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La consegna

La consegna

La consegna

Fate questo in memoria di me

A tutti i ricercati...

da Dio,

perchè si consegnino

liberamente


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Indice

Ogni giorno dobbiamo fare la nostra piccola, grande consegna, per entrare a far parte dei «beati» del Vangelo: perdere tutto per il regno, al fine di non avere più nulla da perdere nel momento in cui Dio ci chiederà tutto. «Prendete, questo è il mio corpo e il mio sangue che io consegno per voi. Fate questo in memoria di me». Con queste parole Gesù ci invita a fare come Lui: prendere il nostro corpo, il nostro sangue, e consegnarlo nelle mani del Padre e dei fratelli. Se noi non ci consegneremo, tutte le volte che celebriamo l’Eucarestia faremo solo una drammatizzazione piena di grazia, ma non quello che Lui ci ha indicato.

Ed. Effatà 2010

Introduzione

Desidero riflettere un poco con voi su un aspetto dell'eucaristia che troppo spesso è diven­tata

- il rito più solenne

- il rito che nella sua espressione liturgica ab­braccia il contenuto dell'intera fede cristiana,

- il rito più bello,

- un rito comandato da Gesù stesso e per questo della massima autorità,

- il rito nel quale la chiesa intera colloca la sua preghiera più profonda e genuina nella preghiera del Cristo, un rito però che spesso, da parte nostra, rischia di essere solo un rito.

Ecco le sacre parole del Cristo:

Prendete, questo è il mio corpo e il mio sangue che io consegno per voi. Fate questo in memoria di me.

Gesù ci ha chiesto di fare come lui. Certo abbiamo preso anche noi il pane e il vino tante volte, abbiamo preparato l'altare, collocato il calice, la patena, i fiori.

Ci siamo preoccupati di icone, quadri, affreschi, statue, marmi e legni scolpiti.

Abbiamo pure preparato cattedrali per celebrare questo rito, questo mistero, ma troppo spesso abbiamo assistito a un teatro sacro, certo pieno di grazia, di stimoli alla conversione, ma l'eucaristia di Gesù è un grido che va ben oltre.

«Fate questo in memoria di me» non si può ridurre a prendere del pane e del vino e dire quelle stesse parole come se fossero magiche.

«Fate anche voi questo» è il comando per fare quello che anche lui ha fatto.

Gesù ha preso la sua vita tra le mani, l'ha consegnata, e invita noi a prendere il nostro corpo, il nostro sangue, e consegnarlo, come Gesù stesso, nelle mani del Padre e dei fratelli.

Capitolo I

Fate questo in memoria di me 

Il lungo cammino 

Per fare la volontà di Dio bisogna seguire una strada, una strada sicura una strada senza equivoci, una strada che con certezza ti porti alla volontà di Dio.

Non tutti siamo dei mistici che possono udire delle rivelazioni di Dio; anzi. spesso, viviamo nella notte; per questo abbiamo bisogno di piste sicure per non precipitare nel burrone.

Gli ebrei avevano una strada chiara: i dieci comandamenti, la legge. Ogni ebreo sapeva che, seguendo la strada dei suoi comandamenti, faceva la volontà di Dio.

Gesù incide con più forza la stessa strada e la «completa» indicandoci quindi la nuova strada:

«Sono io la strada, la verità e la vita». Chi segue questa strada non cammina nelle tenebre.

Gesù una sera tracciò con chiarezza la strada che è lUi stesso. Egli disse di essere il capo cordata e a chi voleva partire, indicò come ci si preparava

Il tono del linguaggio di Gesù era di uno che dava dei consigli, proprio perché non voleva fare violenza a nessuno; ma in realtà erano degli imperativi: «Se vuoi partire con me, ti prepari così, parti così, cammini così come io ti dico; altrimenti vai a fare un'altra scampagnata».

Intanto diceva di non prendersi dietro il cambio dei vestiti; anzi, quando vide che qualcuno aveva avuto il coraggio di portarsi dietro un solo vestito di riserva, un solo bastone, un solo paio di sandali, disse di buttare anche quelli:  «No,  non portatevi niente per il viaggio».

«Il viaggio è molto lungo, ma una volta messo mano all'aratro non ci si volta più indietro». E si capiva che nessuno sarebbe dovuto tornare sui suoi passi.

Allora c'era qualcuno che aveva qualcosa, qualche campo, qualche libro prezioso, qualche pezzo di valore, qualcosa in banca. Gesù disse:

«Dovete prendere tutto, tutto, venderlo e darlo ai poveri; altrimenti non potete partire».

Poi Gesù non volle essere frainteso. Qualcuno infatti pensava di acquistare potere facendo il bravo camminatore; ma lui, Gesù stesso, lo disilluse: «Non ci saranno né primi, né secondi; anzi, se qualcuno vuol essere il primo stia in fondo; tocca a un altro, a Dio Padre, assegnare i posti all'arrivo». Ancora: «Se qualcuno cerca, in questo modo, di realizzare meglio la propria vita, è meglio che non parta».

Dall'aria che si respirava in quel discorso di preparazione, si capiva che chi cercava la pro­pria vita la stava perdendo; invece chi era disposto a perderla, l'avrebbe trovata.

Qualcuno disse: «Almeno salutare i parenti?». «No, non è il caso!».

«Il padre è già anziano, aspettiamo che muoia». «No!».

Il Signore Gesù sembrava aver fretta, ma gli altri facevano un sacco di domande. Parecchi erano già andati via prima. Alcuni erano partiti alle prime proposte. Qualche ottimista aveva pensato che fossero andati a vendere i propri beni per dare il ricavato ai poveri; invece non sono più tornati; e si seppe che si erano riuniti in un locale di un amico a discutere sulla povertà di spirito, a leggere la Bibbia e a chiedere luce.

Poi erano usciti altri, perché tutto sembrava esagerato, e hanno comunque continuato a leggere la Bibbia e a mettere in pratica i dieci comandamenti.

Erano ormai rimasti pochi, forse una dozzi­na di persone. Gesù disse: «Volete andare anche voi, visto che nessuno si fida di me?». Ma Pietro si fece avanti per tutti e disse:

«Nessuno ha parole di vita come te, tu hai parole di vita eterna!».

Seguirono altre domande: «Facciamo delle tappe? Dove dormiamo?». Gesù non pensava che questo fosse importante, ma disse: «Non pensate di trovare dei posti comodi per riposa­re. È un viaggio duro il nostro; anzi, vi dico che le volpi hanno almeno una tana e gli uccelli hanno un nido; ma noi non avremo nemmeno una pietra su cui posare il capo».

Un altro: «Che cosa mangeremo, con che cosa ci vestiremo, se non ci portiamo dei vestiti di riserva?».

E Gesù rispose anche a queste domande margi­nali: «Guardate gli uccelli del cielo: non semi­nano, non mietono, eppure il Padre dei cieli li nutre. Guardate i fiori, i gigli del campo:

nemmeno il re è vestito come uno di loro. E il Padre dei cieli che li riveste uno a uno; e voi, che valete più degli uccelli e dei fiori, volete che il Padre non pensi a voi?».

Qualcuno poi disse: «Ma se avremo tanta fame durante il viaggio, tu che hai moltiplicato i pani per i cinquemila, potrai dire alle pietre che diventino pane?».

E Gesù: «Ma non si vive di solo pane a questo mondo!».

Un altro: «Se qualcuno cade in un burrone, salendo questa montagna, tu, con la tua forza, potrai mandare un angelo a prenderci?».

E Gesù: «Voi, non mettete alla prova la forza di Dio».

Poi uno degli amici di Gesù si avvicinò e disse: «Ascolta, tu hai parlato tante volte del regno di Dio; ebbene, quando saremo in cima alla montagna, quando avremo finito questo viaggio, che cosa ci darai? Ci darai un grande regno su questa terra?».

Gesù era quasi imbarazzato, ma tentò una battuta: «In cima? E se in cima ci ammazzassero tutti?».

Questo amico istintivamente gridò: «Davanti e te mi metterò io. Non lo permetterei mai!».

Si sentì un urlo di Gesù: «Vattene, Satana!». E si fece un gran silenzio.

Domande su domande non avevano dato ancora il tempo a Gesù di spiegare che cosa almeno dovevano portarsi dietro, ma questo si è poi rivelato provvidenziale.

Gesù concluse quella grande assemblea, che era diventata piccola, piccola, e disse: «Ci troviamo domani sera, la vigilia del grande giorno, e celebreremo insieme la partenza, il passaggio sulla montagna, voglio dire il cammino e l'arrivo. Voi ricordatevi solo di non portarvi nulla, perché se volete venire dietro di me, come i discepoli vanno dietro al maestro, non dovete avere più nulla di vostro. Ci sarà poi da portare del materiale pesante, ma non tocca a voi prepararlo, e poiché a ogni giorno basta la sua pena, per oggi basta così».

Si sono congedati storditi e muti.

Gesù passò la notte e la giornata seguente, solo, a pregare; qualcuno pregò, qualcuno si addormentò a causa della stanchezza, nono­stante la buona volontà, e si ritrovarono alla sera.

Erano forse una quindicina di persone riunite con Gesù.

Erano gli amici intimi, la madre, alcune donne, in un locale ai piedi della montagna.

Nello stesso tempo, nelle diverse case, si erano riunite le persone che la sera prima avevano intenzione di partire e dovunque non si parlava d'altro che di Gesù e delle sue proposte e si erano così formati altrettanti gruppi, tante co­munità, tante chiese.

Intanto in quel locale si celebrò la pasqua del Signore.

Gesù aveva chiarito il senso del viaggio: «Ho desiderato tanto celebrare questa pasqua con voi. Ecco, questa è la nuova alleanza. Io consegno la mia vita a voi e al Padre, come vi consegno questo pane e questo vino. Que­sto è il mio corpo e il mio sangue, dato per voi. Ma ora vi chiedo ciò che mi sta tanto a cuore: Anche voi fate questo! Consegnatevi pure voi!

È giunta l'ora, non temete, fidatevi di me. Io sono con voi.

Vi ho detto di non portare nulla e in questo mi avete obbedito. Ora fuori ci sono le croci.

Su ciascuna c'è scritto uno dei vostri nomi, gli stessi nomi che sono scritti in cielo.

Chi vuoi venire dietro di me prenda la sua croce e mi segua: partiamo insieme».

Non c'era più spazio per le domande, ma uno riuscì a chiedere: «Le croci, a che cosa servono?».

Gesù non sottovalutò nemmeno questa doman­da e disse: «Quando Isacco camminava con il padre Abramo verso la cima del monte, per essere sacrificato, chiese: 'Il fuoco e la legna ci sono, ma l'agnello per il sacrificio, dov'è?". Vi dovrebbe bastare questa risposta, e poi voi non siete bambini... A che cosa può servire una croce?... Arrivati sul posto viene messa per terra; colui che la portava ci viene inchiodato sopra, in attesa che possa morire».

Gli amici di Gesù avevano certo già capito, ma cercavano forse di guadagnar tempo. Mentre il cuore batteva già forte, un brivido di sudore venne a colmare la misura: qualcuno aveva bisbigliato al vicino che, forse, quel viaggio non era stato percorso, per intero, nemmeno da Gesù.

Ma avevano promesso fedeltà e non tornarono indietro.

Uscirono, videro i loro nomi; ciascuno prese la propria croce: Gesù avanti e tutti gli altri dietro, con la madre di Gesù e altre donne molto fedeli.

Intonarono i salmi durante il cammino, perché un viaggio simile senza preghiera non è possibile.

Uno ebbe ancora la forza di dire: «Gesù, tu pensi davvero che noi ce la faremo a fare una salita così, fino in cima alla montagna?». E Gesù volle rispondergli: «E impossibile con le sole forze umane, ma con la forza di Dio sì!». E arrivarono subito a una strettoia impossibile.

A quel punto, se qualcuno avesse avuto dietro qualunque tesoro, anche piccolissimo, avrebbe dovuto lasciarlo giù, perché su quel sentiero passa solo un uomo e una croce, e basta.

Continuarono a salire pregando.

Di tanto in tanto Gesù lasciava il gruppo e andava a cercare chi era rimasto indietro o si era perso sotto quel peso orribile.

In ogni caso, pur con fatiche, cadute e pianti, raggiunsero la cima.

C'era un piccolo solco che delimitava il luogo dei teschio. Quando la gente arriva, con la croce sulle spalle, significa che è già stata consegnata, quindi condannata regolarmente; e gli uomini addetti al lavoro della crocifissione non guardano in faccia a nessuno: può essere un ladro o un salvatore, per essi sono tutti uguali. Chi supera quel confine è inchiodato.

Tutti si arrestarono un istante. Gesù mormorò una preghiera al Padre e fece il primo passo e si presentò.

Seguirono due delinquenti comuni, accompagnati dalle guardie, e quindi senza alternativa. C'era la madre di Gesù, che avrebbe voluto essere crocifissa per prima, per non vedere quello scempio di sangue e di sofferenza; ma Gesù era il primo e toccava a lui.

A quel punto impazzirono tutti: gli uni si slegarono il tronco sulle spalle, altri si aiutarono gridando, altri precipitarono a destra, altri ancora a sinistra e fu tutto un grido di disperazione che rotolava giù dalla montagna.

La madre restava là, in piedi, legata al suo tronco sulle spalle, in attesa.

Quando Gesù la guardò, prima di spirare, disse:

«Va, corri, cerca questi figlioli. Radunali e... aspettami».

Appena spirò, Maria, con il cuore trafitto da cento chiodi, partì con quel legno legato alle spalle fragili e stanche. Scese senza più lacrime, andò in città e cominciò a picchiare contro le porte e a cercare per le campagne, lungo il fiume, andò a aspettare le barche al lago. In capo a tre giorni radunò tutti, senza rimproveri. Solo li guardò con i suoi occhi di madre.

Si ritrovarono nel locale dove avevano celebrato la partenza. E lui, il Signore Gesù, arrivò, entrò a porte chiuse e si fermò: «Amici, è comprensibile che non mi abbiate seguito fino in fondo, per un solo motivo, perché sapevate che io stesso non avevo mai percorso quel tragitto per intero. Ma adesso avete visto. Ho percorso il viaggio, per solidarietà con voi. Ora avete an­che capito perché sono venuto nel mondo: per­ché non abbiate più paura di consegnarvi e co­nosciate la conseguenza della consegna stessa, dell'inchiodatura, della morte. E chi avrà creduto e sarà messo a morte in questo battesimo, sarà salvo. Voi prima avete sempre e solo visto gente morire sulle croci; non avevate ancora visto risorgere. Ora sapete che la morte è stata vinta. Andate, chiamate gli altri, parliamone».

Arrivarono almeno cinquecento persone che stentavano a credere ai loro occhi. Rivolto agli amici: «Ora voi conoscete la strada. Guiderete gli altri e io camminerò con voi. Continuerò a fare la guida fino alla fine dei tempi». 

Ultimamente mi risulta che i locali si siano moltiplicati, ai piedi di quella montagna. Essi sono sempre affollati di gente che studia le parole del Signore Gesù. Si sono provveduti tutti delle mappe della montagna. Studiano, centimetro per centimetro; ma solo qualcuno nella notte, con la guida, inizia la strada della consegna che si chiama "teschio" ed è la strada della vita.

Si tratta di prendere tra le mani sé stessi e avanzare con coraggio e dire: «Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà».

  

Non predichiamo che Dio esiste 

Non c'è da ripetere agli uomini che Dio esi­ste; questo lo hanno capito tutti i più stupidi e i più intelligenti di tutti i tempi. Bisogna semmai dire chi è Dio.

Abramo non ha predicato che Dio esiste, ma che Dio è il Signore della vita e bisogna fidarsi di lui. Mosè non ha predicato che Dio esiste, ma che Dio è il liberatore e bisogna seguirlo sulla sua strada di liberazione.

Davide non ha predicato che Dio esiste, ma che Dio è misericordia e non dobbiamo scoraggiarci del nostro peccato, ma rialzarci.

Gesù, la parola fatta carne, non ha predicato che Dio esiste, ma che Dio è amore e lui stesso ha amato fino a dare la vita e ha chiesto a noi di consegnarci come si è consegnato lui, di amare come ha amato lui: qui sta tutta la legge, i profeti, le scienze e filosofie antiche e moderne, tutto ciò che l'uomo ha saputo e saprà fare di bello.

Perché consegnarci?

Per imparare a voler bene.

Una meravigliosa parabola narra di un pon­te di liane intrecciate, teso sul fiume Rey, presso Lima. Un giorno, mentre transitavano cinque persone diversissime le une dalle altre, il ponte si slacciò e precipitarono tutte, mo­rendo.

Un caparbio uomo di Dio volle indagare se c'era qualcosa che accomunasse le cinque per­sone al momento della tragedia. Scoprì, con sorpresa, che prima di quel momento tutte erano riuscite ad amare e avevano pertanto terminato la loro missione.

Un mio amico prete mi riferì di una terribile e meravigliosa storia d'amore tra Dio e un ragazzo.

«Ero stato in montagna dai ragazzi e uno di questi mi aveva comunicato la decisione di consacrare la sua vita a Dio e diventare prete. Era stato illuminato, aveva capito. Aveva detto di si. Da parte mia gli ricordai che doveva lasciar tutto: la famiglia. la fidanzata, la carriera e tutto ciò che sarebbe potuto diventare suo. La risposta era stata semplice: «Sì». Aveva pensato a tutte queste cose.

Abbiamo programmato una settimana più in­tensa di preghiera, forse perché attendevamo da Dio stesso un segno più visibile della sua volontà. Il ragazzo chiese di potersi preparare a quella settimana con la confessione.

L'assoluzione fu anche il mio saluto: «Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito santo».

Io ebbi il tempo di salire sulla macchina per scendere a valle e il ragazzo ebbe il tempo di spostarsi pochi metri e precipitare da duecento metri sulla roccia».

Si era «consegnato». Aveva amato.

Tutto era compiuto.

Se interroghi la tua vita e domandi a te stesso se già hai amato, posso risponderti anch'io: «Se sei ancora vivo, no! almeno, non hai amato abbastanza». San Paolo ti aggiunge:

«Non hai ancora firmato con il sangue il tuo amore, quindi resta ancora incompleto».  

      

Il primo incontro 

Un giovane di diciannove anni, che nella sua vita era passato attraverso una serie di sofferenze fisiche, morali, compresa l'alienazione della droga, decise di fare un cammino di fede. Si lasciò conquistare da Gesù Cristo.

Scoprì che esisteva una comunità, una chiesa, che non era solamente ciò di cui aveva sentito parlare.

Incontrò testimonianze autentiche di bontà e lui stesso diede testimonianza di un amore diverso da quello che propone il «mondo».

Si era preparato alla prima comunione, alla prima consegna. Il giorno del grande incontro, io ero vicino a lui. Al termine della funzione, egli uscì dalla chiesa e si fermò su uno degli scalini della stessa, non curandosi o non accor­gendosi della gente che andava e veniva.

Mi avvicinai e, vedendo i suoi occhi lucidi, domandai: «Che pensi?». Mi disse: «Ho fatto una preghiera e adesso sono qui che aspetto». Mi sedetti accanto a lui. Egli capì che desidera­vo conoscere la sua preghiera. Così proseguì il discorso: «Vedi, Renato, in questi mesi ho capito che la fede è il più grande dono che esiste al mondo e tu sai che da tre anni voglio bene a una ragazza che mi ama tanto. Lei non ha la fortuna di essere cristiana. Mi sono posto dinanzi al dono più grande, che è la fede, e la persona più cara; e poi ho detto: «Signore, da parte mia, sono disposto anche a perdere lei. Signore, toglimi pure la ragazza, purché tu faccia a lei il dono della fede». Nella preghiera ho chiesto questo e adesso aspetto».

Non so se quel giovane, prima di quel giorno, abbia amato qualcuno. Non so se prima della morte amerà qualcuno; ma so per certo che quel giorno, consegnando tutto, ha amato. E tutte le volte che lo incontro si scatena in me una sorta di gelosia per lui, che ha amato, almeno una volta, così gratuitamente. 

 

Due lettere al monastero di Saint Honorat 

Carissimo Roberto,

sono contento di come è andata la tua avventu­ra con Dio. Hai cominciato a uscire con Dio; lui ti ha portato nel deserto e si è rivelato al tuo cuore. Tu sai che quando Dio si rivela è più difficile rifiutarlo che sceglierlo.

Viene poi la fatica della fedeltà, quando non vedi più nulla, quando non ricordi più la trasfigurazione del Tabor, quando cammini per la Gerusalemme capace di uccidere, quando nell'orto degli ulivi sudi sangue, quando ti flagellano, quando sali per il calvario, caro amico, e senti la croce troppo pesante o i chiodi che fanno troppo male; e mentre stai per morire, gli altri, la gente, i pensieri, le tentazioni dentro dite gridano: «Scendi dalla croce!» e tu hai tutta la possibilità di farlo fino all'ultimo momento.

Carissimo, io ti auguro di farcela, di morire nella sua volontà. Mi ricordo di alcune tue preoccupazioni pastorali. Da parte mia avevo cercato di dirti che ciò che contava era la tua conversione. Forse ci spaventa morire da soli. In questi giorni sto riflettendo sull'eucaristia e su quelle parole di Gesù: «Questo è il mio corpo dato per voi, il mio sangue versato per voi; anche voi fate questo».

Gesù che consegna il suo corpo e il suo sangue consegna se stesso e invita anche noi a consegnarci, per celebrare l'eucaristia con lui. Non c'è amore più grande di colui che consegna la vita. Nella predicazione di Gesù c'è questa costante, perché non vuole che restiamo imbrogliati: la vita che Gesù predica, la vita che vuole è quella che nasce dalla morte.

Se cerchi la tua vita la perdi, vai fuori strada. Se ti fa impressione vedere un chicco di grano che crepa sotto terra, non piangere troppo, è la vita.

Il chicco di grano che non ha avuto paura di consegnarsi ha la vita in abbondanza.

In sintesi, questa consegna porta alle tre beatitudini, ai tuoi tre voti:

- voto di povertà: beati i poveri

- voto di castità: beati i puri

- voto di obbedienza:  beati quelli che ascol­tano la Parola di Dio e la mettono in pratica. 

Più vai sottoterra, meno cerchi di riemerge­re e liberarti dalla terra che ti soffoca, più ti sfasci in fretta e più in fretta perdi la figura dell'uomo vecchio, tanto più in fretta entri nel cuore di Dio.

Se a una farfalla chiedi che cos'è il fuoco di una piccola candela che brilla, ti dirà: «È ca­lore». Ma se tu chiederai ancora: «Che cosa è veramente il fuoco?», ti potrà dire: «È luce». Se ti ostini a chiedere ancora: «Spiegami meglio che cos'è il fuoco», la farfalla probabilmente andrà vicino alla fiamma per scoprire il segreto di quel cuore luminoso e tornerà a dirti: «È una luce che brucia e rischia di distruggerti». Se poi ripeterai la stessa domanda e se la farfalla vorrà veramente sapere cos'è il fuoco e dovrà farne l'esperienza per capire davvero, vedrai una fiammata.

Solo in quel momento la piccola bestiola avrà capito che cosa è il fuoco e non lo dirà a nessuno che cos'è, se non con il fuoco stesso.

Penso che questa è anche la tua esperienza dei primi mesi a Saint Honorat.

Ti auguro di avvicinarti sempre più al fuoco; forse non andrai a spiegare a nessuno che cos'è il fuoco, ma la tua missione sarà una fiammata nella misteriosa storia della salvezza.

Avendo ancora un po' di tempo ti dirò ciò che per me è stato in questi giorni un motivo di grande gioia: ho scoperto che è esistita ed esiste ancora una congregazione, forse molto vicina alla spiritualità monastica - «I Mercedari» - i quali, assieme al voto di povertà, castità e obbedienza, facevano il voto di consegnarsi come riscatto di uno schiavo. Quando un mercedario aveva finito la preparazione (noviziato, studi, ecc.), partiva per la missione, che non consisteva tanto nel predicare, quanto nel consegnarsi al posto di uno schiavo. Quest'ultimo poteva essere un condannato alle galere, un condannato a morte o non importa a quale schiavitù. Il mercedario si consegnava.

Di questi «Massimiliano Kolbe» ce ne sono stati oltre 1.500, che ci incoraggiano a fare la consegna di noi stessi.

Queste sono alcune riflessioni fatte su quella parola: «Questo è il mio corpo consegnato per voi; anche voi fate questo».

Diventare cristiani vuol dire celebrare l'eucaristia, diventare mercedari, diventare monaci, diventare martiri, lasciarci afferrare dalla grazia di Dio che ci prende tra due dita paterne e ci sotterra, affinché da quel chicco che siamo noi nasca la vita.

 

Carissimo Michel, 

grazie per la lettera e per le due foto e ancora più del tuo ricordo. Mi hai comunicato la data della tua professione religiosa,  uno dei primi passi del lungo Cammino. Forse speravi di vedermi. È sempre bello rive­dere un amico e ti ringrazio perché mi consideri tale.

Quel giorno non sono venuto a Saint Honorat perché abbiamo benedetto una nuova fraternità nomade. Prendo l'occasione per dirti che, oltre il fatto di non essere venuto ora, non verrò mai più da te.

Adesso ti spiego. Quando un giovane entra nella clausura, lascia tutto e in qualche modo tutti, per incamminarsi nel deserto dove c'è Dio solo, e Dio solo basta. Nessuno dei tuoi amici tornerà da te.

Sì, è vero, potremo venire all'isola; anch'io spero di venire tante volte, senza però raggiungere il tuo cuore, perché ormai esso è con lui, con Dio solo, e nessuno dei tuoi amici potrà raggiungere questo silenzio.

Anche se verrò all'isola, anche se verrò nella clausura, ti passerò solo accanto, senza raggiungerti, perché tu vivrai altrove. Anche i tuoi fratelli che condividono la vita con te, ti accompagneranno solo alla soglia del grande deserto. Tu sai, quando uno muore e lascia questo mondo, gli amici e i familiari lo accompagnano fino alla soglia della vita, ma quando questi dovrà passare oltre, lo si lascia solo e solo s'incontrerà con Dio.

Così penso per la vita monastica: tutti i tuoi amici fino alla soglia e poi il grande silenzio: tu e Dio. 

 

La consegna non è una danza 

Mentre Abramo saliva la montagna offren­do il figlio, nel suo cuore offriva la storia, l'universo, il senso della vita.

Gli restava ancora Dio, ma un Dio che rischiava di essere il Dio dei morti e non il Dio dei viventi. Ebbe appena il coraggio di fidarsi di Dio più che di se stesso.

Quando ti consegni non sai che cosa capiterà dopo. La morte è morte!

Quando il chicco di grano scende sotto terra, sa con certezza che muore. Si, ha visto tanta vita attorno a sé e ha mille motivi per sperare che non sarà la fine di tutto; ma della rinascita ha solo la speranza, mentre della morte ha la certezza.

Così ogni cuore, quando si introduce nell'ultimo istante per la consegna finale, abbandonato da tutti, perché nessuno più lo può seguire, abbandonato dalle certezze, abbandonato da Dio, gli resta una sola certezza: quella che sta morendo, e ha una sola speranza: che Dio ritorni.

Tutto questo non ha alcun diritto di gettarci nel pessimismo. Ma non dobbiamo illuderci che la consegna sia una festa, una danza, un trasporto mistico, no. La consegna di se stessi, per prepararci a celebrare l'eucaristia e per fare finalmente la comunione, è un grido: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito!».

È la morte.

Ma non dimentichiamo che nella morte non è tutto disperazione, anche se è grido.

Prima della consegna finale Gesù dice, nell'ultima cena, di aver desiderato con grande desiderio quel momento, e prima ancora aveva detto: «Se voi mi amaste, vi rallegrereste che io vado». Tutto questo è nella prospettiva della festa.

  

Uno straccio raccolto da Dio 

La consegna lacerante comincia col dare ciò che uno ha e con lo sradicare le ricchezze e le sicurezze dal proprio cuore.

Il Signore parla sempre, ma noi non riusciamo a sentirlo se non siamo liberati di tutto.

È stato così per Abramo, Mosè, Davide, e per tutti gli ascoltatori di Dio.

Poi Dio non si arresterà, continuerà a chiedere, e chiederà tutto quello che sei, tutto te stesso, per poterti dare tutto, tutto se stesso.

Quando Abramo ebbe perso i suoi anni giovani e con essi la speranza di un figlio con la moglie sterile; quando consegnò il suo paese, la sua parentela che gli dava sicurezza, la casa di suo padre, e si incamminò per una terra scono­sciuta; mentre Abramo era in questa situazione e non era più nulla, intese la nuova voce di Dio:

«Abramo, ho un progetto da fare con te. Voglio costruirmi un popolo». E nella fede venne generato il popolo della salvezza.

Così per Mosè.

Quando questi fuggì dall'Egitto, dopo aver perso il prestigio presso la corte di faraone, dopo aver perso l'amicizia con gli egiziani offesi dall'uccisione di uno di loro, dopo aver perso il popolo ebreo che non lo volle più riconoscere..., proprio quando Mosè da principe divenne pastore, Dio gli fece una proposta di fuoco: «Mosè, ho un progetto da fare con te. Voglio salvare il mio popolo». E in quel lungo esodo l'uomo e Dio si ripresero per mano.

Così per Davide.

Proprio quando commise la più grande delle atrocità, far uccidere il marito della sua amante; quando capì che aveva perso la stima degli uomini, del profeta e di se stesso; quando, secondo la legge di Mosè, doveva essere ucciso perché egli stesso aveva fatto uccidere; quando da re divenne solo un condannato a morte, lo Spirito di Dio gridò in lui:

«Davide, ho un progetto da fare con te: voglio incontrare il mio popolo. Insegnagli a pregare». E nacquero le preghiere più belle del mondo.

Abramo, Mosè e Davide ci ripetono che, se non consegneremo tutto, non potremo sentire il grido di Dio né le sue proposte. Solo quando diventeremo uno straccio perduto in un deserto e seppellito dal primo vento di sabbia, solo allora Dio ci può raccogliere, lavare, e può scrivere su di noi parole di Dio.

  

Il giovane ricco 

Mi trovavo in un accampamento, a Milano. Venne a trovarmi un signore sui trent'anni, con uno sguardo pulito e pieno di buona volontà. Aveva lasciato la macchina lussuosissima a distanza, per non umiliarci, e si intrattenne un poco con me.

Mi parlò della sua famiglia, della moglie, del bambino di pochi mesi, degli impegni nella catechesi parrocchiale, di ciò che faceva e di ciò che avrebbe voluto fare come cristiano.

Aveva la sola disgrazia di essere ricco.

E la domanda che pretendeva una risposta era questa: «Perché non riesco a capire il Vangelo? Lo leggo con mia moglie tutte le sere, lo leggo in chiesa alla domenica, ma sono sempre allo stesso punto, e non riesco a capire. Mi affascina e non capisco».

La domanda non mi sembrò difficile, e mi parve che anch'io, più giovane di lui, potevo rispondere: «La tua disgrazia, amico, è che sei ricco e i ricchi non possono capire. Ascolta. Se i poveri dovessero pensare che i ricchi, oltre le loro sicurezze, i soldi, le vacanze, le feste, gli amici di divertimento, i divertimenti, oltre a tutte queste cose, avessero anche la possibilità di capire il Vangelo, dovrebbero pensare che i ricchi hanno proprio tutto. Invece no. Gesù ha detto: «Queste cose sono rivelate ai poveri, ai piccoli, ai semplici, ai tapini, mentre sono nascoste ai sapienti, ai ricchi».

I ricchi possono studiare il Vangelo, fare corsi teologici, possono diventare insegnanti di teologia e scrivere libri di ascetica cristiana e best-sellers ed essere ritenuti gli autori migliori, ma a loro non è dato di «capire» il Vangelo. Fino a quando non si scioglie il cuore come a Zaccheo, si può solo intendere la voce di un invito, ma non capire quale festa o quale storia d'amore sta dietro a quella parola.

Fino a quando il «giovane ricco» non decide di consegnare i suoi averi, darli ai poveri e poi consegnarsi definitivamente lui stesso, il «Re­gno» apparterrà agli altri; e le parole di una chiamata, che poteva suscitare la rivoluzione dell'amore nel mondo, resteranno come corpo morto nel seno della madre, senza mai prorompere in potenza di vita. 

 

Perdonare è consegnare una gran parte di noi 

Erano riuniti presso il fiume Sangone circa 200 zingari e amici loro per festeggiare la Pasqua. Ricordavano, in quella circostanza, anche il martirio di 500.000 zingari, morti insieme agli ebrei nei campi di concentramento dell'ultima guerra.

Celebrando la messa, dopo aver letto il Vangelo della crocifissione, morte e risurrezio­ne del Signore Gesù Cristo, nell'omelia sottoli­neai che Gesù aveva perdonato anche i carnefici. C'era grande emozione. Allora mi rivolsi a una donna anziana per una domanda. Quella donna era stata tre mesi in un campo di concentramento. Dormiva su quei tavolacci di legno disposti uno sull'altro. Per terra c'erano solo liquame ed escrementi umani. Sopravvisse. Quando entrò nel campo, pesava 95 chili; quando uscì, 34.

A quella donna maltrattata, torturata, umiliata, offesa, ebbi il coraggio di chiedere se nel suo cuore riusciva a perdonare quelli che l'avevano messa più volte in croce.

Si alzò tremante, vicino al fuoco, portò le mani in avanti, guardando i bambini che non poteva­no capire, e gli adulti che trattenevano il fiato, e disse: «Lo dico a tutti: io perdono tutto a tutti». Si scatenò un applauso di solidarietà e nessuno si vergognò di piangere.

Qualche tempo dopo uno zingaro, che era stato pure lui in un campo di concentramento, mi disse che voleva perdonare anche lui; forse per non essere da meno di quella donna, lui, che era un uomo. Era iniziata una gara che spero non abbia mai fine.

  

Il grande camion del mondo 

Stavo raccontando i fatti del capitoletto appena terminato e degli stermini dell'ultima guerra, dove mezzo milione di zingari, assieme a sei milioni di ebrei, finì nei forni crematori. Stavo dicendo altre cose sul perdono e sulla misericordia di Dio a un gruppo di persone in ritiro spirituale, quando una donna mi interrup­pe e disse: «Se io sapessi che Eichmann, stretto collaboratore di Hitler, può ottenere misericor­dia, in altre parole, se lo dovessi incontrare in paradiso, io preferisco andare all'inferno».

E motivò questa battuta un po' cruda dicendo: «In una trasmissione televisiva sull'ultima guer­ra ho appreso una notizia raccapricciante: Eichmann aveva deciso lo sterminio dei bambini di un campo di concentramento. I militari avevano raccolto e messo sul camion tutti i piccoli che avevano trovato. Un militare, poi, si avvicinò a una zingara che aveva cinque figli ed era riuscita a nasconderli e cercava di proteggerli. Ma poiché gli ordini sono ordini e non si discutono, il militare strappò i bambini da quella protezio­ne così fragile e li buttò sull'ultimo camion, mentre la donna urlava disperatamente. Il mili­tare, pur abbrutito dalla guerra, quasi impietosito da una scena tanto orribile, concesse alla donna di prendere almeno uno dei bambini; tanto sarebbe passato ancora il mattino seguente. La donna corse, si fece spazio tra le altre disperate, gridando, ma si trovò le dieci braccia tese dei cinque figlioli. Chi avrebbe potuto scegliere? Il più piccolo? Il più grande? Quello di mezza età? Il più sano? Il più ammalato? Quella donna non riuscì a scegliere nessuno e impazzì, come è comprensibile».

Questa all'incirca, la motivazione della signora, per cui non avrebbe voluto tra i piedi, né in questa né nell'altra vita, un uomo come Eichmann, responsabile di questa tragedia.

Continuava poi a sottolineare: «Non posso pensare a un uomo che, vicino a un camion di bambini che vanno alla camera a gas, non fa nulla per impedirlo. No, non ci può essere misericordia per un uomo così miserabile».

Cara signora - le risposi - queste cose sono effettivamente terribili. infinitamente più grandi di noi. Eppure quello che dimentichiamo è che noi tutti - io, lei e tutti - abbiamo la nostra parte di responsabilità nel male che si fa nel mondo. Non sono solo gli altri i cattivi: lo siamo tutti. Per questo perdonando agli altri perdonia­mo anche a noi stessi, su tutti invocando la misericordia infinita di Dio.

E del resto, cara signora: che cosa facciamo noi dentro il grande camion del mondo, dal quale non cinque ma quarantacinquemila bambini ogni giorno ci tendono le braccia per implorare aiuto? Perché, forse lei non lo sa, sono proprio quarantacinquemila i bambini che muoiono ogni giorno per fame e denutrizione.

Io ho fatto terribilmente poco, lei avrà fatto certamente di più, forse qualche elemosina in più; ma penso che non basta questo, né a me né a lei né agli altri.

Peggio ancora: siamo convinti che in fondo tutto questo non ci riguarda. Ed è per questo che tanti bambini continuano a morire di fame: perché noi, che abbiamo tutto, pensiamo che non è colpa nostra o che questo non ci riguarda. Proprio così: pensiamo che i cattivi sono gli altri, sempre e solo gli altri.

  

Otto coperte 

Per sottolineare ancora quello che mi esplo­de dentro, sempre su questo tema, voglio raccontare un sogno.

«Eravamo un immenso popolo da non ve­derne i confini e camminavamo verso nord. C'era pochissima luce e il freddo diventava sem­pre più fastidioso. Sembravamo degli sfollati di una qualche guerra, senza vestiti e senza nulla. Di tanto in tanto c'erano dei grandi dispensari di coperte e venivano distribuite a chi si faceva vicino con un po' di forza.

All'inizio tutti prendemmo almeno una coperta. Si proseguì il cammino e faceva sempre più freddo e diventava insopportabile vivere in quelle condizioni.

Arrivammo alle altre dispense di coperte e i più forti, chi fu più svelto, riuscì a prendere una coperta e qualcuno due. Molti erano rimasti senza.

Si continuò a viaggiare e il freddo era ormai artico e non bastavano nemmeno le due o tre coperte. Quelli che ne avevano una sola facevano doppia fatica a camminare, erano sempre gli ultimi e cominciavano ad avere la febbre. Si arrivò a un altro dispensario. Riuscirono solo alcuni a prendere le coperte.

Nessuno di quelli che avevano una coperta sola ebbe la forza di farsi avanti. Solo coloro che erano più protetti riuscirono a servirsi ancora. Ma vedendo che si cominciava a morire, chi più poteva. più ne prendeva. Alcuni ne avevano sei, sette, persino otto. Qualcuno ne prese di riserva e lo si sentiva borbottare : «Non si sa mai, meglio essere al sicuro».

Anche quelli che avevano due coperte crollavano, perché il freddo superava ogni sopporta­zione.

Di tanto in tanto qualcuno dava una coperta a chi ne aveva una o due. Ricordo che uno le aveva date tutte agli altri ed era rimasto stecchi­to sul ghiaccio.

Qualcuno, spinto dalla forza della disperazione, cominciava a strappare qualche straccio addosso agli altri. Ho presente il caso di uno con una sola coperta, che riuscì a strapparne una a un tale infagottato con otto coperte e qualcuno gridò: «Non si deve rubare! Se cominciamo a fare così è la fine». In un momento di sosta intravidi uno con sei o sette coperte, non ricordo bene, che leggeva un libro a un gruppetto di una trentina di persone con uno o due stracci addosso, tutti intirizziti».

Mi svegliai spaventato, con l'impressione che quell'uomo con le sette coperte e il libro fossi io, prete, che stavo spiegando a quella povera gente il Vangelo.

Poiché queste pagine devono aiutarci a celebrare l'eucaristia, quindi a fare la consegna di noi stessi, dobbiamo ascoltare ancora una volta quello che ci dice Gesù: quando sei all'altare e stai per fare l'offerta e ti ricordi di non essere in pace con qualcuno o ti ricordi che qualcuno ha del risentimento contro di te, devi lasciare l'offerta, andare a fare giustizia, chiedere per­dono, costruire la pace, poi tornare.

E noi conosciamo qualcuno che ha qualcosa contro di noi? Uno che ha una sola coperta in un freddo glaciale avrà qualcosa contro di noi che ne abbiamo sei, sette, otto?

Un bambino che muore di fame ha qualcosa contro di noi, del primo o del secondo mondo? Prima di fare la consegna, dobbiamo costruire giustizia.

Prima di celebrare i santi misteri, dobbiamo chiedere perdono dei nostri peccati.

Da quando noi cristiani sappiamo che vicino o lontano da noi si lascia morire Gesù Cristo di fame o di sete, o comunque di ingiustizia, deve cambiare tutto.

Ogni perla preziosa, ogni bracciale d'oro o collana o pelliccia di valore, ogni facciata di marmo della nostra casa provinciale o del vescovado, ogni sfarzo, ogni lusso, ma anche ogni sovrappiù non è più un segno di onore, ma una vergogna che portiamo esposta allo scandalo di tutti.

Una vergogna che grida la nostra ingiustizia. Non dimentichiamo che come cristiani dobbiamo dividere anche il necessario e non solo il sovrappiù.

  

Pagine di Bibbia contemporanea 

Alcune pagine di Bibbia contemporanea ci stimolano a non restare indecisi come il «giovane ricco» a cui Gesù aveva detto: «Se vuoi essere perfetto, va' e consegna tutti i tuoi beni ai poveri, poi vieni e seguimi».

Lui non ce l'ha fatta, ma altri sì. Molti come lui se ne vanno tristi, perché non hanno avuto coraggio; ma molti hanno detto di sì, e sono costoro che vogliamo seguire. 

 

Una bambina nello zaino 

Una coppia di sposi di Genova, ventotto anni entrambi, laureati con prestigioso lavoro sia lui che lei, avevano una bambina di nove mesi, una casa in un piccolo paradiso terrestre, e si volevano un gran bene.

Ma la ricchezza li soffocava.

Un uomo, che era senza casa e senza lavoro, un giorno batté alla loro porta ed essi non avevano saputo risolvergli i problemi e né alleggerirgli la disperazione.

L'avevano poi trovato ubriaco fradicio, una sera, mentre facevano una passeggiata, e si interrogarono: «Forse ci sono categorie di persone che noi non riusciamo più a capire?».

Poi fecero una constatazione: «Noi non riusciamo più a capire la gente senza casa, senza lavoro, in una parola i poveri, i disgraziati».

Hanno pregato, hanno sofferto, hanno pianto e poi, da ultimo, hanno deciso di consegnare qual­cosa.

Entrambi sono andati da chi gli aveva dato la casa: «La riconsegniamo a voi. Avevamo pen­sato di venderla e di dare il ricavato ai poveri, ma non ne abbiamo il diritto, perché non l'avevamo meritata».

Andarono all'ufficio e si licenziarono entrambi. Si equipaggiarono di una tenda, un sacchetto per l'indispensabile, poi tagliarono uno zaino tipo port-enfant per portare la bambina senza troppi disagi. I soldi per una giornata e sono partiti fuori della loro città a cercare casa e lavoro.

Voglio precisare che non è un romanzo, ma la storia di persone che hanno nome e cognome. Il loro pellegrinaggio è durato sei mesi. Sono stati ospiti di comunità religiose e di famiglie incontrate casualmente.

Andai a incontrarli quando trovarono casa nelle vicinanze di una città umbra: avevano raggiunto una povertà con la quale facevano ricchi tutti quelli che li incontravano; e se avessero incontrato quell'uomo che li mosse a partire, ora avrebbero saputo che cosa fare per lui.

  

Senza anticamera 

Una suora olandese, nel 1975, ottenne di partire dal convento per vivere la sua vita contemplativa sulla strada.

Cammina e prega tutto il giorno e provoca Dio a prendersi cura di lei: «Il Dio che provvede agli uccelli del cielo e ai gigli del campo provvede anche a me», dice con soddisfazione, «e in questi anni non mi ha mai fatto dormire una sola volta fuori casa. Ho sempre trovato chi mi ha ospitato». 

Ho assistito un giorno a un dialogo con un signore sui quarant'anni, che le disse: «Se tutti facessero così, il mondo andrebbe alla fine». E lei: «Per quanto ne sappia, sono quasi sola a fare questo. Quando rischiamo di essere troppi, mi porrò il problema». Lo stesso signore chiese se avesse delle sicurezze e la suora chiese se ne avesse lui. E questi rispose: «Sì, certo, qualche sicurezza in banca ci vuole, altrimenti...».

Lei replicò: «Tu quando vai a prendere le tue sicurezze in banca, devi aspettare a volte un'ora o più per svolgere tutte le tue operazioni bancarie; io invece, quando ho bisogno, tele­fono al mio Signore e lui non mi fa aspettare così tanto, perché la linea del telefono tra me e lui è sempre libera. Nessuno più gli chiede nulla; tutti pensano di aggiustarsi per conto proprio. Così il Signore ha da pensare solo a me e a poche altre persone. Tu che ne dici?».

  

La casa di gomma 

Una famiglia di amici, composta da tre persone e mezza, si è posta un problema di spazio, per la nascita del secondo figlio.

La loro casa: due stanze, corridoio e bagno. Per la verità, lo spazio lasciava un po' a desiderare. Mi parlarono della casa, ma io non seppi che cosa dire.

Avevo altri amici, meno fortunati, che stavano faticando per uscire dal peso della droga, altri dall'alcoolismo e tutti questi diventarono amici di quella stessa famiglia.

Prima uno, poi l'altro, e la casa divenne una casa aperta. I ragazzi cominciarono a fermarsi a pranzo, poi a cena, poi ritornarono.

In quella casa trovarono serenità, una parola fraterna e la voglia di camminare in avanti. Arrivarono a quindici, diciotto, poi venti, venticinque.

Si verificò che l'alloggio, troppo piccolo per tre persone e mezzo, in quaranta giorni divenne sufficiente per ospitarne venticinque.

Quando consegni la tua casa, i tuoi progetti, anche le mura di pietra si dilatano.

  

Il taxista 

Un padre, una madre, tre figli: cinque persone con il cuore veramente capace di amare, ma soffocati in un'aria borghese, vittime di un certo benessere, abitavano in un quartiere residenziale di Marsiglia.

La madre insegnante, lui direttore tecnico di una fabbrica, che aveva cresciuto dal nulla ad ottocento operai: una creatura bella ma anche preziosa.

I tre figli, diventando adolescenti e maggioren­ni, si sono sentiti sempre più allo stretto. Forse la creatura di papà li disturbava, e cominciaro­no, prima l'uno poi l'altro, a uscire di casa con sempre più distanziati ritorni.

La contestazione alla scuola prima, la droga dopo, il desiderio di vivere una vita diversa da quella di casa, ubriacarono questi figli.

Il padre e la madre cominciarono a piangere e, pur aspettandoli sempre, erano sempre meno le volte in cui i ragazzi tornavano a casa e, se passavano da casa, non era certo per chiedere scusa.

La madre capiva dove era il guasto, ma non aveva il coraggio di chiedere la morte di una «creatura» tanto preziosa al padre dei suoi figli. Capì anche lui, il padre: e aiutato dalla fede andò a consegnare la fabbrica, la sua «creatura» che aveva amato troppo.

Si trovò un lavoro. Diventò taxista. Cominciò a servire, così come Gesù Maestro aveva lavato i piedi ai suoi discepoli.

I ragazzi riuscirono a capire che quel padre voleva loro bene. Di fronte alla sua consegna furono costretti a fare una revisione di vita profonda e sincera. Guardarono in faccia la propria impazienza, le illusioni, le vigliaccherie fatte con ingenuità e cominciarono a ricostruire la vita con pietre diverse.

  

Una «carrozzella» piena di sabbia 

Marcos è un colombiano. Ecco in poche righe un pezzo della sua storia.

Aveva poco più di quattordici anni, quando aveva conosciuto una ragazza della sua età e se ne era innamorato. Poco dopo, lei rimase incinta.

Marcos pensava di sposarla, ma la famiglia di lei non permetteva il matrimonio e non voleva sentire parlare della gravidanza, chiedendo alla figlia di abortire al più presto.

Marcos, quando ha sentito parlare di aborto di questo suo figlio, ha detto di essere disposto a prendere il bambino con sé e di crescerlo lui stesso.

Chiese alla ragazza solo di terminare la gravi­danza e la condusse nella casa di una sua parente.

Quando è nato il bambino, lei è tornata a casa, come d'accordo, e lui, con meno di quindici anni, si è preso il suo bambino, rinunciando al tempo libero, al divertimento, al riposo, ed è partito per cercare un lavoro più remunera­tivo onde assicurare la sopravvivenza al bambino.

Cominciò col trasportare sabbia su un carrello; al mattino preparava il latte nel biberon, poi avviluppava il piccolo in bastanti panni (poco più che stracci) e lo collocava nel carrello della sabbia trasportandoselo tutto il giorno insieme, perché non aveva nessuno a cui lasciarlo.

Nel cantiere, poi nella miniera, nella campagna ed infine in un circo, sempre fedele al figlio.

Ho incontrato questo padre di ventotto anni e il figlio di tredici. Marcos si è sposato quest'anno; così, dopo aver consegnato gli anni più giovani per suo figlio, ora gli offre una famiglia anche più completa.

  

Carlos e Ivonni 

Carlos e Ivonni si sono conosciuti all'età di quattordici e quindici anni: lui zingaro com­merciante e lei studentessa e in seguito impiegata.

La loro amicizia è continuata per otto anni.

Si trovavano unicamente nelle feste, quando, nonostante il dissenso delle famiglie, era possi­bile almeno vedersi, parlarsi e progettare di sposarsi appena fosse stato possibile; ma rimandavano sempre.

A ventidue anni Carlos rimase paralizzato in seguito ad un incidente di macchina. La colonna vertebrale era stata schiacciata.

Il medico l'aveva aiutato ad accettare la sua situazione, anche se avrebbe dovuto vivere a letto, paralizzato, senza più la possibilità di avere figli e tutte le conseguenze che derivano da questo stato di infermità.

Tre settimane dopo l'incidente, Ivonni venne a conoscenza del fatto. Arrivò in ospedale e non disse troppe parole. Tornò il secondo giorno con dei fiori, cercando di far uscire Carlos dalla sua disperazione. Il terzo giorno riuscì a dire ciò che le stava tanto a cuore: «Carlos, è venuto il momento di sposarci».

Lui non voleva più e le disse: «Non voglio che la mia infelicità sia anche la tua; almeno tu ti sposerai, avrai una famiglia, con dei figli che io non posso più avere». Ivonni disse con insistenza: «Adesso ci spo­siamo».

Non volle dare troppe spiegazioni: «Adesso ci sposiamo, perché non ci sono motivi per riman­dare. L'incidente poteva capitare il giorno dopo il matrimonio, era la stessa cosa».

Ivonni ha vinto. Si sono sposati e dopo due anni è nata una bambina. Carlos ha ricuperato bene una gamba e forse ricupererà anche l'altra. La malattia è stata vinta, l'amore ha fatto il miracolo.

  

Senza brindisi 

C'è qualcuno che fa molto, forse tutto ciò che deve fare.

Due miei carissimi amici, dopo un lungo cam­mino di fede, hanno deciso il matrimonio invi­tando gli amici a non fare regali. Ovviamente arrivarono le buste.

La sera stessa consegnarono il tutto a chi aveva più bisogno con una motivazione molto semplice: «Per non partire già pesanti».

Un mese dopo mi invitarono a cena. Si potevano permettere antipasti, vini doc, dolci, gelato e brindisi di allegria.

Mangiammo minestra, uova e mezza mela ciascuno. Il tutto era sufficiente.

Ma il segreto era questo: non avevano aperto conti in banca pur avendo due stipendi; e alla fine del mese si consegnava tutto e si ricomiaciava poveramente.

In quella casa si spende poco, si vive all'osso, perché tutto quello che si spende in più sarà un pezzo di pane in meno che avranno, alla fine del mese, coloro che non hanno nulla.

  

La carovana degli zingari 

Una coppia di sposi, con tre figli, ha lasciato la casa e, presa una carovana, in un accampamento di zingari, ha cominciato a condividere una vita che aveva disagi spesso insopportabili, per una famiglia abituata alla vita sedentaria. Al mattino, quando gli zingari partivano per la vendita o la raccolta del ferro, i tre bambini andavano a scuola con gli altri del campo e il papà, insegnante, partiva pure lui per la scuola; ciascuno al proprio posto.

Nel pomeriggio si riunivano insieme bambini e adulti e si divideva tutto: feste, lutti, risse, malattie, guarigioni, emarginazioni, ricupero.

Si lavorava, si faceva alfabetizzazione a chi ne aveva bisogno e si giocava.

Un giorno, mentre il «maestro» diventato zin­garo tirava un grande aquilone insieme ai suoi figli e agli altri bambini del campo, una persona si avvicinò e gli disse: «Come siete buoni a fare tutto questo per gli zingari, tanto emarginati dagli altri».

La risposta, subito, fu secca e poi ragionata: «Prima di tutto non siamo buoni e poi, mia moglie e io, non facciamo questo per gli zingari, forse anche, ma principalmente per i nostri figli. Noi desideriamo che i nostri figli, quando saranno cresciuti, si accorgano che esiste un prossimo, l'altro, magari gente povera, e se noi continuavamo a vivere là, in quella casa chiusa, come avremmo potuto parlare ai figli di poveri, di chi soffre, di chi è tagliato fuori? Per questo siamo venuti qui, per questi tre bambini e per il quarto che sta per nascere».

  

3.500 Km 

Durante una sosta tra Nairobi e Marsabit, ho incontrato un missionario che mi ha fatto riflettere, o meglio, mi ha stordito.

Cinque anni prima aveva subito un intervento alla spina dorsale con la sostituzione di una vertebra.

Alcuni dottori gli avevano intimato alcune proi­bizioni: «Basta» con ogni genere di lavoro manuale anche piccolo; «basta» con la guida di automobili e, come precauzione saggia, avrebbe dovuto evitare di salire su qualsiasi automez­zo se non per piccolissimi spostamenti, in casi eccezionali.

La settimana in cui lo incontrai aveva percorso 3.500 (tremilacinquecento) chilometri con una Land Rover non su strada, ma su pista-savana. Mi feci ripetere il numero dei chilometri percorsi e non lo trovai particolarmente stupito, perché da cinque anni, dopo l'intervento, faceva così.

Aveva sì mal di schiena, ma non da doversi fermare.

Quando vidi la realtà umana in cui lavorava, più da vicino, mi stupii di meno, perché quando senti il grido dei poveri non puoi stare seduto.

  

Consegnare i propri giudizi per non emarginare 

Si possono emarginare persone o gruppi anche con buone intenzioni, con desideri di giustizia. E così, specialmente quando si diven­ta gente onesta e giusta, si rischia di diventare degli emarginatori.

Incominci a lottare contro il male; poi, se in parte ci riesci, ti abitui a lottare contro il male e contro chi lo fa, indistintamente, senza più capire che il peccato e il peccatore sono due cose troppo diverse, per metterle sulla stessa bilancia.

Una parabola: C'erano tante case lungo una strada: un figlio era tornato a casa dal padre, promettendo che non avrebbe più sbagliato, che avrebbe iniziato una vita onesta, ma già mentre lo diceva, adocchiava un piccolo monile d'oro che esisteva ancora a casa sua.

Il padre lo riprese, il giorno seguente si verificò nuovamente il disastro.

Il figlio tornò, questa volta promettendo veramente la buona volontà, e chiedeva solo dieci­mila lire, per una necessità di quel momento. Il padre, scoraggiato, già deciso in cuor suo di non riammetterlo, di scomunicarlo, almeno per un certo tempo, si era ormai lasciato convincere, quando il figlio gli aveva già sot­tratto trecentomila lire ed era già pronto a partire.

La storia continuò fino a quando la porta si chiuse per sempre e il figlio restò fuori.

Nella casa accanto capitò qualcosa di analogo, con una figlia giovane di quattordici anni. L'avevano legata, ma era scappata; era tornata, e poi scappata ancora; aveva promesso e ripromesso una condotta buona, e poi era tornata di nuovo sulla strada.

In quegli anni aveva disonorato la famiglia e quando ritornava era solo per piangere e chie­dere soldi.

Un giorno la porta si chiuse anche per lei. Così in una terza casa e in un'altra ancora.

Il risultato di questi drammi, per la verità troppo pesanti, da parte di chi usciva e di chi entrava, fu il seguente: un numero di gente fuori, ai margini, e un numero di gente dentro. I buoni dentro, e i cattivi fuori.

Quando dico «buoni», voglio dire la gente onorata che pratica la giustizia; gente che cerca di vivere secondo i dieci comandamenti. E quando dico «cattivi», intendo quelli che vengono considerati tali: i disonesti che praticano l'ingiustizia e non seguono i dieci comandamenti o li seguono un po' a modo loro.

Sta di fatto che in quella contrada, dove sono rimasti i cattivi fuori e i buoni dentro, è venuto uno a predicare una parola nuova; anzi, è scritto su dei documenti credibili che è venuto particolarmente per quella gente «cattiva»; si interessò di loro dichiarandosi amico di ciascuno; li incoraggiò a non sbagliare più, ma senza scomunicare nessuno; e quando la gente perbene, i sacerdoti della chiesa, i sacrestani e i praticanti più fedeli sentirono dire che quel predicatore era il Figlio di Dio, sono andati a sentire le parole che rivolgeva a quel gruppo di spiantati e sentirono con stupore che li chiamava «amici».

In una prigione, difficilmente vieni emargi­nato, anche se hai ucciso in un momento di follia. Ma se ti trovi in una comunità cristiana, molto cattolica, molto ortodossa, molto seria, molto intransigente, ti troverai presto segnato a dito.

Voglio dire che l'emarginazione nasce dove la serietà morale è vissuta, dove il senso di giustizia è radicato profondamente nel cuore, ma manca un particolare: la carità di cui parla Paolo, e così tutto diventa «bronzo risonante».

  

E i beati sono altri 

Gesù non ha detto: «Beati quelli che hanno scelto i poveri, quelli che aiutano i poveri, quelli che consolano i piangenti», ma ha detto: «Beati i poveri», «Beati quelli che piangono». Certo è meglio aiutare un povero che andarsi a divertire al night.

Nonostante questo, i «beati» sono gli altri. A noi mettono le aureole, ma gli altri sono santificati.

Qualche tempo fa una mamma con cinque bambini e con soli ventotto anni è partita da Torino per andare a raggiungere il marito a Roma.

Questa zingara è partita senza un soldo, senza una tenda, senza una pentola, senza una coperta.

Cercava di spiegare il caso ai controllori del treno, talvolta benevoli e a volte intransigenti. Intanto, sul treno, aveva chiesto qualche elemo­sina, e finalmente riuscì ad arrivare. Forse nessuno pensò ai suoi stenti di donna, zingara, sola, emarginata anche dai parenti, con una grande fatica per sopravvivere.

Se io o qualche altro prete o qualche suora fossimo partiti da Torino per andare a Roma con cinque bambini orfani, senza un soldo, senza una tenda, senza una pentola, senza una coperta, assicuro che prima di arrivare a metà strada sarebbero state inoltrate almeno tre cause di beatificazione e, arrivati a Roma, non sarebbe mancato il nostro monumento in bron­zo a testimoniare il nostro eroismo.

E intanto i «beati» sono gli altri.

  

Beati quelli che vedono Dio 

Incontrai Giorgio e Pierangela la prima volta presso il greto dell'Arno, accampati insie­me a un gruppo di zingari musulmani. La loro casa era un vecchio camioncino coperto e riadattato. Per i nomadi essi erano una coppia di sposi, giovani (con meno di trent'anni), cristiani e desiderosi della loro amicizia.

In realtà Giorgio e Pierangela erano missionari laici o, meglio, consacrati al Regno. Facevano parte di un gruppo di preti, suore, laici, che si qualifica come chiesa nomade tra gli zingari. I due giovani lavoravano in attività sociali, evangelizzazione e condividevano il lavoro quo­tidiano del gruppo.

Quando li incontrai la prima volta, avevano con sé una bambina che tennero alcuni anni, fino a quando la mamma della stessa, uscita dal carce­re, ebbe la possibilità di riprenderla. Poi un bambino, e così via. Sapevano intervenire con coraggio, nei momen­ti di emergenza.

Quel giorno, uno zingaro era arrivato alla porta del camioncino-abitazione con molta cu­riosità, guardando dentro, in attesa che qualcu­no capisse le domande che lui voleva fare.

Giorgio diede risposta: «Qui si può cucinare quando siamo da soli. Da questo lato si abbassa il tavolino smontabile, così la bambina può fare i compiti di scuola. Qui ci mettiamo per pregare. Là dormo io, da quell'altra parte dorme Pierangela e qui la bambina. Questa è la nostra casa: ti piace?».

Allo zingaro non interessava se la casa era bella o brutta, ma domandò ancora: «Ma, è proprio vero che non siete sposati?». E poiché chi faceva la domanda era disposto a capire qualco­sa di più, gli fu risposto: «No, non siamo sposati».

Poi aggiunsero perché avevano scelto questo, quando, come e alla fine uno disse: «Per Dio si può fare questo e molto di più, non ti pare?».

Intanto Pierangela aveva servito un caffè e l'amico musulmano, mentre fumava una siga­retta, guardava oltre l'accampamento scopren­do qualcosa di molto nuovo sulla corteccia della terra; forse la stessa emozione di chi, conoscen­do Gandhi, negli ultimi vent'anni di vita, meri­tava la confidenza di perché avesse fatto il voto di castità, con il consenso di sua moglie, e come fosse possibile essere fedele.

Un particolare che non si può omettere, in questa storia, è che non tutto era facile nella vita di Giorgio e Pierangela: di tanto in tanto nasceva la crisi e l'impossibilità di continuare. Allora, una pausa di alcuni giorni in un mona­stero o in qualche comunità, a pregare più intensamente e a ricaricarsi di forza nuova, per continuare a vedere Dio.

E un'altra volta sulla strada.

  

Consegna della proprietà 

Umberto mi ha dato un passaggio in auto­stop sulla sua vecchia 850. La macchina, più che vecchia, era logora, ma andava avanti.

Lui, affascinato dal Vangelo, sostanzialmente anarchico, direttore di 26 fabbriche tessili.

Si era cominciato con un pugno di amici, in una casa riadattata presso Vicenza. Si era stabilito un guadagno onesto per ciascuno e il resto serviva per aprire una nuova fabbrica: sono arrivati a 26.

Chi non se la sente di continuare ha il diritto di uscire con tutta la sua parte che gli spetta, perché la proprietà è di tutti: solo lavori e incarichi diversi.

Gli «alternativi» esistono davvero e spe­rare l'alternativa è un diritto, anche se fosse un'utopia. 

 

Il circo più bello del mondo 

Non è il Ringling, il Barnum, il Krone, né il Knie o altri.

Con questi grandi circhi ha in comune solo la sinfonia luminosa dello spettacolo e l'abilità degli artisti.

Come in altri circhi, si trovano, in questo, gatti, cani, volatili, scimmie, leoni, cavalli e tutto quel giardino zoologico e cui ci siamo abituati.

Ma per nessuna di queste cose è il circo più bello del mondo. Ecco come è nato.

Un gruppo di artisti con operai di circo si trovavano spesso per riflettere, per fare revisio­ne di vita e per leggere quel libro tanto rivolu­zionario che è la Bibbia, dove si parla spesso di oppressione, di schiavitù e di liberazione. 

Una sera (o, meglio, una notte, perché ci si riuniva dopo mezzanotte, terminato lo spetta­colo), dopo aver letto una pagina dell'Esodo, un pagliaccio cileno disse: «E proprio così, i padroni portano tutti le scarpe numero qua­ranta».

Un altro aggiunse: «Forse non è possibile che sia diverso».

Un altro: «No, è possibile, ma di fatto è così». In un altro incontro uno disse: «Se il padrone non tratta così, nessuno fa nulla».

E un altro disse: «A noi non interessa molto questo circo, perché non è nostro. L'unico a cui interessa davvero questo circo è il proprietario. Noi oggi lavoriamo qui, domani là, dove ci pagano un po' di più e ci trattano meno peggio».

Queste e altre cose hanno cominciato a brulicare nella testa di tutti e specialmente di uno che faceva pur parte della direzione.

Nacque una domanda: «Non sarà possibile rivoluzionare tutto questo sistema?».

«Se la proprietà ha un potere di divisione e di disinteresse tanto grande, al punto che per far lavorare, il padrone deve gridare, sferzare, schiacciare, forse in essa sta il punto debole». «Perché non facciamo un circo noi?».

«Chi ha più soldi li mette, chi ne ha meno mette la sua parte, chi non ne ha mette il lavoro come tutti: una specie di cooperativa».

Questi all'incirca i discorsi iniziali, poi le realizzazioni. 

Quando passai, qualche mese dopo, il 18 aprile 1986 in San Paolo, incontrai all'ingresso del circo il direttore che arrivava da un'intervista alla televisione: vestiva uno spezzato marrone di Pierre Cardin: certo non poteva vestire la tuta del veterinario che in quel momento stava attendendo a uno scimpanzè malato, ciascuno al suo posto.

Ma a mezzogiorno tutti insieme, dal direttore al distributore delle locandine, tutti alla stessa tavola: artisti europei e sudamericani, operai e tecnici alla stessa tavola, stesso cibo, una vera festa, pur nella fatica. E, ciò che era più rivoluzionario, è che ciascuno diceva: «il nostro circo», perché lo era di fatto.

Quel giorno pensai: «Se anche domani un temporale distruggesse tutto, o una bomba facesse sparire ogni traccia di questa meraviglia, il fatto che sia esistito ha già gridato che il lavoro nella libertà e nella dignità è possibile».

In una lettera di un pagliaccio del circo ho trovato queste righe: «Abbiamo lavorato quasi in tutte le città dell'Egitto, poi abbiamo fatto Pitom e Ramses e adesso siamo diretti a Gerusalemme...». 

Capitolo II

Se hai qualcosa contro tuo fratello non puoi fare la consegna 

Privilegi e «Padre nostro» 

Una mamma, sapendo che facevo catechi­smo a dei bambini i cui genitori vivevano di espedienti, un giorno mi disse: «Come fai il catechismo a quei bambini? Cosa dici quando spieghi i comandamenti, quando devi dire di non rubare?».

«Dico di non rubare. Se però lei mi chiede "con quale coraggio", devo rispondere: con inco­scienza, allo stesso modo come predicherò il Vangelo alla gente che verrà a messa domenica in duomo; sì, con la stessa incoscienza».

Alla signora poi dissi ciò che ho ripetuto ai fedeli della domenica e ripeto ancora per me stesso e per voi:

«Io sono un ladro, i miei parenti, i miei compaesani, gli abitanti della mia regione, i miei amici, sono quasi tutti ladri. Mi spiego. Se noi abbiamo dei privilegi che altri milioni di persone non hanno e li abbiamo a loro danno, noi viviamo sulla loro pelle, e questo è ingiusto.

Un mio amico, che voleva giustificare la terza auto di grossa cilindrata mi diceva: «Io lavoro tutto l'anno e non rubo niente a nessuno, anche se mi permetto un piccolo lusso».

Da parte mia ho solo potuto dirgli: «Solo nella regione Piemonte, 150.000 disoccupati sarebbe­ro ben contenti di poter fare il tuo lavoro e non lo possono; e molti potrebbero vivere con quello che guadagni e spendi nel lusso. Non ho detto che ieri sei andato a fare una rapina per comprarti la macchina; dico che è di troppo e perciò non ti appartiene, non è tua».

Io non dico a nessuno di andare domani, o oggi stesso, a vendere la pelliccia, o l'auto, o la seconda casa, perché se non abbiamo una grazia particolare dello Spirito santo, unita alla nostra volontà, non diciamo nemmeno: «Signore»; e non dividiamo la più piccola moneta col fra­tello.

Allora non resta che chiedere luce allo Spirito per capire la strada da percorrere, e da parte nostra allenarci a consegnare le piccole o le grandi cose che ci restano per prepararci a consegnare la vita appena lui, il Signore, la richiede.

Quando ci riuniamo nella preghiera per dire il Padre nostro, ricordiamoci di dire prima: Signo­re, pietà; Signore, pietà; Signore, pietà; perché altrimenti quei quarantacinquemila bambini che oggi sono morti di fame, a causa della nostra ingiustizia, grideranno a testimonianza contro di noi.

Infatti, se noi pretendiamo di chiamarci loro fratelli, dovremmo riconoscere che tra figli dello stesso Padre non ci si lascia morire di stenti, semmai si muore insieme.

Eppure c'è anche chi pretende di battezzare il benessere con il battesimo cristiano.

Mi disse un prete qualche tempo fa: «In passato il cristianesimo era vissuto da poveracci, gente di campagna, sempliciotta, gente che si attacca­va alla religione perché non aveva nulla; ma oggi il cristianesimo deve prendere un volto nuovo. La società di oggi, che è una società del benessere, ha bisogno di un cristianesimo adat­tato alla situazione». Queste sono all'incirca le parole che mi disse.

Fui sconvolto da quel «cristianesimo adattato» e il giorno dopo tornai da lui per dire solamente: «Caro confratello, non si battezza il benessere, quando esistono ancora morti di fame. "L'uo­mo del benessere non capisce, è come un ippopotamo", e, comunque, sappia che il batte­simo di questo benessere non sarà mai valido». Ci siamo lasciati con un peso nel cuore.

Non sempre possiamo dire: «Abbracciamoci e facciamo festa».

  

Griderò più forte 

Dopo aver detto che in molti siamo ladri, faccio un passo avanti perché emerga chiaro che la consegna non dovrà risultare un gesto di eroismo, ma un gesto di riparazione. Gesù ci parlò di uguaglianza e di fraternità. La comunità primitiva riesce a parlarci di condi­visione, ma ecco dove siamo arrivati noi cristia­ni del nostro tempo.

Il mondo dei ricchi ha schiavizzato il terzo mondo per poter vivere nel benessere e per far crescere sempre di più i propri capitali.

Il congegno è così ben architettato da far pensare all'impossibilità di un'alternativa e quindi di una rivoluzione sociale.

Il terzo mondo è diventato il grande serba­toio di materie prime e ricchezze varie, che alimentano il benessere dei nostri paesi. Un amico mi disse: «Pensa un po': quando mi alzo al mattino accendo la luce, e il tungsteno della lampadina, il rame del filo elettrico sono prodotti in massima parte dal terzo mondo. Il cotone della lenzuola del letto viene ancora dal terzo mondo. Scendo per la colazione: lo zucchero, il caffè, il ca­cao, il tè, vengono dalle medesime terre, e siamo solo a colazione».

Così si dà il caso che un bambino nordamerica­no consuma 500 (cinquecento) volte di più, in risorse materiali, di un bambino del terzo mondo. E in Svezia si consuma energia 80 volte di più di quanto se ne consuma in un paese del terzo mondo.

Una triste conclusione ci fa dire che, in media noi del primo e del secondo mondo ci siamo abituati a vivere con una spesa 45 (quarantacin­que) volte superiore a quella di una persona abitante nel terzo mondo.

Il tutto è più tragico se pensiamo che gli uni e gli altri, nella maggioranza, diciamo la stessa pre­ghiera: «Padre nostro».

  

Attenzione ai ladri 

Se noi conoscessimo, per ipotesi, un gruppo di persone ben cagliato da strutture, leggi e cultura propria, che vivesse solo di furto, come chiameremmo queste persone? Semplicemente ladri.

E se, conoscendo il loro costume morale, sapessimo che hanno un grande rispetto tra di loro e considerano grave peccato il rubarsi anche una piccola cosa tra componenti dello stesso gruppo, come li chiameremmo?

Li chiameremmo ancora ladri, perché anche se non si rubano tra di loro, rubano pur sempre i qualcuno, anche se fuori dal loro gruppo.

Ebbene, noi europei, con nordamericani e giapponesi, ci comportiamo allo stesso modo. Educhiamo il bambino a non rubare nemmeno un fiore o la monetina che è caduta di tasca al passante; però, nella nostra società, abbiamo grandi industrie e multinazionali, che rubano nei paesi del terzo mondo (a poche ore di distanza da noi) ciò di cui noi abbiamo bisogno per vivere meglio.

Ho esagerato dicendo che rubano?

Voglio dire che, qualche tempo fa, nell'Africa equatoriale qualcuno pagava 10 sacchi di cacao al prezzo di una zappa. In questo modo, sui nostri mercati possiamo permetterci di compe­rare a prezzi accessibili tutto il nostro benes­sere.

Dopo questi grandi furti che qualcuno fa a nome nostro, noi giochiamo a essere onesti tra di noi; invece siamo ladri.

In Africa prima, in America Latina dopo, la colonizzazione e lo sfruttamento hanno scritto pagine di vergogna che testimoniano la violenza su cui abbiamo costruito il nostro benessere; ma il peggio è che queste pagine continuano a essere scritte oggi, con la stessa arroganza.

  

Due righe dì storia 

Per capire meglio come siamo arrivati a un sistema di ingiustizia così delirante, facciamo qualche passo indietro nelle pagine di storia, quando l'Europa metteva le basi a una società schiavista appoggiata sulla schiena di un terzo mondo che muore per mantenerci il benessere a cui siamo troppo abituati.

Apriamo il capitolo dell'invasione dell'Ame­rica, particolarmente dell'America del Sud.

Il 22 aprile del 1500, Pedro Alvarez Cabral arrivò nella terra che poi fu chiamata Brasile. Per coltivarla gli europei non avevano certo intenzione di mettere mano alla zappa; inoltre erano troppo pochi per rispondere alla coltiva­zione di tanta terra.

C'era bisogno di lavoratori per produrre il più possibile al minor costo possibile, per poter arricchire il più possibile, e questo non si poteva ottenere in modo pacifico.

Gli indios non conoscevano il commercio e non capivano cosa volesse dire il denaro: non si po­teva quindi costringerli a lavorare più di quanto non fossero abituati per la loro sopravvivenza. Anche se pagati per lavorare, gli indios non si interessavano di accumulare denaro; e, d'altra parte, i portoghesi non intendevano pagare dei lavoratori: solo con la forza, dopo averli cattu­rati e fatti schiavi, avrebbero potuto obbligare gli indios stessi a lavorare per loro.

Si estese così, lungo tutta la costa, la guerra dei portoghesi contro gli indios, per occupare le terre e fare dei prigionieri altrettanti schiavi. La difficoltà della caccia agli indios, la ribellio­ne degli stessi, il rifiuto di lavorare come schiavi e spesso anche di prendere cibo, quindi morire piuttosto che lavorare al servizio dei bianchi, e alcune voci profetiche di missionari che si levarono contro la schiavitù, fecero dirottare il prelievo degli schiavi sulle coste africane.

Per fare commercio di schiavi si formarono grandi compagnie che, disponendo di molte navi, divennero molto potenti in poco tempo.

Persino alcune leggi del governo portoghese, che proibivano la schiavitù degli indios, erano state emanate non tanto per le richieste profetiche dei missionari, ma per la pressione dei mercanti di schiavi africani, che volevano rimanere liberi dalla concorrenza dei «cacciatori di indios», i quali vendevano schiavi a minor prezzo.

Lungo le coste africane, il commercio umano era detenuto particolarmente da portoghesi, inglesi e olandesi.

Centinaia di negri venivano trasportati sulle navi, ammucchiati nelle stive come branchi di animali, quasi senza aria, senza acqua e senza cibo, legati a catene di ferro.

In queste condizioni, gran parte moriva durante il viaggio. I superstiti trovavano un destino non meno crudele. Venivano venduti ai proprietari delle piantagioni latino-americane.

Lo schiavo era considerato un animale da tiro, che il padrone poteva sfruttare, maltratta­re, vendere e persino uccidere. Tra il 1500 e il 1870, 9 milioni di negri sono stati schiavizzati e deportati.

Queste cifre e il meccanismo della struttura schiavista si fanno sempre più chiare nella nostra storia e nasce un'insopportabile ver­gogna.

Tanto più che tra i proprietari di schiavi e i commercianti dei medesimi c'erano tante perso­ne che si ritenevano cristiane. Persino molte congregazioni religiose avevano schiavi.

E verrebbe voglia di gridare, con un grido che penetri il passato fin oltre il tempo: «ipocriti, sepolcri imbiancati! guai a voi che avete i primi posti nelle chiese: guai a voi in vesti di agnello e dentro lupi rapaci. Voi rubate la vita dei vostri fratelli: come potete ancora ritenervi cristiani?».

Sì, vorrei gridare: «Convertitevi e credete al Vangelo». E poi continuare a gridar forte fino a trapassare 500 anni di storia e farmi sentire; ma mi arriva una parola del Vangelo, una parola tagliente da togliermi il respiro: «Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non t'accorgi della trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio!».

E difatti, dal secolo scorso è stata abolita la schiavitù, ma a parole soltanto perché il sistema economico non è cambiato.

Per vivere il nostro benessere, abbiamo bisogno di molti schiavi. I lavoratori del terzo mondo lo sono in gran parte.

Ci scandalizzano quei nove milioni di schiavi trasportati dall'Africa all'America, ma oggi gli schiavi sono più di 100 milioni.

E se il Vangelo condannava i proprietari di schiavi di allora, condanna ancora noi.

  

Le mani sporche 

È proprio scrivendo queste pagine che mi sono accorto di avere le mani sporche.

Nonostante le dichiarazioni della mia chiesa, i desideri delle comunità amiche e i miei fragili propositi, nonostante tutto questo, noi siamo troppo al di qua e i poveri sono troppo al di là. C'è l'abisso che separa il ricco Epulone e il povero Lazzaro.

La più grande bugia del dopo-concilio è che la chiesa ha fatto la scelta dei poveri. No, non è vero, anche se lo hanno dichiarato santi e profeti. Si può dire che la chiesa ha preso coscienza dei poveri.

Si può dire che la chiesa ha dichiarato solenne­mente che i poveri sono una realtà preziosa nel mondo e non pattume, e che sono benedetti tutti quelli che siassociano alle loro cause e condividono il loro cammino di liberazione.

Si può dire anche che la chiesa ha il desiderio di fare la scelta dei poveri; ma dire di più è offendere la verità, anche se molti cristiani continuano a lasciarsi inchiodare sulla croce con i poveri e per loro.

Eppure continua a succedere questo: anche se la chiesa nel suo insieme trova sempre nuovi motivi per non condurre in fondo la scelta dei poveri, questi ultimi - i poveri - nonostante tutto scelgono la chiesa e la scelgono come madre.

Essi sono rimasti con questa madre e timida­mente chiamano chiunque con il nome di fratel­lo, anche quelli che lo sono solo nel breve momento liturgico, perché subito dopo, nella vita concreta, stanno dall'altra parte, nel ruolo dell'oppressore.

Il fatto è che sono i poveri, e loro soli, che sanno riconoscere Dio come «Padre nostro» ed è per questo che sono detti «beati». 

Capitolo III

Vespri della terza domenica di Avvento 

Nel 1500 chi aveva schiavi pensava di essere ugualmente un buon cristiano, o un buon prete, o un buon religioso.. Ma un giorno si sentì una voce nuova che gridò ai cristiani di una comunità, ciechi e stupiti, delle parole di fuoco.

Era la terza domenica di Avvento del 1511, e in Santo Domingo il domenicano Antonio Montesinos, durante l'omelia, spiegò il brano del Vangelo: «Io sono la voce che grida nel deserto» ed espose ciò che era stato discusso e sottoscritto precedentemente dal resto della sua comunità domenicana.

Dette poche parole sull'avvento, iniziò a denun­ciare l'arido deserto in cui si era trasformata la coscienza dei colonizzatori e il loro modo barbaro di vivere.

Concluse affermando che tutti si trovavano in peccato mortale. Poi, tornando sul tema, ag­giunse: «Per farvi sapere ciò, sono salito su questo pulpito; io sono la voce che grida nel deserto. Pertanto prestatemi attenzione con tutti i senti­menti, perché queste parole non sono mai giunte prima d'ora ai vostri orecchi.

Siete tutti in peccato mortale, e con esso morirete, a causa della crudeltà con cui trattate gente semplice e innocente.

Con che diritto e in nome di quale giustizia vi permettete di tenere in tale schiavitù questi indios?

Con quale autorità avete portato la guerra a un popolo che abita la propria terra in modo mite e pacifico e ora è sterminato con una crudeltà quale mai si è vista nella storia? Li tenete oppressi e stremati, senza nutrirli e curarli. Essi muoiono per l'eccessivo lavoro, o meglio li uccidete per cercare di arricchirvi di oro tutti i giorni.

Che cura avete di chi gli insegna la dottrina su Dio, loro creatore, perché siano battezzati e osservino la domenica e le feste?

Forse questi non sono uomini? Non hanno un'anima?

Non siete obbligati ad amarli come voi stessi? Ciò non lo volete sentire e capire.

Come potete essere addormentati in un sonno tanto profondo?

Nel modo in cui vivete, non potete salvarvi!». 

Bartolomé de la Casas, che riportò il testo dell'omelia, concluse: «Finalmente tuonò que­sta voce, che non si era mai ascoltata e che lasciò alcuni sbalorditi, altri ancora più duri nel loro atteggiamento; però nessuno uscì converti­to da quel luogo».

E noi, cristiani e chiesa di oggi, quando ci convertiremo? 

  

Preghiera di vespro 

Ci siamo trovati, un gruppo di amici, la terza domenica di avvento e abbiamo pregato insieme la pagina di Vangelo del giorno. Poi abbiamo pregato con il commento di Antonio de Montesinos e abbiamo continuato con parole della Bibbia, parole di profeti, parole nostre e tanti silenzi, in preparazione della celebrazione eucaristica. 

O Dio, vieni a salvarci. Signore, vieni presto in nostro aiuto. Gloria al Padre, gloria al Figlio, gloria allo Spirito santo. Ora e sempre. Amen.

Inno 

Padre,

cavallo e cavalieri li butti nel mare.

Abbatti i potenti dai troni

e innalzi gli umili.

Agli affamati offri ogni bene

e i ricchi restano con niente. 

Signore Gesù Cristo,

nasci in una stalla,

muori su una croce,

risorgi nel silenzio della notte:

questo è il tuo stile

per salvare il mondo. 

Spirito santo,

sei fuoco che brucia la zizzania,

coraggio per dire la verità,

forza per consegnare la vita,

poiché non esiste amore più grande

di chi consegna la vita per gli altri. 

Gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito santo. Amen.

I°Ant.  Signore, pietà. Cristo, pietà.

 

Salmo 50 

Pietà di noi, o Dio, secondo la tua misericordia.

Per la tua grande bontà cancella il nostro peccato

che è diventato troppo grande.

Lavaci da tutte le nostre colpe.

Ripulisci il nostro cuore dal peccato.

Riconosciamo la nostra colpa.

Siamo colpevoli di aver sfruttato non solo un uomo, un bambino, una donna, ma un mondo di gente, il terzo mondo.

Riconosciamo la nostra colpa, il nostro peccato ci sta sempre dinanzi, particolarmente perché si sono aperti i nostri occhi molto tardi. Non eravamo andati noi, personalmente, a compiere la rapina di caffè, di cacao, di zucche­ro, di cotone, di rame, di oro, di pietre pre­ziose.

No, non siamo andati noi, e molti di noi non vedevano i massacri fatti per rapinare e flagellare gli schiavi, che tentavano di ricuperare la loro libertà.

No, non siamo andati noi a cacciare gli indios nelle foreste, e gli africani nella loro terra.

Noi non li abbiamo commercializzati sulle no­stre piazze.

Noi non abbiamo visto tutto questo.

Noi non abbiamo visto morire uomini e donne spezzati dal lavoro, né abbiamo visto i loro bambini morire di fame.

No, noi non abbiamo visto gli afro-brasiliani gridare e chiamare i loro spiriti dalla terra d'Africa, terra della libertà, per ottenere libera­zione.

Non siamo stati noi a rispondere a queste grida, serrando più forte i piedi e le braccia nei ferri. No, non siamo andati noi con gli elicotteri a sterminare popoli interi per occuparne la terra. Forse sono andati altri, a fare le rapine; ma noi ne abbiamo diviso gli utili e ci siamo abituati a un benessere nel mangiare, nel vestire, nel tempo libero, nelle vacanze, nelle feste, nella cultura, nella tecnologia; abbiamo prolungato gli anni della nostra vita.

Ma ora, riconosciamo la nostra colpa.

Il nostro peccato ci sta sempre dinanzi.

Contro te e contro i nostri fratelli abbiamo peccato:

tu ed essi siete una cosa sola.

Quello che è male ai tuoi occhi noi l'abbiamo fatto.

Se tu ci condanni, noi non possiamo difenderci.

Solamente possiamo sperare nel tuo giudizio.

Perché noi stessi ci siamo già condannati.

Ecco, nella colpa siamo stati generati, nel peccato ci hanno concepito nostro padre e nostra madre, e ci hanno cresciuti in un sistema di sfruttamento, di diffidenza, di rapina.

Ci hanno cresciuti in un sistema che permette la morte di fame, anzi la provoca, a proprio vantaggio.

Ci hanno cresciuti così, e noi faremo le stesse cose: opprimeremo, schiavizzeremo, impediremo che la gente si liberi, perché diversamente il nostro sistema rischierà di saltare

e noi non possiamo rischiare:

la nostra vita vale più di quella degli altri,

almeno così siamo convinti di fatto,

altrimenti dovremmo restituire i tesori delle rapine

e condividere vita e morte con il resto del mondo.

Ma tu vuoi la sincerità di cuore e nel profondo ci insegni la tua Parola.

Crea in noi, o Dio, un cuore puro!

Ma come potrai creare in noi un cuore puro,

se non ti consegniamo il nostro cuore di pietra?

Non respingerci dalla tua presenza e non privar­ci del tuo santo Spirito;

ma come potrai darci il tuo Santo Spirito,

se noi restiamo chiusi al grido del mondo?

Rendici la gioia di essere salvati,

sostieni in noi un animo generoso!

Ma come potrai salvarci se non restituiamo con animo generoso?

Tu, o Dio, non disprezzi un cuore affranto e umiliato,

mentre non gradisci liturgie e profumi d'incenso, musiche e polifonie, luci splendenti e processioni solenni, da noi che abbiamo le mani sporche di rapine, di soldi, di cibo e di anni di vita.

Nel tuo amore, o Dio, fa' grazia al nostro popolo;

allora, e solo allora, esulterà il popolo di Dio.

 

1a Ant.  Signore, pietà. Cristo, pietà.

2a Ant.  Cristo, ascoltaci. Cristo, esaudiscici.

 

Salmo 52 

Perché ti vanti del male, o prepotente, nella tua iniquità?

Ordisci insidie ogni giorno. La tua lingua è come lama affilata, artefice di inganni! Con decreti, con leggi inventate, rubi la terra che noi lavoriamo per vivere.

Ci fai distruggere con le nostre mani i nostri raccolti.

Se vogliamo ancora vivere un poco, ci obblighi a lavorare per te, a coltivare ciò che a noi non interessa, ma interessa a chi ha già tanto per vivere. 

Tu preferisci il male al bene, la menzogna al parlare sincero, ami ogni parola di rovina, o lingua di impostura!

Così noi diventiamo schiavi della tua multinazionale, del tuo trust industriale, fino a quando, sfruttati all'osso, moriremo di fame con i nostri figli.

Perciò Dio ti demolirà per sempre, ti spezzerà e ti strapperà dalla tua sicurezza e ti sradicherà dalla terra dei viventi.

E ti dirà: ecco l'uomo che non ha posto in Dio la sua difesa, ma confidava nella sua grande ricchezza e si faceva forte dei suoi crimini.

 

2a Ant.   Cristo ascoltaci. Cristo, esaudiscici.

 

3a Ant.   Dio, Padre onnipotente, abbi pietà di me.

 

Salmo 53 

Lo stolto pensa: Dio non esiste. Sono corrotti, fanno cose abominevoli, nessuno fa il bene.

Dai tempi della colonizzazione hanno deportato nove milioni di schiavi per impiantare un sistema che producesse il nostro benessere. Oggi è schiavizzato un grande mondo che produce ricchezza all'Europa, all'America del Nord, al Giappone.

Tutti hanno traviato. Tutti sono corrotti.

Nessuno fa il bene, neppure uno, neppure uno. Tutti hanno sposato la causa del benessere:

i materialisti e i cristiani, i laici e i pastori. Anche chi ha buona intenzione dice:

che cosa posso fare io?

che cosa posso davanti a questo sistema che mi supera?

E così, anche chi vorrebbe fare il bene, si mette nell'ingranaggio dell'oppressione e si abituerà anche lui, presto o tardi, a camminare su questa pista ben tracciata, e si dimenticherà che vive di tesori insanguinati.

E ancora un grido:

ma comprendono forse i malfattori che divora­no il mio popolo come pane?

No, non comprendono!

E quando verrà qualcuno a salvare il nostro popolo?

Allora, e soltanto allora, quando permetteran­no a Dio di far ritornare i deportati e gli schiavi del nostro popolo, allora divideranno il pane bianco e nero che ci resta, e ci sarà la pace. Intanto Gesù pronuncerà ancora le beatitudini e si apriranno i cieli per la fine e l'inizio del mondo. 

3a Ant.  Dio, Padre onnipotente, abbi pietà di me.

 

Lettura breve (Mt 6,24) 

Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprez­zerà l'altro: non potete servire a Dio e al denaro. 

Responsorio breve 

Mostraci, Signore, la tua misericordia

Mostraci, Signore, la tua misericordia.

E donaci la tua salvezza,

la tua misericordia.

Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito santo.

Mostraci, Signore, la tua misericordia. 

Ant. al Magn. 

Sei tu colui che deve venire,

o aspettiamo un altro?

Dite a Giovanni quello che vedete:

i ciechi ritrovano la luce,

risorgono i morti,

il vangelo è annunciato ai pove­ri, alleluia. 

Magnificat 

Tutto il mio popolo grida con me che Dio è grande perché è venuto in nostro aiuto. Egli ci ha visti stesi sui marciapiedi, senza più forza.

Ci ha visti nelle baracche di stuoie sulle dune di sabbia, nelle periferie delle metropoli, sfiniti nelle campagne mangiando l'ultima farina di mandioca, arrabbiati perché già ci avevano ucciso i più giovani tra i familiari, e non avevamo di che difenderci.

Lui ci ha presi per mano, raccolti come una canna spezzata, e ha posto un riparo al vento davanti al nostro lucignolo fumigante. Ci ha preso in braccio come degli agnellini e ci ha accompagnato adagio come delle pecore madri.

E le nazioni non ci chiameranno più disgraziati. Perché grandi cose ha fatto per noi il Potente e Santo è il suo nome.

Per tutte le generazioni Dio sarà così e non abbandonerà i popoli che lo amano. Dio, che ha buttato a mare cavallo e cavaliere, spezzato la forza di faraone, incarcerato il drago, precipitato Satana nell'inferno, manderà la peste nella carne dei nostri oppres­sori.

Essi saranno invasi da cavallette, rane, tafani; i fiumi di acqua si cambieranno in sangue e i primogeniti moriranno nel vizio e nella droga.

Ma noi ci prenderà per mano. È vero, tutti i popoli ci hanno circondato, accerchiato, circondato come api, come fuoco che divampa tra i rovi. Ci hanno spinto con forza per farci cadere, ma il Signore ha vinto.

Nostra forza e nostro canto è il Signore che ci salva.

Ascoltate le grida di gioia e di vittoria nelle tende degli accampamenti, nelle baracche, nelle favelas, negli alagados e negli slums. Grida di gioia e di vittoria nelle piazze, nei cortei, tra gli striscioni e le bandiere.

Il Signore ci ha provato duramente, ma non ci ha consegnato alla morte. Noi lo sappiamo che il nostro corpo vedrà Dio, dopo le malattie, i lavori forzati e le torture; sì, il nostro corpo lo incontrerà, lui l'ha promesso ai nostri Padri. Non solo Dio manderà il pane dal cielo sui nostri deserti e terre secche, ma ci darà cieli nuovi e terre nuove nella salvezza piena e universale, perché noi abbiamo lottato insieme e ci siamo fidati di Lui. 

Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito santo. Amen. 

Intercessioni 

Supplichiamo il nostro liberatore Gesù Cristo che è via, verità e vita. 

Signore,

i nostri padri hanno fatto tabula rasa delle cultura di interi popoli, hanno spogliato le loro foreste, sterilizzato i loro campi, circondato di filo spinato la terra generosa, per saziare l'in­gordigia  del  mondo  occidentale.  Signore, pietà. 

Signore,

i nostri padri hanno messo le manette dei loro statuti ad altri uomini, hanno buttato nella tomba del silenzio la loro identità di popolo, hanno fatto dei «sopravvissuti» mano d'opera a poco prezzo.

Oggi le immense baraccopoli delle grandi città costituiscono un "provvidenziale" serbatoio di braccia da impiegare nei lavori più umili e mal pagati, e spesso i governi tollerano questo gigantesco sfruttamento, facendo scelte politi­che contrarie ai legittimi interessi del popolo. Signore, pietà. 

Signore, lasciaci gridare la nostra preghiera di 400 anni fa, così antica e così tristemente attuale: «Dio deve scaricare sull'Europa il suo furore e la sua ira, poiché essa ha partecipato e approfittato delle insanguinate ricchezze rubate, usurpate e strappate in tante stragi e distruzioni nei confronti di quella gente.Se non farà una grande penitenza, tutto questo avverrà. Ma non farà penitenza, purtroppo, poiché perdura la cecità che Dio, a causa dei nostri peccati, ha permesso nei piccoli e nei grandi, e ancor più in coloro che presumono e hanno fama di saggi e pretendono di comandare al mondo. Signore, oggi perdona, perché noi stessi abbiamo completato la misura di tanta ingiustizia.  Signore, pietà. 

Signore, nel tuo nome, anche nel tuo nome, abbiamo agito con violenza, imponendo strutture senz'anima, inadatte a chi le doveva accogliere. Però c'è stato anche chi si è messo dalla parte dei poveri, accettando sacrifici, sospetti, torture, pagando spesso con il sangue la scelta del cammino di liberazione dei poveri.

Anche oggi, Signore, rischiamo di continuare ad ignorare ingiustizie e soprusi. Aiutaci a continuare il cammino dei poveri, a far camminare il mondo verso una reale fraternità nella giustizia e nella pace.

E ancora ti chiediamo che queste parole, ormai invecchiate sulla nostra bocca, senza frutto, possano entrare, almeno una volta, forse oggi, nella nostra carne come chiodi roventi, per impedirci di inchiodare altri al nostro posto. Signore, pietà. 

Signore, la creazione è oggi lasciata in balia delle vanità, del potere, del nulla. Il creato sospira ed è nei dolori del parto. 2000 anni dopo Cristo le ferite del mondo non sono ancora rimarginate. San Paolo potrebbe più che mai gridare: «Ho una grande tristezza, un continuo dolore nel mio cuore».

Il mondo è ancora il mondo della violenza. La violenza genera la menzogna e la menzogna chiama ancora violenza; e noi stessi, ogni gior­no, ne siamo partecipi. Signore, pietà. 

Signore, certo non siamo ingenui e ciechi al punto da non sapere che esistono leggi di mercato, leggi di concorrenza per non cadere nel caos economi­co, leggi di produzione e di scambio, che non sono e non possono sempre essere le leggi del paradiso terrestre. È tutto vero. Vorremmo solo che queste leggi non continuassero a fare del nostro mondo un inferno. Signore, pietà. 

Padre nostro 

Padre nostro che sei nei cieli,

noi non siamo figli e molto meno fratelli fra di noi,

ma tu continui ad essere Padre nostro.

Il tuo nome è santo

e noi lo abbiamo confuso con i nomi dei potenti.

Sia santificato il tuo nome.

Distruggi per sempre i poteri di questo mondo

perché sparisca l'ingiustizia e la guerra

e venga il tuo regno di giustizia e di pace.

Sia fatta la tua volontà,

ma non far piovere il fuoco che meritiamo sopra di noi.

Dacci oggi il nostro pane da dividere con i fratelli,

e perdonaci per tutte le volte che non lo abbiamo condiviso.

Padre, continua a compiere in noi la tua misericordia.

E liberaci dal male. Amen. 

Orazione 

Signore Gesù, unito al tuo grido sulla croce e al grande grido del mondo, oggi mi preparo con questa preghiera a celebrare la consegna, l'eucaristia.

Signore Gesù, insieme a coloro che per mancanza di alimentazione non riescono più a pensare e insieme agli impazziti dalla disperazione e insieme a coloro che non vogliono più lottare per la liberazione e hanno deciso di rimanere eternamente schiavi, Signore, io mi inginocchio per offrire.

Offro quello che hai offerto tu, Signore, il tuo corpo, la tua vita, perché, forse, non so ancora offrire nessuna parte di me.

Per questo credo che la celebrazione eucaristica è una grande realtà, anche quando non ti porto il mio pensiero, né il mio cuore, né la mia fede, né le mie opere buone, ma solo la polvere dei miei piedi.

E io, insieme alla mia polvere, offrirò te, per allenarmi e per chiedere forza di offrire me: solo così la nostra celebrazione sarà completa. Amen. 

Capitolo IV

E divisero i beni 

Dopo quanto abbiamo detto, il rischio è di non riuscire nemmeno a chiedere perdono, perché se non intravediamo strade nuove, piste di speranza e concrete prospettive di conversione, tanto vale restare come siamo, nella contraddizione di un nostro mondo ingua­ribile

Ma io voglio gridare che il nostro mondo è guaribile e noi non siamo i primi a curarne le ferite.

Una strada nuova è stata aperta duemila anni fa, la strada della consegna, e oggi stesso non manca­no testimoni di questa rivoluzione di amore.

Nessuno potrà sostenere che davanti al camion dei 45.000 bambini che ogni giorno muoiono di fame non c'è niente da fare e che unica soluzione è rimanere muti o semplicemente spaventati e angosciati.

Massimiliano Kolbe non si accontentò di commuoversi.

Alla fine del luglio 1941 nel blocco 14 di Auschwitz mancò un prigioniero. Per ogni fug­gitivo venivano condannati venti internati. Quella volta ne furono scelti solo dieci.

Quando il Lagerfuhrer li scelse per mandarli nel bunker a morire di fame, una di loro si lasciò sfuggire un gemito soffocato: «Mia moglie e i miei bambini: non li vedrò mai più!». Massimiliano Kolbe, numero 16670 degli internati, lo udì e si offrì al suo posto.

Si avviava a concludere così la sua eucaristia, adempiendo alla parola di Gesù: «Fatelo anche voi in memoria di me!».

Giovanni Paolo Il lo ha detto nell'omelia della canonizzazione: «Padre Massimiliano non è morto ma ha consegnato la vita per il fratello».

E di fronte alle scelte sbagliate, alle politiche di oppressione, alla logica di guerra resteremo impotenti e inoffensivi?

Gandhi non è rimasto inattivo. Piccolo fragile uomo di fronte al potente eserci­to di un grande impero: che cosa poteva fare? Egli consegna se stesso. Studia, riflette, prega, entra nella politica del suo paese, entra ed esce dalla prigione più e più volte.

La sua grande arma è combattere la violenza con la non-violenza, ma una non-violenza attiva.

Egli lavora come ogni indù e insegna a fare altrettanto. Vive le cose semplici e i momenti straordinari con la stessa dignità e semplicità. Non accetta il compromesso. Cerca la coerenza della pace, non la violenza della guerra. A tutti i costi, con tutte le forze, rimettendoci in salute, con prolungati digiuni, perfino con il voto di castità, consegnando tutte le forze della sua grande anima per la causa della pace.

E non si può certo dire che non abbia ottenuto niente.

Di fronte alle difficoltà di dire «Padre nostro», resteremo con il fiato mozzo e basta?

Un profeta del nostro tempo, Raoul Follereau, ha smesso di aver paura della morte, si è appassionato per la vita degli altri, consegnando tutto il suo tempo, la sua intelligenza, le sue energie per vincere non solo la lebbra della carne, ma anche e più ancora la lebbra dello spirito.

Ha fatto oltre quaranta volte il giro del mondo, ma non da turista o come gli astronauti, guardandolo dall'alto. È passato di villaggio in villaggio per stare vicino a chi moriva, per incoraggiare a vivere, facendosi tutto a tutti.

E, quel che è più, migliaia lo hanno seguito, stimolati dal suo esempio.

Di fronte al ladro che è in ciascuno di noi, di fronte alle ingiustizie della nostra società nei confronti dei più poveri resteremo solo emozionati?

Marcello Candia vende la fabbrica e va a costruire un ospedale alla foce del Rio delle Amazzoni. Consegna denaro, tempo e salute per la salute dei fratelli: forse uno dei tanti gesti di semplice riparazione?

Qualcuno gli obietta: «Si rischia di fare dell'assistenzialismo, mentre quello che occorre è la rivoluzione...». «E vero - risponde Marcello - penso che abbiate ragione; ma io non la so fare e intanto che voi vi preparate, io faccio questo». La Didaché dice che quando uno fa tutto ciò che sa di bene, questo è il bene.

Madre Teresa di Calcutta si è affiancata ai moribondi perché non fossero soli nel momento in cui non valgono più nulla per nessuno.

E a chi le osservava, di fronte alla povertà e alla miseria di Calcutta: «Madre, questo che voi fate, per quanto grande, non è che una goccia nel mare...», ha risposto: «Sì, questa è la nostra goccia».

E non è certo la sola.

 

E di fronte alle minoranze etniche marginalizzate, di fronte agli schiavi di tutto il mondo diremo semplicemente che questi problemi sono troppo grandi e ci superano?

Martin Luther King non ha accettato passivamente il razzismo. Ha lottato con tutte le forze contro di esso e diceva: «Un giorno i miei figli neri siederanno a tavola con i bianchi, nella pace».

Lottò con tanta energia da spaventare i razzisti che lo uccisero.

E di fronte al potere delle multinazionali che dilapidano il terzo mondo, di fronte ai diritti umani più elementari ogni giorno conculcati, di fronte alla disappropriazione di casa, campi e della stessa sopravvivenza di intere famiglie resteremo a guardare?

Margherita, una giovane donna del Nord-est brasiliano, informata da un mio amico che la sua vita era finita se non smetteva immediatamente la sua lotta in difesa della terra, disse: «Dalla lotta non esco: meglio morire lottando che morire e veder morire di fame». Due ore dopo veniva uccisa. Al funerale il corteo di contadini si trasformò in una manifestazione nazionale in difesa dei diritti dei lavoratori; nella foresta di scritte uno striscione di cento metri diceva: «Avete sradicato una margherita, ma ne sono già nate altre mille».

La lotta contro l'ingiustizia cresce ogni giorno. Una statistica del settembre 1986 dice che in Brasile muore una persona ogni 36 ore in difesa dei diritti umani.

E quelli che vengono uccisi sono sindacalisti, leaders politici, religiosi e preti, contadini, ecc.

Migliaia di giovani professionisti e non profes­sionisti si affiancano ai fratelli che lottano per recuperare i loro diritti fondamentali, lottano e rischiano insieme, facendosi maestri e insieme discepoli gli uni degli altri per un mondo migliore.

Solo nella mia città e paese dove sono nato esistono decine di persone che fanno esattamente ciò che ha fatto Kolbe, Gandhi, Follereau, Marcello Candia, Luther King, Margherita.

In modo diverso vivono le stesse cose, conse­gnandosi ogni giorno per arrivare a consegnare tutto.

Perché non deve essere possibile anche per noi?

    

Il canto dell'Allel 

È dunque chiaro che non possiamo concludere in modo pessimistico. In mezzo a tanti testi apocalittici, spero di non collocare anche questo.

In altre parole, voglio dire che Caino cammina ancora sofferente e disperato nel nostro mondo, si continua a costruire la torre di Babele e il diluvio continua a inondare oggi; ma sia chiaro che sulla fronte di Caino c'è un segno di misericordia e di speranza; e gli uomini cercano di aggregarsi nonostante le differenze di lingua, ideologia e religione; e sotto le nuvole appare anche oggi l'arcobaleno, segno di pace.

E ancora, i faraoni d'Egitto non sono morti, né i loro aguzzini, né il popolo oppresso; ma in mezzo a tutto questo c'è una storia di liberazione.

Mosè e Aronne continuano a gridare e stimolare il popolo affinché non si perda d'animo nel deserto, ma lotti per la terra promessa.

Anche voi cantate l'Allel come Maria, ogni volta che attraversate il Mar Rosso con i vostri fratelli; ma anche quando Dio vi dà la forza di attraversare un fiume o un ruscello, celebrate la vita.

Portatelo voi il vino quando andate a nozze a Cana o in un altro paese, perché la festa sia più piena.

Uccidetelo voi il vitello grasso, quando un fratello o un figlio torna a casa e non importa se gli altri si scandalizzano. Spezzatelo voi il vaso di alabastro pieno di profumo che costa una fortuna, e versatelo sulla testa del fratello, anche se gli altri non capiscono e si scandalizzano e parlano sempre dei poveri, pur di arric­chirsi.

Ma quando passate vicino a 5.000 uomini affamati con le mogli e i loro bambini, non passate oltre senza dar loro da mangiare.

Date loro il pane se lo avete, altrimenti andate a comprarlo; e se siete senza soldi, fate dei miracoli; ma non passate oltre come un levita o un fariseo, altrimenti come farete a dire: «Padre nostro che sei nei cieli»? o come potrete, il giorno dopo, par­lare a questi fratelli dell'eucaristia?

  

L'ultima scusa 

Per anni ho cercato una scusa, una qualche motivazione, per dirmi che andava bene anche così, e non l'ho trovata.

Avrei voluto collocare quella risposta in queste righe per tranquillizzare la coscienza mia e dei miei amici, ma non l'ho trovata. Nessuna riga in tutto il Vangelo, negli Atti degli Apostoli, nelle Lettere e nemmeno nell'Apocalisse, che mi potesse dar ragione.

Volevo trovare una parola che mi dicesse all'in­circa così: «Anche se mangio tre volte al giorno e ho una certa sicurezza, mentre altri mangiano tre volte la settimana, in fondo non è poi così grave»: è questa la parola che ho cercato e non ho trovato.

Nelle parole di Gesù non ci sono attenuanti: l'ingiustizia, la discriminazione, tutto questo è peccato.

E adesso voglio dire una parola che brucia la mia pelle. Mi sono lasciato scandalizzare da televisori a colori in case religiose a pochi metri da chi vive la miseria.

Mi sono lasciato scandalizzare da una casa con 164 stanze, tutte libere, tutte vuote, accostate alla strada dove dormivano dei bambini sul marciapiede, coperti da giornali.

Mi sono lasciato scandalizzare da queste cose, pensando che io avrei fatto diversamente, avrei fatto meglio; invece io, come molti di voi, non ce l'ho fatta.

E per di più, in molte comunità ho sentito un grande desiderio di essere più povere, senza riuscirci.

Mi dicevano di voler essere più coerenti con il Vangelo, di voler essere dei testimoni viventi della Parola, di voler dividere tutto con chi soffriva più di loro, senza riuscirci.

Ho sentito il grido d'impotenza: «Perché faccio il male che non voglio e perché non faccio il bene che vorrei?».

Tutti questi amici, con molta buona volontà, non ci sono riusciti (eccetto pochi), come io non ci sono riuscito.

Non ce l'ho fatta.

Mi costa confessare pubblicamente questo pec­cato, come mi costerebbe dire pubblicamente che ho ucciso, che ho rubato, che sono stato adultero o che ho bestemmiato Dio.

Con la stessa vergogna e umiltà dico: non ci sono riuscito.

Ma il fatto che altri non ci siano riusciti, che io non ci sia riuscito, non giustifica nessuno di chi sta leggendo questa riflessione, a dire:

«Allora, anch'io posso continuare come prima». Se Dio ti chiede di più di quello che ti ha chiesto ieri, ti dà anche la sua forza per dire di sì e camminare in avanti.

Non chiudere il cuore a Dio, se lui stesso cerca di aprirtelo. E se Dio, in questo momento, ti dà una luce che non ha dato a nessuno? E se Dio, in questo momento, ti chiede ciò che non ha chiesto a nessuno? E se Dio, in questo momento, ti dà una forza che non ha mai dato a nessuno?

Guai non rispondere!

Guai tornare indietro!

Resteresti eternamente triste.

 

Fraternamente 

Gli apostoli, con la prima comunità cristia­na, vollero fare ciò che aveva comandato il Signore Gesù, in quella notte, prima della morte, quando aveva spezzato il pane e si era consegnato, per i fratelli, nelle mani del Padre. Gesù infatti aveva chiesto ai suoi di fare altret­tanto. Così gli apostoli, con la comunità, supe­rando l'elemosina e l'assistenzialismo, fecero la rivoluzione: una grande rivoluzione sociale cri­stiana.

Respirando la genuinità e la freschezza di quel bambino appena nato che era la nuova storia, si riunirono per celebrare l'eucaristia. Ma l'euca­ristia non fu per essi ripetere un rito: con un cuor solo e un'anima sola nessuno disse «proprio» ciò che gli era appartenuto, ma ogni cosa fu tra loro comune. Con grande forza gli apostoli resero testimonianza della risurrezione del Signore Gesù.

Nessuno tra loro fu bisognoso, perché quanti avevano posseduto campi o case, li avevano venduti, portato l'importo di ciò che era stato venduto e lo avevano deposto ai piedi degli apostoli; poi era stato distribuito a ciascuno secondo il bisogno. E spezzarono il pane come aveva detto Gesù. 

Mentre uscirono dalla riunione, sentirono forgiare i chiodi nella bottega del fabbro e inchiodare legni incrociati. Sentirono ancora i ruggiti dei leoni nei sotterranei dell'arena e il rumore di una pioggia di pietre che si scagliavano contro di essi.

Ma in mezzo a tutto questo contemplarono i cieli aperti sopra di loro e il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio.

  

Conclusione 

Quando si celebra l'eucaristia?

Ogni giorno.

Quando si consuma l'eucaristia?

La vigilia della passione.

Qual è la formula della consegna?

«Tutto è compiuto».

«Nelle tue mani affido il mio spirito».

«Ho sete».

E da ultimo un grido.

 

Queste poche ultime righe ci ripetono che non abbiamo ancora pagato fino al sangue, ma ogni giorno dobbiamo fare la nostra piccola, grande consegna, per entrare a far parte dei «beati» del Vangelo: perdere tutto per il regno, al fine di non avere più nulla da perdere nel momento in cui Dio ci chiederà tutto. 

Forse domani non andrai più a messa e a far la comunione.

Forse andrai un'ora prima per prepararti con un atto penitenziale vero.

Forse domani mattina, allo spezzar del pane, riconoscerai i suoi occhi e deciderai di conse­gnare tutto e di consegnarti.

Forse non cambierà nulla.

In ogni caso la comunione ti attende.

Gesù ha preso il pane e il vino e ha detto:

«Questa è la mia vita che io consegno per voi:

fate anche voi questo».

Se noi non ci consegneremo, tutte le volte che celebriamo l'eucaristia faremo solo una dram­matizzazione piena di grazia, pur bella e ricca di genio, ma non faremo ciò che lui ci ha coman­dato: la nostra consegna. 

Preghiamo piuttosto con R. Foullerau:

«Signore, insegnaci a non amare noi stessi,

a non amare soltanto i nostri.

Insegnaci a pensare agli altri

e ad amare in primo luogo quelli che nessuno ama.

Signore, facci soffrire della sofferenza altrui.

Facci la grazia di capire che a ogni istante,

mentre noi viviamo una vita troppo felice,

milioni di esseri umani,

che sono pure tuoi figli e nostri fratelli,

sono condannati a morire di freddo e di fame

dal nostro crudele egoismo.

Non permettere più, Signore,

che noi viviamo felici da soli.

Facci sentire l'angoscia della miseria universale,

e liberaci da noi stessi. Amen».