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«Padre, prima di venire all’eremo, sono stato svegliato un mattino dal grido di una donna. La figlia era arrivata in ospedale per il parto. Ora lei e il bambino sono morti. Il mistero della sofferenza, che mi ha sollecitato centinaia di interrogativi, pressappoco con le risposte che provocavano altre domande, torna ancora oggi in quel grido. Com’è possibile che, nonostante le vostre parole di saggezza, rimanga confuso? Forse perché la sofferenza non si spiega con la saggezza? ».
«Vedi, c’è una sofferenza ‘pedagogica’, che invade la vita sotto forma di punizione: “Viaggiavo con la moto a velocità elevata e adesso, dopo l’incidente, sono in ospedale a pezzi; Una dose di droga mi ha soddisfatto per diversi anni, ora sono in fin di vita; Ho sbagliato, adesso soffro per non sbagliare più.
Ma che dire del bimbo di quattro anni, peribronchitico cronico, con gravi crisi di soffocamento, che dice alla mamma: “Perché gli altri bambini stanno bene e io mi sento sempre soffocare?”».
«Se non potessi guardare quel crocifisso da cristiano, come potrei trovare risposte? Lui, l’Innocente, che agonizza e muore. Eppure, ritornando al nostro quotidiano, se la sofferenza non venisse a mescolarsi con la gioia, il piacere, il gusto di assaporare la vita, respirare, nutrirsi, riposare, forse ci incolleremmo talmente alla terra che non avremmo più la forza di guardare verso il cielo. Se i nostri occhi fossero sempre appagati di vedere tutto ciò che desiderano, dove potremmo trovare la forza di sforzarci a vedere l’Invisibile?
Se non fossimo colpiti dalla sofferenza o dalla morte, in noi o in chi ci sta accanto, e per questo ci convincessimo che tutto ci è dovuto e di tutto abbiamo diritto, come potrebbe nascere in noi il senso della gratitudine a Dio che ha inventato la vita, ai genitori che si sono resi disponibili a farsi portatori di questo dono per me e per i fratelli che, in modi diversi, contribuiscono ad alimentare la vita stessa?
E poiché solo con la morte ci stacchiamo definitivamente dalla materia e possiamo finalmente vedere il volto di Dio, non è forse la sofferenza – un pezzo di morte – a permetterci di entrare più in comunione con quel Volto santo?
Non è infatti con la sofferenza che gli occhi si scollano un poco dal corpo per intravedere l’Invisibile? Non è sempre attraverso il dolore che le orecchie si chiudono un poco ai rumori assordanti della terra per sentire più vicino, almeno in parte, quella Parola, la Parola di Dio? E, ancora, con la sofferenza il cuore non sente forse l’insoddisfazione di amori, sentimenti, affetti, passioni, che non gli bastano più, tanto da dirigersi verso il vero Amante della sua vita? Non è attraverso le ferite che l’uomo si affaccia all’orizzonte trascendentale del proprio essere e intravede Dio stesso?».
«Ma perché quella madre e suo figlio quel mattino sono morti? Sofferenza inutile, che nessuno ha raccolto?».
Ma, se anche nessuno avesse sentito il pianto di quella donna, esso si sarebbe unito ai chiodi di Cristo e là avrebbe trovato il suo senso. Se, di fronte al dolore, non hai un crocifisso a cui guardare, potrà aiutarti il versetto del Salmo 48: “L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono”, ovvero “nella sofferenza l’essere umano intende e diventa sempre più uomo e donna”. Perciò, se la sofferenza mi renderà più maturo anche solo nell’ultimo istante della mia vita, riconoscerò che è diverso morire ruggendo o gridando: soltanto la persona umana, infatti, può gridare».
Gesù ci ha fatto capire che l’amore unito a ogni dolore e fatica umana è la cura per guarire le ferite del peccato. E, anche se gli uomini spesso non sanno amare, almeno possono consegnare all’umanità le loro lacrime come contributo per la Salvezza. Ed è bene ricordare che tutte le lacrime, anche quelle dei disperati, sono contributo per la Salvezza. Sulla croce, facendo suo il grido del salmista disperato, Gesù, che si sente abbandonato da Dio, ci dice che anche tutte quelle grida sono per la guarigione del mondo, per la Salvezza. Nessuna lacrima viene sprecata da qualunque parte venga».
«Vedi, Teofilo, la nostra sofferenza guarisce il cuore da ogni egoismo, ci fa sentire solidali con quella accanto a noi e ci stimola ad aiutarci, ad amarci di più, per guarire insieme nella Carità. Si è parlato molto di tutto lo scandalo e l’indignazione suscitati nel cuore di tante persone sensibili dai campi di concentramento nazisti del XX secolo, indignazione contro gli uomini e contro Dio stesso.
Si sono però dimenticati i milioni di azioni d’amore e di solidarietà anche eroiche, avvenute proprio in quei luoghi di morte, che non sarebbero mai esplose in quei cuori umani. Cito a braccio il commento di un rabbino al grido: “Dopo Auschwitz non è più possibile parlare di Dio”: secondo un testimone, una delle guardie del campo di concentramento, di fronte a un gruppo che stava spogliandosi per entrare subito dopo nella camera a gas, sentì nel suo intimo una voce chiara che gli diceva: “Spogliati anche tu ed entra con loro”. Probabilmente sentì la voce più di una volta, visto che ha potuto confidare il suo sentimento a un collega. E, mentre i condannati si spogliavano, l’ha fatto anche lui ed è entrato nella camera con tutti gli altri. Il Rabbino concludeva che, se l’amore esiste, esiste anche Dio e, se anche un solo figlio della Germania è stato capace di spogliarsi ed entrare per solidarietà a morire con degli Ebrei condannati, è segno che Dio esiste.
Forse conosciamo di più la testimonianza di Massimiliano Kolbe, che offrì la sua vita per salvare quella di un prigioniero sposato e padre di famiglia che, condannato a morte, aveva gridato: “Oh, mia moglie e i miei figli!”. Massimiliano lo sostituì morendo al posto suo. La guardia del campo di concentramento e Massimiliano avevano capito che la solidarietà e, quindi l’amore, può pretendere qualunque sofferenza e anche la morte.
Don Oreste non era ancora rientrato in casa dopo il funerale di una sua sorella, quando gli diedero la notizia della morte dell’ultima sorella, travolta in un incidente. Si fermò per un istante, poi, con calma, disse: “Tutto è Grazia”. Certo, non sappiamo perché è avvenuto così e perché Dio ha voluto amarci in quel modo, però se siamo cristiani sappiamo che il buon Dio ci ama solo e sempre.
Una giovane sinta piemontese salutò il fidanzato dopo un breve incontro della sera. Si sarebbero sposati l’indomani mattina ma, dopo un’ora, giunse la notizia: lui non c’era più. Si era schiantato con la moto. La ragazza riuscì a dire: “Se Lui ha deciso così, Lui sa il perché”. Pianto sì, ma non disperazione.
Un amico mi confidò: “Ero sopra un pulmino, quando un camion si schiantò contro di noi. Pensa quanto è stato buono Dio con me. Su dieci, sono stato l’unico sopravvissuto”. Dopo un momento, gli ho domandato: “Tu dici che Dio è stato buono, ma i parenti degli altri nove cos’hanno detto? Per essi Dio è stato forse cattivo? Caro amico, non dimenticare che Dio è sempre e solo buono. Intanto non toglie mai la vita, ma ci cambia solo di casa. Lui è il Dio della vita, prima che della morte ed è Dio della vita anche dopo. La morte c’è solo per noi, che vediamo una porta chiudersi e la persona amata sparire”.
Dice San Filippo Neri: “Quando il Signore ti offre una croce, prima la guarda bene, poi la misura e la pesa, affinché non sia un millimetro più lunga, né un grammo più pesante di quanto tu possa portare, poi guarda al tuo coraggio e infine te la consegna. A te solo più il dovere di ringraziare”».
«Padre, non mi è ancora chiaro perché Dio permette la sofferenza al giusto».
«Lo Spirito Santo, caro Teofilo, ci santifica con il dono della Fede, della Speranza e della Carità e la via privilegiata per entrare in noi è appunto attraverso le nostre ferite. Dio non ha bisogno della nostra sofferenza, come non ha bisogno di nessun sacrificio. Siamo noi che abbiamo bisogno di sofferenza e sacrificio. La sofferenza è la medicina che guarisce le cicatrici lasciate in noi dalla pigrizia di fare il bene (ossia dal peccato), e non solo in noi come singoli, ma in noi come corpo unico, unito a Gesù stesso. La nostra pigrizia di fare il bene, la nostra umanità ancora in incubatrice sono state perdonate da Dio stesso, ma i segni dell’immaturità rimangono come ferite profonde e come tutte le ferite sono dolorose.
È bene ricordare, a questo punto, che quando l’uomo compie un crimine lo fa sempre per ottenere una gioia, che può essere un’esplosione di rabbia, una passione consumata, l’appropriarsi di qualcosa che non gli appartiene per la soddisfazione del proprio io, la mancanza di rispetto ai genitori o agli anziani per soddisfare dei capricci personali, l’abbandono della preghiera per soddisfare la pigrizia o una falsità pronunciata per mantenere il proprio onore e rispettabilità sociale, una maledizione a Dio per non sentirsi in dovere di fare la sua volontà: l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Ebbene, bisogna ribadire che tutte queste azioni sono cercate per una qualche gioia o meglio per un piacere, ma tutte, veramente tutte queste azioni producono ferite dolorose lasciando un grande amaro dentro il cuore.
Quindi, la ferita lasciata dal peccato è dolorosa. Poi la convivenza sociale, il bene in noi che abbiamo pur ereditato e Dio stesso si dovranno incaricare di curare le nostre ferite per guarirci. Questa sofferenza generalmente si traduce in senso di colpa, angoscia, delusione, mentre la sofferenza che abbiamo provocato nell’altro si ritorce contro di noi lasciando tanto amaro. Da ultimo, anche la punizione che una seria società impartisce e Dio stesso che ci visita con le sue prove contribuiscono alla guarigione del peccatore.
Quando accettiamo la sofferenza come medicina per le ferite personali e del mondo, ci rendiamo conto della preziosità di questo dono. E il sacrificio, il digiuno, la rinuncia sono un bisogno per noi! Significa spogliarci di qualcosa, di una preziosità per farla sacra, cioè renderla non più utilizzabile da parte nostra offrendola a Dio. In realtà, l’oggetto sacrificato a Dio era già di Dio stesso, ma noi lo stavamo utilizzando come nostro, mentre ora lo riconsegniamo a Lui.
Appena l’essere umano è diventato tale con la coscienza di essere un ‘Io’ in relazione con tutto ciò che esiste fuori di lui e quindi ha potuto rendersi conto che Qualcuno – l’Invisibile – guidava la sua storia, ha iniziato ad offrire sacrifici in segno di gratitudine, di espiazione e, in particolare, come richiesta di protezione. Normalmente il sacrificio consisteva nel privarsi di un bene che veniva offerto alla divinità bruciandolo».
«Certo, ma oggi che senso può avere la parola ‘sacrificio’? ».
«Sembra una parola ormai in disuso, ma in realtà non è scomparsa dal nostro cammino di spiritualità. Nel sacrificio posso privarmi di una piccola o grande cosa: a un bambino spiego che si può sacrificare un frutto non mangiandolo più, ma offrendolo a un povero. Allo stesso modo, posso sacrificare il denaro che non userò più per me, ma che sarà consegnato in beneficenza.
E tutto ciò è gradito a Dio non perché ci fa soffrire, ma perché fa bene a noi, curando le ferite dei nostri attaccamenti, del nostro egoismo, in una parola della nostra pigrizia nel fare il bene, che chiamiamo ‘peccato’, nostro e del mondo. Ma peccato è pure l’immaturità dell’umanità che sta crescendo in noi e che, per crescere come il chicco di grano sotto terra, ha bisogno di spaccarsi, marcire e, se avesse coscienza, anche soffrire».
Il mattino seguente, Teofilo e lo starez iniziarono la giornata con questa preghiera:
Signore, tu hai dato la vita per noi e vuoi che anche noi
diamo la vita per gli altri. In che modo? Se vuoi su una
croce, oppure ora per ora, tutti i giorni potrò dare una
goccia di sudore, una lacrima o una goccia di sangue.
Oggi inizierò la giornata che ancora una volta ti chiedo
di regalarmi. Benedici il mio lavoro:
è attraverso questo che oggi darò un pezzo della mia vita.
Fa che non consumi questo dono per me, ma per gli altri.
Dopo qualche tempo, i due monaci ripresero la riflessione, che non ritenevano sufficientemente approfondita. Era sempre Teofilo a riportare i dubbi e le pene della sua ricerca.
«Padre, abbiamo parlato di sofferenza, sacrificio, immaturità e per me continua ad essere difficile capire cosa voglia Nostro Signore. Vediamo che Dio ha delle preferenze e proprio per coloro che chiamiamo ‘peccatori’, i più immaturi nel mondo».
«Dio Padre è misericordioso e perdona tutto a tutti ma, per ciò che riguarda le conseguenze della nostra pigrizia nel fare il bene, sembra chiaro che esse vengono curate dalla medicina del dolore. Perciò ogni male fisico del corpo, ogni sofferenza dell’anima, ogni prova, ogni umiliazione, ogni scarnificazione dell’anima e del corpo, tutto è medicina che, nel progetto di Dio, la stessa natura ci somministra per curare le conseguenze della nostra immaturità. Siamo un corpo unico, per cui ogni individuo soffre non solo per i propri sbagli, ma per quelli del corpo intero».
«Padre, se posso interrompere chiederei una luce: se il peccato è pazzia, immaturità, pigrizia di fare il bene e se chi lo compie non ha nemmeno il senso di responsabilità che spesso gli attribuiamo, perché dunque i suoi effetti devono essere così devastanti? Basta pensare a tutte le forme di violenza e di guerra che lasciano le ferite profonde di cui mi avete parlato e che si concludono nella morte».
«Ogni azione che chiamiamo ‘peccato’, mescolata ai piaceri più desiderabili e resa possibile perché ricercata e voluta da una naturale spinta per ottenere la felicità, lascia sempre l’uomo nell’angoscia, nella sofferenza. Se anche, nel compiere un’azione criminale, l’uomo non è moralmente responsabile, pur tuttavia ne vede gli esiti sul suo stesso corpo e li sente come angoscia nella profondità della sua anima. Il suo pianto diventerà pianto per cancellare questi segni e grido per chiedere perdono delle follie che hanno colpito gli altri e lui stesso. San Paolo, e non solo lui, parla delle tante membra e dell’unico corpo. Perciò ciascuno si rende responsabile del tutto. E dobbiamo sempre più aver coscienza di questo tutt’uno di cui noi, come pure tutti i cosiddetti criminali del mondo, facciamo parte. Se ciò provoca un pianto inconsolabile, nessuno può privarci però della gioia infinitamente più grande delle lacrime che esplode nell’intimo se pensiamo che Gesù non è solo carne e sangue del nostro corpo, ma il capo stesso, la testa di questa mistica unità.
Nel canone II della Messa preghiamo infatti: “Per la comunione al corpo e al sangue di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo” ci faccia diventare un tutt’uno con Lui, e in quelle parole noi celebriamo la nostra transustanziazione, parola non comune per dire come cambia la nostra sostanza, tanto che diventiamo anche noi corpo e sangue di Cristo, come il pane e il vino.
Se una spina nel mio piede provoca il tetano, non c’è problema solo per il piede; il cuore aumenta i battiti, tutto il corpo è surriscaldato e ogni parte del corpo soffre di tetano. Perciò non dovremmo sorprenderci quando ci rendiamo conto che Dio ha preferenza per i deboli, i sofferenti di ogni tipo. Egli riserva per essi una predilezione, anche solo per il fatto di essere sofferenti: ciò è sufficiente per farli diventare medicina del mondo.
Lo stesso Gesù cammina sulla strada particolare dei “Poveri di Jahvè” per diventare sempre più il prediletto del Padre e quando, nel Giordano, la Voce dal Cielo dice: “Questo Gesù è il mio Figlio Prediletto”, Gesù sa molto bene in che direzione deve continuare il cammino: guarire il corpo e l’anima dell’umanità di cui fa parte o meglio far maturare questa immatura umanità. Poi, comincia a parlarne con gli amici, lasciandoli un poco sconcertati. La preferenza per quel figlio prodigo (perché più sofferente e inquieto), la preferenza per quella pecora perduta (perché così in pena), la preferenza per quella moneta (perché così perduta)».
«Ci sarebbe quasi da domandarsi ingenuamente: se Dio preferisce tanto il peccatore, è persino meglio peccare di più?».
«Dio non ama il peccato – ama il frutto immaturo, non l’immaturità –, ma ama il peccatore in quanto sta soffrendo per le conseguenze del peccato. Per essere preferiti da Dio, quindi, è sufficiente mettersi dalla parte di chi ha sbagliato o di chi sta già soffrendo e portarne insieme le conseguenze: questo significa contribuire a salvare il peccatore, cioè curare le ferite causate dalle azioni criminali, dalla pigrizia di fare il bene, di perdonare e quindi di amare».
«Padre, se uno soffre ed è preferito da Dio, perché toglierlo da quello stato? Sono certo che la domanda sarebbe pertinente specialmente in certi ambienti asiatici, dove spesso non si interviene di fronte alla persona che soffre perché si pensa che stia appunto purificandosi. E, per completare la domanda, chiedo ancora: perché dobbiamo lottare tutta la vita contro la sofferenza, se Gesù chiama beato chi piange, chi è povero, chi è perseguitato?».
«Teofilo, se la sofferenza arriva fino a noi e ci raggiunge, diventiamo simili al Figlio di Dio crocifisso, che significa quindi diventare beati come Lui. Ma, per ripeterti che dobbiamo lottare contro la sofferenza degli altri, ti dico ancora che Gesù, in tutta la sua vita, ha compiuto tanti miracoli per asciugare le lacrime e ridare speranza a molte persone, intervento che chiede anche a noi. Lui è disposto ancora oggi a moltiplicare i pani e i pesci per migliaia di persone, ma pretende che facciamo tutto ciò che è in nostro potere. Vuole che doniamo i cinque pani e due pesci se li abbiamo. E, se non li abbiamo, vuole che andiamo a cercarli come hanno fatto gli apostoli. Vuole che noi facciamo la nostra parte, tutta la nostra parte. Allora, e solo allora, Gesù compie il miracolo. E se ha curato i ciechi e rialzato i paralitici, chiede anche a noi quei miracoli».
«In che modo?».
«Accompagnando all’ospedale un malato, facendo un intervento chirurgico, restandogli accanto con cura. Noi impiegheremo più tempo, ma raggiungeremo lo stesso risultato. Per dare pani e pesci a migliaia di affamati dovremo fare dei progetti di sviluppo, irrigare regioni desertiche, smuovere il cuore della gente perché diventi solidale, dobbiamo in ogni caso fare tutta la nostra parte per lottare contro la sofferenza. Il buon samaritano del Vangelo ci dà una risposta molto significativa. Accanto a chi soffre, non possiamo stare con le mani in mano a guardare.
Il samaritano si fa carico lui stesso delle conseguenze di quell’aggressione che ha lasciato un uomo mezzo morto sul bordo della strada. Cura le ferite, si dà da fare, cambia strada, rinuncia ai suoi programmi, porta il ferito sul suo giumento fino alla locanda, chiede ancora a un altro di farsi carico del malcapitato e così anche il locandiere si prodiga per quell’uomo sofferente.
Prendere un po’ sulle proprie spalle la sofferenza dell’altro significa alleggerire l’altro e caricare noi stessi della sua fatica quel tanto che è possibile: è ciò che possiamo e dobbiamo fare. Potremmo dire con un’immagine che la ‘quantità’ di sofferenza, di medicina che guarisce il mondo rimane la stessa, ma – almeno nel caso del samaritano – viene distribuita sulle spalle di tre persone, anziché di uno solo. La solidarietà è appunto questo. Se noi lasciamo l’altro nello stato di sofferenza o di qualunque tipo di miseria senza intervenire quando ne abbiamo la possibilità, significa che non vogliamo condividere la salvezza del mondo.
Aggiungo ancora che dobbiamo occuparci dell’altro che soffre perché la sofferenza che gli è stata permessa è tanta quanto le sue forze possono portare fino all’istante in cui lo incontriamo e possiamo alleviare il suo peso. Da quel momento, se lui continua a soffrire senza la nostra solidarietà, noi diventiamo responsabili per il suo dolore. Ecco perché bisogna lottare contro la sofferenza.
Gesù stesso si mette dalla parte di chi vive le conseguenze della carenza nello sviluppo o, se si vuole, dell’immaturità del mondo: i malati, i paralitici, i ciechi, gli indemoniati, i morti, gli stigmatizzati peccatori. Cura i malati in ogni momento, anche di sabato, così è giudicato eretico e ne porta le conseguenze. Apre gli occhi a Farisei e Scribi, guide cieche di ciechi, ma questi lo ritengono avverso alla legge di Dio e Lui ne porta le conseguenze.
Gesù si mette dalla parte degli indemoniati e li cura: per questa ragione dicono che è indemoniato lui stesso, ma Lui va avanti.
Gesù si mette dalla parte dei prediletti e vuole andare fino in fondo nell’umiliazione dovuta al giudizio di persone estremamente piccole e spaventate.
Gesù va avanti nel dolore della Passione, per diventare il più povero dei poveri: il condannato a morte come schiavo su una croce.
Gesù si mette dalla parte dei peccatori: nel caso dell’adultera impedisce che venga lapidata.
Gesù perdona coloro che erano considerati peccatori.
Gesù chiede anche a noi di perdonare agli altri, sapendo che l’azione di perdonare, quindi recuperare un atto di amore perso, è l’atto più divino dell’essere umano, anzi è l’atto che più di ogni altro lo fa uomo. Se un mio fratello uccide un altro fratello, perché lo uccide? Perché pensa che abbia commesso qualche azione che merita la morte. Cos’avrebbe dovuto fare invece di ucciderlo? Perdonarlo, quindi compiere un atto d’amore. Non avendolo perdonato, ha perso l’occasione di compiere un atto d’amore. E, se io lo perdono, recupero un atto d’amore perso.
I fedeli ebrei non capiscono un Dio così vicino e Gesù, che considera Dio così vicino al punto di chiamarLo Padre, ne porta le conseguenze e viene crocifisso.
Se, come Gesù, non avremo paura, anche noi potremo seguire il suo cammino e in questo modo diventare cristiani».
«Perché, Padre, sovente non si è ricompensati per il bene fatto?».
«Mio buon Teofilo, Gesù ci chiede di seguirlo nelle sue azioni, ma non ci nasconde che, facendo il bene, non sempre se ne riceve la ricompensa, anzi succede spesso il contrario. E lo dice: se fate come me, vi capiterà quello che è capitato a me. Hanno perseguitato me e perseguiteranno anche voi, ma dovete saperlo. Hanno crocifisso me, crocifiggeranno anche voi, d’altra parte, se il chicco di frumento non muore, non porta frutto.
L’immagine del pane che mangiamo ci aiuta a comprendere. Per diventare goccia di sangue e quindi vita nel nostro corpo, il grano ha un lungo cammino: dev’essere seminato nel campo e marcire, poi svestito della bellezza della spiga, quindi macinato, pressato con un po’ d’acqua, infine rullato e messo a fuoco, spezzato, masticato e dimenticato nelle nostre viscere, dove muore definitivamente, perdendo la sua stessa identità. Solo allora viene assorbito per diventare una preziosa goccia di sangue nel nostro corpo.
Non abbiamo bisogno di commenti per capire il tragitto che dobbiamo percorrere anche noi. Seguendo Gesù ci si imbatte in un discorso rivoluzionario per il mondo ebreo e anche per la nostra cultura: era ormai assodato da secoli che chi faceva il bene riceveva tanta ricompensa e chi faceva il male riceveva tanto castigo. Nel mondo ebraico, non essendo ancora chiara la verità della Resurrezione dei morti, bisognava ottenere già su questa terra la ricompensa al bene o il castigo per il male che una persona poteva fare. La fedeltà ai Dieci Comandamenti era perseguita per avere in ricompensa una bella e buona famiglia che, in qualche modo, prolungava la vita del buon ebreo. Si offrivano in sacrificio agnelli, tori o frutti di ogni tipo per ottenere in cambio ricchi raccolti, greggi sani e moltiplicati, vittoria contro i nemici, etc.
Era però evidente che Dio avrebbe punito con miseria, malattia, infelicità, sconfitte, deportazioni e schiavitù chi commetteva azioni criminose. La benedizione e la maledizione di Dio scendevano nella vita del vivente e si potevano estendere a chissà quante generazioni. Chi soffriva pensava che quella disgrazia fosse dovuta ai propri peccati o a quelli dei suoi antenati; allo stesso modo, una vita particolarmente benedetta poteva dipendere dalle proprie virtù o dal bene fatto dagli antenati. Già nel libro di Giobbe si cerca di dire in 42 capitoli che la visione teologica del mondo ebraico non è giusta o perlomeno incompleta. Riconosciamo comunque che essa ribadisce in sostanza che il male produce sempre il male e il bene provoca sempre il bene (il bene è ontologico, non così il male). Ma Gesù spezza pure tale convinzione. Di fronte a un malato, Gli chiedono infatti: “Ha peccato lui o i suoi genitori?”. E Lui, il Messia, risponde: “Né lui, né i suoi genitori”.
Tutto ciò che di gioia o di sofferenza Dio permette per questa o quell’altra persona è perciò solo ed esclusivamente per il bene della persona stessa, della sua famiglia, della comunità o del mondo intero. Molte volte chiediamo la pioggia e arriva la tempesta, ma se arriva quest’ultima, significa che, in quel momento, abbiamo bisogno di tempesta più che di pioggia. Il bene può essere questo: arrivare a un cuore pentito, ricevere un cuore capace di commozione, acquisire una sensibilità particolare accanto a chi soffre e diventare capace di fermarsi come fa il buon samaritano».
«E, in definitiva, quale sarà la conseguenza di tutti gli errori, pigrizie e immaturità?».
«Sarà il rallentamento della realizzazione del Regno di Dio e dei Cieli nuovi e Terra nuova. Già all’inizio della sua predicazione Gesù aveva detto: “Convertitevi perché il Regno di Dio si avvicina”. Quando non ci convertiamo e rimaniamo pigri nel fare il bene, il Regno di Dio, per così dire, si allontana.
«Padre, oltre a compiere il bene e chiedere la Grazia di vincere il male, che cosa possiamo fare per continuare il lavoro di salvezza che Gesù Cristo ha cominciato?».
«Possiamo preparare la nostra celebrazione eucaristica in questo modo: quando ascoltiamo parole di maledizione o bestemmie, quando vediamo qualcuno commettere ingiustizie contro altri o compiere delle disonestà, o qualcuno che non riesce a perdonare gli altri o, ancora, aprendo il giornale vediamo la foto di un volto alterato con la didascalia “Ha ucciso la moglie; Ha stuprato la figlia” o qualche altra mostruosità, possiamo fermarci e chiedere: “Chi è questo criminale?”. Sappiamo la risposta: “Mio fratello”. Allora lo porteremo nel nostro cuore, in chiesa con noi e potremo chiedere perdono a nome suo o a nome loro.
Durante la giornata, ogni volta che incontro chi compie il male, invece di maledirlo, di riversare rabbia su di lui, posso assumere e fare miei i suoi sbagli, la sua pigrizia di fare il bene, l’incapacità di perdonare, la pazzia che lo porta alle azioni più insane, ecco posso caricarmi di tutto questo e, quando mi avvicino all’altare del Signore, posso dirGli: “Guarda, Signore, quante ferite ti ho portato. Ti chiedo perdono a nome loro, perché non sanno da chi andare per farsi guarire, per chiedere perdono. Qualcuno, poi, non sa nemmeno che esiste il perdono, ma io so da chi andare, so che Tu mi aspetti per perdonare, per guarire queste ferite. Ecco, davanti a Te presento i miei sbagli personali e questi, che sono anche miei perché li ho fatti miei, li ho assunti come commessi da me. E adesso sono qui per chiederne l’assoluzione. Poi alzerò il calice della salvezza e invocherò il Tuo nome, Signore, anche da parte loro. Se questi fratelli meritassero una punizione, dimentica che siano stati loro a fare quelle azioni. I loro sbagli adesso sono miei: se vuoi, punisci me.
In ogni caso Ti chiedo perdono”.
Così, Teofilo, diventiamo corredentori con Cristo. Lui chiede perdono al Padre a nome nostro e noi chiediamo perdono a nome nostro e di quella porzione di mondo che ha raggiunto il nostro cuore direttamente o indirettamente e così diventiamo sempre più colleghi di Gesù Cristo e corredentori con Lui.
Se il Signore mi fa questo dono, la mia spiritualità cambia volto. Quando incontrerò quei fratelli e sorelle la seconda, decima o centesima volta, vedendo gli stessi sbagli comincerò a pregare di più per loro e li sentirò sempre meno un corpo estraneo e sempre di più appartenenti a me. Mi abituerò a non dire più: “Se fa cose sbagliate, peggio per lui”, ma: “Se fa cose sbagliate, peggio per me”, perché siamo un unico corpo, siamo nella stessa barca. E se io sono al motore della barca, non posso disinteressarmi di chi ha in mano la corda della vela o di chi impugna il remo per direzionare la barca: tutto ciò che Gesù compie, lo chiede anche a noi, pur se in dimensioni diverse. E, ancora, se il mio vicino ha commesso crimini contro la giustizia, diventando oppressore degli altri o ha rubato i loro diritti umani o non è stato capace di solidarizzare con loro, se io voglio caricarmi delle sue responsabilità, mi sentirò in dovere di riparare con le mie azioni concrete tutti i suoi crimini e questi li chiamerò atti di giustizia».
«Padre, pagare con la propria vita gli sbagli degli altri a me sembra utopia (anche se un’utopia evangelica).
«La proposta evangelica ti pare un’utopia? Ti racconterò un fatto del quale sono stato testimone oculare. Mate e suo padre Rusdia, zingari macedoni, avevano un rapporto molto conflittuale. Quando bevevano – e lo facevano spesso –, perdevano il lume della ragione e s’insultavano a vicenda. Tre anni prima, viaggiando in auto con la sorella Barda, Mate ebbe un grave incidente e lei perse la vita.
Da ubriaco, Rusdia accusava il figlio di essere responsabile di quella morte, mentre Mate rivendicava la propria innocenza. Gli amici li dividevano e la rissa tra i due gruppi diventava armata e quindi pericolosa. Quella sera, mentre i due si riabbracciavano per rifare pace, dalla rivoltella automatica esplose un colpo che lasciò Rusdia senza vita. L’incidente era stato involontario, ma tutti pensarono a un crimine.
In un momento di assoluta confusione, Mate riuscì a fuggire con la famiglia, prima di rischiare un linciaggio. Io ero rimasto con loro e si preparò il funerale: avrei accompagnato il defunto in Albania perché Rusdia era come un padre per me ed ero l’unico che avrebbe potuto viaggiare con documenti regolari. Dopo pianti interminabili, tutti i parenti si riunirono per l’ultimo saluto. La famiglia era di fede musulmana, ma conosceva il Vangelo più del Corano. Facemmo le preghiere e, da ultimo, ci fu il saluto del figlio maggiore Arko, che aveva 19 anni, uno in meno di Mate.
Arko pregò così: “Papà, ti abbiamo perso – e fece una lunga litania di nomi di parenti e amici che, col desiderio e la benedizione, l’avrebbero accompagnato nel suo ultimo rientro in Patria; nominò la mamma e scoppiò in lacrime, poi si riprese – papà sei stato ucciso ed io, tuo figlio, ho il dovere di vendicarti. Perciò, con tutte le mie forze, chiedo che questa vendetta si compia, ma non chiedo questa maledizione per mio fratello, che ha moglie e figli, no, lui deve vivere. Chiedo che cada solo su di me”. Scoppiarono grida e pianti. Tutti abbracciammo e baciammo Arko: sapendo che, presso quel gruppo, la benedizione o la maledizione non sono un augurio ma un fatto reale, a tutti sembrò che Arko fosse il defunto da salutare.
E, infine, non posso dimenticare ciò che raccontò a Spiridone un condannato nei campi di lavori forzati in Siberia. Quell’uomo, rincasando la sera, trovò la moglie in un lago di sangue e, accanto, il corteggiatore che l’aveva tentata tante volte senza mai riuscirvi: l’aveva pugnalata. Il marito, dopo un momento di shock, non si buttò sull’assassino, ma andò a consegnarsi all’autorità costituita, dicendo di aver ucciso lui stesso sua moglie. Per quello era stato condannato».