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Genocidio dei Santi Martiri Armeni - Prima parte

 

Genocidio dei Santi Martiri Armeni

Prima parte

d.  Renato Rosso  ©

Sommario


Alle fonti del popolo armeno


Il territorio che poi prese il nome di Armenia si identifica col luogo geografico che la Bibbia chiamò paradiso terrestre. Prima del IX secolo, gruppi tribali occupavano la regione che va dalla Siria del Nord alla Transcaucasia, comprendendo i laghi di Urmia e Van. Coloro che poi si chiamarono Armeni erano gruppi tribali seminomadi che arrivavano dalle steppe della Russia e del Basso Danubio e che poi si estesero fino alla Frigia.

Nella stessa epoca e dalle medesime regioni russe si spostarono numerosi gruppi nomadi che oggi chiamiamo ariani. Questi si incamminarono verso l’Oriente raggiungendo il Nord-Ovest dell’India. In seguito l’Europa diventò debitrice di quell’antica cultura, portata prima dagli armeni e poi dagli ariani, facendo di noi degli indoeuropei. Calcolando che gli ariani giunsero nel Nord dell’India occidentale non prima del 1.000 a.C., si può ritenere che non fecero in tempo ad influenzare l’Europa con lingua e cultura; gli armeni, invece, partiti dal nord all’incirca nello stesso periodo degli ariani, arrivarono almeno 1.000 anni prima di essi. Se potesse essere suffragata da una seria documentazione, tale ipotesi potrebbe rivoluzionare significativamente la storiografia.

In virtù della sua posizione strategica, durante il corso degli anni l’Armenia visse non solo le proprie lotte, ma anche quelle degli altri popoli. Si può dire che la sua storia fu una battaglia continua: dall’espansione della Persia, quando ebbe a che fare con Re Dario (V secolo a.C.) e poi con Alessandro Magno (331 a. C.), influenzata dalla civiltà persiana prima e da quella greca dopo, vide formarsi al suo interno una cultura che è la sintesi dell’Oriente e dell’Occidente. Verso la fine del I secolo d.C. dovette inoltre affrontare anche l’Impero romano. Da questo scontro l’Armenia dapprima uscì vittoriosa ma, dopo che Roma si alleò con Pompeo, dovette cedere, anche se i due grandi blocchi alleati impiegarono ben trent’anni anni a piegarla definitivamente.

In seguito, l’Armenia diventò uno stato cliente di Roma, finché entrò nella cerchia romana con Diocleziano. Divenne poi suddita della Persia fino al 451 d. C. quando, stanchi delle ingerenze persiane, gli armeni si ribellano e, con un esercito di appena 60mila uomini, si scontrano con 212mila soldati, più un considerevole numero di elefanti. Inutile dire che furono sconfitti ma, nonostante ciò, trincerandosi in diversi gruppi quasi invisibili, gli armeni adottarono una tecnica che potrebbe assomigliare a una guerriglia ante litteram, la quale sfiancò la Persia al punto da indurla a rinunciare al controllo totale delle istituzioni politiche e religiose del Paese.pag. 10

Nel VI secolo d.C., l’Armenia dovette affrontare l’espansione araba e nel 654 molte città vennero sottomesse. Si susseguirono poi tempi di maggiore libertà, alternati a periodi dominati da ingerenze straniere, fino a quando la invasero i Bizantini (X secolo), i Greci, e nuovamente i Turchi (1064) per saccheggiare, schiavizzare e massacrare, riducendola a un rottame. Da quelle ceneri, pur nella schiavitù, l’Armenia tornò tuttavia ad esistere fino all’inizio del XIII secolo, quando venne invasa dai Mongoli che la piegarono al loro potere: nel 1387 Tamerlano saccheggiò, distrusse e uccise. Per dimostrare la sua forza, però, risparmiò gli ultimi 4mila soldati armeni: preferì farli seppellire vivi tutti quanti e, radunato il massimo numero possibile di bambini, li fece calpestare dai cavalli del suo esercito. Si susseguirono poi secoli di relativa pace, fino all’ultima occupazione dell’Impero Ottomano.

Storia di un genocidio (2 milioni di morti)   

I podromi

21 marzo 1828. Alcune parti dell’Armenia, specialmente le regioni di Yerevan e di Nakhichevan, vengono annesse alla Russia.

18 febbraio 1856. Viene promulgato un Progetto di Riforma: l’articolo 9 decreta che il Sultano promette di mettere in atto le riforme nelle Province cristiane. Il progetto prevede l’abolizione di tutti i privilegi dei mussulmani, norme che non saranno mai applicate.

1862. Iniziano disordini e massacri nella regione del Tauro. Insurrezione sulle montagne di Zeythun. Inizia l’occupazione turca di una regione quasi autonoma.

29 Marzo 1863. La “Costituzione Nazionale Armena” viene ratificata da un editto imperiale per ridefinire la struttura della comunità armena, affidando le funzioni amministrative al Patriarcato e preparando un’assemblea di 140 membri eletti.

24 aprile 1877. La Russia dichiara guerra alla Turchia. I turchi massacrano 300mila bulgari. Da tale evento la Russia trae vantaggio e invade l’Armenia. Durante la guerra turco-russa la popolazione armena delle regioni di Bayazid, Diadin e Alashgerd viene quasi del tutto sterminata.

3 marzo 1878. Viene firmato il Trattato di Santo Stefano. All’Articolo 16 si chiede all’Impero ottomano di iniziare le riforme nelle Province armene.

13 luglio 1878. Viene firmato il Trattato di Berlino. Si richiedono ancora riforme da parte del governo ottomano in favore dell’Armenia.

1879-1894. Anche gli Stati europei lamentano che le riforme per l’Armenia non vengono promulgate. Da parte della Turchia c’è tanta pigrizia e si abbandonano gli sforzi per implementarle.

Agosto-ottobre 1894. Gli armeni si rifiutano di pagare le tasse illecite che i curdi vorrebbero riscuotere in Sasun. Attentato contro l’oppressione curda. Si susseguono massacri contro armeni in Sasun.pag. 11

Inizio delle persecuzioni. 1895

Dal XV secolo gli armeni erano sotto il dominio ottomano e, in diverse occasioni, avevano mostrato insofferenza e aspirazioni di indipendenza.

Nell’ultimo trentennio del secolo XIX, gli armeni erano stati bersaglio di curdi e circassi in diversi modi: in un primo momento avevano fatto appello al governo turco affinché intervenisse contro questo disordine, ma a nulla erano valsi i reclami. Per avere protezione, gli armeni si rivolsero allora alle potenze europee, che avrebbero potuto far pressione sulla Turchia per intervenire contro i curdi e i circassi, ma la Turchia non prendeva alcuna posizione, anche se prometteva di farlo.

Nel 1874, col Trattato di Berlino, le potenze europee chiesero formalmente alla Turchia di porre fine a tali vessazioni, ma quelle carte firmate non recavano alcun disturbo al governo ottomano e non lo facevano quindi sentire in dovere di intervenire. Per salvaguardare i loro diritti, nel 1887 gli armeni formarono il partito Hinciak e, in seguito, quello di Tashnak. Pensavano che sarebbero stati sostenuti dalla Russia in un’eventuale lotta per l’indipendenza: si era infatti dimostrata benevola con loro, in modo che questi avrebbero potuto indebolire l’Impero ottomano e forse, un giorno, offrirle una possibilità in più di appropriarsi di Costantinopoli. La Russia, poi, aveva interesse ad arruolare gli armeni nel proprio esercito. Questo buon feeling, purtroppo, costò loro molto caro. Nel frattempo, il governo turco aveva aumentato le tasse e i curdi avevano continuato ad opprimere gli armeni, così che questi ultimi mostravano sempre più segni di insubordinazione: tutto ciò serviva all’Impero ottomano per motivare un attacco che covava da tempo. Così, nel 1894-1895 il sultano Abdul Hamid disapprovò che gli armeni si fossero organizzati in due partiti e che avessero fatto ricorso alle potenze europee. Inoltre, mal tollerava l’insofferenza dovuta alle persecuzioni da parte dei curdi e all’aumento delle tasse, ma forse, ancor di più, la loro segreta alleanza con i russi e il fatto che gli armeni fossero cristiani: l’Impero turco non avrebbe disdegnato di confiscare tutto ciò che apparteneva ai cristiani stessi. Per questo motivo «il Sultano volle castigarli organizzando i tristemente famosi “Battaglioni Hamidieh”, formati da briganti curdi e circassi, che pagò lautamente perché massacrassero gli armeni. Tali battaglioni, aiutati qua e là da truppe regolari, si scagliarono contro le loro vittime, uccidendo e derubando case e magazzini. Si ritiene che in questa persecuzione sarebbero stati 100mila gli uccisi, 2.590 i villaggi devastati, mentre gli abitanti di 650 villaggi furono obbligati ad accettare l’Islam (ovviamente chi non aveva accettato la nuova fede era stato ucciso)».[2]

Accennerò ora ad alcuni fatti meno importanti, che avrebbero potuto essere però la goccia che fa traboccare il vaso. Verso la fine del 1895, precisamente il 25 ottobre, in un mercato un turco e un armeno ebbero a bisticciare. Si sentì un grido: “I cristiani si sono rivoltati per ammazzare i mussulmani” e questo avrebbe  provocato una tragedia. Un’altra

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tesi rivela che il turco sarebbe stato trovato morto il giorno dopo. La sua morte fu attribuita ai cristiani, i quali furono assaliti dai turchi e poi pestati e uccisi, mentre le loro case e i loro magazzini vennero saccheggiati.

Il governo locale preparò un resoconto dei fatti, incolpando ovviamente i cristiani, e inviò il tutto a Costantinopoli. La risposta fu immediata: “Usate le armi contro coloro che turbano la sicurezza pubblica”. Allora il governatore «seguendo il suggerimento di alcune persone influenti, designò per ogni quartiere della città guardie civili turche, armate chi di fucile, chi di scimitarra, o di pugnale, o ancora di bastone per aggredire i cristiani che uscivano di casa. Non contento di questo, ordinò ai cristiani di aprire i loro magazzini. Quelli che credettero alle assicurazioni delle autorità e aprirono i loro portoni, videro quelle “guardie municipali” irrompere dentro e saccheggiarli».[3]

Inoltre, il 3 novembre, il comandante turco Ferik Pascha invitò i capi delle varie confessioni cristiane a tenere aperte le chiese: non c’era più da temere alcuna rappresaglia e la pace era ormai una realtà. Molti credettero alle sue parole, aprirono case e botteghe e ripresero le attività lavorative giornaliere, ma i soldati turchi, insieme a curdi e circassi, fecero uno scempio, saccheggiando e devastando tutto, ferendo e uccidendo. Nel solo villaggio di Fernez, vicino a Marash, avvenne una strage: «Il villaggio fu bombardato e la gente in fuga fu massacrata. In questa persecuzione, solo a Marash, gli uccisi tra armeni cattolici, protestanti e apostolici furono 822, le case saccheggiate 1.543, gli spogliati di ogni bene 7.900; molti dei sopravvissuti furono messi in prigione».[4]

La cifra conclusiva dei morti è quindi di 100mila, come suaccennato.[5] La stima del Patriarca, che attesta il numero dei morti in 300mila, potrebbe sembrare esagerata, ma non lo è se si considerano i morti a Van, Costantinopoli ed Egin dal ’94 al ’95; le decine di migliaia di morti a causa di fame e malattia; i feriti che poi lentamente sono morti insieme ai molti altri sfuggiti al conteggio dei consoli e i circa 100mila forzati alla conversione (ovviamente chi aveva rifiutato l’imposizione dell’Islam era stato ucciso), a cui vanno aggiunte le 100mila donne e ragazze rapite o trattenute negli harem.

Gli storici più seri ritengono che il numero delle vittime sia certamente superiore a 200mila, cifra che si può avvicinare a quella ipotetica del Patriarca armeno. Oltre ai morti, si pensi ai saccheggi, alla rovina dei raccolti, ai «250mila villaggi che sono stati distrutti, migliaia di case incendiate, centinaia di dimore e di conventi che sono stati saccheggiati, demoliti o trasformati in moschee o in scuderie. Le Province armene versavano in uno stato di desolazione, in preda alla carestia e all’epidemia di peste e di colera».[6] A tutto ciò si aggiunga l’emorragia delle forze armene a causa dell’immigrazione clandestina e regolare: 100mila armeni si rifugiarono in Transcaucasia[7], 50mila in Europa occidentale e America, 12mila in Bulgaria.[8]

Si può osservare come il futuro dell’Armenia sia stato precluso proprio da questo esodo disperato, sapendo che le migliaia di persone uscite dal Paese quasi certamente non vi 

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sarebbero più rientrate e fuori avrebbero rischiato di perdere la loro identità come nazione, poiché distrutta fisicamente, moralmente, politicamente e nella sua dimensione culturale e religiosa. Ma l’Armenia che rimane, pur così ferita, tenta sempre una risurrezione.

NOTE:

[2] C. Alvi, 100 anni di Padre Basilio Talatinian, Gerusalemme, p. 214.

[3] C. Alvi, op. cit.

[4] C. Alvi, op. cit.

[5] J. L. Pears, Sir E. Pears in Life of Abdul-Hamid, New York, 1917, p.239.

[6] Y. Ternon, Gli Armeni, Bur, 2007.

[7] Secondo i Novesty di San Pietroburgo, 1897.

[8] P. Quillard, L. Margery, La Question d’Orient et la Politique personnelle de Monsieur Hanotaux, p. 21.

L' Armenia si riprende

Già dal 1892 il partito Dashnak si organizzò per difendersi. Vennero create alcune bande partigiane dette Fedai. Ci si riunì in comitati e in bande di difesa e attacco. Si iniziarono le attività nella regione di Kars, dove alcuni borghi armeni erano governati clandestinamente dal partito Dashnak: tre membri eletti in ogni comunità avevano un potere quasi assoluto: «amministravano la giustizia, raccoglievano le imposte, insegnavano l’armeno e accoglievano i rifugiati».[9]

C’era un coordinamento per le riunioni nei villaggi e si organizzavano dei “finti matrimoni” nei quali si informava e addestrava la popolazione a difendersi con 30-50 uomini armati che potessero garantire la difesa nei villaggi. Se poi in quelle circostanze passava la polizia, i musicanti cominciavano a suonare. Da queste basi partivano agenti speciali, che percorrevano l’Armenia occidentale reclutando persone capaci di organizzare i villaggi armeni.

In ogni paese, da 5 a 8 persone di fiducia formavano una “banda volante”, che provvedeva ai bisogni dei Fedai per condurli da un villaggio all’altro e, all’occorrenza, assicurava loro l’evasione dal territorio per correre in aiuto a quelli minacciati dai curdi.[10]

«I Fedai sono meticolosamente selezionati e addestrati e la struttura dei gruppi è a compartimenti stagni; i membri di una compagnia non conoscono quelli delle altre. Tutti hanno il medesimo aspetto terrificante: la testa coperta da un fazzoletto rosso, quattro file di cartucce e pallottole di pistola incrociate sul torace, un pugnale alla cintura e un mantello senza maniche; portano una pistola tedesca Mauser a dieci colpi, un fucile russo Mossine e uno zaino contenente il minimo indispensabile di vestiario e cibo, qualche oggetto personale e un pezzetto di ostia. Il comandante di ciascuna compagnia ha totale autorità sui suoi uomini al momento dell’azione: qualsiasi infrazione alla disciplina può essere punita con la morte... soltanto il capo conosce l’itinerario; dormono di giorno e si muovono di notte, alloggiano presso i contadini più poveri e non si fermano più di una settimana per non rischiare di essere localizzati e per non far pesare l’ospitalità».[11]

I Fedai sono diventati dei leggendari eroi: pur con qualche esagerazione, erano uomini onesti e disposti in ogni momento a dare la vita per il loro Paese. Apparentemente senza scrupoli perché sempre in mezzo alla lotta, sono uomini di fede, infatti portano con sé appunto un pezzo di Eucarestia, affinché, avendo il dovere di suicidarsi se cadono nelle mani dei nemici, possano almeno ricevere la Comunione prima di morire.

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Nelle battaglie o negli attacchi improvvisi contro i turchi, uccidono solo gli uomini, senza toccare donne o bambini. Non saccheggiano i paesi aggrediti.

E ora, alcuni fatti per capire come essi si muovono.

Il 20 novembre 1901, 60 uomini di Andranik riparatisi nel monastero di Arakhelots e circondati da 1.200 soldati ottomani, resistono per 19 giorni rifiutando di consegnarsi. Al mattino i soldati si accorgono che, nella notte, i Fedai sono riusciti a fuggire col loro capo. Nel 1904, 150 Fedai si scontrano con 6mila soldati turchi. Malgrado le perdite, riescono ad avvicinarsi ai nemici, ne falciano un gran numero e infine riescono ancora a sparire. Solo in un secondo momento, accerchiati anche dalla fanteria venuta in aiuto ai quasi 6mila soldati e dopo due giorni di resistenza, i Fedai vengono uccisi quasi tutti.

Un altro fatto che merita di essere registrato è quello del 1903, quando i turchi decisero di attaccare Mush e Sasun, dove restavano 180mila uomini armeni in 700 villaggi. 10mila soldati delle forze regolari e 5-7mila Hamidieh di rinforzo occuparono i villaggi, commettendo ogni nefandezza. Dall’11 al 22 aprile gli armeni si difesero e attaccarono anche, in qualche momento. In seguito, gli abitanti di 45 villaggi si riunirono a Geliguzan, resistendo alcuni giorni, fino a quando l’artiglieria turca sfondò le difese e i Fedai, col loro capo Murad, tentarono di evacuare la popolazione nella pianura di Mush, riuscendo ancora a proteggerla, anche se per poco e contro ogni speranza, fino alla fine: bilancio 3mila morti. Questa è l’Armenia che muore, ma a caro prezzo.

Tra i movimenti popolari bisogna poi ricordare la Federazione Rivoluzionaria Armena, FRA. Il suo obiettivo è puntare all’«emancipazione politica ed economica dell’Armenia turca mediante una vasta insurrezione rivoluzionaria. Ecco il loro programma: “Noi non inseguiamo la chimera della resurrezione dell’antica Armenia indipendente, ma vogliamo le stesse libertà e diritti per tutte le popolazioni del nostro Paese in una Federazione libera e egualitaria”».[12] E la FRA giocò un ruolo importante nel 1903: il governatore del Caucaso, principe Galitsin, spaventato dalla forza armena, era riuscito, col consenso dello Zar, a far chiudere le scuole, le associazioni culturali, i giornali e le biblioteche armene e, nel giugno di quell’anno, aveva proceduto alla confisca dei beni della Chiesa. Dopo questi avvenimenti, anche la borghesia chiese aiuto ai partiti popolari per organizzare la difesa e la FRA, che rappresentava la base armena più attiva e rivoluzionaria, accettò di spostare il suo centro di interesse dagli armeni della Turchia, estendendosi anche agli armeni di Russia.

Dal 1907, la FRA adottò un programma socialista, ma con obiettivi diversi: per l’Armenia occidentale, ciò comportava lotta per l’autonomia locale e legami federativi in seno all’Impero ottomano, mentre per l’Armenia orientale si ambiva a una repubblica democratica transcaucasica inserita in una repubblica federale russa. La FRA, pur comprendendo che il socialismo non era la soluzione perfetta per l’economia e la politica armena, si accorse però del pericolo molto più grande dell’imperialismo europeo, che 

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cercava di entrare nell’Impero ottomano per indebolirlo. A quel punto, la FRA si staccò dal capitalismo europeo, simpatizzando per i movimenti socialisti europei. Intanto, già nel 1899 erano comparsi i primi gruppi marxisti armeni in Transcaucasia e nel 1903 la FRA si fuse con il Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR).

Dal 1904, la FRA fu impegnata a combattere con le popolazioni di tre continenti: nell’Impero ottomano, la guerriglia crebbe nelle Province orientali. Nel 1905, il principe Verontsov ottenne dal nuovo governo del Caucaso la restituzione dei beni della Chiesa. Anche la borghesia, che riteneva i componenti della FRA degli anticlericali rivoluzionari, dovette ricredersi. Tali guerriglieri erano ancora una minoranza, ma già abbastanza pericolosi, poiché, in caso di conflitto, tutta la popolazione avrebbe potuto essere coinvolta e seguire le proposte della FRA. La tensione Armenia-Impero ottomano si fece così sempre più evidente. Dopo un periodo di crisi, la Chiesa era tornata ad essere forte. La guerriglia che si stava costituendo non era tanto potente ma abbastanza pericolosa, tuttavia questi elementi positivi della base in realtà attirarono sulla Nazione antipatie sempre maggiori. Il sogno di un’Armenia un poco più libera diventò sempre meno probabile e si preparava involontariamente la catastrofe.

Si aggiunge poi il fatto che, anche nel mondo mussulmano, in Turchia e in Russia, iniziarono ad infiltrarsi idee socialiste che avrebbero potuto difendere dall’imperialismo di Abdul e da quello dello Zar e ancora dall’imperialismo europeo, ma proprio per questo l’Armenia poteva essere vista come il focolaio che, attraverso la sua guerriglia ideologica, poteva alimentare queste nuove correnti di pensiero più liberali, così il tutto finì per ricadere ancora su di essa, già troppo nel mirino dell’Impero. Comunque in una grande nazione islamica e turca c’era sempre meno posto per l’Armenia. 

NOTE:

[9] Y. Ternon, op.cit., p.148.

[10] Ruben, Memoires d’un partisan armenien, Marseille, Éditions de l’aube, 1990.

[11] R. Ter Minassian, Armenian freedom Fighters, Boston, J. Mandalian, 196, pp.72-75.

[12] Rapporto FRA al Congresso internazionale socialista di Londra, 25 luglio, 1996, stilato a Ginevra, Redazione Droshak.

Persecuzioni del 1909

I movimenti nazionalisti si svilupparono dapprima tra gli ufficiali ottomani a Salonicco, in Macedonia, ambiente adatto per sviluppare attività clandestine. In quel luogo, più libero che Costantinopoli, nasce dapprima la “Società della Libertà Ottomana” costituita da un Comitato di 10 ufficiali membri di cui uno è il direttore dell’Ufficio Poste e Telegrafi della città. Il suo nome è Talaat Pasha e sarà uno dei maggiori responsabili del Genocidio. Il numero dei membri aumenta velocemente e i militanti, tutti patrioti che vogliono salvare l’Impero, sono favoriti dalle leggi massoniche di Salonicco. In tale contesto vengono facilitate clandestinità, diffusione e reclutamento nella società macedone. Il Comitato si fonde con altri membri e organizzazioni e nel 1907 nasce il Comitato “Unione e Progresso”. Il direttivo è a Salonicco e i comitati locali sono presenti in tutte le città 

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della Macedonia. I membri, che si chiamano “Giovani Turchi”, non si basano su grandi ideologie: possiamo definirli liberali patriottici che vogliono appunto salvare l’Impero ottomano, ma non l’Imperatore, cioè il Sultano. Il Comitato nazionalista turco chiamato “Unione e Progresso” e dei “Giovani Turchi” vuole ottenere una Costituzione dal Sultano. Per questo si allea col partito armeno del Tashnak, il quale coltiva altrettanti sentimenti di indipendenza. “Unione e Progresso” e Tashnak chiesero dunque insieme una Costituzione che «garantisse la libertà e l’uguaglianza dei cittadini dell’Impero e anche il rispetto di tutte le religioni».[13] A malincuore, nel 1908 il Sultano fu forzato a promulgare la Costituzione.

Vediamo ora nel dettaglio come si sono svolti i fatti.

In poco tempo i “Giovani Turchi” acquistarono popolarità e fiducia: tra il 22 e 23 luglio, il Comitato centrale convocò con urgenza i delegati dei comitati e i sindaci dei villaggi. «Al mattino alle sette cominciarono ad arrivare i rappresentanti cristiani e mussulmani dei villaggi. C’era una grande folla. Alle 10 arrivarono le autorità religiose e civili. I vescovi greci e bulgari si abbracciarono. Turchi, greci e bulgari si riconciliarono gli uni con gli altri in un clima di fratellanza tra religioni e popoli. Le autorità riunite inviarono un ultimatum al Sultano, chiedendo la Costituzione entro 24 ore. Quando il Sultano si rese conto che c’era di mezzo una insurrezione popolare, accettò di ristabilire la Costituzione del 1876, che era stata revocata».[14]

A Salonicco si fece grande festa, ma a Costantinopoli la festa fu per il Sultano. Con la nuova Costituzione e la promessa, ormai scritta, di una pur fragile libertà religiosa, i cristiani armeni ebbero grandi manifestazioni di gioia: ormai si prospettava dinanzi a loro un’era nuova certamente più pacifica. Al contrario, i mussulmani si irritarono terribilmente.

I “Giovani Turchi” avevano la strada aperta e si identificavano con quanto affermato da Niyazi Bey: “Questo Paese ci appartiene e non permetteremo a nessuno che non sia turco di governarlo”, poiché sentivano sempre più che l’alleanza con i cristiani non aveva futuro, a meno che questi non diventassero mussulmani. Era quindi sempre più evidente che l’Armenia cristiana sarebbe stata una spina nel fianco per l’Impero ottomano, per cui non c’erano alternative: o cambiare la propria identità e convertirsi all’Islam, o sparire.

Ai motivi sopra menzionati, che avevano creato tensioni tra turchi e armeni, se ne aggiunsero altri:

i “Giovani Turchi” avevano rotto l’alleanza col partito armeno del Tashnak ed erano tornati ad essere nemici tra di loro. Ormai al potere, coltivavano la paura che gli armeni alimentassero sempre più segrete alleanze con i russi, poiché erano già stati incoraggiati e sostenuti in passato nelle loro aspirazioni di indipendenza. Questo era chiaro, dal momento che la Russia cercava in tutti i modi di indebolire l’Impero ottomano ed eventualmente anche appropriarsi di Costantinopoli.

Nel frattempo, l’11 aprile 1909, alcuni soldati disarmarono gli ufficiali e, uniti ad altri soldati e studenti, entrarono nella città di Costantinopoli. A questi si aggiunse un intervento dell’esercito macedone con Mohmud Shevket Pasha, che proclamò la legge marziale, mentre Camera e Senato insieme deposero il sultano Abdul-Hamid, esiliandolo a Salonicco e sostituendolo provvisoriamente col fratello Mehmed.

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Per poter reprimere il movimento autonomista armeno e l’entusiasmo che lo alimentava, il governo ottomano cominciò a spargere sentimenti di odio anti-armeno tra i curdi che occupavano lo stesso territorio e tra i circassi. Così questi si riversarono con violenza contro gli armeni e, solo nella città di Marash, nel 1909 furono uccisi 95 tra latini (11), armeni cattolici (48) e protestanti (36) più moltissimi armeni apostolici.

«I massacri si estesero a tutte le città e soprattutto la città di Adana fu teatro di un’immensa ecatombe, dove i circassi vi ammazzarono 20mila cristiani».[15] Ad Adana, soldati e bande di saccheggiatori erano entrate nel quartiere degli armeni che, dopo la tregua di pochi giorni prima, erano rimasti disarmati. Bombe incendiarie vennero lanciate contro le case e bruciarono le scuole, diventate un rifugio per molte famiglie. Nelle strade la violenza raggiunse il culmine. Gli armeni furono sgozzati, legati, cosparsi di petrolio e dati alle fiamme come torce. Tra le nefandezze ci furono cadaveri scorticati appesi ai ganci delle macellerie, persone impalate, altre crocifisse alle porte o alle travi, donne mutilate, mani, dita, orecchie tranciate dai ladri di gioielli, bambini fatti a pezzi e neonati con le mani tagliate. Il massacro continuò per 24 ore. Su 4.800 case incendiate, 4.400 appartenevano agli armeni (le altre, probabilmente, erano state bruciate perché vicine a quelle armene).

NOTE:

[13] C. Alvi, op.cit.

[14] Sarrou, La Jeusse Turquie e la Revolution, pp. 19-35.

[15] C. Alvi, op.cit.

Persecuzioni degli anni 1914-1915

All’inizio del 1914 (8 febbraio) alcune riforme furono comunque emanate, per tenere a bada gli armeni affinché non insorgessero. Nonostante tutto, essi preferivano continuare a illudersi che potessero essere attuati ulteriori cambiamenti e quindi speravano nel sogno, nutrito da secoli, di vedere un giorno «una Armenia autonoma dentro le frontiere dell’Impero ottomano».

Ecco un’altra ragione che causò tensioni: prima della Guerra mondiale 1915-18, l’esercito francese aveva finanziato gli armeni spingendoli alla rivolta contro il nascente potere repubblicano dei “Giovani Turchi”. Nel 1915, alcuni battaglioni dell’esercito russo cominciarono a reclutare nelle loro file soldati armeni che in precedenza avevano militato nell’esercito ottomano. Intanto, il ministro della Guerra Enver Pasha aveva preparato un piano di battaglia per accerchiare e distruggere l’esercito russo del Caucaso in Sarikamish, al fine di recuperare alcuni terreni confiscati precedentemente dai russi, ma fu clamorosamente sconfitto. Tornando a Costantinopoli, Enver incolpò pubblicamente gli armeni perché avrebbero combattuto a fianco dei russi e non in difesa dell’Impero ottomano. Ad aggravare la situazione, si aggiunse il fatto che l’Impero stava reclutando soldati per la guerra (come aveva fatto la Russia) ma gli armeni, come molte altre minoranze etniche, non volevano essere arruolati nelle file ottomane. Essi capivano che non ci si poteva fidare, ma per i turchi tale atteggiamento si unì ad altri per motivare il massacro che stava per arrivare.

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Mewlazada Rifar, membro del Comitato “Unione e Progresso”, nel suo libro Bastidores oscuros da Revolução Turca, scrisse: «All’inizio del 1915, il Comitato “Unione e Progresso”, in sessione segreta presieduta da Talat, decise lo sterminio degli armeni. Parteciparono alla riunione Talat, Enver, il dr. Behaeddin Shakir, Kara Kemal, il dr. Nazim Shavid, Hassan Fehmi e Agha Oghlu Amed. Si costituì una commissione esecutiva del programma di sterminio, integrata dal dr. Nazim, dal ministro dell’Educazione Shukri e dal dr. Behaeddin Shakir. Questa Commissione decise di liberare dalla prigione i 10mila criminali reclusi a causa di diverse condanne, i quali sarebbero stati incaricati del massacro degli armeni».[16]

Anche se in quest’ultima espressione c’è dell’ingenuità, perché 12mila uomini non potevano pretendere di uccidere centinaia di migliaia di armeni, questo fu solo l’inizio.

Riporto uno stralcio tratto dal testo originale della sessione segreta presieduta da Talat, in cui si è deciso lo sterminio degli armeni. Il “paradocumento”, riportato anche dal dr. Naim Bey, recita: «Il Comitato ha deciso di liberare la patria da questa razza maledetta e assumere davanti alla storia ottomana la responsabilità che questo fatto implica. Risolvere di sterminare tutti gli armeni residenti in Turchia senza lasciarne vivo uno; in questo senso furono dati ampi poteri al governo».[17] Questa responsabilità, tuttavia, i turchi non la assunsero, infatti cercarono di eliminare il più possibile gli armeni senza ammazzarli, ma facendoli morire in modi che potessero sembrare disgrazie.

Il 25 febbraio 1915, Enver Pasha inviò un ordine affinché tutte le unità militari armene presenti nelle file dell’esercito ottomano fossero smobilitate e disarmate. Dopo la smilitarizzazione, gli stessi soldati normalmente venivano impegnati nei battaglioni di lavoro, come appoggio logistico all’esercito regolare o come lavoro forzato. Sembra che molte reclute armene siano state utilizzate nei campi di lavoro forzato e poi uccise. Secondo quanto riportato in Le memorie di Naim Bey, le reclute armene impegnate nei battaglioni di lavoro facevano già parte di una strategia di sterminio, in quanto molte di queste, dopo aver lavorato, venivano uccise però da gruppi di turchi locali e non da un esercito regolare. Anche questo stile di massacro faceva parte dei “massacri truccati”.

Tra i fatti che innervosirono i turchi ci fu anche la battaglia di Van, dove, iniziati i massacri il 20 aprile 1915, un gruppo di armeni cercò di proteggere 30mila residenti e 15mila rifugiati in un km² nel quartiere armeno di Aigestan. I difensori di queste 45mila persone erano circa 1.500 uomini, armati di soli 300 fucili e pistole e ancora 1.000 armi piuttosto antiche. La resistenza fu lunga, ma gli armeni non avrebbero avuto successo se non fosse venuto in loro aiuto il generale russo Nikolai Yudenich. Anche questo fatto, aggiunto ad altri, rinforzava la tesi che gli armeni fossero un pericolo in quanto amici dei russi.

NOTE:

[16] M. Rifar, Bastidores oscuros da Revolução Turca.

[17] N. Bey, Memorie di Naim Bey, Londra, 1920.

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Persecuzioni degli anni 1915-1917

Arrivati al potere e avendo subito insuccessi militari in Bulgaria e Grecia, i “Giovani Turchi” pensarono di proteggere la regione anatolica da qualsiasi smembramento: tutto il territorio doveva essere turco e mussulmano. Esaltati da tale piano politico, si accorsero che l’unico ostacolo per l’attuazione del loro progetto erano proprio gli armeni, poiché più numerosi, più attivi, più colti, più addestrati nell’arte militare che non le altre etnie dell’Impero: poiché cristiani, decisero di eliminarli ricorrendo alla “guerra santa”, benché prima fossero stati aiutati dal partito armeno Tashnak.

L’ordine fu eseguito con cinismo, crudeltà, vessazioni, uccisioni, devastazioni dei magazzini e delle abitazioni, ruberie, rapine, violenze alle donne e costrizioni alla conversione. Per coprire la loro barbarie, fecero deportare i superstiti nei deserti della Siria orientale, prevedendo che una buona parte dei deportati sarebbero morti lungo la via. Questi misfatti avvennero in tutte le regioni abitate dagli armeni, dal Nord fino al Sud della Turchia, cioè da Trebisonda fino a Mardine, dall’Est fino alla Cappadocia e alla Cilicia.

«C’è da rabbrividire quando si pensa ai disagi dei deportati attraverso montagne e valli, sotto la pioggia e la neve, con scarso cibo e pochi indumenti, sotto la sorveglianza di soldati brutali, senza scrupoli, avidi solo di rapire e spogliare i deportati».[18] Il Talatinian conclude così la sua testimonianza: «Anche la mia famiglia, me compreso, fu esiliata in Siria e mio padre fu ucciso dai soldati turchi in Deyr-es-Zor».

In una testimonianza del 1915, il console americano Morgenthau osservò che, per distruggere gli armeni, bisognava affrontare alcune difficoltà che prima di allora non si erano palesate. Era stato infatti relativamente facile il massacro del 1895, poiché prima di allora gli armeni non avevano all’interno alcun servizio militare e tanto meno possedevano armi. All’inizio del XX secolo, invece, essi erano presenti in tutti gli Stati e i nuovi entusiasmi di libertà e uguaglianza diedero loro la possibilità di entrare nell’esercito, di allenarsi alla guerra e di possedere armi. Gli armeni seppero mostrare valore militare e spirito patriottico dal 1909 al 1915. Ma i “Giovani Turchi”, una volta arrivati al potere – avendo come presupposto e utopia uno stato forte con una sola religione, quella mussulmana – per affermare anche una politica esclusivamente islamica decisero che bisognava eliminare i cristiani. Per realizzare tale progetto bisognava:

- togliere il potere a tutti i soldati armeni;

- privare gli Armeni di tutte le loro armi.

Così, dapprima convocarono tutti gli uomini maschi da 16 anni a 65 per far parte dell’esercito; in questo modo le famiglie armene rimasero senza alcuna difesa maschile. In un secondo momento smilitarizzarono tutti gli uomini armeni e li inviarono ai battaglioni di lavoro, in aiuto all’esercito regolare o ai lavori forzati. Da coraggiosi artiglieri e membri della cavalleria, essi erano stati trasformati in schiavi e, a quel punto, era diventato possibile iniziare la distruzione del popolo. La vita di questi lavoratori era terribilmente dura.

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Le intemperie, la neve sulle montagne, il fatto di dormire quasi sempre all’aperto e di essere semplicemente abbandonati se ammalati, il cibo che si era fatto scarsissimo per renderli sempre più deboli, avevano reso gli armeni sempre meno aggressivi e facilmente eliminabili. Quando le autorità decidevano di sopprimerne una parte, questi ex soldati venivano legati a gruppi di 50 oppure 100 e accompagnati fuori abbastanza distanti dai loro commilitoni, affinché nessuno dovesse pensare a che cosa stava realmente capitando e là venivano massacrati. Spesso facevano loro scavare la propria fossa prima di ucciderli.

Morghenthau ricorda come, all’inizio del luglio 1915, oltre 2mila ex militari armeni impegnati nella costruzione di una strada, comprendendo il pericolo, furono presi dal panico. I gendarmi cercarono di calmarli in tutti i modi per poterli massacrare più facilmente. Da ultimo furono poi gettati tutti, indistintamente, in una cava. Pochi giorni dopo arrivò l’ordine di eliminarne altri 2mila, inviati per lavoro verso Diyarbakir ma, per poterli uccidere, i gendarmi non vollero più rischiare come in precedenza e andarono davanti al convoglio ad avvisare i curdi che li aiutassero ad annientare gli armeni, anche se non doveva essere così difficile massacrare dei disarmati che non potevano fuggire in nessun modo. Quando, nelle città, si chiedeva agli intellettuali rimasti di consegnare le armi e ciò non avveniva, essi venivano subito puniti con la morte, perché disubbidienti all’autorità. Se, invece, in buona fede, gli intellettuali consegnavano le armi, erano accusati di possederle e di stare preparando una rivoluzione contro i turchi, perciò dovevano essere uccisi comunque.

I vescovi e i preti erano considerati ancor più responsabili di ogni movimento rivoluzionario volto a dare maggior libertà agli armeni e per tale ragione, caricati di munizioni e fucili a spalle, venivano fatti sfilare nelle città per dimostrare che certamente stavano organizzando una rivoluzione. Dopo queste processioni, per mostrare che erano nemici, in genere li torturavano prima di ucciderli: gli cavavano gli occhi, tagliavano loro orecchie, lingua, naso, gambe o braccia e infine li impiccavano o umiliavano con altra condanna a morte. Oltre 50 vescovi e 5mila preti furono torturati e uccisi. Poiché è stato relativamente facile raccogliere testimonianze presso le loro comunità, sono stati stilati tre volumi di descrizione delle torture inflitte specialmente alla Chiesa ortodossa armena.

Quando i turchi trovavano uomini particolarmente forti, li portavano nella stanza di tortura. Spesso cominciavano col “bastinado”, che consisteva nell’affiancare ad ogni piede della vittima un torturatore, che iniziava a picchiare sulla palma con una bacchetta flessibile. All’inizio questa tortura non sembra insopportabile ma, poco dopo, il piede comincia a gonfiare e a bruciare terribilmente. Di solito, alla fine di questa tortura, venivano amputati anche i piedi. Poi venivano staccati ad uno ad uno i peli delle ciglia e sopracciglia e, ancora, sradicate le unghie. Quando non tagliavano i piedi, li inchiodavano a legni e spesso inchiodavano anche le mani per ricordare la croce di Cristo. 

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In altre torture si posavano pezzi di acciaio incandescente sui seni delle donne o sui capezzoli dei maschi. A volte si buttava del burro bollente sulle ferite. Scoprirono poi una tortura ben sofisticata, che consisteva nell’inchiodare ai piedi degli armeni niente meno che i ferri da cavallo.

Mentre il sultano Abdul aveva come programma: “Uccidere! Uccidere! Uccidere!”, i “Giovani Turchi” proponevano ormai l’annientamento del popolo armeno e lo realizzarono cominciando con le deportazioni. Queste avevano il vantaggio di apparire un semplice esilio e quindi non spaventavano le persone, mentre si trattava di una morte provocata e dolorosissima. Quando si dava l’ordine di partenza, a volte c’erano poche ore per preparare il tutto. In primavera e nell’estate 1915, i punti di arrivo delle deportazioni erano Costantinopoli, Smirne e Aleppo. In realtà, chi organizzava il tutto sapeva che i sopravvissuti sarebbero stati pochi e, in ogni caso, non più fortunati degli altri. Se però erano troppi, si ripartiva un’altra volta e poi ancora, fino ad assottigliarne il numero. L’avviso di esilio o deportazione si dava nelle città fissando manifesti o gridando per le strade con altoparlanti e avvertendo uno o due giorni prima, ma spesso i gendarmi arrivavano davanti a una casa di armeni a dare l’ordine di seguirli immediatamente.

NOTE:

[18] C. Alvi, op.cit.

Tecnica di deportazione

Ovunque si ripeteva la stessa tecnica: si chiedeva di consegnare le armi tanto ai mussulmani, quanto ai cristiani, così si dava l’impressione di non fare differenze tra i turchi mussulmani e gli armeni cristiani, poi si diceva che le armi degli armeni erano insufficienti, come suaccennato, ossia che molte altre, ancora nascoste, non erano state consegnate: tale conclusione permetteva di arrestare, con l’accusa di nascondere armi, notabili e intellettuali (che sarebbero stati i più pericolosi) cioè i capi politici, i capi religiosi e i più benestanti.

A questo punto, i prigionieri venivano torturati con la scusa di ottenere qualche confessione di rivolta armata che sarebbe diventata un ottimo alibi per iniziare la deportazione. Gli arrestati poi, portati fuori città, venivano uccisi e iniziava la deportazione delle donne, degli adolescenti e degli anziani rimasti. Le famiglie armene non avevano che poche ore per prepararsi a partire, portando pochissimo bagaglio. Quando, in qualche caso, avevano avuto alcuni giorni, non era cambiato molto.

Alcune categorie di persone ottennero talvolta un rinvio della partenza o addirittura vennero salvate, specialmente se qualche amico dei funzionari poteva ottenere un condono. Se, in certi casi, alcuni cattolici e protestanti ottennero un rinvio, era solo per mostrare che si facevano anche eccezioni e che, quindi, si stavano facendo le cose bene.

«Il metodo poteva apparire più civile di un massacro, ma ugualmente radicale ed efficace».[19]

Durante il viaggio, come già accennato, si chiamavano bande che assaltassero i convogli come delinquenti comuni, saccheggiando, stuprando e uccidendo. I pochi che riuscivano a superare strade, montagne e deserti, non incontravano mai la meta: il campo di concentramento che li  accoglieva era sempre provvisorio e si

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 ripartiva fino a decimarsi e poi sparire. Gli uomini e gli adolescenti che avrebbero potuto sopravvivere venivano generalmente riuniti e massacrati in massa. Anche la popolazione turca sapeva di poter derubare, saccheggiare e prendersi liberamente donne, ragazze e bambini.

Nella città di Zeythun si fecero i primi esercizi del massacro destinato a diventare un genocidio. Quando si osserva che anche gli armeni hanno attaccato dei gruppi di turchi, si dice parzialmente una verità, ma bisogna vedere in quali circostanze questi fatti sono avvenuti. Per esempio, nel febbraio del 1915, 32 giovani armeni zeythuniti, dopo aver saputo che le guardie turche avevano violentato alcune ragazze armene, attaccarono i colpevoli e ne uccisero nove.

Il governo colse l’occasione per punire gli zeythuniti, così il 24 marzo arrivarono a Zeythun 500 soldati turchi, che pretesero di sapere dov’erano i colpevoli, altrimenti avrebbero considerato tutta la Cilicia responsabile del fatto. Infine, saputo dove i 32 erano rifugiati, 100 soldati rimasero a distanza e 400 accerchiarono una specie di fortezza in cui si erano arroccati. Durante il tempo della resistenza, nonostante l’assedio, una notte i giovani riuscirono a fuggire e ad attaccare alle spalle i 400 uomini, uccidendone circa 300. In seguito, dopo questa umiliazione, i soldati turchi, con i rinforzi, raggiunsero Fundajak, dove quei 32 giovani si erano rifugiati e dove riuscirono ancora a resistere per alcuni mesi, prima di essere definitivamente annientati.[20]

Pochi giorni dopo, 50 notabili della città, convocati per un “colloquio” senza sospettare del tranello, furono immediatamente arrestati. Nei giorni seguenti, quattro quartieri di Zeythun vennero saccheggiati e, separati donne e bambini dagli uomini, si preparò la deportazione. In un mese la città fu completamente svuotata di armeni, le chiese e i conventi depredati e le scuole trasformate in caserme.[21] Dei 25mila abitanti dei villaggi vicini a Zeythun, 8mila vennero deportati nella regione di Konya e gli altri incamminati sulla strada di Deyr-es-Zor, presso i deserti della Mesopotamia.

Gli Armeni della Cilicia e della Siria, vedendo passare i deportati, intravidero ciò che stava per accadere anche a loro e forse molto presto. Il governo fece di tutto per mostrare i convogli che in aprile e maggio passavano per Marash, Adana, Tarso, Aleppo. Caricati su carri-bestiame, attraversarono le montagne del Tauro per rimanere alcune settimane a Pozanti, capolinea di ferrovia. Ripartirono e giunsero a Konya affamati e senza più forze: questa regione paludosa e malarica falcerà la vita di un gran numero di sopravvissuti. Dopo altri tre giorni senza cibo e senza poter ricevere nessun soccorso, vennero rimandati a Karapinar, il luogo più deserto dell’Asia Minore, dove ogni giorno un centinaio di armeni zeythuniti persero la vita a causa di malaria, fame, tifo e colera.

I sopravvissuti si ammassarono in scuderie di cammelli, ma non potevano allontanarsi dal campo per cercare cibo: chi aveva ancora un po’ di forza mangiava

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 erbe e radici. A luglio lasciarono Konya e ripartirono in direzione di Marash. Gli armeni di Tarso li videro ripassare. «I leggendari zeythuniti, l’orgoglio della nazione armena, erano ormai diventati dei miserabili, sporchi, cenciosi, inebetiti dalle privazioni e coperti di pidocchi».[22]

Zeythun è stato il banco di prova del Genocidio dei Cristiani Armeni. I metodi e la tecnica della deportazione sono stati testati: sradicamento, trasferimento e decimazione a causa di fame e malattie. Per il resto, basterà ripetere quello schema e gli armeni spariranno. Solo il punto di arrivo delle deportazioni sarà da valutare e scegliere ancora meglio, comunque sembra che Deyr-es-Zor, alle porte del deserto, sia il luogo più adatto: spedire là uomini e donne significa condannarli a morte. Nel mese di giugno tutta la regione di Zeythun fu ripulita da ogni impronta armena.

Nella città di Dortyol, nell’inverno 1914-1915, mentre gli anglo-francesi bombardavano la zona dalle loro navi, gli armeni vennero accusati di aver dato segnalazioni. Si impiccarono in piazza i primi arrestati, in seguito tutti i maschi dai 16 ai 70 anni, sfuggiti ai rastrellamenti precedenti, vennero arrestati e inviati ad Hasan Beyli per lavori forzati nella costruzione di strade. Il programma di sterminio si svolse tecnicamente, in modo normale. Le Province orientali vennero attaccate da maggio a luglio 1915 e le Province occidentali dopo agosto.

NOTE:

[19] L. A. Davis The slaughterhouse Province: An American Diplomat’s Report on the Armenian Genocide.1915-17, traduzione francese La Province de la mort, Bruxelles, Complexe, 1994, p.32.

[20] S. E. Kers, The lions of Marash, pp. 18-21.

[21] Y. Ternon, op. cit., p. 228.

[22] Y. Ternon, op. cit., p. 229.

Attacchi alle  province orientali

Distretto di Erzurum

All’inizio del 1915 nel distretto c’erano 202mila armeni. L’occupazione russa aveva dato la possibilità a 100mila armeni di rifugiarsi in Russia. Nel marzo 1915 Passelt Pasha disarmò i soldati armeni e li mandò ai lavori forzati.

Il 19 maggio i curdi massacrarono gli armeni di Khinis e dei villaggi a sud di Erzurum: 19mila morti. Il 20 maggio ci fu l’evacuazione di tutti i villaggi a nord di Erzurum.[23] Alla fine di maggio vennero arrestati 600 notabili. Il 6 giugno, quando 100 villaggi ricevettero l’ordine di esilio (con due ore di tempo per partire), alcuni armeni riuscirono a fuggire e a ripararsi nelle case dei turchi Kizilbash, dai quali vennero accolti e protetti. Tutti gli altri partirono e vennero uccisi dai cete.

Il 9 giugno, 30mila armeni di Erzurum vennero informati che entro due settimane sarebbero partiti. Venne data loro la possibilità di lasciare i beni più preziosi in bauli custoditi nella banca ottomana, per riprenderli al ritorno. Partirono verso sud e, tra Kighi e Pacu, vennero quasi tutti massacrati dai cete. Il 19 giugno un gruppo di 10mila armeni partì e venne accorpato ad altri 5mila. Li accompagnavano 400 guardie. Il viaggio fu tranquillo, ma dopo Erzindjan vennero portati su sentieri impervi dove la solita banda di curdi rapì donne e ragazze e il denaro rimasto. Poi, vicino al fiume Eufrate, gli uomini vennero separati e uccisi tutti, mentre i più anziani e i bambini proseguirono, ma ancora per poco.

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Il 28 luglio partì l’ultima carovana con l’arcivescovo apostolico, che fu assassinato quando raggiunse Erzindjan. Restavano ancora 50 artigiani armeni a Erzurum, che furono sgozzati quando l’esercito ottomano lasciò la città. Nel Sandjak di Bayburt erano presenti 17mila armeni. A inizio giugno il vescovo e sette notabili vennero impiccati, mentre altri 70-80 vennero uccisi nei boschi. Quei 17mila armeni vennero divisi in tre gruppi: gli uomini sopra i 15 anni uccisi, le donne e ragazze rubate o regalate oppure vendute, mentre i bambini furono buttati nel fiume. I pochi vecchi rimasti proseguirono. In Erzindjan c’erano 20mila armeni: 2mila di essi furono arrestati e uccisi nei dintorni; tutti gli altri deportati, eccetto i bambini, che furono venduti in un mercato di schiavi.

A 15 km di distanza, quel convoglio di 18mila deportati fu attaccato da curdi e turchi armati, che li spogliarono, li uccisero e li buttarono nel fiume in sole quattro ore.

Dei 202mila armeni della regione di Erzurum rimasero pochi vecchi e qualcuno che era riuscito a scappare. In seguito ai guai creati dai cadaveri che contaminarono l’acqua e ingolfarono i mulini, il 24 luglio il Talaat ordinò di non buttarli più nei fiumi e nemmeno nei burroni, ma di bruciarli con i loro oggetti personali.

NOTE:

[23] J. Lepsius, Archives du Génocide des Armeniens, Paris, Fayard,1986.

Distretto di Blitis

In questa regione vivevano 218mila armeni. Nella città di Mush ce n’erano 25mila e nei 250 villaggi attorno a Mush 100mila: una banda di cete attaccò la regione, distruggendo tutto.

Nella città di Bitlis, il crudele Abdul-Alik radunò un migliaio di bambini e li portò fuori della città, dove li fece bruciare vivi alla presenza di turchi, a cui disse: “Per la sicurezza della Turchia bisogna cancellare per sempre il nome degli armeni nelle Province armene”.[24]

Il 3 luglio iniziò la storia insanguinata di Mush. In primo luogo agli armeni si chiese la consegna delle armi e una buona somma in denaro. In seguito, si disse che le armi consegnate erano inferiori al numero reale di quelle che possedevano e per questo, con la pretesa di estorcere la verità, i notabili vennero torturati, dopodiché uccisi. Gli armeni rimasti questa volta decisero di non cedere facilmente e si arroccarono in Mush.[25] Dapprima i cannoni distrussero la città alta poi, un quartiere dopo l’altro, venne rastrellato un gran numero diaArmeni che furono uccisi.

Il 4 luglio nel quartiere di Zov c’erano ancora 10-12mila armeni: 5mila di loro riuscirono a raggiungere le montagne prima di morire di fame e di stenti. Molti uomini preferirono suicidarsi, dopo aver ucciso le rispettive mogli e figli. Meglio morire in fretta, che subire torture e umiliazioni. I rimanenti vennero ammassati nei fienili, cosparsi di carburante, incendiati e carbonizzati tutti. Alcuni sopravvissuti vennero spinti sulla strada che portava a Urfa e buttati nell’Eufrate.[26]

Nella pianura di Mush rimanevano circa 900 armeni.

In seguito fu la volta di Sasun, che ospitava 20mila armeni, più altri 30mila provenienti dai dintorni e là rifugiati, per essere più protetti. I primi 3mila uomini

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 furono inviati in battaglioni di lavori forzati e uccisi in seguito presso Harput, mentre altri 4mila trovarono riparo nel convento di Arakhelots, dove riuscirono a resistere per un mese e mezzo poi si rifugiarono a Sasun. Nell’estate, intanto, vennero attaccati tutti i villaggi limitrofi di Sasun. A luglio arrivarono i rinforzi della cavalleria ottomana contro i sasuniti armeni, ma questi riuscirono a resistere per diversi giorni, poi cercarono di disperdersi verso la montagna meno accessibile, ma vennero inseguiti e uccisi in gran numero, mentre i superstiti, assediati, dovettero poi morire di fame. Ne avanzarono una trentina sulle cime dell’Antok, insieme ai loro capi Ruben e Vahan che riuscirono a evadere oltre le linee turche. L’artiglieria russa, che voleva venire in loro aiuto, non poté arrivare in tempo e, quando di fatto giunse a soccorrere i 250mila armeni, trovò solamente più 5-6mila donne e bambini islamizzati nei villaggi.

NOTE:

[24] Dichiarazione riportata da Y. Ternon, op. cit., p. 254.

[25] Livre blue, Paris, Payot, 1987, n.23.

[26] Livre bleu. Le traitement des Armeniens dans l’Empire Ottoman, n.23, Laval, Imprimerie Kavanagh, 1916, pref. Toynbee.

Distretto di Trebisonda

Qui gli armeni sono molto meno numerosi, appena 73mila, tra cui 14mila nella città stessa. Il 24 giugno, 40 membri del partito Dashnak furono arrestati, imbarcati e buttati in mare. Il 26 giugno arrivò l’ordine di deportazione. Da Trebisonda si partirà cinque giorni dopo. Gli armeni consegnarono agli agenti statali i beni che, ovviamente, non potevano trasportare con loro e che avrebbero ripreso al ritorno.

Il 1º luglio la città si riempì di migliaia di guardie armate e di cete. Le porte della città furono chiuse e Trebisonda rimase assediata. Dentro le mura, gli armeni vennero divisi a gruppi. Le donne e i bambini furono incamminati per Mosul. Tra gli uomini arrestati, anch’essi divisi poi a gruppi, un centinaio al giorno vennero prelevati e portati fuori città. Dapprima si scavavano la fossa, poi venivano fucilati e seppelliti. Alcune donne, i giovani e i bambini benestanti vennero affidati o venduti a famiglie mussulmane per essere poi convertiti all’Islam. I bambini molto piccoli vennero consegnati al console americano Oskar Heizer ma, poco dopo, furono richiesti indietro per essere inviati in un orfanotrofio più specializzato.

In realtà, caricati su piccole imbarcazioni, a poca distanza dalla costa vennero pugnalati e buttati in mare.

A fine estate nella città rimanevano solo malati, vecchi e pochissimi bambini con alcuni impiegati negli uffici. Tutti, in pochi giorni, furono prelevati e buttati in mare. 10mila armeni erano partiti da Trebisonda nei convogli verso Djevizlik ma, a 20 km dalla città, furono tutti uccisi dai curdi e dai cete. Alcune donne, bambini e anziani che fino ad allora erano sfuggiti alla morte, furono inviati in direzione di Aleppo. Quando, il 18 aprile, i russi entrarono in Trebisonda per salvare gli armeni, trovarono ancora due famiglie e 14 donne rifugiate in famiglie greche. Nei villaggi vicini sopravvissero un migliaio di armeni.[27]

NOTE:

[27] G. Chaliand, Y. Ternon, Le Génocide des Armeniens, Bruxelles, Complexe, 1980, pp.132-134.

Distretto di Sivas

Qui vivevano 205mila armeni. In questa zona il responsabile della deportazione era Abdul-Gani. Nel villaggio di Mersinan c’erano 12mila armeni. Si usa il solito schema:

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- arresto dei dirigenti del partito Dashnak insieme ai notabili, portati fuori città e uccisi;

- i giovani arruolati nei battaglioni dei lavori forzati saranno uccisi solo a lavori terminati;

- tutti gli uomini abili vengono riuniti e uccisi a colpi di ascia;

- entro tre giorni i rimanenti partono in convogli da 500-1.000 persone in direzione di Malatya, ma vengono tutti trucidati sulle rive dell’Eufrate e buttati nel fiume.

Nel villaggio di Amasya, poiché gli armeni si erano rivoltati, non c’era più bisogno di un’altra ragione per punirli e ucciderli tutti sul posto. I pochi rimasti, riuniti in un convoglio che uscì dal villaggio, furono poi uccisi sui monti vicini. Gli abitanti di Gemarek, deportati in convogli verso Sila, furono uccisi lungo il viaggio. Gli uomini di Zile furono legati a gruppi e uccisi sulle montagne. Alle donne di Zile venne fatta la proposta di convertirsi all’Islam, ma esse non accettarono e per questo furono trafitte dalle baionette e i figli venduti.

Nei villaggi limitrofi di Sivas c’era una delle più ricche produzioni di grano. I maschi in grado di lavorare ebbero una dilazione e poterono continuare il lavoro, per venire poi uccisi al termine della mietitura. 400 bambini di questo villaggio furono avvelenati. I quartieri furono setacciati uno dopo l’altro e le donne, raggruppate in convogli, vennero deportate in direzione sud-est a gruppi di 1.000-3mila persone. Venne lasciato loro il pane e un bastone per il viaggio. Queste si unirono ai convogli di Sasun, per ottenere poi la stessa sorte.

Nel villaggio di Shabin-Karahisar, gli armeni si rifiutarono di dare cibo ai soldati turchi e questa fu una scusa più che valida per punirli. I 200 notabili furono assassinati. Una parte considerevole di essi si rifugiò in una fortezza e resistette a lungo, ma quando cercarono di uscire per fuggire sulle montagne, pochissimi riuscirono a salvarsi. La conclusione fu un’altra carneficina di uomini, donne e bambini.[28]

NOTE:

[28] Episode de massacres de Dyarbakir, Costantinople, Imprimerie Kechichian, 1920.

Distretto di Dyarbakir

Qui vivevano 120mila armeni. I dirigenti del Dashnak e i notabili furono arrestati e, mentre i dirigenti venivano uccisi in carcere, gli altri furono uccisi sulla strada in direzione di Malatya. 12mila ex soldati armeni disarmati furono inviati ai battaglioni di lavoro forzato. Mentre stavano lavorando, furono assaliti e uccisi tutti.

I convogli di Diyarbakir in direzione di Mardine e Malatyia furono tutti uccisi in cammino. 700 giovani erano stati mandati a lavorare sulla strada che porta a Urfa e là un sottufficiale e cinque guardie si vantarono di averli uccisi tutti da soli. 5mila donne vicino a Yudan-Dere furono tutte precipitate in un burrone.

Un telegramma del 15 settembre comunicò l’espulsione e la deportazione di tutti gli armeni del distretto di Diyarbakir: si trattava di circa 120mila persone, numero più alto di quello denunciato dal Patriarcato nel 1914, di certo a causa dell’aggiunta di alcune migliaia di armeni che si erano rifugiati in quel luogo.[29]

NOTE:

[29] V. Dadrian, Documents of Armenian Genocidein Turkish, Source, pp.86-138.

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Distretto di Harput

Qui risiedevano gli studenti e i professori del famoso Euphrate’s College della missione americana.

Gli armeni erano 124mila. All’inizio del mese di maggio furono arrestati e torturati i notabili, come al solito con la scusa che non avevano consegnato tutte le armi. Vennero fucilati fuori città.

5 luglio: 800 uomini furono arrestati, legati a gruppi e fucilati sulla montagna. Nei villaggi vicini, 300 uomini furono portati a valle e fucilati o uccisi con baionette o pugnali. 10 luglio: altre centinaia di uomini uccisi. Prima del 15 luglio le donne e i bambini vennero riuniti e deportati, eccetto 700 bambini dell’orfanotrofio tedesco, che vennero annegati nel lago vicino alla città. I 2mila armeni abitanti di Arabkir furono ammucchiati su barconi, poi alcuni vennero fucilati e il maggior numero legati e annegati nell’Eufrate (occorreva spendere il minor numero possibile di munizioni, ma in alcuni casi, quando le vittime si ribellavano, bisognava anche usare le armi). Tutti gli uomini di Adiyaman e dei villaggi vicini furono uccisi a coltellate. A Resne tutta la popolazione (1.800 armeni) venne espulsa e accompagnata in convoglio verso la strada per Urfa. Giunti al fiume Gok-Su, vennero tutti fatti spogliare, poi uccisi e buttati nel fiume. Molti convogli dei Distretti orientali furono indirizzati verso Harput, dove c’erano gole di montagne assolutamente isolate e vennero uccisi in queste valli. Il console americano Davis, testimone di questa strage, nel 1919, davanti alla Corte Marziale di Costantinopoli, dichiarò che, andando verso sud in direzione di Gokulp, si trovò davanti uno scenario spaventoso: 10mila cadaveri di ogni età e sesso, alcuni dei quali ancora in putrefazione. Erano gli scheletri degli armeni di Harput e dei convogli destinati a morire in quelle regioni deserte. Lo schema era sempre lo stesso: un gran numero affogato nel fiume; donne e bambini venduti ai turchi. I convogli si assottigliavano sempre di più. Alcuni superstiti che avevano conservato la ragione hanno testimoniato che erano partiti 3mila armeni di Harput. Questi furono raggiunti a Malatya dai convogli provenienti da Tokat, Sivas ed Egin. Si era così formato un convoglio diretto ad Aleppo: delle 18mila persone che arrivarono dopo due mesi, ne sopravvissero solo 185, fra donne e bambini.

Occorre ricordare che chi accompagnava i convogli doveva pur cercare di conservare vive almeno alcune persone per dimostrare la tesi che si trattava di una deportazione, non di una eliminazione. Sabit Bey, uno dei funzionari del massacro, inviò questa comunicazione al capo di Malatya: «La informo che, pur con tante ingiunzioni ripetutamente inviate, le strade continuano ad essere disseminate di cadaveri.

Gli inconvenienti che derivano da questo stato di cose non hanno bisogno di molte spiegazioni e il Ministero dell’Interno ha reso noto che i funzionari negligenti saranno severamente puniti».[30] Se, come dicono le statistiche, gli armeni presenti nelle sette Province orientali erano 2 milioni e non più di 150mila di essi si sono salvati, significa che i deportati sono stati 850mila. Le donne e bambini rapiti e islamizzati non sono più di 200mila. Ad Aleppo non arrivarono più di 50mila armeni in condizioni di morti in piedi. Le vittime delle Province orientali non potevano essere meno di 600mila.[31]

NOTE:

[30] Y. Ternon, Enquête sur la négation d’un génocide, Marseille, Parentheses,1989, p.121.

[31] Livre Blue, op. cit., n. 22, p.261.

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Le province occidentali

Per le altre Province ad Occidente, portare avanti il programma di sterminio fu relativamente facile perché il conflitto della Prima Guerra Mondiale offrì un grande alibi: «bisognava ristabilire l’ordine nella zona di guerra attraverso misure militari rese necessarie dal fatto che gli armeni avevano mostrato di essere in connivenza col nemico (russo), per tradimento e concorso armato della popolazione».[32] Parlare di connivenza col nemico semplicemente perché i russi avevano arruolato degli armeni nelle loro file è veramente esagerato. (Un privato può ben scegliere il luogo di lavoro e quindi anche impiegarsi in un esercito straniero, se ci sono buone remunerazioni e vantaggi sufficienti. L’iniziativa privata non coinvolge l’etica di una Nazione).

Con l’esperienza nelle Province orientali si è potuto, senza indugio e senza spiegazioni, iniziare subito la deportazione ad Occidente, dove risiedevano almeno 800mila armeni. Qui spesso si utilizzò il treno che attraversava l’Anatolia occidentale per uscire fuori dai luoghi di deportazione.

Distretto di Agora .[33]

Secondo la statistica ottomana, negli anni 1913-14 gli armeni erano 63.605, di cui un quarto di fede cattolica. Secondo il Patriarcato il loro numero sarebbe stato di 1milione e 35mila.

Nella città di Agora c’erano 135mila armeni. Questi cattolici non avevano mai militato in una qualche organizzazione o in un partito e, poiché controllavano le banche e il commercio della città, ottennero una proroga di qualche mese. Intanto si cominciò con gli uomini gregoriani dai 15 ai 70 anni che, arrestati e divisi in gruppi, vennero condotti fuori della città, dove i cete e altri abitanti locali, armati di pugnali e coltelli, li uccisero subito.

Il 27 agosto anche i cattolici furono arrestati. A tal proposito occorre accennare a un fatto: il Patriarca cattolico e il Nunzio chiesero di risparmiare almeno questo gruppo. Lo stesso Talaat, incontrando l’ambasciatore Hohenlohe-Langenburg, mostrò dei telegrammi che lui stesso aveva inviato, i quali riportavano che i cattolici non sarebbero stati deportati. In questo modo tutti si tranquillizzarono e non fecero altre richieste, né proposte. Dopo sole 24 ore, la sospensione fu annullata e si iniziò subito la loro deportazione, senza ucciderli subito fuori della città, ma inviandoli nei convogli diretti a Konya e Adana.[34]

Nella città di Kayseri, i 52mila armeni ebbero la stessa sorte. Dapprima toccò ai 200 notabili, dei quali 80 furono impiccati subito, mentre gli altri 120, uniti a tutti gli uomini e adolescenti di Kayseri, furono trasportati fuori a gruppi di 80-100, spediti verso Sivas e uccisi lungo il cammino; le donne e i bambini furono invece ammassati nei soliti convogli, dove si poteva incontrare la morte subito o anche dopo qualche mese.

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Nelle città di Talas ed Everek, dopo l’arresto i notabili subirono la tortura per gli stessi motivi, cioè per non aver consegnato sufficienti armi e, in seguito, furono tutti deportati: uomini, donne, bambini. Nella regione di Yozgat c’erano 67mila armeni. Il loro capo, Djemal, si oppose alla deportazione e per questo venne subito sostituito da Ali Kemal, che fece radunare gli uomini (a gruppi, ovviamente) in una grande vallata vicina e li fece uccidere tutti. Le donne e i bambini, riuniti in convogli, partirono ma, poco lontano dalla città, i turchi dei villaggi vicini rapirono tante ragazze e ne uccisero alcune (uccidere un po’ di gente era il modo di sdebitarsi per le ragazze prese). Il bilancio dei morti nel distretto di Agora fu di 61mila morti (cioè il 95,9%).

NOTE: 

[32] C. Stuermer, Deux ans de Guerre a Costantinople, Paris, Payot,1917, p.41.

[33] R. H. Kevorkian, P. B. Paboudjan, Les Armeniens dans l’Empire Ottoman a la veille du Génocide, Editions Arhis d’Art et d’Histoire, Paris, 1992, pp. 57-60.

[34] J. Naslian, Les Mémoires de Mgr. Jean Nazlian, évêque de Trébizonde, sur les événements politico-religieux au Proche-Orient de 1914 à 1928, Vienna, 1955, vol. I, pp. 335-358.

Distretti di Bursa,  Sandjak di Izmit

In questi distretti c’erano 180mila armeni. Secondo lo stesso rituale, a giugno furono arrestati i 170 notabili e fucilati, ad agosto avvisarono tutti che entro 3 giorni sarebbero partiti. Molti furono invitati a comparire davanti a un magistrato e a compilare un atto di vendita di beni per cui vennero pure pagati in contanti. All’uscita, poi, i soldi venivano nuovamente ritirati da un funzionario e consegnati al magistrato (ci voleva anche questa presa in giro). Partirono in treno, raggiunsero le stazioni di Biledjik e di Eskishehir.

Anche gli ultimi abitanti di Agora arrivarono nello stesso luogo, dove quasi tutti gli uomini vennero uccisi e i rimanenti, separati da donne e bambini, salirono su carri-bestiame e sui treni. Lungo il tragitto venivano spinti fuori dal treno ad aspettarne un altro. L’attesa poteva durare qualche giorno o qualche settimana, senza cibo. A Smirne e dintorni c’erano 25mila armeni. Per la loro deportazione era stato incaricato il comandante tedesco della V Armata Lima Von Sanders, il quale si rifiutò di deportare quegli innocenti e minacciò la polizia affinché non facesse altrettanto (in questo caso l’ufficiale tedesco si era fatto onore, ma non capitava sempre così). Con la sua autorità di capo d’Armata, riuscì nell’intento e salvò i 25mila armeni. Anche a Costantinopoli furono salvati 150mila armeni per una ragione simile e perché c’erano troppi occhi stranieri.

Distretto di Adana .[35]

Dopo la metà del 1915, mentre esplodevano i Dardanelli (dove i turchi persero oltre 50mila soldati), in tutta la regione di Adana le deportazioni continuarono da luglio a novembre, ma i convogli si mescolavano con quelli militari, per cui il tutto veniva rallentato. Dovettero costruire 6 campi di concentramento provvisori lungo il cammino. Le testimonianze dicono che questi deportati (donne e bambini, perché gli uomini erano già stati uccisi e i vecchi erano morti molto prima) 

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arrivavano coperti di stracci, affamati e morenti per il tifo. Una gran parte di essi, dissero, erano senza più ragione e si potevano considerare come cadaveri in piedi. Solo nel campo di Islaihye, nel mese di novembre, si seppellivano in media 600 cadaveri-scheletri al giorno. In cinque mesi attraversarono questa regione circa 250mila persone. Gli armeni si avvicinavano ad Aleppo e proseguivano in agonia verso il deserto. A Mersin, nel mese di agosto, vennero deportati 7mila prigionieri.

NOTE:

[35] Y. Ternon, op.cit., p.274.

Distretto di Aleppo.

I consoli americano, tedesco e austriaco furono testimoni oculari e raccontarono tutte le nefandezze viste. Ad Ayntab c’erano 36mila armeni. Ad agosto iniziarono le deportazioni con lo stesso schema. Si formavano gruppi piccoli (35-40 persone). I convogli andavano in direzione di Aleppo. Quelli che sopravvissero dopo Aleppo dovettero continuare sulla strada di Damasco fino ad Hama. Nella regione di Musa, in un primo momento furono risparmiati i 6 villaggi vicino ad Aleppo, ma il 13 luglio giunse l’ordine di partenza. Alcuni scapparono verso la montagna. Erano in 5mila tra uomini, donne e bambini. Fortunatamente raggiunsero una posizione quasi imprendibile. I turchi concessero loro otto giorni per arrendersi o meno. Gli armeni rifiutarono. I turchi attaccarono pesantemente la “Fortezza” senza riuscire nell’intento. Chiesero un rinforzo di 15mila uomini e con questi assediarono la montagna di Musa (montagna di Mosè), per farli morire di fame. Dopo 53 giorni, avvistati (grazie ai loro segnali) da due navi francesi e da un incrociatore inglese, furono salvati. I sopravvissuti erano ancora 4.200. Musa e Van sono gli unici due casi di successo della difesa armata degli armeni.[36]

Ad Urfa erano presenti 25mila armeni che, barricati, si difesero nei loro quartieri a lungo, fino ad ottobre, quando 6.800 uomini vennero in aiuto dell’esercito. In questi casi, quando c’era una resistenza armata, l’esercito regolare si sentiva autorizzato a spegnere le rivolte, poiché gli armeni risultavano “rivoltosi” e non “in difesa”. Infine la difesa fu spezzata e gli armeni quasi tutti uccisi. I pochi sopravvissuti furono deportati.[37]

«Nelle Province di Siria, Damasco e Beirut, gli armeni erano 3.500 e furono associati ad altri deportati in quelle Province. Esecuzioni da una parte, esodi dall’altra, ovunque furti, saccheggi, stupri, torture, conversioni forzate, tutti crimini impossibili da mascherare e presentare come fanatismi folli: fanatismi sì, ma pianificati freddamente e truccati, diciamo pure ingenuamente, perché non è pensabile che non ci siano testimoni a rivelare misfatti tanto grandi. Le vie dell’esodo erano disseminate da cadaveri in decomposizione e di esuli affamati. I fiumi trasportavano cadaveri in decomposizione che infettavano le acque. Che lezione da imparare per i criminali di domani! E ci saranno sempre, senza eccezione, dei superstiti in grado di raccontare ciò che è accaduto a gente che non avrà comunque né il cuore per ascoltare, né l’intelligenza per capire».[38]

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La città di Aleppo è stata chiamata il crocevia della deportazione. Qui i convogli giungevano da ogni parte e chi arrivava vivo doveva riprendere il cammino. Era importante che i testimoni vedessero che di armeni vivi ce n’erano davvero, quindi non si poteva trattare di genocidio e la morte doveva essere considerata come una disgrazia che capitava ai deboli. La motivazione data a chi veniva deportato ad Aleppo era quella di essere “reinserito” in una società nuova cioè, in parole povere, eliminato. Almeno 300mila armeni arrivati ad Aleppo ripartirono per le destinazioni di Havran, Raqqa, Deyr-es-Zor, per stabilirsi definitivamente in quei luoghi. Ma, arrivati là, non trovavano assolutamente nulla: né cibo, né tende, né combustibile. Erano abbandonati a se stessi e quindi destinati a morire.[39]

Chi arriva vivo, se non vuole morire lì, deve proseguire per il deserto dove potrà finalmente morire, o ancora, allungare la vita di qualche settimana o mese. I superstiti potevano essere disposti a lasciarsi accompagnare da un campo all’altro in un circolo vizioso, fino a quando le migliaia diventassero centinaia e infine poche unità: questa era la conclusione della deportazione.[40] Per tale ultima tappa quasi non esistono documenti, ma i testimoni stranieri che erano sul posto descrissero i percorsi della lenta agonia. I deserti della Mesopotamia e della Siria erano incaricati di inghiottire tutti i resti umani che arrivavano da Aleppo, da Deyr-es-Zor, da Zeythun, dalle Province orientali, dall’Anatolia occidentale e dalla Cilicia.

E, quando arrivavano vivi, gli armeni dovevano riprendere il cammino, nella disperata speranza che capitasse qualcosa di impossibile che potesse salvarli (e a volte capitava). I due principali centri scelti dal governo per raccogliere gli agonizzanti furono Damasco, a sud di Aleppo, e Deyr-es-Zor.

Nel febbraio 1916 si ammassarono, in varie scadenze, 300mila armeni a Deyr-es-Zor e 130mila a Damasco. Gli ordini che arrivavano in questi centri erano sempre di ripartire, massacrare lungo le strade e, poiché era anche difficile materialmente uccidere numeri così elevati di armeni, si provocavano carestie artificiali, così che tifo e diarrea, strade e rive dei fiumi divorassero finalmente tutto. Verso la fine del viaggio, i deportati, ormai nella maggioranza inebetiti, «mangiarono prima gli asini, poi i cani e i gatti, poi ancora le carcasse dei cavalli e dei cammelli e, infine, quando non trovarono più niente di commestibile, si cibarono di cadaveri umani, preferibilmente quelli dei bambini piccoli... sembravano delle carovane di ossessi».[41]

August Bernau, agente della compagnia americana Vacuum Oil, ha riportato nel suo resoconto di aver visto ancora vivi lungo l’Eufrate, alla vigilia dell’inverno, 15mila armeni, sparsi in centri improvvisati, senza tende, né coperte, e continuamente spinti a ripartire. Vide poi ancora 60mila armeni a Meskene: erano tutti colpiti da dissenteria e ogni giorno centinaia di essi terminavano la deportazione.

Il console Jakson (Stati Uniti) spedì un resoconto in cui diceva di aver visto i 60mila armeni di Ayntab, di Urea e di Marash forzati da Zeki ad uscire dalla città, dove li aspettavano i cete per ucciderli. In una settimana furono tutti eliminati.[42]

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Ancora, nel febbraio 1916, nella regione di Ras-Ul-Ayn, Djevdet fece massacrare 15mila armeni, facendoli portare a gruppi verso il deserto per poi ucciderli: ciò avvenne in quattro mesi. Per i lavori del Gran Tunnel dell’Amano gli ingegneri tedeschi utilizzarono 50mila armeni dai convogli. Le famiglie di questi lavoratori rimasero fino a marzo 1916 nella zona e poi vennero deportati e uccisi tutti. Nell’estate 1916, dopo i massacri, le deportazioni, le torture, dopo l’islamizzazione forzata e dopo la confisca dei beni, la comunità armena era ridotta a un relitto senza più forze.[43]

NOTE:

[36] F. Werfel, Les 40 jours du Musa-Dagh, Paris, Albin Michel, 1936.

[37] Rapporto di Jacob Kuntzler, direttore dell’Ospedale della missione.

[38] Y. Ternon, op. cit., p. 279.

[39] J. Lepsius, op.cit., e Deutschland und Artmenien, 1914-1918, Potsdam Tempel, Verlag, 1919, p.161.

[40] J. Lepsius, op.cit., p.161.

[41] A. Andonian, Documents officiels concernant les massacres arméniens, Paris, Imprimerie Tourabian,1920, pp. 49-52.

[42] Rapporto Jackson (console americano) scritto nel 1918, pubblicato nella rivista “The Armenian Review”, vol. 38, n. 1-145, primavera 1984, pp.127-145.

[43] J. Lepsius, op. cit., pp. 221-223.

Ancora una persecuzione. 1920

A tal proposito, riporto parte di un manoscritto di Padre Materno[44]: «Subito dopo la Prima Guerra Mondiale, gli Alleati, francesi e inglesi, occuparono anche la Cilicia.

La Francia spese denaro per rimpatriare gli armeni dalla Siria dove erano stati deportati ed erano sopravvissuti ai disagi dell’esilio. Anche i missionari ritornarono alle loro residenze. A Marash vennero prima gli inglesi: era l’anno 1919. Poi fu stipulata una convenzione secondo la quale gli inglesi dovevano lasciare la città ed essere sostituiti dai francesi e così si fece. All’arrivo dei francesi, i cristiani esultarono di gioia, ma non sapevano che il generale Allenby aveva dato l’ordine alle truppe inglesi di consegnare ai turchi i fucili Mauser con le relative cartucce, perché fossero usate contro i francesi. Gli armeni, comunque, non ricevettero nulla. Il generale francese Quarette, che comandava le truppe, cercava di calmare i turchi, dicendo che era venuto per portare la pace; ma questi, secondo il progetto dei “Giovani Turchi”, non volevano lo smembramento dell’Anatolia, che sarebbe avvenuto nel caso in cui i francesi fossero rimasti in Cilicia, così si prepararono alla guerra costruendo barricate e facendo feritoie nei muri. Prima di attaccare i francesi, mandarono loro un ultimatum: “Consegnate le vostre armi, mettete in prigione i vostri soldati e in cambio noi lasceremo liberi i vostri ufficiali”.

Naturalmente l’ultimatum fu respinto e la sparatoria cominciò il 21 gennaio 1920. Il fumo delle case bruciate degli armeni doveva servire ai turchi dei villaggi vicini a Marash come segnale per cominciare ad organizzare la “guerra santa”. Infatti, il 23 gennaio insorsero contro gli armeni, massacrando e saccheggiando le loro case. Nella lotta perirono 300 soldati francesi e 6mila armeni. Molte case e parecchie chiese furono bruciate. Intanto arrivò l’ordine alle truppe francesi di ritirarsi segretamente da Marash.

La ritirata fu fissata per la notte tra 10 e l’11 febbraio. La mattina dell’11 febbraio gli armeni si accorsero che i francesi si erano ritirati e vollero raggiungerli; erano 2.500 persone, delle quali solo 800 si salvarono, mentre tutti gli altri furono uccisi dai turchi o morirono assiderati dal freddo o sfiniti dalla fatica».

NOTE:

[44] Dal manoscritto di P. Materno, riportato da C. Alvi (op.cit.).

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Tecniche per uno sterminio

Le deportazioni erano dirette più che a un campo profughi a disperdere il maggior numero possibile di persone durante il cammino e infine ad inviarle all’imbocco del deserto, è stata la più usata dal governo turco per realizzare il Genocidio dei Cristiani Armeni.

Come riportato nelle pagine precedenti aggiugno i casi di affogamento che, stando alle testimonianze, dev’essere stata una tecnica abbastanza comune quella di buttare donne e bambini nell’Eufrate o nel Mar Nero. A volte venivano uccisi prima, altre volte buttati in acqua vivi, ad annegare. Gli uomini, essendo più forti e potendo ribellarsi sulla barca, preferibilmente venivano uccisi prima e buttati nel fiume già morti.

Altre volte incendiavano interi paesi o quartieri, altre volte si ammucchiavano nei fienili uomini, donne e bambini cosparsi di combustibile, per carbonizzarli. I bambini venivano uccisi chiudendoli nelle scuole e bruciati, oppure bruciati vivi in piazza. Si deve pur aggiungere che alcuni medici turchi utilizzarono diverse forme di avvelenamento. Uno dei sistemi era quello dell’avvelenamento in massa, un altro era quello di vendere pillole di veleno a chi, a fine deportazione, non avendo più la forza di vivere, era disposto a pagare molto cara una pillola che togliesse la vita almeno un po’ prima della morte, che sarebbe comunque arrivata in modo naturale. Si era poi utilizzato il sistema di iniettare, prima della partenza per deportazione, piccole dosi di sangue infetto, specialmente di tifo, per garantire che la morte arrivasse presto e apparentemente senza colpa di nessuno.

Quanto sangue?

La stima del numero di vittime varia da un minimo di 950mila, secondo le fonti scritte turche, fino a 3 milioni e 500mila, secondo le ipotesi degli armeni. In specifico, il censimento ufficiale del 1914 effettuato dal governo ottomano riporta il numero di 1 milione e 295mila armeni, mentre, sempre nel 1914, il Patriarcato armeno calcola 2 milioni e 100mila armeni. Secondo il ministro degli Interni turco, i morti sarebbero stati 800mila. Nel 1919 confermarono questa tesi anche lo storico turco Bayur e Mustafa Kemal, ritenendo accettabile la tesi del Ministero. Questa è però la parte che certamente ha tentato di minimizzare fino all’impossibile il numero delle vittime. Il Patriarcato armeno ha parlato di 1 milione e 500mila vittime armene durante il Genocidio.

Dobbiamo ritenerci fortunati perché, come ho accennato sopra, il maggior storico e filosofo della storia del XX secolo, Arnold Toynbee, ha accompagnato personalmente tutta   

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la vicenda del tentativo di cancellazione dell’Armenia e ha potuto studiare, valutare e comparare migliaia di documenti: in specifico quelli dei consolati, le deposizioni ai vari tribunali nei quali sono poi stati condannati i responsabili del Genocidio e tutte le testimonianze informali o indirette che, nel loro insieme, hanno anche una parola molto preziosa da dire. Toynbee conclude che, ritenendo 1 milione e 800mila il numero più verosimile degli armeni residenti nell’Impero ottomano e sapendo che 200mila si sono rifugiati nel Caucaso, 150mila sono sfuggiti alla deportazione, 100mila sono da considerarsi rapiti, tra cui molti bambini salvati negli orfanotrofi, 150mila sono i sopravvissuti nei campi di concentramento e 4.200 gli armeni di Musa, secondo lui i morti del Genocidio dei Cristiani Armeni sarebbero almeno 1 milione e 200mila.[45] Poiché, tuttavia, nel 1916 la documentazione non era ancora certamente tutta a disposizione, anche il giudizio unico di Toynbee potrebbe essere insufficiente.

Il Monaco Kevork, guidandomi in questa ricerca, mi ha confidato con una certa amarezza che anche le autorità armene avrebbero accettato la cifra di 1 milione e 500mila vittime, perché era il numero che aveva occupato il maggior spazio delle informazioni internazionali e richiedere giustizia riportandolo a oltre 2 milioni di vittime poteva sembrare una esagerazione per finalità demagogiche o di altro tipo: per questo si preferì accettare quello ormai quasi universalmente accolto. Questa è la ragione per cui ho scritto 2 milioni di vittime, credendoci fermamente.[46]

NOTE:

[45] Y. H. Bayur, Turk Inkilabi Tarihi, Ankara,1957, p. 787.

[46] V. Dadrian, The Naim Andonian, p. 342 e p. 207 con la tesi di Mustafa Kemal; Y. Ternon, op.cit., p. 292.

Un poco di luce

Nel febbraio 1916, Djemal Pasha, uno dei tre capi del governo turco e comandante della IV Armata, volendo riparare in parte a quelle violenze irrazionali, riuscì a salvare 150mila armeni, inviandoli a Beirut e a Damasco. Lo stesso Djemal affidò 1.000 bambini orfani a Nora Altunian, figlia di un suo amico, 1.000 orfani a suor Beatrice Rohner e, inoltre, invitò la scrittrice Halide Edip a organizzare altri orfanotrofi ad Agora, Kayseri, Damasco e Beirut. Il comportamento di Djemal non è facile da capire, in quanto era sempre stato uno del Triumvirato, responsabile del Genocidio. Forse un cambiamento di prospettive nella sua vita? Una questione di coscienza, dopo aver visto le conseguenze delle decisioni del passato? Di fatto, lui stesso testimoniò di aver salvato quegli armeni.

Alcuni francescani, almeno in diversi momenti, riuscirono a salvare un buon numero di armeni, ma non conosciamo i risvolti di questi atti umanitari, in quanto furono uccisi essi stessi. Anche due navi francesi e un incrociatore inglese, non troppo lontano, riuscirono a mettere in salvo 4.500 armeni, braccati senza speranza. Papa Benedetto XV, oltre l’interessamento, ha pure inviato tutti i suoi beni personali per le vittime del Genocidio Cristiano Armeno.

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