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Il dialogo dei monaci - Gioia della preghiera

Il dialogo dei monaci

Cap. VIII - Gioia della pregniera

pag 91-99

Sommario


Appunti sulla gioia 

   Anche se l’amore è il motore del mondo – ne parleremo di certo in seguito – e potrebbe essere più coerente iniziare da lì, mi sento motivato a partire dalla gioia: trovo che essa o il suo sinonimo, la felicità, siano i prodromi, gli indizi che precedono e preannunciano l’amore e le grandi emozioni. Tutto ciò che mi spinge a un’azione è motivato dalla gioia: quando cerco di fare sia il bene, sia il male, aspiro alla felicità. Spesso non la raggiungo per pigrizia, incapacità o follia, ma la perseguo sempre, oserei dire in ogni istante della vita.

   La gioia vera e intensa è come una bomba atomica che distrugge tristezza, angoscia, affanno, depressione, panico, ma anche avvilimento, malinconia e sconforto. Talvolta posso confondere la gioia col semplice piacere, oppure con l’appagamento per aver raggiunto un oggetto: per la sua bellezza o preziosità, esso sembra soddisfare il mio istinto che cerca spasmodicamente la gioia, ma può essere un inganno.

   Per esempio, posso dire a me stesso: “Se riuscissi a terminare il libro che sto scrivendo o a concludere la mia composizione musicale o a finire il murale che mi sono proposto di dipingere, ciò mi darebbe una grande gioia”. Eppure, nel momento in cui termino l’opera, non ho il tempo di apprezzarla che è diventata uno dei milioni di libri, musiche o quadri che sostanzialmente ripetono le stesse parole, gli stessi suoni, gli stessi colori: la gioia che prevedevo è già frantumata.

   Anche le persone possono diventare un oggetto che travisa la mia aspettativa di gioia. Se, infatti, per costruire una relazione con un gruppo di malati, carcerati, mendicanti o comunque poveri, mi dedico ad essi anima e corpo ma, senza accorgermi, mi lascio rodere dal verme del successo, cercando di farmi strada e credendo di fare strada ad essi, senza preoccuparmi di instaurare un’amicizia profonda sopra una relazione sincera, non vivrò di gioia.

   Dio stesso può venire trasformato da me in un oggetto. Ne sono prova le preghiere che Lo considerano il dispensatore di ciò che gli viene domandato e quindi un oggetto che non corrisponde a una fede cristiana sincera e adulta. Con questo Dio non sarò capace di mettermi in relazione e, di conseguenza, raggiungere la gioia vera.

   Dove, come e quando incontro la gioia? Evitando un’analisi astratta, dopo aver esaminato con accurata indagine la mia personale gioia, mi sono reso conto che per ottenerla devo trovarmi di fronte a qualcuno con cui dialogare, cioè condividere ciò che esiste nel mio profondo e potergli comunicare i sentimenti e pensieri che il mio essere produce.

   Di conseguenza, ho bisogno di ricevere dall’altro tutta la comprensione, la condivisione e la stessa comunicazione che contraccambia il dialogo con lui. Solo allora sperimento la gioia, che è composta da me e gli altri in relazione, in dialogo. È sufficiente sedermi accanto a un mendicante, anche con le mani vuote, ma in dialogo: così posso essere felice.

   Al contrario, costruire case per i poveri della valle, piallare gli assi per una porta dell’eremo in costruzione, preparare una scuola mobile per i bambini pastori sugli alpeggi della montagna o ancora, con i contributi degli ospiti, sostenere un ospedaletto da campo in Africa o una tenda-scuola per i Beduini Saharawi, finire una barca da pesca per i Bajjao delle Filippine, o portare a compimento qualunque altro nobile lavoro – come scrivere, cantare o dipingere – può non farmi raggiungere la soddisfazione piena dello spirito, se mi manca la relazione o se essa è solo parziale.

   Io voglio la gioia, la desidero, la spero e spesso la ottengo, anche se parzialmente, nella relazione. Se però cerco di dialogare con un bimbo di pochi mesi, il quale mi sfugge appena si accorge che non sono il suo papà o il suo interlocutore comune, devo capire il suo modo di cercare l’altro con un pianto inconsolabile che, se tardo a lasciarlo libero, diventa grido.

   In realtà quel bambino mi sta dicendo: “Vedi che so riconoscere chi mi ama davvero e so dialogare con le mani che abbracciano, gli occhi, il sorriso abbozzato? Se mi diventerai amico imparando il mio linguaggio, potremo scambiarci una grande gioia”. E quando incontro mia madre e ci raccontiamo i fatti dell’ultimo anno o delle ultime settimane trascorse e mi sembra di ri-legare il mio cordone ombelicale a lei e torniamo ad essere tutt’uno, una grande gioia diventa il premio di quel momento; quando invece la relazione è impedita dal tempo o dallo spazio, io inaridisco.

   Non dovrebbe essere sempre vero il detto: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, ma per me lo è troppo spesso. Per incendiare l’affetto che mi porta la gioia ho bisogno di incontrarmi occhi a occhi, stringere le mani e abbracciare l’altro, baciare, accarezzare; se questa dimensione mi manca, la mia gioia viene meno, il mio animo non è appagato.

   Intravedo quindi una gioia significativa là dove vivo una relazione sincera con l’umano. Penso che nel rapporto sponsale possa esistere il più alto grado di relazione e, di conseguenza, di gioia ma, anche in questo caso – pur non essendo il mio, poiché non ho fatto e vissuto questa esperienza – mi pare di dover concludere che la gioia potrebbe non raggiungere la pienezza a cui ogni essere umano tende se l’altro fosse considerato un oggetto e non una persona in relazione.

   Mi pare di essere un gabbiano che, sorvolando le spiagge e le onde del mare per cercare nel cibo una pur piccola gioia, vede scritto ovunque: “più in là”. Mentre provo piccole e grandi gioie per tutti gli oggetti e in tutto l’umano, in realtà tendo a una felicità che posso avere in questo mondo, ma che non è di questo mondo.

   Non mi basterebbe saper parlare tutte le lingue degli uomini e degli angeli per ottenere la pienezza della gioia a cui tendo. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri, se avessi la conoscenza piena e se, ancora, possedessi tanta fede da trasportare le montagne, tutto ciò potrebbe non bastarmi per la gioia vera a cui tendo. E se dessi anche tutti i miei beni per sfamare il mondo, fino a consegnare alle fiamme il mio corpo per salvare qualcuno o fare del bene in modo eroico e se vivessi tutte le virtù, su ognuna di queste azioni potrei trovar scritto: “più in là”, “più in là, se vuoi incontrare la Gioia vera a cui tendi”.

   La Gioia che ho pur trovato qualche volta e che spero tutti i giorni è Dio stesso, o meglio la mia relazione con Lui, il mio pur piccolo amore per Lui, poiché si relaziona con un amore infinito. Posso quindi dire che c’è una gioia nel contemplare ogni oggetto della creazione, una Gioia a un livello certamente superiore nel relazionarmi con l’umano e una Gioia al più alto grado quando l’umano si relaziona con il Divino, il Trascendente: Dio stesso.

   Anzi, quando si relaziona con Dio nell’Amore, l’umano cambia persino natura, diventando capace di compiere azioni che, arricchite da Grazie speciali, costituiscono l’apice della bellezza umana. Essa è magnanima, vuol bene a tutti, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto delle offese, ma si rallegra della verità. Quindi è capace di accogliere la Gioia che non avrà fine perché frutto dell’Amore, della Caritas.

   In altre parole, questa Gioia è giocare sulle ginocchia del Padre in una relazione che si realizza in questo mondo, ma non è di questo mondo. E nasce dal fatto che, mentre tutte le relazioni con oggetti o con l’umano sono in qualche modo imperfette – perché l’altro non supera il mio stesso livello, quindi dopo poco tempo la mia memoria non lo conserva e non lo riconosce – la Gioia che nasce dalla relazione col divino è conservata nella memoria di Dio, per cui ogni volta che ne faccio esperienza posso essere riabbracciato dalla felicità nella sua pienezza.

Gioia 

   «È proprio guardando a questa totalità che mi sorge ancora una domanda circa l’apice dell’antropologia umana. Se chiedo infatti a un musulmano qual è il punto più alto dell’antropologia islamica, mi dirà che è la Pace. È anche il saluto che ogni musulmano rivolge a chi gli passa accanto, benedicendolo: “La Pace sia con te” e la risposta è: “Con te sia la Pace”. Se poi chiedo a un indù qual è l’apice dell’antropologia indù, mi dirà che è l’uomo in armonia con tutta la creazione, che rispetta fino all’inverosimile ogni essere vivente, infatti cerca di proteggere ogni forma di vita, fosse anche il più piccolo moscerino. Se pongo la stessa domanda a un buddista, mi dirà che è la libertà da ogni desiderio che potrebbe far soffrire: l’uomo che ha raggiunto la dimensione del nirvana. Ma quale sia l’apice dell’antropologia cristiana, questo non riesco ancora a coglierlo».

   «È un uomo: Gesù Cristo. L’apice della nostra antropologia cristiana è appunto Lui, crocifisso su una croce e risorto. Ma la Resurrezione appartiene a una nuova dimensione, di cui abbiamo ricevuto la testimonianza senza però farne esperienza nel quotidiano: perciò il culmine dell’antropologia cristiana si ferma là, sul Calvario. Ovviamente ogni momento della vita di Gesù bambino, adolescente, adulto, di Gesù che insegna, che compie miracoli, che prega, sono punti di riferimento per capire e indirizzare la nostra stessa vita, ma l’apice è là, su quel monte. Noi predichiamo Cristo e Cristo crocifisso».

   «Dobbiamo perciò concludere che il fine della nostra vita è soffrire? Siamo stati creati per la sofferenza e solo per questo? Allora l’uomo ha ragione a lamentarsi e spesso a rifiutare la fede cristiana».

   «Teofilo, hai visto una sola dimensione della vita di Cristo. Gesù è certamente l’uomo massacrato dal dolore più di ogni altro uomo che è esistito ed esisterà sulla terra, ma è anche l’uomo che più di ogni altro ha vissuto la dimensione della gioia nella massima misura che un uomo possa vivere. Gesù visse la gioia nel suo quotidiano di Nazareth in una famiglia così unica, in una dimensione di affetto e amore che possiamo solo immaginare lontanamente.

   Quando stringeva la mano di una bambina morta potendo dirle Talithà Khum o quando stendeva le mani sui malati per guarirli, quando predicava il Nuovo Regno, le Beatitudini e annunciava il Comandamento Nuovo e, in modo tutto unico, quando trascorreva le notti col Padre in una preghiera che univa l’umano al divino con una gioia che nessun uomo ha mai potuto né potrà mai sperimentare e, ancora, durante le sue giornate terrene, mentre amava ogni persona che passava o sostava accanto a lui, ecco la gioia di Cristo è al di sopra di ogni altra gioia sulla terra. E, nella misura in cui faremo nostra questa antropologia umano-divina, sappiamo che né il dolore né la morte riusciranno a sminuire il canto della nostra gioia che si fonde e diventa tutt’uno con quello di Cristo».

   «Padre, allora continuate a rallegrare il mio cuore parlandomi di questa festa che, pur unita ai pianti di questa vita, non m’impedirà mai più di cantare: “E voi tutti benedite il Signore!”».

   «Dopo aver balbettato queste poche cose sulla gioia, non mi resta, caro Teofilo, che raccontarti con estrema semplicità la mia esperienza della gioia, certamente diversa da quella di Gesù, dalla tua e da quella di ogni uomo e donna che vive su questo pianeta. Ma ora ritorniamo alle nostre occupazioni. Domani avremo un’intera giornata di silenzio sulla montagna: ritroveremo gli arbusti cresciuti, i boccioli fioriti, i ghiri, le manguste e forse qualche serpente da cui dobbiamo difenderci, senza perdere l’occasione di dire: “E voi serpenti, rettili e mostri marini, benedite il Signore” e di invitare a lodarLo tutto ciò che incontreremo. Sarà certo una bella giornata».

   Teofilo partì il mattino presto e il freddo piuttosto intenso fu il primo a condividere con lui la preghiera. Poi, guardando più lontano, invitò anche la neve e il rumore del ruscello che scorreva a valle: “Freddo e gelo, benedite il Signore”. Così iniziò la lunga litania. Arrivarono poi il tepore, il caldo, le marmotte, gli scoiattoli e alcune caprette che un ragazzotto accudiva da lontano, mentre giocherellava da solo. La giornata passò tra un canto e l’altro. In un momento, l’aria diventò viola e i colori più vivaci scomparvero, ma Teofilo era già sulla strada del ritorno per concludere con l’Eucarestia la preghiera di quella giornata per lui troppo breve. Intanto si era fatto ansioso di sentire il suo starez raccontargli qualcosa della sua esperienza sulla gioia. E il momento arrivò il giorno seguente, dopo le preghiere del mattino e la colazione davvero povera.

   «Come ti avevo promesso, Teofilo, ecco la mia esperienza. Ho pensato che mi sarei trovato meglio ad annotarla su qualche foglio di carta, così rimaniamo più raccolti nel nostro silenzio, che deve diventare sempre più ricercato, vissuto e apprezzato».

   Allora Teofilo prese con emozione quel testo e corse subito nell’angolo preferito dell’eremo, dove normalmente si fermava per la meditazione.  

Preghiera 

   A questo punto, Gioia e Preghiera diventano sinonimi, perché la preghiera è proprio quella relazione con Dio di cui ho parlato. La preghiera rimane, per me, un desiderio che mi accompagna alla gioia, anzi un grande desiderio, ma ancora molto arido, di conseguenza è arida la mia gioia durante la preghiera.

   Mi domando con umiliazione: “Perché mi dà più gioia una preghiera dove parlo e dialogo con Dio come se fosse al mio livello e molto di meno un tentativo di contemplazione? Cerco di dare una parziale risposta ponendo altri interrogativi perché di risposte vere e proprie non ne ho trovate nella mia esperienza.

   Mi fermo dunque su quella gioia impedita che avrebbe dovuto darmi la pienezza della soddisfazione dell’animo e cioè la gioia della preghiera. Cosa impedisce questa legittima gioia? Forse l’aridità spirituale. Mi è molto difficile addentrarmi nella mia aridità senza evitare scogli che mi manifestano contraddizioni insuperabili: la fenomenologia di questa emozione si presenta a me come mancanza o incapacità di relazionarmi con Dio nei momenti della preghiera.

  Ho già detto che per vivere la gioia di questo dialogo o di ogni dialogo devo trovarmi il più fisicamente possibile di fronte a un interlocutore. Nella preghiera ho di fronte a me sia il volto di Gesù che di sua madre Maria, in quanto persone di questa storia e pertanto almeno immaginabili. Anche il Padre e lo Spirito Santo li credo fermamente presenti, ma la fatica e spesso l’incapacità di dialogare con questo mondo trascendentale mi fa seccare la linfa dell’anima: mia madre stessa, come dicevo, è meno presente per me quando è distante.

  La mia aridità è una sorta d’incapacità, di svogliatezza, pigrizia, stanchezza e comunque una forma d’impotenza nel produrre degli atti affettivi, di passione, di eros e agape o almeno degli atti intellettivi poiché mi trovo dinanzi all’Invisibilità.

  Questa impotenza in me è così apatica da indurmi una discreta fatica nel rimanere costante nell’orazione. E una causa della mia aridità potrebbe essere proprio questo desiderio inconscio di pregare per provare soddisfazione affettiva in questo vincolo tra me e Dio stesso. Forse non sono disposto a una preghiera gratuita e per questo mi penalizzo, pietrificando il mio cuore.

   Di fatto mi sembra che i sensi non concorrano più all’attività che dovrebbe contribuire a mettermi in relazione e anche tutte quelle potenze interiori ed esteriori delle facoltà sensitive diventano in qualche modo impotenti. Certamente, quando mi dispongo alla preghiera, e quindi alla gioia di stare con Lui, penso di far agire la mia volontà di amare questo Dio.

   Per avere coscienza di amarLo, devo pur conoscerLo, ma probabilmente lo faccio in modo attivo: sono io che metto in moto le attitudini dello Spirito, ma non so dispormi dinanzi a Lui in modo semplice come un bambino e in modo passivo.

   Probabilmente utilizzo i doni dello Spirito Santo, in particolare la sapienza, la fortezza, la scienza, la pietà, ma sono sempre io che li metto in moto o pretendo di farlo, mentre il Signore ha bisogno di una disponibilità diversa: pretende che Lo lasci libero di offrirmi il dono di contemplarLo e di amarLo, sia pure in modo confuso e oscuro perché sono umano.

   Così hanno sperimentato la preghiera di contemplazione i mistici, nella notte dei sensi, ma essi hanno saputo trarre grazia anche dal buio, dall’angoscia e dal loro io umano, percepito sempre più come inadeguato a contemplare l’Invisibile e l’Inafferrabile, nel silenzio di Dio. In una parola, la mia aridità potrebbe proprio essere questo voler amare con le forze umane per vedere l’Invisibile, toccare l’Intoccabile, stringere chi non ha corpo o almeno (nel caso di Gesù) un corpo non più come il nostro.

   Così io stringo sempre le mani, che restano vuote. Di fronte a Dio faccio discorsi, cerco di dialogare e meditare con l’attività della mente su questa o quella Parola di Dio, ma non so abbandonarmi e lasciare che sia Lui ad offrirmi la relazione, per Grazia e non per i miei sforzi e accettare anche che questo dono non me lo faccia affatto, perché non ne ho alcun diritto.

   Penso di dovermi solo disporre in modo che sia lo Spirito Santo a pregare in me con quelle grida ineffabili… però a quel punto devo accettare che nei miei confronti Dio abbia tutta la libertà di usare una forma di comunicazione con me che non sia la mia.

   So che i suoi pensieri non sono i miei e che le sue attitudini non sono le mie, ma penso di avere a disposizione solo il mio modo di comunicare con Lui, di conoscerLo e amarLo per essere abbracciato dalla pienezza della sua gioia. So che la mia anima deve rinunciare in assoluto ad agire nel suo modo naturale, direi istintivo, che è il modo di rapportarsi con ogni “tu”, poiché nella preghiera non è così: se per Grazia non rinuncerò ad essere io l’agente dell’amore con Dio, l’agente della preghiera e se la mia preghiera non cesserà di essere “mia”, dovrò ancora fare prolungate meditazioni come preparazione alla preghiera.

   Dovrei anche dialogare con Lui servendomi ancora di parole come faccio con mia madre o mio padre, ma lasciare sempre di più che nella preghiera sia ormai Dio ad agire e solo se Lo vuole, mentre, da parte mia, accettare che la sua conoscenza e amore mi vengano comunicati non specialmente attraverso i miei sensi, ma nel modo che è proprio e unico di Dio stesso.

   Nella preghiera mi sono sempre sforzato di aggrapparmi a gusti, a gioie, a “piaceri” spirituali, perché l’amore di “relazione umana” offre questo, ma devo riconoscere che Dio si relaziona con me senza la mediazione dei sensi, anche se esempi come il “Cantico dei Cantici” mi fanno incontrare con un Dio tanto incarnato, molto prima della stessa incarnazione di Gesù Cristo.

   Quindi la fotografia della mia aridità è una preghiera in cui Dio è come una creatura sia pure la più bella e affascinante, ma pur sempre un Dio che aspetta i miei “fioretti”, la mia disponibilità ad azioni eroiche, un Dio che aspetta la mia disponibilità a dare il mio corpo al fuoco per Lui, un Dio che aspetta nella mia preghiera la disponibilità ad andare a predicare sui tetti le sue parole e non è ancora il Dio da cui devo avere l’umiltà di ricevere tutto, passivamente. In quel caso, anche se il Signore mi vuol provare con il suo silenzio o con un tempo di insensibilità non considererò più quella condizione come un tempo fallimentare, ma semplicemente una scelta sua di rapportarsi con me.

   “Sono io che ho scelto voi e non voi che avete scelto me” dice il Signore. In parafrasi: “Sono io, il Signore, che scelgo il modo di lasciarmi conoscere, di lasciarmi avvicinare e di lasciarmi amare nel privilegiato tempo della preghiera e non tu”.

   Se il Signore vorrà continuare ad accettarmi come amante, Gli chiederò in particolare il dono dell’umiltà: così ciò che chiamo aridità potrebbe anche non mutare radicalmente nella sua fenomenologia – poiché è innestata sulle mie fragilità, sulla mia salute fisica e su quella mentale e ancora sulla mia intelligenza limitata – ma non diventerà frustrazione e potrà addirittura trasformarsi nel canto dell’amato nel deserto, nella notte, perso come colomba nei dirupi della roccia; un essere che non vede, non incontra, non riesce ad abbracciare il suo amato.

   Ma se Dio mi fa il dono di continuare a sapere che Lui c’è e il dono dell’umiltà di non pretendere nulla, questo per me sarà quanto mi basta, almeno per il cammino in questa condizione terrena.

   Se dovessi lasciare un’impronta plastica della mia aridità, essa sarebbe come un uomo prostrato sulla sabbia del deserto, sapendo che Lui è vicino a me, ma da parte mia senza alzare la testa, per timore, nella notte, di non vederLo.

   E, chiudendo il testo, Teofilo cominciò a riflettere sulla sua relazione con il mondo, con l’umano e con Dio.