israele e quindi alle Sacre Scritture. Per questo andarono a cercare se trovavano qualche risposta nelle Scritture stesse e le rilessero insieme, per fare come aveva fatto Gesù con i discepoli di Emmaus: aveva ripreso con loro le Scritture mostrando tutto ciò che si riferiva a Lui, per capire appunto chi è stato e chi continuava a essere Gesù, il Cristo che era appena risorto. 


Israele legge le Alleanze. 

I discepoli, intanto, cominciano a rileggere le alleanze tra Dio e il suo popolo, con Adamo ed Eva, con Noè, Abramo, Mosè, a cui dà una Legge per salvarlo. E, da ultimo, i discepoli e forse alcuni della prima comunità, avevano da poco, assistito alla Nuova ed Eterna Alleanza celebrata da Gesù nell'ultima cena e consumata il giorno dopo sul Calvario per il perdono dei peccati. Anche Gesù, come i Patriarchi, aveva fatto un'alleanza per la salvezza del suo popolo. L'alleanza è un patto, una stretta di mano. Con un linguaggio plastico voglio pensare Gesù che, da un lato stringe la mano a Dio Padre in segno di patto e, dall'altra, la porge all'uomo: fratello, sorella o famigliare. Tra queste strette di mano il perdono passa da Dio all'uomo e la Nuova ed Eterna Alleanza è firmata per sempre. 

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I discepoli leggono i profeti che annunciano il Messia

Gesù, uomo dei dolori .

Leggendo i testi dei profeti, i discepoli compresero meglio Gesù. Inoltre trecento pagine della Bibbia si parla di un masiah (unto), un Messia, una figura regale, un consacrato di Dio. Le profezie non avevano mai specificato chiaramente chi sarebbe stato quell'inviato di Dio.

Il popolo di Israele aspettava l'arrivo di questo salvatore-liberatore. A tal proposito, Isaia dichiara: «Io, il Signore, ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, per aprire gli occhi ai ciechi e liberare i prigionieri dal carcere e liberare quelli che abitano nella notte». E Daniele soggiunge: «Il Dio del cielo inaugurerà un regno che non sarà mai distrutto». Il  Messia atteso ha quindi una chiara connotazione regale, ma Isaia lo presenta anche come il "Servo sofferente", l' "Uomo dei dolori". 


Gesù è il vero Messia. 

I discepoli di Gesù comunque avevano potuto capire che Lui doveva essere quel Messia tanto atteso, anche se non riuscivano a inquadrarlo. Solo al termine della vita del Maestro, hanno potuto leggere e capire certi testi, in cui Isaia afferma che era disprezzato e rifiutato dagli uomini. I dodici avevano capito chiaramente che Gesù era il Messia ma, mentre era ancora in vita, avevano 

ipotizzato altrettanto chiaramente che fosse il liberatore dagli invasori romani, anche se Gesù aveva proclamato l'amore per i nemici. E, poiché aveva manifestato una forza superiore era doveroso aspettarsi che sarebbe stato Lui a portare a termine, in modo pacifico, l'impresa della liberazione. Tutti sognavano il tempo del Messia. Gesù era diventato questa speranza. Gli apostoli avevano assistito al fatto che i poveri senza cibo erano stati sfamati. Gente triste aveva ricevuto vino per la festa. I malati guarivano, curati dalla sola volontà di Gesù. Perfino alcuni morti erano stati riportati in vita, quindi era chiaro che il Messia non poteva essere che Lui. Però la guerra contro Roma non era stata combattuta e Israele continuava ad aspettare la sua liberazione. 


Un problema non risolto? 

Per alcuni il problema esisteva: «Se non si fa la guerra contro Roma, allora dobbiamo accettare passivamente la schiavitù?». I Romani erano ancora là; continuavano a passare nelle strade di Gerusalemme. Questo significa, forse, che per Gesù andavano le croci e la sudditanza? Certamente no, ma per realizzare il Regno nuovo di Dio, bisognava entrare in una nuova mentalità e convertirsi a quel modo di pensare proposto da Gesù: se, infatti, avessero seguito la sua pista amando i nemici, non ci sarebbero più state guerre; perdonando gli altri non ci sarebbero più state né vendette, né violenze; se poi tutti avessero spezzato i pani e lavato i piedi al prossimo, provvedendo ai bisognosi come a dei famigliari, avrebbero fatto ritrovare anche ai poveri cibo, casa e vestiti, in modo da farli risalire dalla miseria. La strada era stata tracciata chiaramente da Gesù, ma gli uomini non riuscirono a vivere questo nuovo Vangelo. 

Oggi stesso, se noi, ubbidienti alle parole del Salvatore Gesù Cristo, vivessimo come Lui ci ha detto, se pensassimo, parlassimo e agissimo come Lui, amando come amò il suo cuore, vivremmo già qui, sulla terra, il Regno predicato da Lui e destinato ad estendersi all'eterno. Se i Giudei avessero creduto a Gesù Cristo come quella prima piccola comunità cristiana e se anche i Romani avessero creduto come fece uno dei loro centurioni, il Regno di Dio si sarebbe realizzato anche visibilmente: i Romani sarebbero tornati a casa e avrebbero potuto tutti fondere le loro spade per fare degli aratri e vivere così un vero tempo del Messia, un nuovo Regno di Dio. 

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Maria e Giuseppe, l'inizio tra  grazia e silenzio

La vita di Gesù si svolge tra l'anno 6-7 e l'anno 30 dell'era cristiana. La sua città di provenienza era Nazareth, nel territorio della Galilea, regione semipagana e perciò disprezzata dai puri israeliti. 

A Nazareth inizia la storia della salvezza. Le colline sono rivestite di case, strade, mercati, chiese, moschee e sinagoghe, ma il pellegrino attento riesce a distinguere, tra le altre, le pietre testimoni degli avvenimenti che 2000 anni fa hanno cambiato la storia e l'hanno divisa in due parti: prima e dopo Gesù Cristo. Se ci mettiamo in pellegrinaggio su quella terra santa, possiamo sostare davanti alla Basilica dell'Annunciazione, per lasciar fuori ogni colore, ogni rumore, ogni preoccupazione ed entrare, in punta di piedi e con infinito pudore, nell'intimità di quelle pareti - pochi metri scavati nella roccia - in cui si è costituitala nuova ed eterna Alleanza. 


Le annunciazioni 

Ora, con il Vangelo in mano, possiamo leggere la ricchezza, la grazia, la parola e il silenzio della famiglia di Nazareth. All'inizio del suo vangelo, Luca racconta che un angelo era entrato in casa di Maria e le aveva annunciato che proprio lei sarebbe diventata la madre del Messia atteso da secoli. Quando, ancora oggi, entriamo tra le pareti di questa casa, riascoltiamo l'eco di quelle parole che nessun sapiente di questo mondo avrebbe potuto pronunciare, ma solo Dio. Qui, la prima Ave Maria è stata pregata da un angelo: «Ave Maria piena di grazia, il Signore è conte». E Maria ha risposto: «Ecco sono la serva del Signore, si compia in me secondo la tua parola». E la Parola di Dio è diventata un bambino che venne ad abitare in mezzo a noi. Elisabetta ha poi aggiunto: «Benedetta tu fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù». A questa preghiera si è poi unita l'intera Chiesa per dire: «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori adesso e nell'ora della nostra morte. Amen». In questa casa oggi migliaia di pellegrini ripetono questa stessa preghiera. 

Questa pagina - un'omelia che si proclamava nella prima comunità e che fu raccolta da Luca - vuole incidere nel cuore dei cristiani di allora e di oggi il fatto che, fin dal primo momento dell'esistenza storica di Gesù, Dio è presente come Signore della storia di suo figlio, che lo chiamerà con l'appellativo più sacro al mondo: Padre. Anche Giuseppe fu avvisato in sogno che sarebbe nato quel bambino e che lui e Maria sarebbero stati i suoi custodi. 


Storia d'amore 

All'inizio di questa lunga storia d'amore abbiamo appena incontrato le due annunciazioni - quelle di Maria e di Giuseppe - che rivelano e nascondono il mistero dell'Incarnazione nel suo costituirsi. Poi il dramma di Maria bambina: in un primo momento, sentendosi per così dire investita dallo Spirito Santo e restando stordita, senza parole, forse corre verso casa scappando dalla fontana, proprio dove potrebbe aver ricevuto il primo sentore del Divino su di lei. E, infine, rendendosi conto di ciò che le era successo come lo poteva capire un'adolescente - ma piena di grazia - non riesce a dire altro: «Sì, sono la serva del Signore». 

Poi, l'annunciazione di Giuseppe, un ragazzo così pulito da meritare di essere chiamato "giusto" da tutta la storia, ebbene proprio lui deve condividere con Maria l'umiliazione di essere considerato infedele, senza mai poter chiarire la verità a nessuno, perché nessuno avrebbe potuto capire né credere.

Solamente ai due sposi che stavano portando in gestazione l'Autore della storia nuova, solo a essi era stato rivelato il mistero e cioè che lo Spirito Santo aveva direttamente compiuto in Maria il miracolo dell'Incarnazione.

Così questi giovani sposi, Giuseppe e Maria, devono presentarsi a testa bassa, come infedeli e colpevoli, nelle strade del loro borgo, alla fontana, nella sinagoga, nel mercato di Nazareth, incarnando in un modo drammatico la beatitudine: «Beati voi, quando diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia, anzi rallegratevi, perché quello è il Regno di Dio». 

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La nascita del Figlio di Dio e la strage degli innocenti

Per ordine di un censimento, Giuseppe partì con la sua sposa Maria per Betlemme, la sua città, e là farsi registrare, ma prima di raggiungere la casa dei parenti, si compirono per lei i giorni del parto e, secondo quanto ci racconta Luca, nato il bambino, fu avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia, perché non era stato trovato posto nell'alloggio. C'erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all'aperto, vegliavano tutta la notte, facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l'angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo. Oggi, è nato per noi un Salvatore, che è Cristo Signore. Troverete il bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che  egli ama». Ovviamente i pastori andarono subito e trovarono Maria, Giuseppe e il bambino. 


I Magi e il re Erode.

L'evangelista Matteo continua dicendo che oltre ai pastori arrivarono poi dei Magi e astrologi che cercavano il re dei Giudei, secondo alcune loro interpretazioni delle stelle. Arrivati a Gerusalemme dove viveva il re Erode, andarono da lui a chiedere: «Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». Erode, turbato da questa notizia e terrorizzato che fosse nato qualcuno che avrebbe potuto rubare il suo potere, riunì i capi dei sacerdoti e gli scribi per sapere dove sarebbe nato questo re, questo Cristo, cioè uno già consacrato re.  La risposta fu semplice: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: e tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l'ultima delle città di Giuda: da te infatti uscirà un Capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele». Occorre notare che il trafiletto di Luca riportato poco sopra, non è stato scritto subito dopo la nascita di Gesù, ma diversi anni dopo la Risurrezione e la Pentecoste. Se qualcuno avesse scritto un articolo sulla nascita di Gesù per una cronaca di fine dicembre dell'anno 3760 (data ebraica), avrebbe pressappoco scritto che in un accampamento di beduini, tra grotte naturali per gli animali e tende, una coppia di sposi in viaggio, prima di raggiungere i parenti, fu sorpresa dalla nascita del figlio e in quel luogo trovò l'ospitalità calorosa di quei pastori. E gli evangelisti, scrivendo la testimonianza di Gesù e sapendo che Lui è un vero Re, che è risorto e siede alla destra del Padre, non poterono omettere che gli angeli del cielo hanno cantato e che i Re della terra e anche le stelle si siano messe in viaggio per far visita a questo straordinario sovrano. 


La follia di Erode 

Intanto Erode, informato che Betlemme sarebbe stato il luogo di nascita del nuovo Messia e futuro Re, quando si accorse che i Magi se n'erano andati senza fare alcuna azione di spionaggio e si erano presi gioco di lui, s'infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini sotto i due anni di età che si trovavano a Betlemme e in tutto il territorio. Il fatto della strage degli innocenti, che presenta alcune ragioni a sfavore della sua storicità e legittimità, ci riporta però dei dettagli storici preziosi, che aiutano a capire il mondo politico in cui Gesù passò l'infanzia; a conoscere i capi che spesso non esitavano ad abusare del potere o a usare la violenza. Tali elementi inducono anche a considerare come da re Erode ci si potesse aspettare qualunque atrocità, compresa una strage di innocenti. 


Gesù, figlio del popolo eletto

Di fronte alle follie di Erode, Giuseppe potrebbe essere fuggito ben presto da quel territorio e aver riparato o in Egitto, che non sarebbe stato poi così distante, o in una regione comunque più sicura. E Matteo potrebbe aver colto l'occasione di paragonare quella fugga a quella del popolo eletto, che aveva dimorato a lungo in Egitto. 

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Alla scoperta di Nazareth, la patria di Gesù

Gesù respira l'aria di Nazareth. Nazareth è un villaggio sperduto della Galilea, di cultura quasi montanara, dove i malati e i poveri in genere sono tanti, anzi troppi. E' situato in zona collinare, lontano dalle strade commerciali. I contadini delle sue colline sono persone semplici e riservate, non particolarmente festaiole. Ma al venerdì sera e al sabato, in sinagoga, o durante le feste e i pellegrinaggi, il paese sa vestirsi a festa e godere della preziosa vita paesana e patriarcale. Nazareth non è ricordato in nessuna scrittura, tanto che, nel suoi scritti, lo storico Giuseppe Flavio cita almeno 45 paesi della Galilea, di cui alcuni molto piccoli, senza mai nominarlo. 

D'altronde la regione è malfamata e i Vangeli non hanno ritegno a scriverlo più di una volta: sembra che non sia un terreno buono perché possano nascervi dei profeti. Si pensa pure che nulla di buono possa venire da quell'insignificante villaggio e invece il Nazareno viene proprio di là. 

Di fatto, però, Matteo e Luca fissano la nascita di Gesù a Betlemme, il villaggio dove deve nascere il Messia, che però non farà mai parte della storia di Gesù. Questo bambino, infatti, non respira l'aria di Betlemme, ma quella di Nazareth e sarà chiamato da tutti il Nazareno. Si può reputare Betlemme come suo luogo di nascita solo per attestare che un migrante può nascere casualmente in qualunque luogo geografico, durante gli spostamenti della sua famiglia, ma mantiene pur sempre la sua origine, la sua storia legata a una casa, a un villaggio, a una famiglia estesa o a un gruppo tribale, che gli offrono la sua vera e solida identità. 


Il villaggio 

In Galilea, all'epoca di Gesù, la comunicazione tra i vari paesi creava molti problemi, in quanto le strade decenti erano rare. Lo stesso lago di Genezareth, importante centro di quella regione, si raggiungeva solo percorrendo una vallata senza vere e proprie vie di transito. Eccettuata una discreta carreggiata tra Nazareth e Sefori - allora capitale della Gallica -, le altre erano piste, che diventavano assai disagevoli specialmente nei periodi di pioggia. Il villaggio di Nazareth era attorniato da terrazze artificiali sulle quali sfilavano le viti, mentre ulivi e fichi trovavano il loro spazio ideale sui terreni pietrosi. 

Verso la valle si estendevano campi di grano, orzo, mais, mentre ai lati cresceva qualche albero da frutta. Le case di Nazareth erano generalmente piccole, costruite con pietre o mattoni crudi, mentre il tetto, fabbricato con rami e fango, veniva rinnovato quando le piogge causavano crepe o infiltrazioni pericolose. Nell'area della casa e del cortile, condiviso tra alcune famiglie - generalmente di parenti stretti - venivano scavate nella roccia ampie cisterne per l'acqua e silos per immagazzinare grano, riso o orzo. Anche i mulini, i forni e i torchi erano generalmente condivisi. 


Preziosi ricordi 

Tutto ciò che capitava in quella famiglia con Giuseppe e Maria veniva registrato nella memoria di quel bambino attento e intelligente, che accompagnava la mamma al frantoio per l'olio, al forno per il pane. Era là quando si pigiava l'uva e la si torchiava per il buon vino. Aveva inoltre vissuto il momento dei pasti e la loro preparazione, con tutto ciò che passava nelle mani della madre: la farina, il lievito nella pasta, l'olio, le uova, il riso, le verdure, la frutta, le spezie. E quando tutto era pronto, se si mangiava in casa, aveva visto fissare la candela sul candeliere affinché la stanza, quasi sempre senza finestre, fosse illuminata per i pasti. 

Quel bambino vedeva anche i contadini partire e arrivare con i buoi per preparare la semina o gli asini carichi di covoni di grano. Vedeva la fatica sulla fronte dei contadini, ma anche l'allegria di giovani e adulti che, al venerdì sera, si preparavano per la festa andando alla sinagoga, luogo veramente prezioso di aggregazione di tutta quella comunità paesana. 

Aveva poi conosciuto l'andirivieni per preparare le feste di matrimonio di parenti o vicini, che coloravano di gioia non solo la famiglia, ma anche l'intero villaggio. Gesù aveva anche assistito a tante lacrime per i lutti di bambini e colto la tristezza sui volto di molti malati o poveri che non potevano provvedere il necessario per i figli; una parabola racconta perfino di uno che arriva a chiedere del pane a tarda ora della notte. Quando abitava a Nazareth, chissà quante volte avrà dovuto provvedere a qualcuno che era in necessità. 

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A Nazareth Gesù è capace di guardare più lontano

Lui vive questa vita di campagna, equilibrata e ricca di esperienze, riportando tutto ciò che vede a sguardi di fede, perché Lui è abbarbicato al cuore di Dio. 

Davanti agli anemoni rossi che appaiono in primavera sulle sue colline, pensa che nemmeno Salomone vestiva così lussuosamente e ribalta il suo pensiero alla provvidenza di Dio che provvede, oltre ai fiori, a tutti gli animali del bosco, ai passeri nutriti direttamente dalla mano di Dio. E quando sente il vento passargli sul viso senza capire di dove venga, lo riferisce alla creatività dello Spirito Santo, sempre imprevedibile e altrettanto efficace. Quando vede i pulcini sotto le ali protettrici della chioccia, per un momento si rattrista al pensiero di tanti, anzi troppi Giudei che, invece di mettersi al sicuro sotto le ali del buon Dio, preferiscono un'indipendenza sterile, o addirittura si lasciano trasportare da idoli che non parlano e non sentono. Quando vede il sole ritornare dopo la pioggia, dirige il suo pensiero alla misericordia di Dio che manda sole e pioggia sui buoni e sui cattivi, amando tutti come un papà ama i figli, senza differenza: anzi, se qualche preferenza può farsi spazio nel cuore di Dio, essa va ai più sfortunati, che hanno maggior bisogno di affetto, di misericordia e di amore. Da bambino, Gesù registra nell'anima tutte queste immagini che sorgono a Nazareth e nei dintorni, per trasmettere poi da adulto il suo messaggio essenziale con parabole e racconti, usando un linguaggio capace di catturare l'attenzione delle popolazioni che vivono in sintonia con Lui. Era infatti quello l'ambiente in cui Gesù viveva, che consetne alla sua personalità di crescere in "sapienza e grazia".


La Bar mitzvah

Trai 12 e i 13 anni l'adolescente ebreo - e quindi anche Gesù - arrivava alla sua iniziazione religiosa, la Bar mitzvah. Dopo tale investitura, la comunità gli riconosceva il diritto di partecipare all'assemblea liturgica e, da parte sua, il ragazzo doveva imparare le formule per le cerimonie. Questo giorno era uno dei più emozionanti nella vita di un ebreo. Quel giorno Gesù, vestito il tallit, per la prima volta celebrò l'ufficio del sabato e salì alla tebà per leggere un passo della Legge. Si sentì "maggiorenne" e autorizzato a parlare ufficialmente di Dio e si vide riconosciuto dalla stessa assemblea Da quel momento, in innumerevoli altre occasioni Egli farà la letturà in sinagoga, spiegandone il contenuto. Alla vita della sinagoga, tuttavia, non partecipavano solo Giuseppe e Gesù ma, poiché vi erano ammesse anche le donne, certamente era presente anche Maria, anche se la spiegazione della Bibbia era riservata ai maschi.

 

Gesù tra i maestri del Tempio

Nel suo Vangelo, Luca riferisce che in un pellegrinaggio a Gerusalemme, dopo aver perso Gesù (dodicenne), Giuseppe e Maria lo ritrovarono tra i maestri del tempio, intento a interrogarli e a rispondere. Anche se i Vangeli non parlano mai di Gesù che va a qualche scuola, si può immaginare che Giuseppe, come ogni papà in Israele, rendendosi conto di avere un figlio intelligente e con qualche dote in più degli altri, si sia fatto catturare dal pensiero che quel figlio potesse essere il futuro Messia. E' comunque ragionevole pensare che, in quanto responsabile della formazione di questo figlio così straordinario, si sia comportato di conseguenza, comprendendo appunto che era un bambino molto diverso dagli altri e quindi che anche Lui - e specialmente Lui - poteva essere il candidato alla grande missione di Messia. Come pensare che Giuseppe non fosse disposto a fare qualunque sacrificio pur di dare unaformazione adeguata a suo figlio? Certamente a Nazareth c'era qualche maestro, ma non è da escludere che, volendo offrirgli il meglio, Giuseppe abbia pensato anche a Gerusalemme, dove molti giovani venivano

introdotti alle scritture per diventare poi rabbini in Israele. Secondo una tradizione, a Gerusalemme c'erano parenti o amici di Gesù, per cui è possibile che Giuseppe invitasse il figlio a trascorrere tempi significativi nella città santa.

La pagina sopraccitata potrebbe mostrare appunto Gesù in una qualche scuola, mentre si confronta con i suoi maestri con domande e risposte. In questo modo terminano i racconti dell'infanzia di Gesù.

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La salute fisica di Gesù, radice di un sano equilibrio

Nella vita, Gesù è stato privilegiato da una buona salute fisica, in grado di reggere lunghi spostamenti, una vita all'aperto e un ritmo di vita

molto intenso, tanto da arrivare a far preoccupare i familiari, in quanto, a volte, non aveva nemmeno il tempo di prendere cibo con i suoi discepoli. I malati venivano da lontano e non si potevano rimandare prima di aver fatto qualcosa per loro. Non risulta, infatti, che abbia mai rimandato a mani vuote qualcuno, o detto di tornare un altro giorno perché impegnato in qualche altro lavoro. Non solo saliva sulle colline di notte a pregare, ma passava l'intera notte in preghiera e per questo doveva avere una resistenza non comune. In tutti gli anni della sua vita vive una povertà che supera quella degli uccelli che hanno i loro nidi, delle volpi che hanno le loro tane. Egli, invece, non aveva né casa né dove posare il capo.

Non v'è dubbio che Gesù abbia passato centinaia di notti all'aperto. Solo un corpo ben sano poteva resistere a tali strapazzi.

A ciò si aggiungevano le fatiche del lavoro vero e proprio, istruire la gente e poi sbriciolare i contenuti per i discepoli, inoltre bisognava discutere con farisei, sadducei e dottori della legge.

Bisognava poi stare sempre con occhi ben aperti per difendersi da tranelli insidiosi (dobbiamo pagarle le tasse ai Romani o no? dobbiamo ubbidire a Mosè su ciò che dice a riguardo di donne come questa o no?), tranelli tesi allo scopo di coglierlo in fallo. C'erano poi i frequenti digiuni che si potevano superare solo con una salute molto solida. Nelle lunghe peregrinazioni — a volte fino a Tiro o a Sidone doveva viaggiare con lo stretto necessario, cosa che del resto chiedeva anche ai suoi discepoli: «Non portate nulla durante il cammino, né bastone, né borsa, né pane, né denaro» e così spesso non poteva mancare il digiuno. E chissà quante volte ha digiunato e ha dovuto digiunare, durante la sua missione itinerante. Se almeno una volta si registra il fatto che i discepoli presero dai campi delle spighe di grano per mangiarle, si può intendere con ciò che le refezioni non erano certamente tutte garantite.

Sebbene abbia potuto moltiplicare i pani per un gran numero di gente, Gesù non ha mai fatto miracoli per se stesso o peri suoi discepoli, ma solo per gli altri.

E, ancora, in mezzo a tante malattie e all'attività di terapeuta, non si accenna una sola volta a una qualche indisposizione di Gesù.


II lavoro manuale, presupposto per la stabilità psicologica

Per aggiungere un tassello alla comprensione del solido equilibrio di Gesù, accenno ad alcune caratteristiche di un lavoro manuale che probabilmente ha impegnato almeno gran parte della sua vita: il carpentiere, nome con cui fu indicato e chiamato.

Matteo e Marco concordano sul fatto che Gesù «esercitava il mestiere del padre, quello di carpentiere, fatto per niente umiliante o spiacevole. Il costume giudaico esigeva che anche l'uomo dedito ai lavori intellettuali imparasse un mestiere.

I dottori più celebri avevano un'attività. Lo stesso rabbi Johanan era anche calzolaio e un altro rabbi di nome Isaac era fabbro.

Allo stesso modo san Paolo, che aveva ricevuto un'educazione molto accurata, era fabbricante di tende o tappezziere. Gli stessi apostoli che poi Gesù scelse erano per la maggior parte pescatori.

Per Gesù e Giuseppe, che vivevano in un piccolo paese, dovevano spesso spostarsi in cerca di un nuovo cantiere. Nelle sue parabole, Gesù manifesta l'interesse che il carpentiere poneva ad ogni sorta di costruzione. Questo fatto appare in modo speciale quando Gesù parla di un frammento di truciolato che potrebbe essere schizzato nell'occhio, parla di una trave, oppure della pietra angolare buttata via dai costruttori, o del fondamento buono e solido per un edificio che non potrà essere danneggiato facilmente da inondazioni o da tempeste, oppure dal computo delle spese da farsi in anticipo per edificare una torre o un altro edificio. Oltre all'impegno professionale, certamente Gesù ha avuto occasione di esercitare lavori saltuari di manovalanza per aiutare qualche famiglia particolarmente bisognosa, tenendo conto che la popolazione di Nazareth, come di altri villaggi della Palestina, era molto povera.

Nella cultura contadina accade normalmente che in alcuni momenti dell'anno i vicini si rendano reciprocamente disponibili ad aiutarsi per brevi periodi, come quello della raccolta delle olive o della vendemmia, della semina e della potatura. Certamente Gesù è stato disponibile a rendere questi servizi: dalle parabole si intravede come s'intendeva di campi, di semina, di raccolti, di amministrazione economica dei raccolti, di pascoli, di vigne e anche di pesca, almeno da quando ha invitato nel suo gruppo dei pescatori di professione.

Questa dimensione del lavoro anche faticoso contribuisce a strutturare in Gesù una personalità solida, forte ed equilibrata. 

 

Si può parlare di psicologia di Gesù...

...anche se il suo io è immerso nel divino?

Si può ed è doveroso pensare al mondo interiore psicologico di Gesù, a patto che lo si faccia con umiltà, sapendo che non si potranno raggiungere tutti i confini che riscontriamo nella nostra umanità. L'io di Gesù, essendo divino, si rivela a noi in parte, ma ci supera all'infinito. Con il suo intuito, Adam afferma: «la prima caratteristica che balza all'occhio dello psicologo che studia la fisionomia umana di Gesù è certamente la nota di virile fortezza, di chiarezza, di lealtà impressionante, di rude sincerità, in una parola di eroismo, che traspare dalla personalità di Gesù. Questa era pure la prima caratteristica che legava a Lui i discepoli. Il "sì" e il "no "netti e taglienti della sua personalità si esprimevano in motti brevi e penetranti. Questi motti, come le parabole, sono come lo sfogo della sua volontà tesa verso la perfezione, la coerenza, la purezza interiore: "Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo". "Chi perderà l'anima sua, la guadagnerà"; "Nessuno può servire due padroni" porta evidentemente l'impronta della loro origine genuina e appassionata.


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Il mondo interiore di Gesù. Un approfondimento

Nei sinottici troviamo almeno una sessantina di volte le passioni, le emozioni, i sentimenti, i desideri e le preoccupazioni di Gesù. Matteo ce ne offre un quadro. 


Gesù non è un attore

I miracoli di Gesù vengono compiuti senza propaganda né spettacolo, senza alcuna finalità di attrarre l’attenzione degli spettatori. Gesù compie azioni straordinarie quasi senza farsi notare, senza annunci pubblicitari e lo stesso battesimo con i cieli aperti o la Trasfigurazione avvengono in un contesto così riservato che quasi nessuno se n’è accorto oltre i direttamente interessati: non apoteosi, non glorificazione in terra, non auto-investitura. L’animo di Gesù umile e schivo si comporta così perché questo è il suo stile. Ma nei suoi sentimenti c’è un fuoco che solo in Lui si può incontrare.


L’invito di Gesù è un comando di autorità

Quando presenta la missione ai discepoli, Gesù non fa nessuno sconto, non incarta nemmeno i contenuti per renderli ragionevolmente accettabili. Egli annuncia loro che li invierà come agnelli in mezzo ai lupi, 

senza bisaccia né bastone.  Li avvisa che saranno flagellati nelle sinagoghe, gettati in prigione e perseguitati a causa sua, soggiungendo che, per le persecuzioni, dovranno persino fuggire in altri paesi e che saranno traditi addirittura in casa,  e, se ciò non bastasse,  Gesù afferma che preoccuparsi della propria vita vuol dire perdersi, mentre sacrificare la vita per Lui e per il  Vangelo vuol dire salvarsi. E occorre ancora sottolineare che il temperamento passionale di Gesù – il quale ha allergia per quanto è mediocre, peccato, vizio, violenza, schiavizzazione e ogni male – dichiara guerra a tutto ciò che rappresenta l’antitesi del Regno di Dio. Sono scolpite in noi e nella storia frasi come: «Voi credete che sia venuto a portare la pace sulla terra; no, io sono venuto a portare la spada»; «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che stesse già bruciando!»


Gesù accarezza e frusta

Solo in una personalità come quella di Gesù possono convivere sentimenti così contrastanti, a prima vista opposti, eppure di una coerenza assoluta. È lo stesso Gesù che, davanti ai bambini che disturbano la sua catechesi con inevitabili schiamazzi, si scioglie, interrompe per un momento i suoi discorsi e si prende del tempo per loro.  È lo stesso Gesù che frusta i venditori del tempio e abbraccia i bambini. È un Gesù di fuoco.  Per questi motivi ci risulta difficile intendere il mondo interiore di Gesù, che quasi ci spaventa e allo stesso tempo ci affascina.


Il cuore di Gesù è per i poveri

C’è poi un sentimento che incontriamo più frequentemente nei sinottici: la compassione o misericordia. Davanti alle folle di gente per la maggior parte povera, Gesù sente compassione e prende provvedimenti concreti, diventando provvidenza di Dio per ciascuno, moltiplicando per ognuno di loro il pane e il pesce.  Sente compassione a Cana per gli sposi rimasti senza festa e provvede ad offrire loro il vino. Ha compassione di fronte a malati, storpi, ciechi, sordomuti e li guarisce con il solo scopo di vederli star bene ed essere felici. Non chiede nulla in cambio. Dona e basta. Ha compassione dei lebbrosi, tagliati fuori dal resto del mondo, li guarisce,  li integra nuovamente e li riabilita a tornare in famiglia, alla sinagoga, al tempio, al mercato. 

Si occupa dei malati mentali, degli epilettici, di coloro che, vittime di gravi schizofrenie, non sono nemmeno più capaci di mendicare e rimangono muti, con lo sguardo fisso nel vuoto, tant’è vero che per la gente hanno un demonio in corpo, un demonio muto, un demonio che li scuote nella malattia. 

In Gesù, pieno di compassione, questi malati ritrovano il recupero e la guarigione, ma Lui ha soprattutto pietà per chi è ferito dal peccato e ha bisogno di perdono. 

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Una misericordia concreta. Per tutta la vita

Gesù si esprime sempre con calma ed equilibrio in ogni imprevisto. I discepoli provano preoccupazione, fastidio e si innervosiscono di fronte al cieco o ai bambini  ma l’equilibrio e la saggezza di Gesù risolve tutto con una calma imponderabile. E quando i discepoli si scoraggiano con la sua compassione Gesù li aiuta a superare quel disanimo, indicando loro la soluzione: più preghiera e più digiuno. Gesù mostra poi come la compassione e la misericordia pervadono i suoi discorsi. 


Un fuoco dentro

Gesù non ha nemici. Gesù ha amato i venditori del tempio come ha amato i bambini che giocherellavano con Lui. La capacità di conservare nello stesso cuore sentimenti di collera e amore indiviso per le stesse persone necessita di un equilibrio divino.


Emozione fino alle lacrime

La profonda compassione porte Gesù addirittura al pianto, davanti a Gerusalemme che non si converte e di cui prevede la distruzione e quando gli muore l'amico Lazzaro. E nella Passione i sentimenti di misericordia trasbordano nei confronti di chi lo crocifigge e da ultimo con cui muore con Lui, fissando per sempre i tratti di una personalità compassionevole come può essere quella di Dio.

 

Solo Dio può piangere così

Il dolore di Gesù gli fa sudare sangue: forse Gesù pensa a quel regno di giustizia che aspettavano specialmente i poveri e che non si sarebbe realizzato facilmente sulla terra. Pensa all’impenitente Gerusalemme, a Nazareth, a Cafarnao. Pensa al suo destino di servo sofferente, ma certamente più ancora a Giuda, a Pietro, a Pilato, ad Erode e a tutti quelli che aspettavanp un trapianto di cuore. 

Nemmeno a Pietro rimprovera il tradimento e abbraccia addirittura Giuda.

 

Misericordia e amore

Durante tutta la sua vita pubblica Gesù è intento a servire: insegna, guarisce i malati e perdona i peccatori, indicando a tutti di fare come lui. Alla fine lo vediamo nella cena di addio, inginocchiato davanti ai suoi discepoli mentre lava loro i piedi. Vedere Dio che lava i piedi agli uomini è un’icona di fuoco. Mentre si carica lui stesso della croce, Gesù invita anche noi a seguirlo caricando la nostra. Ebbene, questo invito ci potrebbe indurre a pensare che essere cristiani significhi solo soffrire e quindi vivere sostanzialmente una vita infelice. Ma rispondiamo guardando a Lui.

 

La gioia di Gesù 

È certamente l’uomo massacrato dal dolore più di ogni altro uomo,  ma è anche l’uomo che più di ogni altro ha vissuto la dimensione della gioia nella massima misura che un uomo possa vivere. Gesù visse la gioia nel suo quotidiano in una famiglia così unica, in una dimensione di affetto e amore che possiamo solo immaginare. Quando stringeva la mano di una bambina morta potendole dire Talithà Khum o stendeva le mani sui malati per guarirli, quando predicava il Nuovo Regno, le Beatitudini e annunciava il comandamento nuovo e quando trascorreva le notti col Padre in una preghiera che univa l’umano al divino  e, ancora, durante le sue giornate terrene, mentre amava ogni persona che passava o sostava accanto a Lui, la gioia di Cristo si è manifestata al di sopra di ogni altra sulla terra e, se siamo invitati a caricare la croce dietro di Lui, siamo allo stesso modo invitati ad abbracciare la stessa gioia che ha pervaso la sua vita. 

Prima di terminare voglio ricordare che, all’ultimo saluto, Gesù aveva detto di aver desiderato quella cena con il più intenso desiderio e sappiamo che in quella sera Gesù celebrò quello che si sarebbe realizzato poco dopo: la morte e la risurrezione. È dunque evidente con quale atteggiamento egli va incontro all’ultima ora, ora della passione, morte e risurrezione.

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Gesù e le fondamenta della religiosità ebraica

Gesù è ebreo. La sua cultura e la sua religione appartengono a quel popolo. Si nutre della Legge e dei Profeti. Anche Lui sogna il giorno in cui si realizzeranno le Promesse. Anche Lui aspetta il Regno di Dio e lo predicherà con tutte le forze. 

Quando afferma che non è venuto ad abolire la Legge di Mosè, ma a completarla, cosa significa? Che cosa mancava dunque alla Legge dei 10 Comandamenti? 

Nel testo c’era tutto, ma nessuno la viveva con totale ubbidienza. Gesù fu il primo ebreo a mettere in pratica in pienezza tutta la Legge e i Profeti. In questo senso ha completato ciò che mancava. Nessuno è stato tanto ebreo come Gesù Cristo. 

Egli non predica una nuova religione, ma la Legge, quella di Mosè che il popolo in parte conosceva, aiutando però la gente ad andare in profondità.  

Gesù è l’ebreo santo, il profeta che vive i comandamenti in pienezza. In Gesù si realizza la pienezza dell’ebraismo che noi chiamiamo cristianesimo: possiamo pure dire che il Nuovo Testamento è l’Antico Testamento vissuto da Lui.

I pilastri della religiosità ebraica 

La preghiera

Il popolo semplice di Israele nutriva una fede genuina, radicata in una storia religiosa millenaria. Gesù visse in questo popolo che sapeva pregare. Ogni pio giudeo cominciava e concludeva la giornata con la preghiera. Lo afferma lo storico Giuseppe Flavio: «Due volte al giorno, al mattino e alla sera prima del riposo, Ogni giudeo si rivolge a  Dio con preghiera di ringraziamento ricordando le gesta che Dio ha compiuto da quando uscirono dall’Egitto.

Dall’età di tredici anni tutti i giudei maschi, adolescenti e adulti, non solo in Palestina, ma anche in tutta la diaspora (parola per indicare la dispersione degli ebrei nel mondo intero), seguivano con fedeltà, chi poteva, in casa nella Sinagoga e nel tempio. Seguivano le benedizioni e c’era poi ancora una preghiera alle tre del pomeriggio, quando chi stava fuori Gerusalemme si univa spiritualmente alla preghiera del Tempio nell’ora in cui si offrivano i sacrifici vespertini.

 

Il digiuno

Nella spiritualità di Israele, unitamente alla preghiera, troviamo il digiuno come una forma della stessa orazione. Durante tutta la storia sacra di quel popolo ci si era fatti aiutare da questa pratica di penitenza, già raccomandata da Dio a Mosè stesso.

Lo stesso Acab, dopo aver sentito le parole di Elia, si era strappato le vesti e aveva digiunato. Giona invitò la popolazione di Ninive – uomini, donne, dai più anziani ai bambini – a convertirsi facendo penitenza e digiuno. Anche David digiunò a lungo per il figlio e ancora per Saul e il grande amico Gionata quando furono uccisi sul Gelboe. E, inoltre, per la ricostruzione di Gerusalemme. Mosè, prima di ricevere la Legge da Dio stesso, digiuna per quaranta giorni e quaranta notti senza cibo né bevanda, così Daniele, con preghiere, suppliche, digiuni e vestendo di sacco, si avvicina a Dio per chiedere il perdono dei peccati per il popolo di Israele.

Gesù stesso cominciò la sua vita pubblica con quaranta giorni di digiuno nel deserto. E, quando i discepoli domandarono per quale ragione non erano riusciti a guarire alcuni malati molto gravi, Gesù rispose che certe malattie si guariscono solo con molta preghiera e digiuno. E, poiché già i profeti avevano censurato il digiuno, che era diventato motivo di orgoglio, mise in guardia i suoi: «Quando digiuni, lavati il volto e profumati il capo, affinché gli uomini non si accorgano che stai digiunando, ma solamente il Padre tuo che vive nel segreto e il tuo Padre che vive nel segreto ti ricompenserà».

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Ancora sui fondamenti  della religiosità ebraica

L’elemosina

L’elemosina non deve cristallizzarsi nella nostra mente come il gesto della moneta offerta, quasi un gesto di galateo più che non un atto di bontà: se viene praticata nel suo senso vero, essa concretizza la condivisione e solidarietà con chi è indigente e soffre a causa della sua povertà, mancando spesso di casa, cibo, vestiti o medicine. 

Già nelle prime pagine della Bibbia Dio chiedeva che, nelle città del popolo di Dio, orfani, vedove e immigrati potessero incontrare persone che sanno provvedere alle loro necessità.  

 Alcuni proverbi aiutavano a comprendere il senso della condivisione: «Se vedi un povero, non girarti dall’altra parte e Dio si volterà verso di te – e ancora – chi aiuta il povero impresta a Dio stesso  che gli darà la sua buona ricompensa». 

Ma Gesù va molto oltre: conoscendo la sua gente, capace di lasciarsi vincere dall’orgoglio di essere migliore degli altri, continua ad orientarla: «Quando fai l’elemosina, la tua mano sinistra non sappia ciò che fa la destra, affinché la tua elemosina rimanga segreta, e allora tuo Padre che vede nel segreto ti ricompenserà». Gesù insiste anche sulla gratuità dell’offrire ai poveri. Chi fa una festa dovrebbe invitare in particolare poveri, disabili, paralitici o ciechi, perché questi non avranno mai da ricompensare e la ricompensa si riceverà alla risurrezione.


 

I pellegrinaggi

Al pio israelita non basta isolarsi nel proprio mondo dei campi o delle rive del mare e accontentarsi della propria famiglia. La stessa sinagoga non è sufficiente per respirare lo spirito delle Alleanze, dei profeti, delle Promesse. Bisogna uscire dal proprio cortile. 

La religione si deve vivere insieme al proprio popolo, altrimenti soffoca e può morire. Questa è la ragione dei pellegrinaggi. Il nomadismo di questo popolo è rimasto abbarbicato all’anima di queste comunità, che hanno bisogno di camminare insieme, di accamparsi con i familiari della famiglia estesa e la famiglia dell’Eterno Israele. La propria vigna, la barca, la casa non sono sufficienti e Gerusalemme è un punto di riferimento prezioso.

Le mete dei pellegrinaggi sono cariche di storia, di fede, e specialmente sono pregnanti di una presenza divina che nasce dalla memoria di fatti straordinari nei quali è stato protagonista Dio stesso, che ha pure fissato le festività e i pellegrinaggi: «Tre volte all’anno ogni uomo dovrà comparire davanti a Dio nel santuario che Lui ha scelto».  Il fedele non si presenta mai a mani vuote, ma porta offerte in proporzione di ciò che la Provvidenza ha elargito in quell’anno.

 

La Legge

Per raggiungere la sua maturità, l’uomo ha bisogno di leggi morali che canalizzino i suoi atti. Il popolo di Israele riconosce di avere il privilegio di aver ricevuto le sue leggi da Dio.  Per aiutare il popolo eletto a compiere la sua missione, Mosè e i profeti esemplificarono poi le grandi leggi in comandi minori, che si aggiungevano a quelli precedenti. Si correva tuttavia il rischio che alcuni uomini interpretassero quelle leggi in forma troppo legalista, compromettendo il cuore sacro della Legge. Al tempo di Gesù, gli abusi in questo senso erano molti, tanto che, in diversi casi. Egli dovette smascherarli con forza. Soprattutto durante l’esilio di Babilonia, il popolo giudeo fece una revisione di vita sui suoi mali e concluse che erano causati dalla propria infedeltà alla Legge: «Abbiamo disubbidito i tuoi comandamenti, non li abbiamo osservati e non abbiamo agito secondo tutti i tuoi ordini, che ci hai dato per il nostro bene».

Le grandi fedeltà avevano lo scopo di mantenere unito solidamente il popolo: costituivano questi pilastri la circoncisione, il sabato, l’elemosina, il digiuno e la preghiera. 

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Gesù inizia la vita pubblica. Il mondo attorno a lui

Gesù ha circa trent’anni. Il mondo attorno a lui e Dio,  lo chiamano ad uscire dalla bottega. Si guarda attorno. Il tempio non può non attrarlo, In Israele ci sono poi diversi gruppi come i sacerdoti, gli scribi, i farisei e altri ancora che,  con sfumature differenti, coltivano la speranza di un Regno di Dio e dell’arrivo imminente di un Messia. Ciascuno di questi gruppi ha qualcosa da dirGli e Lui non disdegna di fare proprio tutto ciò che di buono trova in essi, ma il suo orizzonte va molto oltre.

 

La città santa: Gerusalemme

L’Eterno Israele vede la città di Dio nella stessa Gerusalemme. Là si studia la Torah e si celebra una liturgia solenne. L’intera vita degli israeliti è orientata verso quella città. I patriarchi, i profeti, i sacerdoti e i re hanno vissuto proiettati su quel centro del mondo.

 

Il tempio, ragione di vita per tutti

L’istituzione del tempio è il centro di Gerusalemme. Tutto ruota attorno ad esso. È l’Abitazione di Dio stesso. Ogni giudeo si rivolge al tempio per la preghiera. Tutti vanno al tempio ad offrire le primizie della terra o acquistano gli animali e li offrono per ringraziare e per chiedere perdono.

 

I sacerdoti

La casta sacerdotale era istituzionalmente autorizzata ad offrire sacrifici per sé e per il popolo: considerati “santi”, essi insegnavano la Legge come la volontà di Dio, ma non sempre erano all’altezza del loro ufficio.

 

I farisei

Al tempo di Gesù esistevano già da duecento anni. Essi pretendevano di essere i fedeli studiosi e interpreti delle Sacre Scritture: coloro che spiegavano con più cura la legge ebraica. e lottavano per l’indipendenza nazionale.

 

Gli scribi

Avevano in primo luogo il compito di custodire la Legge di Dio racchiusa nelle Scritture con l’incarico di leggerla, tradurla e interpretarla per il popolo.

 

I sadducei

Rappresentavano la classe più elevata, da cui venivano eletti i sacerdoti. Erano anche gli amministratori del denaro pubblico e temuti dal popolo.

 

I terapeuti

Ovvero medici che sembra avessero una struttura gerarchica nelle loro comunità. Essi cercavano di guarire non solo il corpo, ma anche l’anima malata quindi necessitavano di preghiera e non solo di medicine.

 

Predicatori itineranti

 Forse erano più filosofi che moralisti, anzi, spesso molto liberi nei loro usi e costumi, forse influenzati dai cinici greci. La loro vita senza fissa dimora faceva pensare che avesse senso una predicazione itinerante incontrando la gente semplice delle periferie più disposta all’ascolto.

 

I mendicanti

C’erano poi quelli che hanno scelto una vita povera che, per il fatto di vivere di provvidenza, manifestano una dimensione della vita molto preziosa.

 

Gli hassiddim

Di un movimento del giudaismo ortodosso, esistente probabilmente già tre secoli prima di Cristo, erano un invito costante alla preghiera per l’Eterno Israele. Essi si raccoglievano e facevano un’ora di silenzio prima della preghiera propriamente detta.

 

Gli zeloti

Il loro nome traduce il loro zelo per il compimento della legge. Bisognava salvare il popolo a tutti costi, anche di morire come martiri per onorare il nome del Signore e ottenere la liberazione del popolo di Israele.

 

Gli esseni

Tra coloro che propongono le strade classiche o quelle alternative per vivere la dimensione della fede c’è qualcuno che è maggiormente in sintonia con Gesù: sono gli Esseni che, per prepararsi all’arrivo del Messia, si sono ritirati nel deserto,  e invitano specialmente i giovani ad aggregarsi a loro.

Giovanni Battista, pur non appartenendo a questa comunità aveva però molti elementi in comune: ascetica, rigore, preghiera, penitenza, digiuno, purificazioni, vita celibataria e una significativa coscienza dell'arrivo del Messia.

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Giovanni il battezzatore, amico del deserto

Tra coloro che propongono le strade classiche o quelle alternative per vivere la dimensione della fede, c’è qualcuno che è maggiormente in sintonia con Gesù, un amico e parente che più di tutti ha capito Dio e il suo popolo. 

I Vangeli non si dilungano a parlare di questa amicizia tra Gesù e Giovanni, semplicemente perché gli evangelisti non sono stati testimoni dei loro incontri, però è difficile pensare gli anni di Nazareth senza questo legame profondo tra due uomini così in sintonia. Se Gesù arriva a dire che suo cugino Giovanni è la persona più straordinaria che abbia incontrato, addirittura il più grande tra i nati di donna, doveva conoscerlo bene e poiché allora, più che oggi, l’amicizia si coltivava con l’incontro, chissà quante serate o notti possono aver passato insieme a raccontarsi la loro vocazione, ma anche le loro paure.

La politica creava problemi in molti settori e tanto Giovanni quanto Gesù cercavano il modo migliore di porsi nei suoi confronti. Alcuni amici si erano già stancati dell’oppressione romana e avevano deciso di prendere le armi e pensare seriamente alla ribellione contro Roma; erano appunto gli Zeloti. Respirando l’aria nuova degli ultimi tempi e dell’arrivo del Messia che tutti aspettavano, alcuni di loro si erano sentiti investiti del compito di guidare Israele alla liberazione. E cosa avrebbero potuto fare i due cugini? Gesù aveva confidato a Giovanni tutto ciò che sapeva sulla propria identità. Così Giovanni è stato forse il primo a capire che il Messia ormai era arrivato, se riuscì a presentarlo ai suoi discepoli dichiarando chiaramente: “È Lui”. Quando leggevano la storia del grande re Davide, i cugini certamente vibravano nel vedere in lui uno strumento di Dio tanto prezioso, ma capivano anche che la loro vita non era in quella direzione. E, leggendo certi brani di Isaia, si saranno certamente interrogati se quelle pagine potevano avere qualcosa da dire loro.  A un certo punto Gesù e Giovanni capiscono che bisogna cominciare.  Gesù si sente spinto nel profondo del suo spirito a passare un tempo nel deserto. Forse per una vita eremitica? Una vita ancora più radicale di quella di Giovanni? Comunque Gesù deve fare alcune grandi scelte: percorrere la strada della liberazione ovviamente senza violenza. Ma come?

Il grande re Davide aveva tracciato una strada da percorrere anche per il futuro Messia, ma tutta quella violenza non combaciava con lo spirito di Gesù, d’altra parte, il potere di Davide a quei poveri che chiedevano di essere liberati e che Gesù sapeva di poterlo fare, potrebbe essere stata una terribile tentazione per Gesù stesso.

 

Tentazioni nel deserto

Nel deserto, di fronte a Gesù le strade si riducono: non basta comportarsi come i servitori del Tempio; per realizzare la profezia del Messia non serve nemmeno seguire la pista tracciata dal grande re Davide.  Egli era sempre più immerso nel Padre e sempre più attratto dalle lacrime, dalle grida e dalle speranze del suo popolo. Per realizzare finalmente un Regno nuovo, un regno di giustizia, il cui nuovo re non poteva essere che Dio. E anche tutto questo “bene” non poteva che manifestarsi come una grande tentazione. 

Le tentazioni nel deserto possono essere state raccontate da Gesù stesso ai discepoli, sotto forma di parabola per mostrare che Lui in quei 40 giorni, vive ciò che ha vissuto Israele, nei suoi 40 anni nel deserto. Nel deserto Gesù ha dovuto rinunciare chiaramente ad essere uno che fa grandi segni. Ha dovuto rinunciare a fare miracoli vistosi. Ha dovuto rinunciare ad assumere il potere di un regno a cui avrebbero potuto appartenere tutti i regni di questo mondo.

Gesù comunque invitato a seguire la strada di Davide o quella del Battista, si dirige su una strada che gli viene da un altro profeta, Isaia. In lui,  Gesù incontra la propria storia. Il servo sofferente di Isaia si fa strada nella mente di Gesù e gli fa intravedere il suo cammino. Gli uomini si erano da sempre domandati il motivo del dolore, del male e della morte: Bisognava rispondere una volta per tutte a quegli interrogativi. Forse una croce?

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Giovanni Battista. Perdonare a partire dal battesimo

Dopo aver lottato e vinto, Gesù ha raggiunto anche una pace psicologica mai persa. Gesù si sente in sintonia con la sua missione.

 Suo cugino Giovanni Battista gli è molto vicino. Vibrano di una grande novità. Giovanni capisce che è Lui il Messia che si attende e i due avvertono in Israele un vuoto da colmare a tutti i costi: si ama poco, si perdona poco. L’Israelita pensa troppo alle cose che possono farlo star bene: tutti doni riconosciuti come doni di Dio, ma si intuisce anche che nel benessere l’uomo non intende ragione.

Bisogna capovolgere la mentalità: nella sofferenza l’uomo  intende e diventa sempre più uomo e donna. Come? Ecco un primo segno rudimentale del perdono: il battesimo con l’acqua. Battezzare significa lavare: purificare il corpo come segno per purificare il cuore, che diventerà sempre più capace di accogliere e offrire il perdono. Ecco la missione di Gesù: perdonare e insegnare a perdonare. Gesù ha sempre più coscienza del fatto che, quando il suo popolo avrà imparato a chiedere perdono e a dare perdono, si vivrà nel nuovo Regno di Dio.

 

La missione di Gesù adulto inizia qui, sulle rive del Giordano, dove molti venivano da Giovanni Battista per ascoltare l’ultimo profeta della storia antica. Voce di uno che grida nel deserto, invita alla conversione e al perdono dei peccati: perdono richiesto, donato, accolto e, da ultimo, venivano sperando di farsi battezzare.

Alcuni si fermavano tempi lunghi, in quel luogo, per meditare quanto Giovanni predicava. Cosa diceva quell’uomo? Gridava nel deserto la conversione chiedendo di preparare una strada pianeggiante per colui che atteso da secoli doveva arrivare. Convertirsi voleva dire riascoltare e assumere nuovamente le dieci parole di Dio, che attraverso Mosè erano stati consegnati all’Eterno Israele. I penitenti che venivano da Giovanni sapevano di essere i figli di un popolo che aveva ripetutamente promesso e giurato di ubbidire quelle leggi di Dio stesso, ma poi quante infedeltà! 

E adesso tornavano per chiedere perdono per essersi dimenticati di Dio, per non aver amato e rispettato il padre, la madre, i fratelli, i figli. Accompagnati da Giovanni, imploravano in lacrime un cuore puro e uno spirito nuovo. Giovanni grida che la scure è già posta alle radici: ascoltandolo, i penitenti capiscono di essere quegli alberi che rischiano di essere tagliati e buttati se non si convertono.

Giovanni non risparmia nessuno e ha consigli per tutti. Sono in tanti che vengono per essere purificati, ma non dobbiamo pensare a una fila di persone che si fanno battezzare come un atto devozionale qualsiasi. Per arrivare al rituale proposto da Giovanni, bisognava aver fatto un vero cammino di conversione, perché il frutto di questo avvenimento diventava una vera rinuncia al peccato e una nuova firma di fiducia incondizionata a Dio Si arrivava al battesimo solo dopo una seria e ragionevole preparazione. Alcuni infine si fermavano presso Giovanni come discepoli. Questi penitenti ricevevano il battesimo dopo aver confessato i loro peccati e dopo aver rinunciato a questi per sempre. Anche Gesù si immergerà nell’acqua per un atto di solidarietà che aprirà i cieli e lo Spirito lo confermerà Figlio e fratello universale dell’intera umanità, per la quale chiede perdono.

Giovanni intravede che sarà Gesù ad accompagnare il popolo al Nuovo Regno, ed è il primo a riconoscere che in Gesù c’è la regalità, un Re servo, che percorrerà la strada della misericordia di Dio. 

Gesù è arrivato e si è immerso nelle acque penitenziali del Giordano. Lui, che è solidale con tutti i peccatori, Lui che si fa nostro portavoce, anche Lui chiede perdono per questa nostra umanità. Lui è il capo, la testa sana che si inserisce nel nostro corpo malato diventando antibiotico per guarirci dal peccato.

E, quando riemerge, i cieli si aprono, il Padre conferma di aver sentito la preghiera del Figlio e chiede anche a noi di ascoltare Lui.

Nelle sue interminabili notti di estasi col Padre, Gesù andrà ripetendo il suo sì alla missione che il Padre stesso gli ha affidato.

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La prima comunità di apostoli e discepoli

All’inizio della sua vita pubblica, Gesù riunisce attorno a sé un gruppo di 12 rappresentanti delle 12 tribù di Israele e altri discepoli: formeranno una comunità per lo più itinerante che avrà il privilegio di condividere con Gesù la sua missione e sarà incaricata di continuarla dopo di lui. Dopo una notte di preghiera, Gesù sceglie i Dodici. Alcuni sono suoi parenti stretti e altri li conosce pressappoco dall’infanzia.

 

Un gruppo di famigliari e amici

Da un primo sguardo a questo gruppo, risulta subito che ci doveva essere uno speciale affiatamento tra di loro per diverse ragioni, non ultima che cinque apostoli e, poco dopo, almeno quattro discepoli erano fratelli, cugini e cognati tra di loro. Non erano Rabbini né studiosi, ma certamente non ignoranti: uno di loro conosceva anche il greco, un altro era impiegato nel brutto ufficio di imposte e nessuno era figlio di una famiglia miserabile, per cui una normale scuola potevano averla frequentata tutti.

Un’altra caratteristica in comune: erano tutti lavoratori e appartenevano alla stessa classe sociale. Essi poi, pur non essendo necessariamente specialisti e versati nelle Scritture, le conoscevano fin dall’infanzia. È ragionevole pensare che fossero tutti dei fedeli alla sinagoga, ai pellegrinaggi e a tutto ciò che identificava un giovane come un serio israelita. Penso si possa immaginare, per un momento, come Nazareth o i paesi limitrofi potevano essere popolati di giovani molto simili agli apostoli e ai discepoli di Gesù.

Tra i giovani uomini e donne che facevano parte di questa comunità itinerante, erano particolarmente coinvolte tre coppie di sposi: in primo luogo Giuseppe e Maria di Nazareth e secondo una testimonianza molto attendibile una seconda coppia di sposi composta da Cleofa fratello di Giuseppe e sua moglie Maria, sorella o cognata della Madre di Gesù e ancora Salomè e Zebedeo.

 Se osserviamo più da vicino la parentela di questo primo nucleo della prima comunità, vediamo che Giuseppe e Maria hanno probabilmente un fratello e una sorella (Cleofa e Maria) tra i discepoli; sempre tra i discepoli, il nipote Giuseppe e la nipote Salomè e tra gli apostoli ancora due nipoti (Giuda Taddeo e Simone lo zelota, figli di Giuseppe o comunque nipoti) e ancora tra gli apostoli il nipote Giacomo minore e due pronipoti (Giacomo maggiore e Giovanni).

Almeno cinque apostoli: Giacomo, Giovanni, Giacomo il minore, Giuda Taddeo e Simone lo zelota erano cugini di Gesù (per quanto riguarda Giuda Taddeo e Simone lo zelota potevano essere semplici cugini o figli di Giuseppe, in quanto sono pure chiamati fratelli del Signore) e quattro discepoli, Cleofa e Maria, Salomè e Giuseppe, appartenevano alla grande famiglia di Gesù.

Da aprile a ottobre la comunità poteva spostarsi nei villaggi e nelle regioni più distanti, in quanto il clima più secco permetteva di muoversi senza grandi disagi. I mesi invernali, a causa delle abbondanti piogge, creavano invece difficoltà. È probabile che in questi mesi apostoli e discepoli riprendessero in parte le loro attività e si ritrovassero insieme in sinagoga

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Conosciamo meglio a uno a uno i dodici apostoli 

In questa sezione della rubrica di don Renato Rosso  approfondiamo chi erano i compagni di viaggio di Gesù.  Conosceremo così meglio  chi erano e che ruolo hanno avuto nell'incontro con lui.


Simone e Andrea

Simone (Pietro) verrà eletto capo degli apostoli, ma il fratello Andrea è il primo a incontrare il maestro e sarà lui a farglielo conoscere. Andrea era già stato un tempo significativo con Giovanni Battista per la sua preparazione al battesimo e, probabilmente, si era fermato a lungo presso di lui come suo discepolo. La sua anima, modellata dalla predicazione dell’ultimo profeta della storia antica era perciò predisposta a capire più di altri chi avrebbe potuto essere Gesù.

Fu a lui e a un altro discepolo (quasi certamente Giovanni, suo collega in cooperativa) che Giovanni il battezzatore presentò Gesù dicendo: «Ecco l’Agnello di Dio». Quello stesso giorno, Andrea invitato da Gesù, andò a casa sua e in quell’incontro, con un’intuizione che poteva solo venire dal Cielo, intese subito dal primo sguardo di Gesù che era Lui il Messia, l’atteso da secoli.

Con un simile presagio non poteva non correre a dire a suo fratello Simone: “Abbiamo incontrato il Messia” e accompagnarlo da Gesù, che appena lo vide gli cambiò il nome: “Ti chiamerai Cefa, Pietra”. Quel nome era il programma della sua vita. Poco dopo, i due fratelli incontrarono Gesù presso il lago. Invitati da Lui, essi lasciarono subito le reti e lo seguirono per diventare, come aveva promesso loro, pescatori di uomini (pescatori di anime).

Quando Gesù domandò ai discepoli chi pensavano che fosse, si fece avanti Pietro: «Tu sei il Messia, il figlio di Dio», di rimando Gesù gli ricordò che quanto aveva detto non era frutto della sua intelligenza, ma gli veniva da una rivelazione del Padre: in quel momento lo costituì capo della sua Chiesa. Quando parlò del pane che viene dal cielo e molti dei suoi discepoli se ne andarono, Gesù domandò agli apostoli se volevano andarsene anche loro. Fu ancora Pietro a rispondere per tutti: “Ma da chi possiamo andare se solo tu hai parole di vita eterna?”.

 Ma chi è Pietro lo si capisce verso la fine della vita di Gesù. Lo vediamo all’ingresso della casa del Sommo Sacerdote: dopo aver rischiato di essere condannato lui stesso insieme a Gesù, spaventato, sragiona e tradisce il suo Signore dicendo di non conoscerlo. Ma l’icona più commovente di Pietro è un’altra. Subito dopo, nel rivedere il volto del Signore, scoppia in lacrime e, conoscendolo bene, si sente nuovamente perdonato e riammesso nella sua dignità, soprattutto dopo la risurrezione, quando Gesù gli apparirà sia personalmente, sia con gli altri apostoli.

 

Giuda (Taddeo) e Simone (lo zelota)

Con molta probabilità erano cugini del Signore e venivano anche chiamati suoi fratelli. Giuda è detto anche Lebbeo, cioè coraggioso. Questo appellativo lo rende molto simile al cugino Simone, detto lo zelota: è probabile che entrambi, se non vi avevano militato, abbiano simpatizzato con il movimento zelota, convinto ormai che bisognasse conquistare con la forza il nuovo Regno di Dio e liberare finalmente Israele dal dominio romano. Incontrato Gesù, i due fratelli cercano di entrare nella sua mentalità, ma sostanzialmente non hanno cambiato modo di pensare.

Vedendo però la sua personalità come taumaturgo e predicatore e specialmente con il carisma divino di compiere miracoli, i due fratelli capirono che era certamente più potente di tutti gli zeloti che essi avevano incontrato e quindi meritava seguire Gesù più di ogni altro. Non necessariamente dovevano aspettarsi una guerra sanguinosa per liberare il loro paese, ma il progetto di liberazione non l’avevano mai abbandonato. 

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Conosciamo meglio a uno a uno i dodici apostoli 

Giacomo e Giovanni

Erano nati a Betsaida, sulla riva del lago di Genezaret e facevano parte di una piccola società di pesca. Quando fu chiamato a seguirlo, probabilmente Simone si rallegrò molto nel sapere che Gesù aveva aggiunto i suoi due cugini Giacomo e Giovanni al gruppo dei Dodici, infatti era già loro amico e collega di lavoro nella stessa cooperativa. 

Con la madre Salomè e il padre Zebedeo, Giacomo e Giovanni formarono una vera e propria famiglia al seguito di Gesù. I due fratelli non furono solo apostoli, ma anche tra i più vicini al Maestro. Tra i discepoli c’era anche Salomè (Maria Josè), insieme a Maria di Magdala, Maria di Cleofa e altre donne tra cui verosimilmente potevano figurare la moglie di Pietro, la suocera e la stessa Maria, madre di Gesù. Quest’ultima non viene mai chiamata discepola perché era molto più di questo, ma doveva essere spesso presente in quel gruppo che stava cambiando il mondo. Altri discepoli e discepole ancora facevano parte di quella prima comunità che, se non conviveva permanentemente, spesso si spostava insieme nelle varie regioni e villaggi, per seguire la missione di Gesù.

Lui li chiamava scherzosamente “Figli del tuono” per il loro carattere focoso. Una volta, infatti, i due fratelli, irritati perché Gesù non era stato accolto dai samaritani, per risolvere il problema, gli proposero: “Vuoi che chiediamo il fuoco dal cielo per sterminarli?”. Questo dice qualcosa del loro carattere. Con Pietro, con cui erano già stati amici e colleghi di lavoro, si instaurò un legame particolare, in quanto avevano capito un poco più degli altri chi era Gesù. Proprio a questi tre - e solo a loro - Gesù, si era rivelato, sul monte Tabor, in un divino splendore, mentre Mosè ed Elia conversavano con Lui e una conferma veniva dal cielo a dire: “Questo è il mio Figlio diletto, ascoltatelo”. Gesù concesse loro questa visione per prepararli a non crollare al momento della sua passione e la vigilia della sua morte li aveva chiamati vicino a sé nell’ora dell’agonia nel Getsemani, anche se non si erano dimostrati all’altezza dell’invito. Essi, infatti, invece di sostenere Gesù e pregare con lui, si addormentarono ripetutamente, però dopo che fu catturato e tutti gli apostoli fuggirono, poco dopo Giovanni e Pietro cercarono di raggiungere il luogo del processo almeno fin dove era stato possibile entrare. Mentre Giacomo fu il primo martire del gruppo degli apostoli, Giovanni visse a lungo e con la sua comunità scrisse il Vangelo che Origene chiamò “il fiore dei Vangeli”.

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Conosciamo meglio a uno a uno i dodici apostoli 

Giacomo il minore

In termini di parentela, con molta probabilità la famiglia più vicina a Gesù è quella di Cleofa (o Alfeo) e di Maria, zii e discepoli di Gesù.

Secondo testi apocrifi, lui era fratello di Giuseppe e lei sorella della madre di Gesù. In questa famiglia Gesù aveva quindi scelto ben tre apostoli: il figlio Giacomo minore e i nipoti Giacomo maggiore e Giovanni. Cleofa e Maria furono probabilmente i due discepoli che forse più di tutti ricevettero lo smacco del fallimento di Gesù sulla croce. 

Tre giorni dopo la morte di Gesù, probabilmente con sua moglie Maria, Cleofa decise dunque di tornare a casa a Emmaus, il loro paese e, proprio nel cammino, mentre piangevano il maggior fallimento accaduto nella loro vita, incontrarono il Signore risorto.


Tommaso

Fin dall’inizio fu chiamato ad essere apostolo. La sua figura è legata a un episodio che dice qualcosa del suo carattere, del suo cuore e della sua fede. Dopo la risurrezione Gesù era apparso ai discepoli, ma Tommaso non era con loro.

Al suo arrivo, quando gli comunicarono che avevano visto il Signore, lui si rifiutò perentoriamente di credere dicendo che se non avesse visto le sue mani con i segni dei chiodi e non avesse messo le sue dita nelle ferite dei chiodi e la sua mano nella ferita del suo costato, non avrebbe creduto mai.

Quando poi, otto giorni dopo, mentre i discepoli erano nuovamente insieme e con loro c’era anche Tommaso, Gesù apparve e lo chiamò a verificare e a toccare le ferite. Il povero Tommaso cadde a terra, riuscendo solo più a dire: “Mio Signore e mio Dio”. Si disse che a noi servì più il dubbio di Tommaso che la fede di Maria Maddalena, la quale credette appena incontrò il Signore risorto.


Filippo e Bartolomeo

Filippo doveva essere un uomo concreto e con i piedi per terra, infatti Gesù si rivolse a lui e non ad altri (ovviamente per metterlo alla prova) quando di fronte a una folla c’era da risolvere il problema di dar loro da mangiare. Filippo non sottovalutò il problema e fece due conti su ciò che avevano a disposizione, prima di concludere che non si poteva provvedere cibo per tutti.

Nonostante la sua buona cultura la personalità di Filippo è tutta compresa in una richiesta che rivolse a Gesù: non chiese il fuoco sui nemici, non chiese ricompensa alcuna per il suo servizio, non chiese spiegazione per qualche parabola più difficile, non chiese di stare alla sua destra, né di stare alla sua sinistra, ma gli domandò: “Mostraci il Padre e ci basta”. Filippo era stato catturato dal discorso di Gesù quando aveva parlato del Padre, quando aveva insegnato il Padre nostro, quando aveva detto che Lui e il Padre erano una cosa sola e così Gesù non fece che dire a Filippo ciò che avrebbe già dovuto aver capito e cioè: chi ha visto Gesù ha visto anche il Padre. 

La sua figura, però, ci rimanda a un incontro storico,  avvenuto proprio all’inizio della sua storia con Gesù, quando lo incontrò per la prima volta e rimase folgorato dal suo sguardo intenso e dalla sua parola autorevole  che lo invitava a seguirlo. Filippo non aveva aggiunto verbo, non ce n’era stato bisogno. In quel momento si era sentito amato, accolto, promosso a far parte del gruppo ristretto del Maestro. 

Intese in quello stesso momento che quell’uomo era colui che avevano aspettato per secoli. Il primo a cui comunicò con entusiasmo di aver incontrato il Messia fu il suo amico Natanaele (figlio di Tolomeo). La prima reazione dell’amico fu di disappunto, in quanto tale regione, tanto malfamata, non si prestava ad essere patria di un profeta. Comunque come avrebbe potuto Natanaele credere in Gesù senza vederlo? Infatti, quando poi lo vide, gli cadde in ginocchio davanti, investito dalla sua autorità: “Tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele”. E così si aggiunse un altro apostolo al collegio dei Dodici.

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Conosciamo meglio a uno a uno i dodici apostoli 

Matteo

Il solo fatto di riscuotere le tasse doveva già essere una ragione per non meritare alcuna considerazione, ma c’era anche di peggio: coloro che sedevano alla gabella lo facevano per i nemici romani. Si sarebbe potuto accettare che fossero i romani stessi a compiere questo detestabile lavoro, ma erano gli stessi giudei che, oltretutto, conoscendo bene la gente, sapevano fin dove potevano pretendere e generalmente estorcevano tutto il possibile. Essi poi dimostravano deferenza a Roma e, se non arrivavano ad adorare l’imperatore, dovevano mostrare profonda venerazione a tutto ciò che era romano. Erano quindi detestabili e odiosi. Per questo, il fatto che Gesù dica a uno di questi: “Seguimi”, doveva riempire di costernazione chi sentiva quell’invito.

Gesù, comunque, non finisce di sorprendere, in quanto non solo invita una persona di questa categoria nel gruppo dei Dodici, ma arriva ad autoinvitarsi addirittura non solo da un pubblicano, ma da uno dei loro capi, quando dice a Zaccheo che vorrebbe andare a trovarlo a casa sua. Questi capi detti “architeloni” che prendevano in appalto la riscossione delle tasse di una località e che, dopo aver consegnato quel tanto stipulato con Roma, erano liberi di pretendere tasse in più per il loro beneficio. In sostanza erano dei ladri istituzionali.

Gesù non si arrestava di fronte a nulla, tantomeno di fronte alle categorie. Per Gesù, pubblicani o samaritani o peccatori pubblici sono altrettante occasioni possibili per il Regno dei cieli: infatti Zaccheo si converte, Matteo diventa un apostolo e i peccatori pubblici diventano santi.

In qualche occasione, quando Gesù avvertì che qualcuno si sentiva allo stretto vicino a un Matteo o a uno Zaccheo, raccontò la parabola del fariseo e del pubblicano: il fariseo ringrazia per essere santo e il pubblicano piange perché si sente peccatore e così disse ancora più chiaramente chi erano coloro che aveva scelto.

 

Giuda Iscariota

È un nome onorato, perché aveva le radici nel quarto figlio di Giacobbe da cui derivò la tribù di Giuda. Tutti i giudei si sentivano onorati in quel nome. Ma Giuda Iscariota lasciò il suo nome infangato. Dopo tre anni di missione nel collegio degli apostoli, uomo di fiducia ed economo della piccola fraternità, senza mai aver dato scandalo o motivo di rimprovero per qualche ragione (eccetto alcuni giudizi gratuiti espressi dagli evangelisti) concluse la vita con il suicidio. I Vangeli lo presentano come colui che, alla vigilia della condanna, consegna Gesù ai sinedriti indicando che è lui il ricercato, salutandolo e baciandolo. È probabile che Giuda abbia voluto forzare Gesù a iniziare la lotta di liberazione dal giogo romano mettendolo in condizione di dover difendere Israele difendendo se stesso. Ai piedi della croce qualcuno dirà: “Se sei il Figlio di Dio scendi dalla croce e crederemo”.

Ebbene, Giuda sapeva che Gesù era quel Figlio di Dio che poteva anche scendere dalla croce quindi nessuno avrebbe potuto fare qualcosa contro di lui. Si aggiunge il fatto che Gesù sembra che fosse al corrente della cosa, in quanto, a un certo punto, gli disse anche di concludere in fretta ciò che doveva fare.  Sembra che il fatto non fosse estraneo neppure agli apostoli, infatti nell’ultima cena quando fu rivelato colui che avrebbe consegnato Gesù, nessuno disse una parola. 

Inoltre, al Getsemani, quando Giuda arriva e saluta Gesù presentandolo a coloro che venivano ad arrestarlo,  non c’è alcuna reazione da parte degli Undici, mentre ci sarebbe stato da aspettarsi che uno come Pietro gli saltasse al collo e lo sbranasse, invece di tagliare l’orecchio al servo del sommo sacerdote. Alla fine, quando capì di aver sbagliato le sue valutazioni, Giuda si impiccò. Di fronte alla conclusione della vicenda di questo apostolo, è possibile che gli evangelisti abbiano in qualche momento calcato la mano su di lui, rendendolo il più detestabile possibile.

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Gesù e la predica di una notizia straordinaria

La più bella omelia di Gesù, la sua parabola più illuminante, il racconto più affascinante e la riflessione più ardita sono la sua vita stessa: quella biografia dapprima raccontata dal silenzio di Maria e Giuseppe, poi testimoniata dagli apostoli, dagli evangelisti e dalle loro comunità cristiane. Dobbiamo aggiungere che la storia di Gesù è stata pure raccontata dalla sua Chiesa, mentre Egli ha camminato con noi, fino ad oggi. E quest’ultima è la storia del Gesù che abbiamo incontrato anche noi.


Gesù parla al cuore degli ascoltatori

Gesù parla e tutti lo capiscono.

Ai pescatori parla di pesci, di reti, di pesche abbondanti e di altre andate a vuoto; parla di barche, di mare, vento, tempesta; di paure e di grandi aspettative. Manda alcuni a pescare, invita altri a lasciare reti, barche, famiglia per una pesca diversa, la pesca di uomini. Tra essi nessuno osi dire che non ha capito.

Ai contadini parla di campi, di terreni buoni, di altri scarsi; di semina, potatura e raccolti; parla di pietre, di arbusti spinosi che soffocano le piante, di grano, zizzania, vigne, piante di fichi, senape; e ancora di lavoro pesante, di lavoro a giornata, di padroni, di servi, di proprietari buoni e altri cattivi, di servi buoni e di servi malvagi. In questo contesto parla di rabbia, di impazienza, di attesa paziente, di pioggia e di sole, sia per i buoni, sia per i cattivi.

Ai pastori parla di greggi, di pascoli e di pecore: pecore buone e pecore cattive, pecore perse e ritrovate.  Ai commercianti parla di denaro, di talenti, di perle e di tesori, di partenze per lunghi viaggi e di ritorni.  Alle casalinghe parla dei lavori umili di ogni giorno: parla di farina, lievito, pane, vino, di pranzi e cene con parenti, amici e peccatori; parla di donne di casa indaffarate, di altre attente ad ascoltarlo.

Ai farisei, agli scribi e ai sacerdoti parla della Legge e delle leggi, dei patriarchi, dei re e dei profeti, del tempio, della sinagoga.

Ai giovani stanchi che vogliono andarsene e a quelli che ritornano e, ancora, a Zeloti e politici, Gesù prospetta un Regno alternativo, una politica diversa, quella di Dio. Ai gabellieri di imposte e ai ricchi parla di giustizia e solidarietà. Ai poveri, che patiscono la fame o il freddo, che soffrono per la loro schiavitù o che sono malati, Gesù annuncia un tempo straordinario, una politica basata sulla giustizia, una beatitudine nuova per loro. Ha parole speciali per i bambini, per le donne che si dedicano al servizio come discepole, alle vedove, alle prostitute e alle peccatrici. E agli apostoli non parla solo in parabole, ma le sbriciola per loro, affinché possano capire un poco di più o almeno tutto quello che possono comprendere.

 

Dalla sinagoga al comando nuovo

La sinagoga era ricca di massime incisive che costituivano una specie di letteratura religiosa popolare. Anche gli analfabeti conoscevano tante massime e aforismi. Gesù è ebreo non solo per la sua origine etnica, ma in quanto inserito nell’impianto teologico del popolo di Israele. 

Molte delle massime che troviamo sulla bocca di Gesù avevano radici nei Proverbi e nei Profeti dell’Antico Testamento e nel Talmud: senza essere vissute, rischiavano però di rimanere inviti luminosi, ma ancora spenti, in attesa di qualcuno che si nutrisse di queste parole e le vivificasse.  Gesù ripete di continuo che si deve fare più di quanto hanno detto gli antichi dottori della Legge. Vieta la minima parola dura, proibisce il divorzio e qualsiasi giuramento, biasima il taglione, condanna l’usura, considera il desiderio voluttuoso tanto criminale quanto l’adulterio e auspica il perdono universale delle offese.

Il motivo che giustifica queste massime di suprema carità è sempre lo stesso: «perché siate i figli del vostro Padre celeste, che fa levare il sole sopra i buoni e sopra i cattivi. Se amate solo chi vi ama, quale merito avete? Lo fanno anche i pubblicani. Se salutate soltanto i vostri fratelli, che cosa vuol dire? Lo fanno anche i pagani. Siate perfetti come lo è il vostro Padre celeste».Quest’ultima espressione rappresenta il “Nuovo” di Gesù.

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Storia di una missione: al cuore degli uomini

È Lui, Gesù, il vero missionario. Non è venuto tra noi con lampi e tuoni, né con un esercito di Angeli per conquistare il mondo, ma è arrivato in punta di piedi, in borghese, in un accampamento di Beduini. Lui, che era Dio, non è venuto tra noi come un Dio in terra che comanda e fa quello che vuole. Lui che era Re, anzi Re dei Re, è arrivato con una corona sì, ma di spine, uno scettro di canna e uno straccio rosso per mantello. Lui che veniva da Dio e a Lui stava tornando, nel momento più solenne della sua missione toglie il mantello e, preso un asciugatoio, (unico abito liturgico che Gesù ha vestito, in vita) lava i piedi ai suoi discepoli, poi si fa a pezzi per i suoi, diventando pane spezzato.

Inviterà poi i suoi ad andare in tutto il mondo a lavare i piedi alla gente e a farsi in quattro per dare il pane a chi ha fame, da bere a chi ha sete, asciugare le lacrime a chi piange e invadere le carceri per liberare i prigionieri. Gesù, il missionario del Padre, viene ad incendiare il mondo, a portare la passione di voler il bene degli altri, di tutti e specialmente dei poveri. Viene e fa delle omelie strane. Parla di una politica nuova, addirittura di un Regno dove chi comanderà non saranno più i politici disonesti o oppressori, ma sarà Dio stesso. E quando comanderà Lui, Gesù, ci dice che anche i poveri, gli affamati, coloro che piangono diventeranno beati.

Gesù annuncia che quando regnerà Dio non ci saranno più violenze perché si amerà il prossimo, il vicino, chiunque egli sia, non ci saranno più vendette perché quando regnerà Dio si vivrà di perdono e non ci saranno più guerre, perché si ameranno i nemici invece di ucciderli.

  

Gesù prepara un cuore per Dio

Il giovane ricco che aveva chiesto a Gesù che cosa avrebbe dovuto fare per avere la vita eterna si era sentito dire di seguire i comandamenti di Mosè. Questi rispose che l’aveva sempre fatto, allora Gesù precisò: “Se vuoi essere perfetto va, vendi i tuoi beni e dalli ai poveri, poi potrai venire con me e seguirmi”. Gesù però sapeva molto bene che quanto chiedeva era al di sopra delle forze umane. Infatti come si fa a non fidarsi dei soldi quando non riesci a sfamare i tuoi figli? Come fai a non fidarti dei soldi quando hai bisogno di medicine per te o per chi ti sta vicino? 

Un giorno Gesù lasciò intravedere una risposta, dicendo di guardare gli uccelli del cielo nutriti dalla Provvidenza di Dio e di guardare i fiori del campo che sono vestiti dal Signore meglio degli stessi re. In altre parole, Gesù dice che in definitiva è molto più sicuro, intelligente e vantaggioso fidarsi di Dio che delle ricchezze, all’apparenza così indispensabili. Gesù sapeva comunque che soltanto con una forza divina è possibile rinunciare alla ricchezza.

Un’altra volta aveva infatti detto che era più facile che una grande fune o addirittura un cammello passasse per la cruna di un ago, piuttosto che un ricco entrasse nel regno dei Cieli. Ma come può dunque un ricco diventare povero? Lo stesso Gesù aveva fatto capire che è impossibile senza uno speciale intervento di Dio.

Gesù però continuava ad insistere. Raccontò un giorno di un ricco, che i poveri nemmeno li vedeva da vicino, al punto che ne lasciò morire di stenti uno che abitava proprio davanti all’uscio di casa sua. Disse che persino i suoi cani gli leccavano almeno le piaghe, ma lui nemmeno lo vedeva e per questo ricevette il peggiore castigo. Gesù gridò più volte: “Guai ai ricchi”.

Lo disse anche quando raccontò di un uomo che, dopo aver ammassato tante ricchezze, pensò finalmente di essere felice. Quell’uomo aveva però dimenticato che quella stessa notte avrebbe potuto morire. Il grido “vanità delle vanità”, già predicato nelle sinagoghe, viene ripetuto in diversi modi da Gesù.  Quando proclama le beatitudini, Lui prepara gli ascoltatori a quell’altro grido: “Guai a voi ricchi”. Le ricchezze, infatti, occupano il cuore e non lasciano spazio alcuno per il vero Dio.

Era quindi chiaro che tra i primi lavori dei catecumeni catechizzati da Gesù c’era, in primo luogo, l’atto di svuotare il cuore di inutile e pericolosa zavorra, la ricchezza, per far posto a Dio stesso. 

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Il comando nuovo: ama Dio e il tuo prossimo

Nei suoi discorsi, Gesù arriva ad alcune grandi sintesi. Di tutte le disquisizioni teologiche ebraiche, Gesù giunge all’essenziale: «Chi vede me, vede il Padre». Delle grandi e lunghe preghiere, Gesù propone il nocciolo: «Pregate così: Padre nostro…». E tutta la morale, la Legge è ridotta alla sintesi: «Ama Dio e il tuo prossimo». 

Un giorno un ragazzo gli chiese: «Chi è il prossimo che devo amare?». La domanda non era così scontata: per l’ebreo di stretta osservanza, il prossimo era solo chi era fedele alla Torà e a tutte le 613 leggi, mentre per gli altri il prossimo era almeno uno che apparteneva al popolo ebreo. Quando il giovane gli chiede chi è il prossimo, Gesù risponde parzialmente, in modo che possa capire anche un bambino, raccontando la parabola del buon samaritano.

In poche parole, dice: “Se qualcuno fa un incidente e tu lo soccorri portandolo all’ospedale, ti comporti da buon prossimo”. Ma, in modo più completo, Gesù risponde solo quando è sul Calvario. Proprio là ci dice chi è il suo prossimo. Mentre lo inchiodano, chi è più prossimo di chi gli conficca i chiodi nelle mani e nei piedi? Chi più vicino a lui di colui che lo uccide? Gesù non solo non inveisce, ma difende costoro di fronte al Padre: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Il Signore sta dando la vita per quei ragazzi. Dove c’è un amore più grande? Nell’amore cristiano c’è una dimensione radicalmente nuova predicata da Gesù e vissuta da Lui. Quando Egli disse che era venuto non per i sani ma per i malati, si capì meglio l’altra affermazione: «Non sono venuto per i giusti, ma per i peccatori». E a chi gli chiese quante volte bisogna perdonare, rispose che bisogna perdonare sempre (settanta volte sette). Perdonare non vuol dire soltanto dimenticare un’offesa, ma continuare a desiderare il bene dell’altro e amarlo. 

Amare anche chi ti ama non è mai facile, ma amare chi non ti ama più, chi ti ha odiato, chi ha distrutto l’onore della tua famiglia, chi ti ha provocato il fallimento economico e morale, chi in una parola ti è diventato nemico, non solo è difficile, ma disumano, nel senso che non bastano le forze umane. Per amare come Gesù ci chiede, abbiamo bisogno del divino in noi. Nei suoi discorsi, Gesù dà ragione di questa preferenza e ci dice che Lui fa tutto ciò che vede fare dal Padre suo, il quale manda il sole ai buoni e ai cattivi e la pioggia ai giusti e agli ingiusti. 

Gesù chiede a noi di perdonare il peccatore, come perdona lui. Lui ci spiega a fatti che perdonare e amare non significa sempre dire: “Abbracciamoci e facciamo festa”, infatti Gesù con i venditori del Tempio usò la frusta ma, con le stesse mani con cui aveva abbracciato i bambini. 

Di fronte ai grandi crimini può esistere il rimprovero, il consiglio, la punizione richiesta e pretesa, ma solo per il bene dell’altro. I bambini incontrati da Gesù avevano avuto bisogno di carezze e Gesù li aveva accarezzati, mentre i venditori del Tempio avevano avuto bisogno di frusta e Gesù li aveva frustati, senza amarli meno di quei bambini innocenti. Se è così, il Vangelo non è uno dei tanti libri che riempiono le biblioteche, ma il più difficile di tutti, il più pretenzioso. E, tra i fondatori di religioni, Gesù è il più disobbedito. Egli infatti ha preteso ciò che nessuno ha osato pretendere: chiedere di amare chi non si può amare, almeno con le forze umane. 

Una volta, i farisei vedendo che Gesù era andato a mangiare da alcuni pubblicani peccatori, domandarono ai discepoli perché Gesù mangiasse con quella gente indegna. Lui, che aveva sentito le chiacchiere, rispose: «Guardate che non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». 

E Gesù va predicando questo messaggio nei villaggi, nelle campagne, lungo il Lago, nelle sinagoghe e altre volte anche nel Tempio di Gerusalemme. 

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Le Beatitudini: un messaggio controcorrente

Dopo che Gesù era stato sul Monte a pregare, scendendo verso la pianura trovò un gran numero di gente che l’aspettava . Quando si fermò e si mise a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli. Beati gli afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati a causa della giustizia, perché il Regno di Dio appartiene a tutti loro”. E disse ancora: «Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Le parole di Gesù sono così distanti da ciò che quella gente poteva capire. Una cosa però potevano intendere: con l’arrivo del Messia, si sarebbe intronizzato un nuovo re, Dio stesso e da quel momento anche i poveri avrebbero potuto sollevare la testa e più nessuno sarebbe stato povero. Questo testo è quasi il prefazio di un altro testo che ci riporta non le benedizioni, ma le maledizioni, cioè gli avvertimenti: “Guai a voi ricchi, guai a voi che siete sazi, che ora ridete, e guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi”.

Nel canto di Maria, Luca ci offre inoltre una beatitudine per gli umili, perché saranno innalzati e un avviso ai potenti, perché saranno rovesciati dai troni e, ancora una diffida ai ricchi che recita: mentre gli affamati saranno saziati di beni, essi, i ricchi, saranno “rimandati a mani vuote”.

Una gran parte di coloro che seguivano Gesù e l’avevano ascoltato erano malati, o almeno lo erano stati. Tutti avevano sperimentato la privazione del cibo, dei vestiti, delle medicine, tutti avevano provato l’afflizione quando erano rimasti vedovi o quando, avendo perso un figlio, avevano un gran bisogno di essere consolati. Era gente mite, mai aggressiva, né propensa ad appropriarsi dei beni di qualcuno. 

Altri avevano subito delle ingiustizie gravi da chi aveva in mano il potere e, di conseguenza, aveva avuto sempre ragione. E, non di rado, subivano le calunnie di chi voleva approfittare di loro. Tuttavia, indistintamente, fin da bambini, tutti avevano sentito dire che sarebbero arrivati tempi migliori e, addirittura, che sarebbe arrivato qualcuno che avrebbe risposto alle loro aspettative. Il tempo era dunque arrivato, ma non tutti se n’erano accorti e Gesù era lì per confermare che erano arrivati sia quel tempo atteso, sia quell’uomo inviato da Dio. Gesù proclama le beatitudini.

Egli non afferma che nel nuovo regno quello dei cieli, nella nuova politica di Dio, i poveri saranno beati e nessuno più sarà povero, almeno non come prima.

Per preparare il nuovo Regno, Gesù comincia a predicare: “Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha”, poi invita gli apostoli a dare il cibo a chi è affamato, anzi, provvede anche il buon vino a chi è rimasto senza festa. Così saranno beati gli affamati, gli assetati, i nudi: quando Dio comincerà ad amministrare il mondo a modo suo, essi non saranno più affamati, ma saziati dal loro prossimo, né dovranno più piangere a causa delle loro miserie, ma saranno consolati dai loro vicini che – nel nuovo Regno – avranno spezzato il pane con loro e provveduto ai loro vestiti; li avranno invitati in casa se erano sfollati e curati se malati, perché i “cristiani” vivranno così e questo è quanto quella folla poteva capire.\

Beati i poveri non significa “beati coloro che staranno male”, come ho appena detto. Possiamo ribaltare il testo e leggere che l’uomo nella sofferenza capisce sempre di più la vita e diventa sempre più uomo, sempre più donna (e sempre più “beato”).

Penso a quanto saremmo amareggiati e, infine, quanto resteremmo disillusi se di fronte a un presunto santo ascoltassimo queste parole: “Beati voi ricchi, beati voi che siete sazi, beati voi che ora ridete, e beati quando tutti gli uomini diranno bene di voi”. Quindi di fronte agli opposti delle beatitudini, possiamo intendere quanto sono sensate le beatitudini di Gesù, anche se estremamente controcorrente.

Continua