ASIANOMADS

L'uomo, nostra seconda eucarestia

L'uomo, nostra seconda eucarestia

Allo zingaro del Wukomerec di cui conosco solo il nome:

Gesù Cristo

PREFAZIONE

Le pagine che seguono sono nate negli accampamenti dei nomadi. Ho pensato perciò utile, perché possano essere meglio capite, dire qualcosa della mia vita vagabonda, di «prete degli zingari». 

      

Dal '64 frequento gli zingari e dal '72 vivo con loro.

Nella mia adolescenza pensavo spesso ai leb­brosi, ai «morti vivi», e speravo di dedicare ad essi la mia vita.

Mi resi poi conto che c'erano persone, nella periferia delle nostre città, che non avevano «cittadi­nanza», voglio dire non avevano il diritto di essere cittadini come gli altri, erano dei non amati, degli indesiderati e spesso rifiutati.

Per essere cristiano dovevo essere in pace con tutti; per spezzare l'eucaristia con i fratelli dovevo prima andare a far pace con il fratello che aveva qualcosa contro di me.

Fu così che l'amicizia nata tra un gruppo di zingari e me in prima liceo fu destinata a crescere e

decisi di vivere fra loro. Le difficoltà dei primi tempi, in ambiente certo carico di diffidenze e paure di "corpi estranei", non mi ha impedito di rimane­re, dedicando interamente a questi miei fratelli il mio «randagio» servizio di prete.

Concretamente il mio feriale quotidiano è fatto di poche povere cose. Mi sposto da un accampamento all'altro con un carro da cavallo; non pesa molto: poco più di due quintali e in pianura lo si deve solo accompagnare. La sola fatica è in salita ~ quando si passa vicino alla gente che non può fare ~ meno di ridere e commentare. Sopra il carro ho una grossa tenda per ripararmi dalla pioggia e dalla neve.

Quando arrivo nell'accampamento, piazzo il carro e monto una piccola tenda; quest'ultima è una chiesetta: c'è l'eucaristia, la Bibbia e qualche cuscino, mentre la candela accesa d'inverno fa da riscaldamento.

Spesso celebro la messa, di sera tardi, da solo, dopo essermi disposto in comunione profonda con tutti gli zingari del campo, mi sforzo di pregare cercando di copiare da Gesù.

Gesù, davanti al Padre, avrà detto: «Se tu Padre, aspetti che questi miei fratelli e sorelle ti chiedano perdono, ti lodino, ti ringrazino come conviene, chissà quanto devi aspettare! E poi1non sono capaci. Allora, Padre, ti chiedo perdono io in nome loro, ti lodo per essi, ti ringrazio al posto loro...».

Così cerco di fare io sotto quella piccola tenda e cerco di dire: «Signore, chiedo perdono per me e per essi, per tutti i nostri sbagli tra le tende e le barche (spesso li elenco), ti lodo e ti ringrazio al loro posto, ti offro la mia vita e la loro vita, a nome di quelli che non sanno di avere un Papà nei cieli che può perdonare e accogliere la loro vita carica di gioia e di sofferenza».

La mia presenza tra i nomadi ha assunto già primi anni un carattere particolare.

Mi ero proposto di stare con loro per pregare in un certo modo, ma anche per comunicare pure ad essi la speranza che il Signore ha acceso in me.

In realtà, fin dall'inizio, ho dovuto dedicare la maggior parte del tempo in attività sociali, sanitarie, scolastiche, risolvendo insieme a loro i problemi di ogni giorno.

Ho rivissuto e rivivo in continuità la parabola del samaritano.

Ero andato tra loro con la speranza di aiutarli a camminare verso Gerusalemme, e invece molto spesso ho dovuto caricarmeli sulle spalle e condurli all'albergo, sempre troppo vicino a Gerico.

Avrò sbagliato strada?  Non mi sembra, perché la carità a servizio dei  poveri e dei malati è annuncio del vangelo.

Ma facendo questo, ho imparato che l'annuncio del vangelo ai poveri non è mai a senso unico. Spesso sono i poveri che ci annunciano il vangelo: con la loro sofferenza, con la loro solidarietà, con la speranza che coltivano nel cuore nonostante le tante situazioni assurde che devono subire.

Per cui, piuttosto di annunciare cose che potreb­bero sembrare estranee alla loro vita, si tratta, in fondo, di «rendere esplicito» quello che i miei amici zingari già vivono o cercano, anche se in modo ancora inconsapevole. La mia presenza ha un unico riferimento: il Signore Dio.. Anch'essi lo sanno e hanno dimostrato di capirlo bene. Per loro io sono lì in accampamento unicamente in nome di Lui , per una dimostrazio­ne vivente e continua che anch'essi sono amati da quel Dio innamorato di tutti gli uomini, il quale, come dice Gesù nel vangelo, «fa sorgere il suo sole sopra i cattivi e sopra i buoni» (Mt 5,45) ed è benevolo anche «verso gli ingrati» (Lc 6,35).

Di una così grande misericordia ho parlato nelle pagine raccolte in questo volumetto che vuole essere il mio «taccuino di viaggio», dove ho trascritto brani del vangelo letto con gli amici, testi della tradizione cristiana che provocano a un confronto tra il nostro incontro con Gesù nell'eucaristia e il nostro incontro con lui nei poveri (che per i padri sono come «la seconda eucaristia»).

Nel suo insieme, questa breve pubblicazione assume la fisionomia di una celebrazione, «la messa sull'uomo»: letture bibliche, appunti per la riflessione e il canone.

È la festa dell'uomo.

Il corpo e il sangue dell'uomo è diventato il corpo e il sangue di Cristo e noi contempliamo questo mistero.

Renato Rosso

LA PAROLA DEL SIGNORE

  

Genesi 1,24-27

Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie». E così avvenne.

Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».

Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò. 

 

Salmo responsoriale 8 

Rit. Che cosa è l'uomo perché ti ricordi di lui?

      

Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,

la luna e le stelle che tu hai fissate,

che cosa è l'uomo perché te ne ricordi

e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Rit.

       

Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli,

di gloria e di onore lo hai coronato:

gli hai dato potere sulle opere delle tue mani. Rit.

    

Tutto hai posto sotto i suoi piedi,

tutti i greggi e gli armenti,

tutte le bestie della campagna,

gli uccelli del cielo e i pesci del mare,

che percorrono le vie del mare. Rit..

     

O Signore, nostro Dio,

quanto è grande il tuo nome su tutta la terra. Rit.

   

Prima lettera ai Corinzi

6,14-15a.19-20; 12,27 

Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la su potenza.

Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?

O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?

Infatti siete stati comprati a caro prezzo.

Glorificate dunque Dio nel vostro corpo.

Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.

Alleluia!

Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato

   

Matteo 25,31-40 

Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fonda­zione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi  avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi».

Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?»

Rispondendo, il re dirà loro: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me».

LA SECONDA EUCARISTIA

Gesù prese il pane e il vino, disse la preghie­ra di benedizione, li diede ai discepoli e disse: Questo è il mio corpo... Questo è il mio sangue... Fate questo in memoria di me (cf. Mt 26,26-28; Mc 14,22-24; Lc 22,17-19).

Gesù aveva desiderato immensamente (Lc 22,15) quel momento, quella cena di comunione con i suoi, la possibilità di dare a quelli che lasciava, un segno della sua presenza, che sareb­be rimasto attraverso i secoli, nell'attesa della sua venuta, alla fine dei tempi. Gesù ci ha dato così l'eucaristia, davanti alla quale ci possiamo inginocchiare per adorare il corpo e il sangue di Cristo che ha detto di voler essere presente in quel gesto, in quel segno. Durante la prima messa che ho celebrato, dopo aver preso il pane e il vino, e dopo aver detto le parole:   Questo è il mio corpo... Questo è il mio sangue..., ho avuto una distrazione quasi blasfema. Il mio pensiero è stato questo: «Tutto qui?» Nel mo­mento in cui sono stato più vicino all'altare dell'offerta, nell'istante in cui sono stato io a dire quelle parole, il tutto mi è sembrato una banalità. Eppure non avevo mai preteso di vive­re in quel momento chissà quale emozione mistica e, nonostante questo, ho provato quel mo­mento di sconvolgimento anche se è durato solo un istante.

Gesù ci scandalizza, non ha paura di scuotere la nostra fede e, se ci lascia perplessi questo atteggiamento di Gesù stesso nel lasciarci il se­gno del pane e del vino, assai più restiamo scandalizzati di fronte al mistero dell'altra euca­ristia: l'uomo, corpo e sangue di Cristo.

È questa l'eucaristia più compromettente per Gesù stesso e la più sconcertante per noi. Mat­teo al c. 25,31-46 ci presenta uno dei più rivolu­zionari discorsi di Gesù.

Nel giudizio finale alla fine dei tempi, il Signore dividerà i buoni dai cattivi e ai buoni dirà: «Venite benedetti del Padre mio e possedete il regno preparato per voi già dall'inizio del mondo. Infatti avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere. Ero forestiero e mi avete alloggiato. Ero nudo e mi avete vestito. Ero in carcere e siete venuti a trovarmi. Allora i buoni risponderanno dicendo: Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o quando hai avuto sete e ti abbiamo dato da bere? Quando ancora ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo alloggiato. o quando nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti da te?  

Ed ecco la risposta del Signore: «In verità vi assicuro che, tutte le volte in cui avete fatto queste cose a uno di questi fratelli poveri, l'avete fatto a me». 

Sì, quello è il momento in cui Gesù ha proteso le mani su tutti i poveri del mondo - sui malati, sui peccatori - e ha pronunciato le parole di consacrazione: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue; tutto quello che farete loro fatelo in memoria di me. (Perché tutto quello che avete fatto loro lo avete fatto a me). 

Per questo, ogni volta che apriamo un giornale e vediamo le immagini di chi ha vinto e di chi è stato sconfitto, di chi ha costruito e di chi ha distrutto, della vittoria e del killer: in quel momento ci troviamo di fronte ad una serie di icone dai colori ed espressioni più diverse che però riproducono lo stesso volto: quello di Gesù Cristo. In quei volti spesso noi cogliamo solo la rabbia, la gioia, la disperazione o i segni della bontà e del peccato, ma ci è troppo difficile o almeno non siamo abituati a cogliere la vera presenza del volto di Dio.

NESSUNO HA VISTO DIO 

Spesso qualcuno ci parla di Dio come se l'avesse visto. Che illusione! È immensamente più bello! Sarebbe come se dicessimo di aver visto il sole quando ammiriamo, su un filo d'erba, imper­lato di rugiada, il riflesso della sua luce. Chi cammina guardando solo per terra, non potrà mai disegnare il sole.

Alcuni, è vero, dicono di saper tutto di Dio, si chiamano teologi. Essi conoscono vita, virtù, e miracoli di lui, sanno quando è nato, quando è vissuto, quando è morto; ne hanno tracciato la carta d'identità ben precisa. Ebbene, se qualcuno ci presenta quella carta, anche se non siamo dei poliziotti, possiamo dire: falso! È un falso! Dio, il Padre, «mai nessuno l'ha visto» eccetto il figlio Gesù e lui ce ne ha parlato; ma diverso è averne sentito parlare, altra cosa è sapere tutto di lui e credere di averlo «compreso».

Possiamo immaginare qualcosa, intravedere nella notte un chiarore che ci fa pensare a una fonte luminosa, ma la luce è un'altra cosa: chi la vede non può restare in vita. Mosè sul monte ha paura di avvicinarsi a quella luce, perché è fuoco che brucia; il popolo non si avvicina affatto. Dio, com'è questo Dio?

Un giovane, che è appena uscito dal peso alienante della droga e che sta facendo tuttora i primi passi nella fede, una notte parlava con me e si discorreva della sofferenza, dell'ingiustizia, della povertà, della lotta, delle stelle, della speranza, della fede, di Dio. A un certo momento, con un sorriso abbozzato che emergeva dal nulla, mi tradusse nella sua lingua la profondità luminosa che si rivelava ai suoi occhi e disse: «Dio, oh sì certo, questo Dio deve essere bello un casino». Era tutta la sua spontaneità che traduceva la bellezza più bella che conosceva. Abbiamo conti­nuato a parlare e C. mi chiese ancora: «Ma chi è davvero? mi sai dire qualcosa di più?» Non trovai nulla di meglio del semplice discorso biblico e mi espressi così: «Dio è un uomo bellissimo»; infatti, è la stessa Bibbia a scrivere così: «Dio fece l'uomo a sua immagine e somiglianza».

Nacque un altro interrogativo: «Chi è dunque l'uomo?». A quel punto mi è stato più facile rispondere: «L'uomo è Dio, è un Dio infangato. Togli il fango e resta solo lo spirito di Dio, quel medesimo spirito che Dio aveva messo nel fango».

In ogni caso, risulta che noi vediamo quasi sempre e solo la terra e per questo non riusciamo a credere che in quel fango, Dio stesso ha messo se medesimo, il proprio spirito. Gesù Cristo ha ribadito tutto questo; ma resta sempre un mistero troppo grande per noi credere che Dio si è fatto carne in Adamo, in ciascuno di noi e in Gesù Cristo ha ricevuto la risposta totale di questa incarnazione.

«Egli si è comunicato interamente a noi» - dice S. Gregorio Nazianzeno - «Tutto ciò che egli è, è diventato completamente nostro. Sotto ogni aspetto noi siamo lui. Per lui portiamo in noi l'immagine di Dio dal quale e per il quale siamo stati creati. La fisionomia e l'impronta che ci caratterizza è quella di Dio. Perciò solo lui può riconoscerci per quel che siamo. Conseguente­mente passano in seconda linea le differenze e le distinzioni fisiche e sociali, che pur certamente esistono tra gli uomini. Per questo si può dire che non c'è più né maschio né femmina, né barbaro né scita, né schiavo né libero (cf. Col 3,11)».

SIMILI A LUI 

Giovanni, in un momento di grande coraggio umano e di intuizione mistica, scrive con forza che «noi siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!», e che «Dio abita in noi e noi in lui » (1 Gv 4,15).

Giovanni si rese conto che noi, pur essendo fin d'ora figli di Dio, percepiamo a fatica tutto questo e solo a sprazzi ce ne rendiamo conto e quasi mai con evidenza, ma quando Dio si sarà manifestato a noi e noi stessi ci renderemo conto di essere simili a lui, quando il parto per la nuova nascita ci avrà definitivamente purificati, quando i nostri occhi potranno vedere il volto di Dio così come egli è, in quel momento, vedendo Dio, vedremo con chiarezza anche chi saremo noi e ci accorgeremo di essere simili a lui: che festa!

Simili a lui, simili a lui! Che festa! (cf. 1 Gv 3,2).

IO SONO IL PANE VIVO 

«Io sono il pane vivo disceso dal cielo». Sento giungere queste parole dal piccolo cuore di un bambino zingaro, seminudo, che gioca vicino alla discarica.

Due altri bambini stanno giocando con le pietre, tracciano una riga e cercano di arrivare il più vicino possibile e far punti e vincere.

Il più piccolo, Lolo, sa che in ogni caso perde, perché lui non è bravo come Rushdo, ma si diverte ugualmente, anche se in lui resta un po' della rabbia di sconfitta. Sempre sullo stesso pezzo di terra, arriva un ragazzo di dieci anni circa e comincia a dar pugni perché il fratello non è stato accettato nel gioco.

«Io sono il pane vivo disceso dal cielo» Queste parole arrivano esattamente da quella direzione.

Leggo le medesime parole nel profondo della zingara B. che ha fatto la T.B.C. e ormai la sua vita è al di fuori del clan. I parenti, coloro che erano gli amici, passano a trovarla, scambiano qualche parola e ripartono.

Il mondo attorno a lei è diventato piccolo e il tempo si è abbreviato in quei pochi momenti di incontro che sono diventati più sofferenza che sollievo, perché da parte degli altri non c'è amore, ma la sola volontà di pagare un tributo.

«Io sono il pane vivo disceso dal cielo».

Sono le tre del mattino e la notte è stata come le altre: 22 anni di vita, 9 anni di tragedie, 4 anni di felicità «ricercata», ma ricercata soltanto. Nella sua soffitta sta togliendo i suoi orecchini, smette i suoi abiti femminili, la parrucca. Si mette a letto. L'amico dorme già. Lo sveglia: È terribile la solitudine... «lo sono il pane vivo disceso dal cielo»

E da quell'altra parte del mercato: «Signore, comperi questo, oppure quest'altro. Guardi che non è come gli altri; è un pezzo eccezionale, è l'ultimo questo, le faccio uno sconto. Guardi che dura un'eternità, glielo garantisco, si sono trovati tutti bene». «Io sono il pane vivo disceso dal cielo».

Alla stazione, alla casa dei vecchi, alla mensa dei poveri, a Porta Palazzo. Nei quartieri, ai margini della città, negli alloggi popolari, nel tanfo delle soffitte e nelle cantine, in mezzo alla disperazione e tra la festa: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo».

MI AVETE VISTO 

«Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: Questo è il mio corpo, confermando il fatto con la parola, ha detto anche: Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare (cf. Mt 25,35) e ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli tra questi, non l'avete fatto neppure a me» (cf. Mt 25,45).  

Sono parole forti di san Giovanni Crisostomo, ma è un grido che vuole farti aprire gli occhi. E lo stesso santo che dice: «Il corpo di Cristo che sta sull'altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l'onore più gradito, che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare, è quello che lui stesso vuole, non quello escogita­to da noi».     

Eppure questo è il nostro atteggiamento di tutti i giorni. Se oltre la finestra di casa nostra ci fossero cinque bambini che gridano perché hanno fame, cosa faremmo? Riusciremmo a fare i nostri pasti normalmente come facciamo? Ebbene, se viviamo in Europa o in Nord America, sappiamo che a cinque ore di distanza ci sono le situazioni più gravi del nostro pianeta. Se viviamo in Brasile, in Africa o in Bangladesh possiamo avere chi muore di fame a un minuto dalla porta, ma spesso ci abituiamo a convivere con la sofferenza.

Cristo urla e si dispera e noi continuiamo tutto come prima.

R. Folerau ci diceva che con il valore di una bottiglia di wisky si guarisce un lebbroso, mentre vergognosamente esistono ancora milioni di lebbrosi senza cure sufficienti.

Viviamo delle grandi contraddizioni e continuiamo a chiamarci cristiani.

È lo stesso Crisostomo a dire:

«Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l'affamato, e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane. Gli offrirai un calice d'oro e non gli darai un bicchiere d'acqua? Che bisogno c'è di adornare con veli d'oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d'oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe, o piuttosto non s'infurierebbe contro di te? E se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, e, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce?

Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavi­mento, le pareti, le colonne e i muri dell'edificio sacro. Attacchi catene d'argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procura­re tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offrire, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò mentre adorni l'ambiente del culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questo è un tempio vivo più prezioso di quello.»

VOGLIO CHE TUTTI SIANO SALVI 

A questo punto ci possiamo chiedere se qual­cuno sfugge al miracolo di questa consacrazione, poiché propriamente Gesù parla dei piccoli, dei più piccoli, quindi dei poveri. E l'interrogativo resterebbe, qualora anche un solo uomo si potesse sottrarre a questa categoria di essere piccolo, di essere una povertà. Ma chi non è debole? Chi non ha dei peccati da farsi perdonare?

Qualcuno, poi, sarà tanto povero da non avere neppure la fede, da non sapere che c'è un Dio da lodare, da ringraziare, a cui chiedere  perdono, un Dio cui potersi rivolgere nei momenti di gioia e nei momenti di angoscia.

È la condizione umana che è essenzialmente una condizione di povertà.

Tutto questo ci dice che Gesù, nella sua proclamazione sui piccoli, ha abbracciato tutti gli uomini. Questo significa credere nella speranza, sperare che il suo amore è per tutti. «Io spero nel Signore» (Sal 129), non spero in me, nei miei meriti, neppure nella mia fede, forte da trasportare le montagne, o incerta e debole da essere fiaccata, no!... «Io spero nel Signore... l'anima mia spera nella sua parola... perché presso di lui è la misericordia... e grande è presso di lui la salvezza».

E, poiché non posso ipotecare il mio futuro, se domani diventerò un ribelle, un assassino, un pover'uomo prostituito alla violenza degli altri, se comincerò a bestemmiare il mio Dio, e se mi sarò dimenticato completamente di lui, so con certezza che il mio Signore non si dimenticherà di me, non cesserà di amarmi e, come il Padre del figlio prodigo, mi aspetterà tutti i giorni con amore.

E perché non pensare anche questo? Se a qualcuno di noi mancasse, su questa terra, il coraggio di alzarsi come il figlio prodigo, per andare dal Padre e chiedere perdono, quando ci troveremo di fronte a lui non potremo fare a meno di inginocchiarci e di dire: «Padre, ho peccato contro di te e contro i miei fratelli...»; e se un angelo del Signore rispondesse: «È tardi, è troppo tardi», io non mi arrenderei e continuerei a supplicarlo con le parole del salmo: «Dal profondo grido a te, Signore, ascolta la mia voce... Io spero nel Signo­re, l'anima mia spera...» (Sal 129). E se in quell'istante, paralizzato dalla morte, non avrò più la forza di alzarmi e andare da Lui, Egli avrà sempre la forza di venire da me.

Amare Dio non è la cosa più importante. La cosa più importante è che Dio ama noi.

Il nostro amore per lui è incerto e debole. Oggi è vivo, domani è un rifiuto; ma l'amore di Dio rimane in eterno.

«Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch'egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2Tm 2,11-13).

DIEDE A CIASCUNO UNA MONETA 

Una settimana fa, dall'accampamento con gli zingari, nella periferia di una città veneta ho visto un «Gesù» di 30 anni ubriaco che picchiava la moglie.

Il giorno seguente ho visto un «Gesù» di 7 anni: ha preso una pietra e l'ha scagliata a tutta forza contro la madre.

Due sere fa è arrivato lo stesso «Gesù» ventenne, con due buoi rubati; aveva paura della polizia ed era agitatissimo.

Mi viene da pensare: «Forse sbaglio a dir "Gesù": lui non fa il male!». Sì, Gesù non fa peccato, ma è pur vero che è nell'anima e nel corpo di questi fratelli.

Non è lui che fa il peccato, ma ha pur voluto addossarselo, ha voluto essere lui il colpevole tutto questo, perché sapeva che solo lui avrebbe potuto ottenere il perdono e si è presentato al Padre con mani e piedi inchiodati per amore su una croce.

Il male c'è e ci scandalizza, ma è già stato vinto.

Un amico mi disse un giorno con tutta confidenza: «Tu presumi allora di salvarti senza meriti?». Risposi che non presumo di salvarmi senza meriti, ma presumo di salvarmi con i meriti di Gesù Cristo.

E alla fine, al giorno del giudizio, quando il giudice chiederà: «Chi ha messo quelle bombe su quelle piazze, chi ha ucciso tanta gente?», qualcu­no alzerà la mano e dirà: «Papà, perdonami, sono stato io... Ho perso la testa». E quando chiederà: «Chi ha scatenato quella guerra?», qualcuno anco­ra forse dirà: «Perdonami, papà, sono stato io... ho perso la testa».

E lui, Gesù, alzerà la mano per me, per te, per tutti coloro che «hanno perso la testa»; ma poi se ne sono accorti e l'hanno confessato ad alta voce e, col ladrone crocifisso, hanno ancora la forza di gridare: «Signore, ricordati di me...». E allora sarà il canto dell'alleluia per i secoli.

È ovvio che la vittoria di Cristo sul peccato, poiché abbraccia il passato e il futuro, comprende la storia di tutta l'umanità: il primo e l'ultimo atto libero dell'uomo. Se poi voglio vivisezionare tale problema da comprenderlo in tutto quello che mi può significare, non mi possono bastare tutte le pagine dei razionalisti e dei mistici messi insieme.

Forse non ci possono bastare neppure le pagine del vangelo stesso, se la nostra pretesa è di una comprensione superbamente piena. Gesù dice le cose con semplicità, egli parla del grano e della zizzania. La zizzania, il peccato, non ha futuro, viene bruciato. E il grano, il bene, che resta.

Se poi vogliamo saperne di più, diventiamo superbi. e giudici. Noi non sappiamo che cosa sia veramente accaduto su quella pianta dove si è impiccato il nostro fratello Giuda, che cosa è avvenuto nel cuore di grandi dittatori e oppressori della nostra storia, o che cosa si sia scatenato nello spirito di freddi sterminatori; ma di una cosa siamo certi: la consacrazione di Gesù non ha escluso nessuna di queste misere creature e nostri fratelli; e di un'altra cosa siamo tristemente certi: della nostra presunzione di essere migliori di loro.

E saremmo i primi a lamentarci quando, davanti al Padre, nel giorno del giudizio, ci accorgessimo di avere tutti la medesima moneta: S. Pietro, S. Francesco, Giuda Iscariota, S. Caterina, papa Giovanni, Pilato e Caifa, noi stessi. Tutti la stessa moneta? E troppo probabile che anche noi, come vignaioli disoccupati, avanzeremo la nostra obiezione: «No, non è giusto!». E se il Padre ci dicesse «Che cosa ti manca?», «Nulla - dovremmo rispondere - non mi manca nulla, ma perché «uguale a loro?».

Dobbiamo ammetterlo: la nostra tentazione è sempre quella di giudicare il cuore di Dio con i parametri gretti e limitati di chi non sa amare. È sconcertante, ma dobbiamo affermarlo: noi non sappiamo amare. O, più precisamente, non vogliamo saperlo; è troppo scomodo. Chi sa amare invece dice: «O voi tutti assetati venite all'acqua; chi non ha denaro venga ugualmente» (Is 55,1; 7,38).

DIO È GIUDICE GIUSTO 

Resta ancora per molti un drammatico peso: la giustizia infinita di Dio. Molti fratelli, davanti alle parole del vangelo che parlano di inferno, condanna eterna, pianto e stridor di denti, molti, ripeto sono tentati di pensare: «Mettiamoci al sicuro; se poi le cose stessero diversamente, almeno siamo a posto». Abbia pazienza chi sta leggendo queste pagine, ma io mi ostino a pensare a coloro che a sicuro non sarebbero, qualora la casa di questo Padre avesse delle cantine così oscure e fosse cosi difficile entrare intorno al focolare con lui.

Infatti giustizia e misericordia sono meraviglio­samente infinite in Dio. Una giustizia infinitamen­te misericordiosa e una misericordia infinitamente giusta.

Certo non si può e non si deve cancellare nessuna di quelle pagine scomode del vangelo cui abbiamo accennato prima e nemmeno il «lontano da me, maledetti nel fuoco eterno». La chiave di lettura di quelle stesse parole mi viene da un fatto vissuto pochi mesi fa.

Un ragazzo era restato fuori casa quattro mesi, si bucava, era assai mal ridotto in salute. Alla proposta di ritornare reagì assai duramente: «pre­ferisco morire». Si convinse poi che era meglio ritornare. Lo accompagnai, perché non fosse solo ad affrontare il padre. Era molto agitato vicino a casa e mi disse ancora: «ti assicuro che preferirei morire; io so come è lui, si mette a gridare e io non lo sopporto». E aveva ragione.

Infatti le prime parole furono veramente dure «Ah, sei tu, puoi fare a meno di entrare» ma lasciò la porta aperta. «Basta, togliti dai piedi, non voglio nemmeno guardarti in faccia», continuò sempre più agitato.

Il ragazzo tremava e pure io, lo confesso. Di tanto in tanto cercavamo di interrompere, ma era difficile. Intanto aveva acceso il gas e messo del latte a scaldare e preparò pure il caffè in due tazze. Poiché non smetteva di ripetere le stesse cose, il mio amico si girò verso la porta e disse: «Va bene, me ne vado di nuovo». «Adesso siediti, stupido, cosa vai a fare fuori a quest'ora?».

Prese, poi, una scatoletta di macedonia. Aprì anche quella. Fece sedere il figlio e me, ma sempre continuando le sue minacce: «Per me è come se non esistessi, me l'hai fatta troppo grossa», e intanto gli metteva la sedia per la cena (l'aveva preparata dicendo che lui non avrebbe mai più dato un pezzo di pane a un figlio così, nemmeno se lo avesse visto morire di fame).

Accese intanto la sigaretta sedendosi anche lui. Tirò fuori dal portafogli la fotografia della moglie morta, gliela mise davanti: «Tu non ti ricordi nessuno! certo... sei diventato come una pietra...». Silenzio. «E di dov'è che venite adesso?»... Così fu possibile parlare con una certa distensione. Anch'io mi resi conto che il padre non era cattivo. Il mio amico intanto sciacquava le tazze.

Il    padre tirò fuori un gioco di carte e si continuò con la partita. Non ricordo neppure se ho vinto o perso, so soltanto che era così bello giocare; mi sembrava una scena da romanzo, non mi sembrava vero. Essere mandato via di casa era esattamente ciò che meritava quel mio amico, ma essere accolto era la conseguenza logica dell'amore.

SI È CARICATO DEI NOSTRI PECCATI  

L'episodio appena citato è un esempio umano per far intravedere un mistero, il mistero più profondo di Dio. Ma che ne sappiamo noi dell'amore misericordioso di Dio e di come guarda al  peccatore colui che veramente ama?

Voglio raccontare un fatto di cui è stato testimone un prete russo, l'archimandrita Spiridon­e, nei bagni penali della Siberia prima della rivoluzione comunista. Si tratta di un uomo molto ricco, sposato, senza figli, innamoratissimo di sua moglie. L'incontro con un vescovo lo converte alla preghiera: perfino dormendo recitava il Padre Nostro.

Ma bisogna lasciar parlare lui mentre si confes­sa a Spiridone. «Rincasando una sera trovai la moglie stesa a terra, il cuore trafitto, e accanto a lei un amico che l'aveva sempre corteggiata. Egli avrebbe voluto sposarsi con lei, ma essa non l'amava e l'aveva sempre respinto... Alla vista di questo dramma di sangue fui scosso dall'orrore. L'assassino si gettò ai miei piedi, implorando perdono. Sul momento avrei voluto ucciderlo, ma mi ricordai di Cristo e gli dissi: "Va e non fare più osi . Poi andai dalla polizia e dichiarai di aver ucciso mia moglie. Mi processarono e mi tennero in prigione... Vi fu un assassinio nella prigione: Io presi su di me la colpa. Ora sto per andare ai lavori forzati...».

Possiamo trovare assurdo, inaccettabile questo comportamento: come può uno prendere su di sé in questo modo il peccato di un altro? eppure non ha fatto esattamente così il Cristo per tutti noi? non è per questo che il Cristo ci vede ormai in modo diverso, amabili e redenti? Ascoltiamo ancora il nostro prigioniero: «Sapete, padre, Dio mi è testimone, quanto amo i miei fratelli carcerati! Sono tutti simili a degli angeli del buon Dio e Cristo sicuramente li salverà. Quando verrà il giudizio finale, Cristo dirà a tutti i detenuti: miei prigionieri, miei sofferenti, miei piccoli fratelli venite vicino a me! Vi ho preparato nella casa del Padre una dimora speciale, costruita con le vostre sofferenze e con le vostre lacrime brucianti, e voi risplenderete come il sole nel regno del Padre celeste! Padre, vorrei amare tutti gli uomini, vorrei perdonare tutto a tutti e soffrire eternamente per tutti gli uomini...»

Anche un altro, ugualmente ricco e ingiustamente condannato. Aveva impegnato tutti i suoi averi per il riscatto delle prostitute. Accusato ingiustamente dell'uccisione di una di esse, venne condannato. Anche dal carcere, con l'aiuto di un zia, continua a impegnare i suoi beni per loro. La conclusione è sempre la stessa (e ci pare di ascoltare Dio, che parla dei suoi figli  -  i suoi amati figli - peccatori): «Sapete, mio caro padre, non ci sono creature che destino più pietà, che siano più degne della commiserazione di Dio e degli uomini di queste infelici ragazze. Se ho dovuto soffrire, ringrazio nostro Signore; lo ring­razio proprio per aver potuto soffrire per loro... Caro padre, non c'è niente di più doloroso, non c'è persona al mondo che abbia più bisogno di un'attiva carità cristiana di queste donne cadute. Io sono più che mai convinto che esse sono delle martiri sofferenti e che Cristo perdonerà a loro prima che agli altri. Voi non sapete quante volte soffrono la fame, non hanno né camicia né gonna, la maggior parte sono orfane, gettate sulla strada dalla miseria o dalla matrigna, e per un pezzo di pane vendono il loro corpo e intanto vendono anche l'anima. Se ne vedete alcune volgari, malva­ge, sfrontate, di un cinismo spaventevole, sappiate che sono così perché in tutti gli uomini vedono dei tiranni, dei briganti, delle bestie sanguinarie che le straziano con le loro passioni... Ma se voi sapeste quante ce ne sono di dolci, di umili, di sottomesse al loro destino e che se ne vanno docilmente al macello come delle povere pecore».

E ascoltiamo lo stesso Spiridone, che tira le conclusioni della sua esperienza tra i forzati (molti dei quali gli confessavano i delitti e le nefandezze più terribili e sconcertanti): «Una volta entrato in questo mondo, quando sono riuscito ad amarlo fino al sacrificio di me stesso, l'ho visto aprirmi con fiducia la sua anima. Mi concedeva tutta la libertà possibile di scrutare negli angoli più nasco­sti della sua vita intima. E bisogna riconoscere, me lo dimostra l'esperienza ricavata dal mio ministero, che questo mondo di crimini ha molti più ideali, più moralità e perfino più fede di noi che siamo liberi cittadini di una libera società. Ne ho visti passare sotto i miei occhi circa 25.000; spesso li ho confessati, li ho comunicati, li ho persuasi con le mie esortazioni a cambiar vita, a diventare veri figli del vangelo e fra di loro ho trovato delle persone veramente eccezionali» (A. Spiridone, Le mie missioni in Siberia, Gribaudi)

DISCESE AGLI INFERI 

Un'altra parola di coraggio la offre S. Massimo di Torino in un discorso dove dice: «La risurrezione di Cristo apre l'inferno. I neofiti della chiesa rinnovano la terra. Lo Spirito santo dischiude i cieli. L'inferno, ormai spalancato, restituisce i morti. La terra rinnovata rifiorisce dei suoi risorti. Il cielo dischiuso accoglie quanti vi salgono. Anche il ladrone entra in paradiso, mentre i corpi dei santi fanno il loro ingresso nella santa città. I morti ritornano tra i vivi; tutti gli elementi, in virtù della risurrezione di Cristo, si elevano a maggiore dignità. L'inferno restituisce al paradiso quanti teneva prigionieri. La terra invia al cielo quanti nascondeva nelle sue viscere. Il cielo presenta al Signore tutti quelli che ospita. In virtù dell'unica e identica passione del Signore l'anima risale dagli abissi, viene liberata dalla terra e collocata nei cieli».

CHI CREDERÀ SARÀ SALVO 

La mia preghiera, che faccio profondamente con il cuore, è questa: «Signore, io credo che alla fine, a noi tutti, darai la medesima moneta: a chi ha lavorato di più e a chi ha lavorato di meno, a chi ha amato molto, come la Maddalena, e a chi ha amato poco come quel delinquente crocifisso con te.

Però, Signore, se per qualche motivo ci fossero due mondi di eternità, uno per i buoni e uno per i cattivi, Signore, io ti chiedo di poter essere con cattivi, semplicemente perché buono non sono e perché sono sicuro che con i cattivi ci saresti anche tu, e questo mi basta.

Infatti già sulla terra sei venuto per noi che siamo cattivi e non per i buoni, per noi che eravamo perduti, che eravamo malati, e alla fine sarà ancora così, perché il tuo vangelo non cam­bia» (cf. Es 32,32). 

Dopo aver pensato e detto queste cose, voglio in ogni caso gridare davanti al mio Signore: «Ecco, io sono molto piccolo: che cosa posso dire? Mi metto la mano sulla bocca, ho parlato una volta, non replicherò, ho parlato due volte ma non replicherò» (Gb 40).

MEMBRA DEL SUO CORPO 

S. Agostino, commentando l'ascensione del Signore, dice: «Cristo è ormai esaltato al di sopra dei cieli, ma soffre qui in terra tutte le tribolazioni che noi sopportiamo come sue membra. Di questo diede assicurazione facendo sentire quel grido: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" (At 9,4). E cosi pure: "Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare" (Mt 25,35)». 

E lo stesso Agostino in seguito aggiunge: «anche noi siamo lui, per il fatto che egli è il Figlio dell'uomo per noi e noi siamo figli di Dio per lui». 

Nella sofferenza e nella gioia, nella persecuzio­ne, nella tentazione e nel fallimento noi siamo una cosa sola con Gesù. È difficile comprendere come su un volto umano possa riflettere il volto del Signore, specialmente quando la ferita del peccato deforma l'immagine originale. Dio non si scoraggia e ci trasforma sempre più: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesi­ma immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18).

E s. Ilario dice che egli è in noi e noi siamo in lui, dal momento che ciò che noi siamo si trova in Dio.

E s. Clemente I papa, dopo aver detto: «tutto ciò che noi siamo nella totalità del nostro corpo, rimaniamo in Gesù Cristo», raccomanda di pren­dersi cura gli uni degli altri, di aiutarsi tra deboli, forti, ricchi, poveri, sapienti, umili e casti, ciascu­no con i propri doni.

E come in una vertigine sempre più intensa i padri ci sottolineano di guardare a questo nostro corpo come corpo di Cristo.

S. Pietro Crisologo in un discorso ci regala queste parole: «Vi prego per la misericordia di Dio (cf. Rm 12,1). È Paolo che chiede, anzi, è Dio per mezzo di Paolo che chiede, perché vuole essere più amato che temuto. Dio chiede perché vuol essere non tanto Signore, quanto Padre. Il Signore chiede per misericordia, per non punire nel rigore. Ascolta il Signore che chiede: vedete, vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro cuore, le vostre ossa, il vostro sangue. E se temete ciò che è di Dio, perché non amate almeno ciò che è vostro? Se rifuggite dal padrone, perché non ricorrete al congiunto?». 

S. Ireneo, commentando l'apostolo Paolo, con chiarezza e senza equivoci, dice: «Siamo membra del suo corpo, della sua carne, delle sue ossa» (cf. Ef 5,30); e aggiunge: «Queste cose non le dice di un uomo spirituale e invisibile - uno spirito infatti non ha né ossa né carne (cf. Lc 24,39)- ma di un uomo vero, che consta di carne, nervi e ossa». 

È pur vero che i Padri, quando fanno queste riflessioni, pensano soprattutto ai cristiani, ai convertiti, ai «tralci» innestati alla vite, alle «peco­re» dell'unico gregge, ma lo stesso severo S. Agostino fa un passo in avanti e dice: «Sia dunque che si tratti di pecore erranti lontane dal gregge, sia che si tratti di rami recisi dalla vite, non per questo Dio è meno potente per ricondur­re le pecore o per reinnestarle nella vite. Egli infatti è il sommo pastore, egli è il vero agricol­tore». 

Lo stesso Agostino, commentando Ez 34, dice che Dio prende la sua vita a testimonianza per dire che «le pecore sono al sicuro» perché c'è «il Signore che vive».

FU DEPOSTO IN UNA MANGIATOIA 

In una chiesa, dove mi avevano chiesto di  celebrare la messa di Natale, ero riuscito a mettere prima della liturgia un bel po' di paglia e fieno ai piedi dell'ambone. All'inizio della messa ho rassi­curato che non era uno sbaglio; dopo il vangelo ho potuto commentare le letture, poiché gli evangeli­sti non fanno una cronistoria sulla nascita di Gesù, bensì una meditazione.

Anch'io non ho fatto un'esegesi storico-scienti­fica ma popolare, come è stato per la prima comunità; così mi sono servito di quella paglia per spiegare ai ragazzi:

Qualcuno, entrando in chiesa, sarà rimasto almeno preoccupato davanti a un presbiterio così poco natalizio; ma già vi ho assicurato che non si tratta di un errore o di un inconveniente dell'ulti­mo momento: l'ho messo io e se la cosa non va bene vi chiedo scusa.

Comunque mi era venuto in mente un'altra cosa per spiegarmi a voi ragazzi: volevo infatti coprire queste piastrelle anziché di paglia, di letame. Strano che vi trovi così sorpresi! Lo sapete che ci siamo dimenticati che Gesù è nato in una stalla? in una stalla vera, una stalla dove c'erano degli animali veri e del letame vero: era una stalla e soltanto una stalla.

Noi quella stalla, per dimenticare la realtà l'abbiamo fatta diventare una simpatica grotta di cartapesta, una capanna da presepio con le luci che si accendono e si spengono. Abbiamo fatto delle belle capanne traforate in compensato, le abbiamo fatte di gesso con tanti colori, le abbiamo fatte persino di zucchero e di cioccolato. Com'è bella la grotta di Gesù bambino! Com'è simpatico il presepio che crea quell'atmosfera nelle nostre case!

Così siamo riusciti a dimenticare la vera stalla dove c'era il letame e la puzza e il freddo, perché era solo una grotta, ma è là che è nato Gesù, non in quelle scolpite o dipinte dagli artisti o descritte dai poeti.

E sapete, ragazzi, perché Gesù è andato nascere là? Perché la Madonna e Giuseppe, con tutta la buona volontà, non avevano trovato posto migliore; erano poveri, e lo sapete anche voi che i poveri nessuno li vuole. Se questa stessa notte, appena arrivati a casa, arrivasse una donna a suonare il vostro campanello, perché le è preso un malore improvviso, forse le vuole proprio nascere un bambino, che cosa potrebbe capitare a casa vostra? Ebbene, il primo gesto istintivo potrebbe essere quello di chiamar croce rossa, ma questo non tanto per risolve problema di lei, bensì per porre termine al vostro fastidio. Se fosse veramente così, certo in quella casa Gesù non potrebbe nascere.

    Qualcuno penserà che questa è una favola, invece no. Sono pochi giorni che ho trovato questa mamma all'ospedale e mi ha detto: «Mi erano presi dolori fortissimi, sudavo, non riuscivo più ad andare avanti, avevo vergogna a suonare, ma poi l'ho fatto. È venuto un uomo ad aprire, stava per chiudere, ma io sono caduta in mezzo alla porta, è arrivata anche la moglie, erano seccati, hanno subito telefonato alla croce rossa, mi hanno tenuta fuori della porta mentre aspettavo, d'altra parte ero abbastanza sporca e bagnata... »

Come sarebbe stato diverso se l'avessero fatta entrare, se quell'altra mamma che conosceva le sofferenze del parto le avesse detto qualcosa con bontà. Come sarebbe stato diverso se quella mamma, dopo aver telefonato all'ospedale, fosse andata anche lei con la croce rossa, ad aspettare fuori della sala parto perché ci fosse qualcuno a partecipare alla gioia dopo la nascita del bambino. Altrimenti? altrimenti Gesù nascerà altrove e a

noi lascerà i presepi; gli alberi di Natale con tante palline colorate, ci lascerà le nostre torte con gli angeli di zucchero e noi saremo contenti, ma senza Natale, perché, se in casa nostra non c'è posto per i poveri, non c'è posto neanche per lui.

DIO AMA QUELLI CHE AMANO I POVERI 

    L'incontro dell'altro ti interpella sempre. E se la persona che incontri è un povero, egli ti piega al servizio come nella liturgia più solenne, perché ti trovi di fronte a Dio. Servire il povero è servire Dio.

Riporto questo brano di S. Vincenzo de' Paoli che io chiamerei il suo inno di carità: 

«Non dobbiamo regolare il nostro atteggiamento verso i poveri da ciò che appare esternamente in essi e neppure in base alle loro qualità interiori. Dobbiamo piuttosto considerarli al lume della fede. Il Figlio di Dio ha voluto essere povero ed essere rappresentato dai poveri. Nella sua passione non aveva quasi la figura di un uomo; appariva un folle davanti ai gentili, una pietra di scandalo per i giudei; eppure egli si qualifica l'evangelizzatore dei poveri: «Mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio» (Lc 4,18), Dobbiamo entrare in questi sentimenti e fare ciò che Gesù ha fatto: curare i poveri, consolarli, soccorrerli, raccomandarli. Egli stesso volle nascere povero, ricevere nella sua compagnia i poveri, servire i poveri, mettersi al posto dei poveri, fino a dire che il bene o il male che noi faremo ai poveri lo terrà come fatto alla sua persona divina.

Dio ama i poveri, e, per conseguenza, ama quelli che amano i poveri. In realtà, quando si ama molto qualcuno, si porta affetto ai suoi amici e ai suoi servitori. Così abbiamo ragione di sperare che, per amore di essi, Dio amerà anche noi. Quando andiamo a visitarli, cerchiamo di capirli per soffrire con loro, e di metterci nella disposi­zione interiore dell'apostolo che diceva: "Mi sono fatto tutto a tutti" (1 Cor 9,22). Sforziamoci perciò di diventare sensibili alle sofferenze e alle miserie del prossimo. Preghiamo Dio, per questo, che ci doni lo spirito di misericordia e di amore, che ce ne riempia e che ce lo conservi. Il servizio dei poveri deve essere preferito a tutto. Non ci devono essere ritardi. Se nell'ora dell'orazione avete da portare una medicina o un soccorso a un povero, andateci tranquillamente. Offrite a Dio la vostra azione, unendovi l'intenzione dell'ora­zione. Non dovete preoccuparvi e credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato l'orazione. Non è lasciare Dio quando si lascia Dio per Iddio, ossia un opera di Dio per farne un'altra. Se lasciate l'orazione per assistere un povero, sappiate che far questo è servire Dio. La carità è superiore a tutte le regole e tutto deve riferirsi ad essa. È una grande signora: bisogna fare ciò che comanda».

E IL VERBO SI FECE CARNE 

Ci verrebbe da pensare: «Com'è difficile da capire il nostro Dio! Un Dio che si fa uomo, uomo come tanti altri, uno sfortunato bambino sulla paglia in una stalla di Betlemme, un Dio fatto uomo, che muore su una croce come tanti altri.

Allora, per sfuggire alla tentazione di un Dio troppo banalizzato, molti di noi ci siamo fatti di lui un idolo. Un idolo, comunque esso sia, va sempre bene. Ci siamo costruiti un dio su misura dei nostri capricci, un dio solo misericordioso, non giusto; solo risorto, ma non morto; solo re, ma non povero sulla paglia e sul calvario; un dio solo dispensatore di grazie, ma non esigente, che perdona senza chiedere riparazione. E special­mente ci siamo costruiti un dio molto lontano, lassù nel cielo, perché non abbia a interferire minimamente sulla nostra terra.

Ieri sono entrato in una chiesa passando davanti a una donna zingara, anziana (io non la conosce­vo): Era tutta intirizzita per il freddo e vendeva fiori. Mi sono sentito dispensato dall'acquistare i fiori, perché credevo di essere povero anch'io, e poi mi dicevo: «Mica posso risolvere il problema di tutte le vecchiette di Torino, saranno migliaia».

Così sono entrato in chiesa a pregare il mio Dio; ero abbastanza sicuro di me o, meglio, mi sforzavo di sentirmi tale. Io parlavo a lui chiuso nel tabernacolo e poi mi rispondevo, convinto che fosse lui a parlare dentro di me. Mi davo ragione su tutto e, in piena logica, pensavo che fosse lui a darmi ragione.

Com'è bello un dio che tace, un dio chiuso a chiave, un crocifisso che non ci dice altro che questo: «2000 anni fa mi è capitata questa disgrazia!» Come è simpatico questo dio che non ci dice nulla di spiacevole. Capisco, lui non può parlare perché parliamo sempre noi e abbiamo il terrore di fare veramente silenzio; in questo caso parlerebbe il vero Dio che ci può chiedere quello che non vogliamo.

Intanto, ieri, in chiesa, dopo aver lasciato fuori, nella nebbia, la signora a vendere i suoi fiori, cercai di pregare con i salmi e tentai di difendermi dall'ascoltare quel Dio che, fuori del tabernacolo, fuori della chiesa, con la bocca di quella donna, che forse non aveva mai pronunciato il suo nome, mi diceva:

"perché non compra qualche fiore?" Poi continuai a pregare con il cap. 25 di Matteo, ma la conclusione di quel testo fu come un pugnale per me: "tutto quello che non avete fatto a uno di questi (affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati) non lo avete fatto a me. A quel punto il libro di preghiera mi diventò pesante e sentivo ripetere dentro di me il ritornello di quella donna fuori della chiesa:

"perché non compra qualche fiore?" E io cercavo di cacciare via quella distrazione per poter pregare, ma dentro di me sentivo solo quella parola:" un fiore, un fiore! guardi come sono belli!" e non riuscivo a liberarmi da quel:

"perché non compra qualche fiore?" In verità ho cercato di dare qualche risposta al mio comportamento, risposte per il vero molto razionali, da uomo con i piedi per terra, che non si lascia stordire da una qualsiasi banale emotività. ma in quella chiesa non ho resistito molto..ad un certo punto mi sono accorto che il mio vero Dio, per me, in quella chiesa, non c'era; avrei potuto cercarlo non so dove, avrei potuto scardinare la porta del tabernacolo, ma Lui il Signore, non lo avrei trovato. Se non riuscivo a riconoscerlo in una donna viva, come avrei potuto pretendere di riconoscerlo in un pezzo di pane benedetto?"

Allora mi sono deciso, sono uscito ad acquistare il più bel fiore che la vecchietta aveva: era una rosa e la mia pasqua anticipata e' stata questa: un fiore. Poi sono entrato in chiesa per chiedere perdono. Gesù risorto era là che mi aspettava. Sono andato a confessarmi e quel fiore era per me già eucaristia: il pane spezzato con quel Gesù vero, fuori della chiesa. Quella sera rientrando nel mio accampamento, passai vicino a una strada, dove normalmente molte prostitute aspettano e invitano. Altre volte ero passato da quella parte e avevo pregato per loro con una certa commiserazione: "poverine!" e i miei sentimenti erano sempre stati di misericordia e compassione, ma quella compassione di chi sta qualche gradino più in alto e guarda un ferito per terra. Mi ero sempre sentito un poco al di sopra. Ma, quella sera, il mio passare da quella parte si trasformò in una preghiera diversa; guardando nella loro direzione,iniziai la mia preghiera: "Gesù ti adoro", " Cristo, ti adoro", "Signore, io credo che sei presente in ciascuna di esse col tuo corpo, sangue, anima e divinità"', poi le riguardavo: "Gesù, ti adoro" e cosi continuai la mia adorazione passando vicino a chi rincasava proprio a quell'ora e a chi si prendeva la libertà di uscire un poco con gli amici. Da allora quando viaggio nell'autobus o sul rixo, trovandomi alle spalle di qualcuno di cui non vedo il volto, comincia la mia preghiera: "Gesù, ti adoro. Non so se quell'uomo è cristiano, indù, mussulmano o ateo, ma per me non cambia nulla. La mia preghiera può continuare e ripeto decine di volte: "Signore Gesù, ti adoro" perché so di essere  alla sua presenza. Non so se quell'uomo e' un santo, un mediocre o se sta progettando un delitto. In ogni caso so che  Gesù Cristo è esposto dinanzi a me nella fatica, spesso nella tensione, a volte nella rabbia o nella festa di una canzone, libero o incatenato; in ogni caso io posso pregare: "Signore Gesù, ti adoro".

Ma, dopo l'esperienza religiosa che ti indica  il Cristo come un dito puntato, resta ancora lunga strada da fare: decidersi per lui, vedere questo Gesù crocifisso dove realmente è, e non continuare a cercarlo là dove gli possiamo impedire di parlarci.

Forse tutti continuiamo come prima, chi parla e chi ascolta, chi scrive e chi legge. Continuiamo a fuggire, mentre Gesù continua a parlarci e chiederci la decisione per lui: preferiamo continuare come sempre perché costa troppo percorrere la strada del vero Dio. Infatti la strada di Gesù passa sul calvario, tra i poveri, tra gli operai di ultima categoria, tra gli zingari e i baraccati, tra i diseredati, passa anche in casa nostra, nel nostro cuore e lo spacca per aprirlo a tutti.

Ci fa morire, ma opera la risurrezione. Questa è la nostra speranza e la nostra fede e noi non possiamo rischiare di non risorgere. 

TUTTI SIANO UNA COSA SOLA 

       Se ami soltanto quelli che ti amano, che vale? anche gli egoisti sanno far questo.

Riconoscere Cristo in un fratello santo non è difficile; ma riconoscerlo in chi ti odia, in chi ti perseguita, questo è cristianesimo.

Se non fai pace con tutti e ciascuno, non appartieni alla chiesa dì Cristo. Spesso ho inteso dire: «Cristo sì, ma chiesa no!». Come posso accettare Cristo, il Cristo del vangelo, della storia, della fede, e non accettare il Cristo presente nei miei fratelli e quindi nella comunità?

Per un lungo periodo ho fatto un cammino di fede con un giovane che era passato attraverso l'esperienza della droga, della solitudine, poi del­l'amicizia e della fede. Il giorno della cresima fatta a Torino a 19 anni, scrisse la sintesi del suo cammino, dicendo perché sceglieva la chiesa cat­tolica, e perché si sentiva di compromettersi con essa.

       Da questo ragazzo che non aveva fatto partico­lari scuole, non è nata una pagina di letteratura, ma di fede coraggiosa. Riporto il biglietto di annuncio della cresima, cui seguirà la lettera firmata il giorno stesso della confermazione:      

«Oggi riceverò la cresima.

Avrei voluto una cattedrale di montagne

di ghiacciai e un'aurora all'orizzonte.

Avrei voluto essere su un pavimento diverso:

un campo di papaveri e di mimose

e luce e cascate e allodole,

poi guardare fisso nel cielo, nel sole,

abbagliato dalla luce per ricevere

il grande dono dello Spirito.

Signore, quando ero cieco avrei voluto che tu avessi fatto

qualche gesto eccezionalmente grande.

Avrei voluto sentire la tua voce rimbalzare pareti della roccia, sotto il sole, sui fiori, mescolata al canto delle allodole, invece tu hai sputato per terra, hai fatto del fango con la saliva e lo hai messo sui miei occhi, così tutti hanno potuto capire i tuoi segni tanto semplici da sembrare banali.

Signore, oggi sono in una chiesa banale con dei segni semplici e sconcertanti per ricevere te, che sei il Dio dell'universo.

Vieni Spirito santo, io sono qui con le mani vuote e con il desiderio di abbracciarti».

 

Segue la lettera 

Al mio amico.

Signore, io ho bisogno di una comunità in cui sentirmi parte di quella chiesa che tu hai voluto, per farti essere presente, poiché tu hai detto «Dove due o più sono riuniti nel mio nome sono in mezzo a loro». Io credo quello che credi tu, nello stesso tempo non mi sento al di sopra degli altri. Spesso, quando mi trovo di fronte a una mamma che accende la candelina davanti a un'icona, mi viene da ridere, mi sento al di sopra e penso dentro di me: «Che fede bambina!».

Se vedo uno inginocchiato in una chiesa di fronte all'eucaristia, ho la tentazione di restare in piedi. Signore, tu ci dici: «Beato chi non si sarà scanda­lizzato di me». Io mi scandalizzo spesso, però ti voglio dire questo: io non sono al di sopra degli altri, sono uno di loro, io ho bisogno di loro, di «segni», di «sacramenti», come tu avevi previsto per noi, per la nostra debolezza.

Signore, cos'è il segno dell'eucaristia? Com'è la tua presenza nel segno del pane e del vino? Io, Signore, credo tutto ciò che credi tu, quello che volevi dire tu.

Tu hai detto: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue». Io credo alla tua presenza, non penso, oggi, in che modo. Io penso, alla sostanza che tu hai detto, credo che tu sia presente, che tu ci sei là dove c'è quel segno.

Mi inginocchio di fronte al pane e al vino consacrato, perché tu hai detto che lì sei presente, e posso inginoc­chiarmi di fronte ad un bambino che dorme, o davanti a uno che ha appena commesso un delitto, perché tu hai detto che tutto quello che facciamo a un piccolo lo facciamo a te. Signore, se qualche volta mi inginocchio di fronte al vuoto  perché ho paura di sporcarmi gli occhi guardandoti in faccia, accetta anche quella pre­ghiera, ma fa che io ti veda anche qui nel fango. Signore, aprimi gli occhi, fammi capire la strada  che devo percorrere insieme a te (perché in qualsiasi comunità c'è «un pezzo» di te). Quando sento una persona che prega con delle preghiere interminabili e banali, mi viene da pensare: no, io prego in silenzio il Padre in spirito e verità. Signore, a volte ho la tentazione di dire: ringrazio che non sono come gli altri, superficiale, banale, semplice, credulone». Signore Gesù, queste tentazioni sono bestemmie. Io non sono migliore degli altri, voglio farmi uno con questi fratelli e sorelle. A volte mi umilia entrare in una chiesa di mura e vorrei che la mia preghiera fosse pura al punto da non averne bisogno.

Quando ti è stato chiesto: «Gesù, dove dobbiamo adorare Dio, sul monte Garizim o a Gerusalemme?» tu hai risposto: «Verrà il giorno in cui adorerete il Padre in spirito e verità».

Signore, è vero che tu ti ritiravi nel silenzio della montagna a pregare, ma andavi anche nella sinagoga e nel tempio, tutto questo in attesa del  grande tempo del giudizio.

Signore, non ho più paura di compromettermi se ti sei compromesso tu.

Signore, io ci tengo a chiamarmi cristiano. Vorrei una chiesa fatta di santi, dove mi possa sentire orgoglioso di appartenervi; invece tutte le comunità ecclesiali sono piene di peccati. D'altra parte se avessi trovato una chiesa con uomini senza peccati, io non sarei potuto stare là perché sono pieno di peccati, e sarei dovuto venir via. Tu, o Cristo, sei in tutte le chiese cristiane anche nelle comunità che non ti riconoscono, e anche nelle persone che si rifiutano di appartenere a qualsiasi religione. Io vorrei una chiesa pura, magari disincarnata, per non scandalizzarmi di nessuno, per non scandalizzarmi dei paludamenti dei vescovi, delle chiese intarsiate di metal­li preziosi.

O Signore, è vero, vorrei una chiesa disincarnata, fuori dalla carne, dalla carne peccatrice, perché vorrei presentarmi agli altri con credenziali pulite (anche quando io sono sporco) e invece tu mi proponi lo scandalo dell'incarnazione e così, appartenendo ad una chiesa come è la chiesa cattolica, mi dovrò sempre presentare con le credenziali sporche, con la carta d'identità mac­chiata, anche quando mi sento pulito io.

Signore, io sono parte di questa chiesa, che si chiama cattolica universale, si chiama apostolica perché ha tenuto il legame dai primi apostoli all'ultimo vescovo, da Pietro all'ultimo papa.

Ma quante brutte figure! Se la mia carta d'identi­tà porta il nome di cristiano cattolico, questa stessa carta sarà sporca di mille soprusi; sulla mia carta ci saranno i soprusi dei vescovi e dei papi che sono vissuti più come principi che come pastori, ci saranno le macchie dell'inquisizione, dove in nome di Cristo sono state mandate migliaia di persone alla morte. Gli abusi di ogni cattolico che si è appropriato del potere per emarginare e soggiogare gli altri, tutto questo pesa sulla mia carta.

Mi fa paura la mia carta d'identità di cattolico così sporca. Ma mi incoraggia il fatto che la tua carta d'identità, Gesù, era la più sporca di tutte. Perché ci hai fatto cadere sopra le macchie di ogni uomo, comprese le mie. Ti sei presentato di fronte al Padre a chiedere perdono e anch'io mi presenterò così.

Ma io credo che la chiesa cattolica che ho scelto è bella perché ci sei tu dentro, che sei bello; è santa, perché ci sei tu che sei santo; è credibile perché tu sei credibile.

Signore, io ringrazio la chiesa evangelica che mi ha dato la possibilità di iniziare un cammino con te, e ringrazio la chiesa cattolica nella quale maturato tutto questo e con il tuo aiuto professo il credo cattolico fatto mio (non tutto chiaro, molte cose mi saranno chiarite, molte cose le capiranno meglio anche gli altri miei fratelli nella fede, faremo il cammino insieme e lo Spirito di Gesù ci guiderà alla verità attraverso i secoli). Altre cose non le comprenderò mai, resteranno il mistero che si svelerà al momento dell'incontro.

Signore, prega tu in me e diciamo: Io credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e terra; e in Gesù Cristo, suo unico figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito santo, nacque da Maria vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì, fu sepolto, e il terzo giorno risuscitò secondo le Scritture, salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente, di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito santo, la santa chiesa cattolica, la comunione dei santi, il perdono dei peccati, la risurrezione della carne, la «vita eterna». 

Torino, 14 maggio 1978

SIMILE AGLI DEI 

Il nostro atteggiamento di fronte a ogni nostro fratello, deve essere di venerazione, di adorazio­ne: infatti tutti sono materia di questo grande sacramento. Allora ci viene spontaneo di gridare con più stupore del salmista: «Ma che cos'è quest'uomo, perché tu ti ricordi di lui?». Ha voluto farci poco meno degli angeli, simili a degli dei.

Gesù infatti, la stessa sera in cui inaugura l'eucarestia del pane e del vino, indica chiaramen­te davanti a quale eucarestia dovranno anche inginocchiarsi i suoi discepoli, quindi tutti i cristia­ni. Egli si trova a cena con i discepoli, è la vigilia di pasqua. Ed ecco che cosa fa: sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, sapendo che i suoi li aveva amati fino all'impossibile, sapendo che il Padre aveva messo tutte le cose nelle sue mani, e sapendo ancora che veniva da Dio e adesso tornava a lui..., si alzò da tavola, depose il mantello, prese un asciugatoio, mise dell'acqua in un catino e cominciò a lavare i piedi ai suoi discepoli.

Questa pagina che l'evangelista Giovanni ci presenta all'inizio del capitolo 13 è per lo meno sconcertante. Vedere Gesù, il Dio fatto uomo, su una croce, è urtante, ma vederlo inginocchiato davanti ai discepoli è incomprensibile. E se pensiamo che Gesù lava i piedi a chi fra un momento fuggirà per la paura, lava i piedi a chi sta per tradirlo, rinnegarlo, giurando e spergiurando di non conoscerlo; quei piedi li lava, li asciuga: che cosa possiamo ancora pretendere?

Li lava ai buoni e ai cattivi; anzi, proprio in quella circostanza precisa: «non siete tutti più davanti a quell'uomo impuro, già ferito dal peccato di tradimento, Gesù non si tira indietro, lava piedi anche a lui e poi dice: «Se, dunque, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda» (Gv 13,14)

S. Cirillo d'Alessandria commentando la lettera ai Romani dice: «Bisogna che tutti abbiamo gli stessi sentimenti Se un membro soffre, tutte le membra ne soffrono e se un membro viene onorato, tutte membra gioiscano. "Perciò accoglietevi", dice "gli uni gli altri come Cristo accolse voi per la gloria di Dio" (Rm 15,7). Ci accoglieremo vicendevolmente se cercheremo di avere gli stessi sentimenti, sopportando l'uno il peso dell'altro e conservando "l'unità dello spirito nel vincolo della pace" (Ef 4,3). Allo stesso modo Dio ha accolto anche noi in Cristo. Infatti è veritiero colui che disse: Dio ha tanto amato il mondo da dare per noi il Figlio suo (cf. Gv 3,16). Cristo fu sacrificato per la vita di tutti e tutti siamo stati trasferiti dalla morte alla vita e redenti dalla morte e dal peccato».

CHE COS'È L'UOMO? 

Allora un grido: «Che cos 'è l'uomo perché te ne ricordi, o Dio?... L'uomo simile agli angeli, rivesti­to di onore e di gloria» (Sal 8).

Rileggendo queste righe, ho pensato spesse volte a una leggenda di Ulisse. Quest'uomo viveva compiendo imprese su imprese spesso vittoriose, avventure senza numero e tra sofferenza e gloria viveva la vita dei grandi eroi. Ma egli spesso si angosciava, perché sapeva di essere solo un morta­le, un uomo di terra, destinato a morire per sempre come tutti gli altri uomini. Questo era il pensiero comune dei suoi connazionali, nel suo tempo. Egli pensava e pregava spesso gli dei, i fortunati, coloro che vivevano sull'Olimpo, desti­nati a vivere per sempre, eternamente. Un giorno un messaggero dell'Olimpo scese presso di lui e gli disse: «Per tutto ciò che sei e che hai fatto, gli dei hanno deciso di associarti ad essi. Anche tu ti ciberai di ambrosia e vivrai eternamente come uno degli dei!».

Ve lo immaginate Ulisse?! E questa è una leggenda soltanto, ma il Cristo in cui credo è disceso veramente, annunziando che l'Olimpo si è riversato su tutta la terra, che tutti possiamo vivere eternamente nel regno di Dio e il regno di Dio è dentro di noi.

Come è possibile? È il mistero dell'amore! S. Cirillo d'Alessandria, nel commento a Giovanni, dice:

«Siamo chiamati non più uomini solamente, ma anche figli di Dio e uomini celesti. Siamo resi cioè partecipi della natura divina. Tutti siamo una cosa sola col Padre, il Figlio e lo Spirito santo: una cosa sola dico, per l'identità della condizione, la coesione nella carità, la comunione alla santa carne di Cristo e la partecipazione dell'unico Spirito santo». 

E san Paolo grida con più forza. «Sopportatevi a vicenda con amore, cercate di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo Spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (cf. Ef 4,2-6). 

PRESE UN BAMBINO E LO POSE IN MEZZO A LORO 

     Il peccato originale è il peccato di tutti gli uomini e ferisce ogni uomo fin dall'inizio, quando l'umanità cominciò a sbagliare. Se diciamo che «in principio» il peccato non era nell'uomo, diciamo giusto, nel senso che l'uomo, quando emerge dalla volontà di Dio, è proprio questo bambino che dorme, questa bellezza assoluta. È questo stesso bambino che nasce ancora oggi puro dalle mani di Dio. La bellezza del bambino che cresce e diventa adolescente, subisce la stessa evoluzione del seme sepolto che si spacca, per riapparire attraverso una morte, in una nuova vita e quindi in una nuova bellezza: la sua bellezza si dissocia e sarà la vita che segue a ricostruirla.

     Allora, sarà la bellezza costruita da Dio e dall'uomo insieme: una bellezza divina-incarnata, una parola di Dio fatta carne, diventata libertà di dire un sì a Dio.

    Ma proprio durante questa fatica l'uomo soccombe spesso e alla bellezza del bambino che nasce si sostituisce la pesantezza dell'adulto che soffre; per questo diventa spesso difficile intrave­dere il lavoro di Dio nella coscienza e nella libertà umana.

    Mi viene in mente quella ragazza che ho visto oggi sullo svincolo dell'autostrada. Forse aspetta­va da molto tempo, aveva un'espressione stanca; e la sua bellezza? o quell'altro ragazzo che sono andato a trovare in questi giorni al carcere dei minorenni; e la sua bellezza? Gesù è venuto per i malati, non per i sani; ce lo ha detto lui, quindi egli certamente pensa a quella ragazza, a quel ragazzo, ai milioni di giovani e vecchi come loro.

    Sì, è vero, m'incanta la bellezza di un santo, ma è pur vero che mi attrae di più la parziale bellezza di quegli altri. Forse in nessun cuore umano esiste un no totale, libero e cosciente contro Dio ma, se esiste, certamente quell'uomo è il primo a cui Cristo si aggrappa con tutta la forza di un Dio per scuoterlo, per fare di tutto perché si converta, e, se questo non basta, si sostituirà lui ancora una volta davanti al Padre, perché mandi su se medesimo la punizione, la croce, la maledizione e la morte accettata una volta per sempre perché ci sia la risurrezione.

Io credo che Gesù è venuto per i malati, che è morto per loro, quindi per noi. Io credo che possa essere salvato da lui. Io credo nella vita, in quella vita che ci ha meritato lui.

    Per tutto questo, se esistesse un uomo, un giovane, un vecchio, nel cui cuore si fosse inciso un no totale, libero e cosciente contro Dio, cioè un peccato così grande da meritare la morte eterna, è proprio da quei fratello che dovrei andare, amarlo con tutto me stesso e dirgli che lo amo, e dirgli che dopo Dio gli voglio bene più che a ogni altra creatura sulla terra. Come vorrei avere il coraggio di avvicinarmi a lui, anche se fosse stato lo sterminatore di milioni di uomini, e potergli dire: «Amico, mentre tutto il mondo ti bestemmia, ti odia, io sono dalla tua parte, perché Dio è ancora dalla tua parte. Non sono dalla parte del tuo peccato, ma dalla tua parte, perché sei ancora un uomo e Dio è ancora dalla parte degli uomini».

   Tutto questo gli direi perché lui possa ancora credere all'amore, possa ancora credere che qual­cuno lo ama, che lui potrà ancora amare, che lui potrà ancora sperare e credere in un Dio, un Dio sempre più grande del suo peccato. Lo amerei, perché anche lui ha fatto scendere il Figlio di Dio sulla terra.

   Così ha fatto Gesù, così possiamo fare noi.  

UOMO DI DESIDERIO 

     Nel cuore insaziabile del fratello noi sappiamo scorgere solo la libertà impazzita o il risultato dei desideri folli, ma, nella parte più profonda del cuore inappagabile, c'è l'«uomo di desiderio» dell'Apocalisse, c'è la tensione verso Dio; lo stesso desiderio di vivere è partecipazione del bene.

     Si tratta dunque di imparare a rileggere il volto dei nostri imputati, di coloro che noi giudichiamo, condanniamo all'inferno e li chiamiamo raca, diventando così noi medesimi giudici di noi stessi.

     In questi imputati, infatti, lo stesso desiderio di vivere non è forse già una partecipazione alla bontà? La stessa violenza può partecipare al bene quando cerca di migliorare ciò che appare cattivo. E nel dissoluto stesso c'è una partecipazione a bene della comunione e dell'amicizia. Così infatti Dionigi l'Areopagita ha scritto:

«Il dissoluto, privato del bene dal suo irrazionale desiderio, partecipa al bene per mezzo dell'eco indebolita che in lui rimane della comunione dell'amicizia. E ancora, l'ira partecipa al bene attraverso la dinamica che è in essa, per mezzo del desiderio di migliorare ciò che sembra cattivo e di riportarlo a uno stadio che sembra migliore. E pure chi desidera la peggiore delle vite in quanto è desiderio solo di vivere e vivere nel modo che gli sembra il migliore, per il suo desiderio medesimo, per la sua volontà di vivere, per la sua tensione alla vita, partecipa al bene».

     Per deformazione culturale, essendo divenuti esclusivamente «moralisti» e calcolatori scientifici, occidentali, ci siamo assuefatti a leggere le profon­dità umane come delle cartelle di un computer elettronico. Pertanto, se qualcuno ci domanda come leggere l'amore nell'uomo, noi siamo tentati di rispondere: "amore è là dove la cartella trova risposta". Forse è per questo che vediamo poco amore nelle persone: siamo diventati incapaci di leggerlo.

     Una ragazza che si accorge di esistere ed è contenta di quell'istante: come si può chiamare quella gioia così inafferrabile, se non con il nome di amore? Lo sguardo di un adolescente o di un giovane invecchiato da tristi esperienze che riesce a seguire una ragazza mentre passa e si rigira ancora una volta, mentre continua a camminare in avanti, percosso da una scossa erotica; come lo chiami tu quello sguardo?

     Anche l'amore di un omosessuale, nella sua disperata ricerca della gioia di vivere, si avvicina a Dio più dell'indifferente levita che, pur nella gelosa pratica delle leggi, non si accorge più dell'uomo incappato nei briganti e, peggio ancora, lo rifiuta perché giudeo, quindi nemico.

     E ancora in quella ragazza che continua la sua dolorosa e appassionata trafila, mendicando sulla strada esperienze sempre nuove, non trovando mai la luce, ma vedendone sempre e solo i riflessi deviati di essa, là esiste ancora l'amore.

    Una riflessione di Giovanni Climaco ci dice: «Ho veduto delle anime impure, possedute dall'amore della carne fino al furore e alla pazzia, aprirsi al fuoco dell'amore per il Creatore, superando ogni timore di servitù. E questo è il motivo per cui Cristo non disse alla casta peccatrice aveva avuto molto timore ma che aveva avuto molto amore...». 

    In ogni uomo che vive, per il solo fatto che ama ancora la propria esistenza, non è distrutta in lui l'immagine di Dio.

    È certo che l'uomo non è stato creato esperimentare solo il limite dell'amore, questo, semmai è un angoscioso passaggio. L'uomo è  creato per sperimentare l'Amore stesso, è proiettato verso l'Assoluto; perciò quest'amore frustrato e sterile ha tutta la possibilità di diventare fecondo e pertanto di scoprire che solo Dio può rispondere a quel desiderio di bene e di piacere, a quel bisogno di infinito collocato nella passione.

    In ogni caso la violenza del peccato, che può distruggere l'intero universo e può penetrare nelle segrete profondità della creatura umana, non può distruggere Dio che abita nella casa dell'uomo, non può sconsacrare quell'eucarestia che è l'uomo, vero corpo e vero sangue di Cristo.

    Nessuno, sulla terra, si preclude la possibilità di incontrare Dio, anche se quando ti avvicinerai dovrai toglierti i sandali e coprirti il volto.  

IL CANTICO DEI CANTICI 

    Il   discorso sarebbe delittuosamente incompleto qualora si arrestasse e non comprendesse l'esperienza di un amico che, come molti altri, ha deciso di vivere la liberazione. Ha scelto, prima del matrimonio, di camminare nel deserto, alla luce del fuoco e all'ombra della nuvola, per non essere solo in questo esodo dell'adolescenza. In questo cantico dei cantici lui e lei hanno deciso di prepararsi, di maturare il proprio amore, di farlo crescere    senza consumarlo. Non è questo l'atteggiamento di chi vuole razionalizzare l'amore e dosarlo nella provetta dell'alchimista; l'amore non può essere mozzato.

    Semplicemente, pudore e digiuno facilitano la compassione, il rispetto, la venerazione, senza i quali l'anima diviene opaca; non perde certo la bellezza interiore che è Cristo, ma la figura di Cristo stesso in essa perde la sua trasparenza È per questo che penso all'amore nuziale di quegli amici per i quali la pienezza della vita diviene interiore e afferrabile nell'incontro personale e nasce così in essi la possibilità di un amore libero, per cui il tuffo nel mistero della persona umana permette l'immersione nel mistero di Dio.

    Così anche qui, il cantico dei cantici finisce e inizia l'eucaristia: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue: la consacrazione di altro pane e di altro vino diviene realtà, per essere offerta sull'altare tutti i giorni, plasmata dall'amore che non si può spegnere.

    Continuando a discorrere di innamorati, voglio pensare senza commento alle ragazze e ai giovani che ascoltano un maestro là sulla riva del lago: «Chi vuole venire dietro di me... venga.     Se siete disposti a lasciare casa, campi, famiglia, per me, venite. Se vi sentite di iniziare il cammino, senza voltarvi indietro, andiamo. Sappiate che le volpi hanno tane e gli uccelli del cielo hanno nidi, ma io non ho nulla dove posare il capo. Se vi fidate, potete venire e io vi manderò agnelli in mezzo ai lupi, ma senza zaino, né scarpe. Se vi restano delle ricchezze le vendete, date il denaro ai poveri, poi mi seguite. C'è qualcuno? Se c'è qualcuno, alzi la mano».

    Sì, qualcuno c'è: uno, due, tre, tanti.

    Vedere un giovane che abbraccia una ragazza una ragazza, che bacia il suo ragazzo ci dice cos'è l'amore, ma vedere uno che si protende verso la riva del mare, che non abbraccia nessun corpo e sorride, questo è il mistero dell'amore, è la testimonianza che qualcuno non visibile esiste; è la professione di fede nell'eucarestia, dove non esiste più né corpo, né sangue, né pane, né vino; ma Cristo.

FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME 

    Può darsi il caso che tu, fratello, ti trovi isolato in una cella di un monastero o in una cella di prigione o in mezzo al deserto e sei rimasto solo. Questa è probabilmente l'ultima conseguenza delle tue scelte, che paghi al caro prezzo dell'isolamento, prima della morte.

    Ma, se ti è stata tolta la possibilità materiale di comunicare con qualche fratello o sorella che possa riportare davanti a te il volto di Cristo, se a te è rimasta la sola possibilità di adorare il Cristo davanti a un frammento di quel pane, che Gesù stesso ha distribuito ai suoi, se ti è rimasto un frammento di cielo che filtra nella tua cella, un pezzetto di quel sole che sorge sui buoni e su cattivi; o se anche questo ti è tolto, ma è rimasto un po' di terra sulla quale riposi la notte, tu ha tutta la possibilità della comunione universale.

    Ma forse ti resta qualcosa di più; la voce dei carnefici che si avvicinano alla tua cella, il rumore di chi porta un pezzo di pane nella tua cella o il suono dei passi dell'ultimo uomo che è venuto da te per lasciarti solo per sempre. Si, può essere solamente più un suono di passi, il segno davanti al quale puoi deporre la tua adorazione per raccogliere in te la comunione con ogni creatura del mondo.

    Allora, rendendoti conto che il cielo è il medesimo cielo per tutti, il sole il medesimo sole, la terra la medesima terra, ti accorgerai di non essere solo.

    Le stesse inferriate di ferro ti faranno entrare in comunione con milioni di minatori che hanno estratto quel metallo, per vivere essi stessi e le loro famiglie, e con altri uomini che hanno colto il frutto di questo pesante lavoro e ne hanno fatto delle inferriate o catene per te.

    Questo è il mistero dell'uomo che costruisce, e dell'uomo che commette errori; spesso sa rimediare solamente con le catene, perché il prezzo sia pagato da qualcuno, ma tra questi c'è anche chi crede nel mistero della croce e si lascia incatenare egli stesso.

    Proprio quest'uomo, con la sua dinamica e i suoi fallimenti, con la propria libertà, entra nella tua cella e spezza le tue catene.

AVEVO SENTITO PARLARE DI TE: ORA I MIEI OCCHI TI VEDONO  

Un pomeriggio, in autostop, al termine di uno scambio di riflessioni sulla fede, con un uomo che sosteneva di non credere, ho finito per dirgli così: hai ragione. Il dio che tu neghi, di cui ti hanno parlato e del quale ti hanno pure dato dimostrazio­ne non è il vero Dio. Il Dio in cui mi sembra di credere, non so fartelo conoscere con delle parole; sarebbe una delittuosa pretesa. Il solo in grado di parlarti di lui è Gesù stesso, ma tu non hai tempo di fermarti per ascoltarlo.

    Allora continua così, ma prosegui immerso nella storia degli uomini, sposando le loro cause. con le loro lotte, angosce, disperazioni, e conti­nua ad amare e a essere solidale con le vittime dell'ingiustizia, gli sfruttati e le persone che cercano la liberazione; così coinvolto puoi diventare collega di lavoro di Dio stesso. Può darsi che una qualche volta lui ti riveli il suo nome; come può darsi che resti nell'anonimato, ma è certo che vi incontrerete un giorno ed egli potrà dirti: «Sei stato solidale con me»; e tu gli dirai: «quando?». «Tutte le volte - ti risponderà - in cui sei stato solidale con il più piccolo degli uomini, lo sei stato con me».

    Se poi tu ribadirai: «Signore, io avevo sentito parlare di te, ma non ho voluto riconoscerti, mi sono rifiutato di crederti», immagino la sua risposta: «I tuoi fratelli ti parlavano del Dio in cui credevano essi medesimi, tu parlavi loro del Dio in cui non credevi, ma perché entrambi non pensavate al Dio che credeva in voi?: ero io».

L'AMORE E LA LOTTA 

     Se devo mettermi in adorazione di fronte a ogni uomo perché in ciascuno è Dio, mi chiedo ancora: inginocchiarsi di fronte al pane consacrato esposto nella mia chiesetta e inginocchiarmi di fronte a uno che la giustizia umana chiama crimi­nale è la stessa cosa? Io penso che è la stessa cosa. È lo stesso Cristo sull'altare e in quella situazione irriconoscibile, nella persona che si è caricata di tanti crimini. Sì, è ancora lui, il Cristo, presente vivo vero e adorabile. Se un pezzo di pane consacrato cade per terra o nel fango, certo è irriconoscibile, ma è ancora consacrato, e mi posso inginocchiare davanti ad esso, perché l'ap­parenza, lo sporco non distrugge Dio.

     Ma se Cristo è presente nei poveri, nei miserabili, negli ergastolani, e lo è allo stesso modo nei ricchi, in chi detiene il potere, nasce un grave interrogativo: quale spazio può avere la rivoluzio­ne dei poveri? che spazio ha la lotta di classe? Non si può rischiare che la fede in Dio diventi un sonnifero per la gente?

Penso che si può e si deve lottare. I poveri, gli oppressi, gli emarginati, gli schiavi... possono trovare la strada della liberazione e del riscatto, anche attraverso la lotta. Quello che occorre è che si sappia lottare senza odiare. Lotta di classe non coincide con odio di classe. Alcuni hanno parlato e continuano a parlare di lotta come amore. Una cosa è certa ed evidente come una pagina del vangelo: che non si può odiare nessuno. È lo stesso vangelo a chiederlo in tutto il suo messag­gio. Non abbiamo il diritto di odiare nessuno, nemmeno le persone con le quali ci possiamo trovare a dover lottare. Anzi, dobbiamo amare quelle persone.

    Quando Gesù salì al tempio e rovesciò ogni cosa in quel mercato, e con la frusta fece uno scempio tra le cose e la gente, e quando Gesù -ancora - ha gridato contro i suoi fratelli duri di cervello e di cuore: «Razza di vipere, sepolcri imbiancati!», in tutte queste situazioni non ha odiato nessuno, ma soltanto amato. Ha detto queste cose e sferzato quella gente, per amore e con amore. Altrimenti Gesù stesso non sarebbe più comprensibile. Se avesse odiato anche una volta sola o se avesse amato di meno quei fratelli, non potremmo capire Gesù.

    Noi possiamo dunque intraprendere una lotta con degli oppressori. Si pone però un problema. Se l'oppressore è anch'egli consacrato corpo e sangue di Cristo, se in lui è Dio, come è possibile combattere contro di lui, senza combattere contro il Cristo, contro Dio?

Dio è certo in lui e in lui può essere incatenato dal suo egoismo, dal suo male. Allora è lo stesso Cristo che dentro di lui combatte e grida un no al peccato e all'oppressione. Possiamo dunque com­battere contro gli oppressori, perché si spezzino le catene e il Cristo che è in loro venga liberato ed essi si convertano e comincino ad amare. La sola cosa che ci è impedita è odiare. Anche se intraprendo la rivoluzione contro qualcuno, questa rivoluzione stessa deve essere cosciente in me al punto di permettermi di combattere amando.

    Certo, si può scegliere la non violenza, pagan­do di persona ogni conseguenza sulla propria pelle, ma se la coscienza chiede di andare oltre, la stessa coscienza non potrà mai chiedere di non amare qualcuno.

    E se la rivoluzione diventa rivoluzione armata? No, non uccidere nessuno, perché anche quando uccidi per non morire, per difesa, in realtà muore sempre qualcuno, e con quale autorità puoi tu fare questo? Io dico che solo Dio ha autorità sulla vita e sulla morte e se vuole può lui stesso togliere di mezzo l'oppressore. Ma oggi mi resta una sola parola da aggiungere, anzi, una preghiera, un grido: Dio mio, Dio mio, puoi tu addossare all'uomo il compito di uccidere, quando tu stesso hai comandato: non uccidere?

    Però oso aggiungere questo: se la tua coscien­za, forse una coscienza sanguinante e distorta, ti chiedesse di fare una rivoluzione armata per difendere i tuoi poveri di cui tu puoi fare parte, anche in quel caso non avresti il diritto di odiare. Dovresti trovare dentro dite la capacità e la forza, forse non più umana, di uccidere amando, altri­menti non puoi farlo come cristiano. E se questo non è possibile, non devi uccidere.

    Riporto poche righe di una lettera che scrissi a un amico che era partito per l'America latina, disposto a difendere i suoi con ogni mezzo, comprese le armi. «...Carissimo, lo sai che io non capisco nulla della guerra, ma so che tu continui a leggere il vangelo come me. Quando ti trovi sul fronte militare e sei senza eucarestia, fa adorazione di fronte al fratello militare che ti è vicino: in lui Cristo è presente, lo sai, ne abbiamo parlato insieme tante volte; ma di tanto in tanto, per prendere coscienza di tutto ciò che state facendo, rivolgiti anche verso il confine, dove sono concentrati «gli altri», continua la tua adorazione, fino a quando la tua coscienza, bruciata dal fuoco di pentecoste esploderà in una nuova creazione». 

IL PANE E IL VINO 

   Da questi pochi appunti nasce una filosofia della vita e un'antropologia nuova. Ne nasce un grande impegno: amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore. In te e nel fratello troverai il cuore di Dio e contemplando nel silenzio il Dio degli uomini, il Dio invisibile, vedrai il vero volto dell'uomo. Per tutto questo non è sufficiente la preghiera sul treno, alla stazione, passando nella strada e attendendo negli uffici. Bisogna sostare a lungo nella propria stanza, nel segreto.

   Ogni giorno devo piegarmi, di fronte a quel pezzo di pane spezzato in segno della sua presen­za, per aiutare il mio cuore a contemplare nella gratuità del tempo, il creatore della storia.

   Devo celebrare l'eucaristia, offrire, chiedere, ringraziare, lodare, cantare le preghiere della chiesa, da solo o con la comunità, altrimenti finirò per non riconoscere più questo Cristo di strada, di mondo, di fango.

   Se non c'è l'adorazione nel silenzio, la preghie­ra, la contemplazione nel deserto davanti all'altare della mia chiesa, Cristo diventerà sempre più un'idea, un pensiero, un fantasma e basta.

Se guarderò sempre e solo alla terra finirò per credere soltanto in essa.

PREGHIERA 

L'EUCARISTIA DEL FRATELLO        

Era il 26 novembre e nella stazione di Zagabria si stava caldi e non era un problema passarvi la notte. Non ero molto stanco perché avevo dormito in treno. Aprii il breviario per la preghiera di compieta.

Mi ero seduto accanto a uno zingaro del Wuko­merec che, essendosi ubriacato forse più del solito, non era riuscito a rientrare ed era là, accasciato su se stesso con la testa bassa. Lo conoscevo solo di vista. Lui mi guardò, borbottò qualcosa e tornò a dormire. Non avevo ancora celebrato messa. Ero senza pane e senza vino. Avevo solo del the in un termos.

C'erano tanti uomini e donne in quel grande salone. Molti erano visibilmente chiusi nella pro­pria disperazione, non guardavano in faccia gli altri e non volevano essere guardati. Avevo l'eucari­stia esposta davanti a me nel corpo e sangue di tutti quei fratelli e sorelle. Potevo fare adorazione, mi mancava però la «celebrazione» dell'eucaristia stessa.

Sedetti di fronte allo zingaro. Mi raccolsi, cercando di fare silenzio dentro di me e da ultimo pregai con la «compieta», la preghiera della sera. 

Era giovedì, salmo 15.

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice, nelle tue mani è la mia vita: continuavo a guardare quello zingaro che era davanti a me. Il mio Signore era là, era la mia eredità, e il mio calice era pronto. 

Per me la sorte è caduta in luoghi deliziosi, la mia eredità è magnifica: non c'era luogo migliore di quello. Mi era toccato in sorte il Signore stesso nella presenza del mio fratello di fronte al quale facevo adorazione. 

Benedico il Signore che mi ha dato consiglio, anche di notte il mio cuore mi istruisce: e pensavo a quella stessa notte. 

Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia destra, non posso vacillare: il Signore era proprio posto davanti a me, alla mia destra, e io mi sentivo sicuro. 

Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra: quella sera mi indicò con più forza il sentiero della vita. Ed era la gioia della sua presenza viva e vera in quell'uomo davanti a me. 

Conclusi le preghiere della sera. Ormai era tardi, iniziai così la messa, davanti a quello zinga­ro, anziché davanti al pane azzimo e al vino. Feci le letture: il primo capitolo della Genesi, alcuni versetti della prima lettera ai Corinti e il capitolo 25 di Matteo e riflettei per alcuni minuti, poi proseguii con l'«offertorio», e dissi: 

Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo,

dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo dono,

è un corpo umano.

Questo è tra i più belli e grandi dei tuoi doni.

Egli è frutto della terra,

della gioia e della sofferenza,

e in primo luogo del tuo amore.

Lo presentiamo a te

perché diventi per noi ciò che è già per te.

Diventi per noi comunione di salvezza

e ciascuno di noi sappia riconoscerlo.

Benedetto nei secoli il Signore. 

Mi rivolsi poi a quell'assemblea muta, che non si era accorta di ciò che facevo e gridai con il cuore: 

Pregate,

fratelli e sorelle,

perché il mio e vostro sacrificio

sia gradito a Dio Padre onnipotente. 

Tacquero. Si intese solo il rumore di qualche bottiglia. Alcuni entrarono, altri uscirono,  ma io raccolsi entro di me la risposta: 

Il  Signore riceva dalle tue mani

questo sacrificio vivo e santo

per il bene nostro e di tutta la sua santa chiesa,

la chiesa di tutti gli uomini.

 

Il Signore sia con voi

E con il tuo spirito

In alto i nostri cuori

Sono rivolti al Signore

Rendiamo grazie al Signore nostro Dio

È cosa buona e giusta. 

Era veramente cosa buona e giusta. Raccolsi tutte le mie forze e recitai la mia preghiera di lode e di ringraziamento. 

Grazie, Padre, per tutto ciò che è attorno a noi,

per l'assoluto che sei tu

e per il limite che siamo noi.

O Padre, siamo il tuo confine,

là dove tu finisci e ricominci

il canto della tua esistenza,

della tua grandezza e della tua bellezza.

E quando noi abbiamo interrotto

il canto della libertà,

tu, o Padre, non ci hai lasciato nel silenzio

della disperazione e dell'inferno,

ma hai mandato a noi Gesù Cristo,

il quale ci ha riproposto il canto

che tu stesso ci avevi insegnato.

Questo stesso Gesù prese l'umanità

fra le mani

e benedisse quella carne

che tu stesso avevi consacrato e disse:

«Ogni volta che farete qualcosa anche al più piccolo dei miei fratelli,

l'avete fatto a me»;

poi, prese un bambino, lo pose in mezzo e ripetè:

«Ogni volta che accogliete

uno di questi piccoli

voi accogliete me».

Così, Padre,

abbiamo riconosciuto la tua gloria

sul volto di ciascuno di loro,

poiché Gesù la rese

particolarmente visibile

nella sua persona di Figlio,

per questo i tuoi figli

inneggiarono il canto della liberazione

ai quali ci uniamo per gridare:

«Santo, santo, santo il Signore

Dio dell'universo,

i cieli e la terra sono pieni della tua gloria.

Osanna nei cieli e sulla terra.

Benedetto colui che viene

nel nome del Signore.

Osanna nei cieli e sulla terra.

 

Proseguii con il canone. Stesi le mani in avanti e dissi: 

Padre veramente santo e fonte

di ogni santità,

santifica questo dono,

mandando il tuo Spirito

perché diventi per noi il corpo e il sangue

di Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore. 

Certo, lo era già corpo e sangue di Cristo, ma io avevo sempre più bisogno che lo diventasse per me, per me e per gli altri. Per questo bisognava ancora pregare, consacrare e benedire.

E proseguii con la preghiera di «consacrazione». 

Un giorno Gesù prese un bambino,

lo pose in mezzo e disse:

«tutto quello che avete fatto

al più piccolo dei miei fratelli

l'avete fatto a me». 

Sostai in adorazione e continuai: 

Mentre Gesù stava seduto

sul monte degli ulivi

parlò del compimento finale

e del giudizio di Dio e disse:

«Ho avuto fame

e mi avete dato da mangiare,

ho avuto sete e mi avete dato da bere,

ero forestiero e mi avete ospitato,

nudo e mi avete vestito,

malato e mi avete visitato,

carcerato e siete venuti a trovarmi.

In verità vi dico:

ogni volta che avete fatto queste cose

a uno solo di questi miei fratelli più piccoli,

l'avete fatto a me». 

Non ero capace di sollevare quell'uomo con le mani, lo feci col cuore e proseguii: 

Mistero della fede.

Annunciamo la tua morte,

Signore, che continua in questi fratelli.

Proclamiamo la tua risurrezione,

che ha riscattato definitivamente ciascuno,

nell'attesa delta tua venuta. 

Ormai, la cattedrale in cui ero,. era diventata silenziosa e io continuai a celebrare. 

Celebrando il memoriale

della morte e resurrezione di tuo Figlio

morto per la nostra salvezza,

gloriosamente risorto e asceso al cielo,

nell'attesa della sua venuta nella gloria,

ti offriamo questo sacrificio vivo e santo

per ringraziarti.

Guarda con amore

e riconosci nella tua chiesa universale

e in questa piccola chiesa

nella stazione di Zagabria,

la vittima pura, santa, immacolata,

corpo santo dell'eterna salvezza.

Ricordati, Padre, della tua chiesa

diffusa su tutta la terra,

rendila perfetta nell'amore

in unione al nostro papa, al vescovo, ai preti

e a tutto il mondo che tu hai redento.

Ricordati dei nostri fratelli defunti:

i poveri e i ricchi, i mistici e gli indemoniati,

ammettili a godere la luce del tuo volto.

E di noi tutti abbi misericordia.

Donaci di aver parte alla vita eterna,

insieme a Maria, la madre di Gesù,

gli apostoli, i santi

e tutti gli uomini di buona e di cattiva volontà,

che in ogni tempo ti furono graditi

e in Gesù Cristo tuo Figlio

canteremo la tua gloria. 

Per Cristo, con Cristo e in Cristo,

a te Dio Padre onnipotente,

nell'unità dello Spirito santo

ogni onore e gloria

per tutti i secoli dei secoli.

Amen. 

Qualcuno si era messo a gridare, ma non mi aveva disturbato ed era entrato così in maniera più viva nella nostra eucaristia. 

Obbedienti al comando del Salvatore e formati al suo divino insegnamento osiamo dire, con la bocca a terra, osiamo con le labbra impure, osiamo con il cuore carico di peccato, sperando che nessuno si vergogni di averci per fratelli, poiché non si è vergognato Gesù, osiamo dire: 

Padre nostro che sei nei cieli,

sia santificato il tuo nome,

venga il tuo regno,

sia fatta la tua volontà

come in cielo così in terra.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano,

rimetti a noi i nostri debiti

come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

Non c'indurre in tentazione,

ma liberaci dal male. 

Liberaci, Signore, da tutti i mali, concedi benigno la pace ai nostri giorni e con l'aiuto della tua misericordia saremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni paura, nell'attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore, Gesù Cristo. 

Il coro era sempre più forte: 

Tuo è il regno, tua la potenza

e la gloria nei secoli. 

Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: vi lascio la pace, vi do la mia pace, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua chiesa. 

Sì, guarda alla fede della tua chiesa.

La tua chiesa è fedele,

perché in essa ci sei tu Cristo che sei fedele.

La tua chiesa è bella

perché in essa ci sei tu che sei bello.

La tua chiesa è credibile,

perché in essa ci sei tu che sei credibile.

La tua chiesa è santa

perché ci sei tu che sei santo.

Guarda dunque alla bontà di questa chiesa

e dona unità e pace,

tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. 

Guardai tutti, uno per uno e: 

La pace del Signore sia sempre con voi

E con il tuo spirito 

Ho cercato di risistemare un uomo che era cascato sul fianco in una posizione che doveva stancarlo, anziché riposarlo, perché potesse avere ancora un poco di «pace» anche lui. Forse si spaventò e lanciò un urlo. Non compresi ciò che disse. È probabile che abbia pensato a un tentativo di furto. Tornai a posto e continuai davanti al mio zingaro così crocifisso e abbandonato come un agnello sgozzato: 

Beati gli invitati del Signore;

ecco Gesù, l'Agnello di Dio

che toglie i peccati del mondo:

O Signore, tu adesso dormi e sei ubriaco,

come posso fare comunione con te,

la comunione con la vittima offerta,

la comunione con il santo sacrificio dell'altare? 

Ho preso il termos del thè, mi sono avvicinato allo zingaro, l'ho svegliato a fatica e chiesto se voleva del thè caldo. Non rifiutò. Mi sembrò contento più per l'attenzione che per il thè stesso. Ne diedi a un altro vicino e bevvi quello che era rimasto. Avevo fatto anche «comunione».

Canticchiai la preghiera di Francesco: «Dove c'è odio ch'io porti l'amore»...

  

Preghiera dopo la "comunione" 

Signore, ora mi sento in comunione con tutti i fratelli e le sorelle del mondo.

Ora credo che tu sei dentro di me e, per lo stesso dono di questa fede, io abbraccio tutti i cattivi come me e i buoni, i ricchi e i poveri, gli inseriti e gli emarginati, i lavoratori e i disoccupati, coloro che soffrono, che muoiono, che cantano.

Abbracciando te, o Cristo, abbraccio gli omicidi, coloro che cercano di sopprimersi, i drogati, i missionari, le prostitute, le missionarie, le mam­me, i papà, gli omosessuali, i santi, i ladri, gli apostoli, i ricettatori. Abbraccio il loro corpo e il loro sangue in questa smisurata comunione che mi concedi. 

AMEN