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Gesù un uomo firmato da Dio - Parte II
di don Renato Rosso
di don Renato Rosso
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di don Renato Rosso
Nelle pagine che seguono, intendo presentare in particolare alcuni pensatori che, pur senza aver raggiunto la fede nel vero Gesù del Vangelo, si sono però soffermati a riflettere davanti a Lui. Hanno avuto paura di accogliere la Chiesa incaricata dallo stesso Gesù di farlo conoscere. Anche Agostino d’Ippona diceva che non avrebbe creduto al Vangelo se la Chiesa non lo avesse forzato a farlo.
Kant ha professato un cristianesimo «nei limiti della pura ragione» e la riduzione della religione a pura razionalità morale. Il cristianesimo è ritenuto da Kant la più perfetta delle fedi, la religione più pura e la più vicina al modello di religione ideale della ragione. Pur avendo marginalizzato il Gesù della storia, in alcuni momenti ne sente tutto il fascino e persino l’esigenza e, quando si pone di fronte al mistero del male, vedendo come Dio ha voluto risolverlo con il progetto dell’incarnazione di Gesù e come Lui si pone di fronte ad esso, sembra disposto a riaprire il discorso sul Gesù storico. In ogni caso, anche questo filosofo non ha potuto continuare le sue riflessioni senza fermarsi per tempi prolungati a pensare al mistero di Gesù Cristo.
Nella sua Vita di Gesù, Hegel – della scuola di Kant – nel racconto dell’ultima cena mette sulla bocca di Gesù stesso queste parole, rivolte agli apostoli: «Conservate nel vostro ricordo colui che ha dato la sua vita per voi, ed il mio ricordo, il mio esempio, sia per voi un valido mezzo di rafforzamento nella virtù. [...] Amatevi l’un l’altro, amate tutti gli uomini come io ho amato voi; che io dia la mia vita per il bene dei miei amici è la prova del mio amore. Io non vi chiamo più miei discepoli o allievi; questi seguono la volontà del loro maestro spesso senza sapere il motivo per cui devono agire così; dalla vostra propria forza di virtù trarrete frutti, se lo spirito dell’amore, la forza che anima voi e me, è il medesimo». 210 Si capisce che la grazia di Dio è assente, ma la virtù umana è presente e viene sottolineata.
Per Hegel, Gesù è un uomo «deciso a rimanere eternamente fedele a ciò che stava incancellabilmente scritto nel suo cuore, a venerare
soltanto l’eterna legge della moralità».211
Le parabole del Vangelo e il Discorso della montagna vengono tradotti in altrettante sentenze di contenuto morale. In particolare, nell’ambito del discorso della montagna, il filosofo afferma: «La vostra preghiera [...] sia un’elevazione del vostro sentimento al di sopra dei piccoli scopi che gli uomini si pongono, al di sopra delle brame che li sbattono qua e là, con il pensiero rivolto a Dio che vi ricordi la legge scolpita nel vostro cuore e vi riempia di rispetto per essa, inattaccabile da ogni stimolo delle inclinazioni. [...] e fate dinanzi a Dio fermo proponimento di consacrare tutta la vostra vita alla virtù. Questo spirito della preghiera, espresso in parole, si potrebbe presentare così: Padre [...] possa un giorno venire il tuo regno, nel quale tutti gli esseri razionali prendono a regola delle loro azioni soltanto la legge».212
Il Gesù di Hegel non ha raggiunto tutto il vero Gesù dei Vangeli, ma è importante conoscerlo almeno per quanto ha influenzato la filosofia cristiana contemporanea e per il fatto che anche questo grande genio della filosofia moderna non ha potuto fare a meno di fermarsi a riflettere sul “caso Gesù”. Karl Rahner, uno dei maggiori teologi contemporanei, nel costruire l’impianto della sua teologia cattolica, ha accettato di rispondere alle domande che gli venivano rivolte da un popolo figlio di Hegel.
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[210] - F. Hegel, La vita di Gesù, Das leben Jesu, scritta nel 1795 e pubblicata postuma nel 1906, trad. ital. in A. Socci (2009), Indagine su Gesù, Milano, Rizzoli.
[211] - A. Socci, op. cit.
[212] - A. Socci, op. cit.
Marx superò l’esame di maturità con la tesi L’Unione dei credenti con Cristo nel Vangelo di Giovanni 15,1-14. Nella parabola della vite e i tralci, Gesù dice che il Padre suo è il vignaiolo e chiama se stesso la vite e noi i tralci (Gv. 15, 5). Marx soggiunge: «questo è il grande abisso che separa la virtù cristiana dalle altre e la eleva sopra ognuna di esse».
In tale tesi si legge inoltre: «L’unione con Cristo dona un’elevazione interiore, conforto nel dolore, serena certezza e cuore aperto all'amore del prossimo, ad ogni cosa nobile e grande, non già per ambizione né brama di gloria, ma solo per amore di Cristo, dunque l’unione con Cristo dona una letizia che invano l’epicureo nella sua filosofia superficiale, invano il più acuto pensatore nelle più riposte profondità del sapere, tentarono di cogliere; una letizia che solo può conoscere un animo schietto e innocente. Uniti a Cristo e attraverso di Lui a Dio, si raggiunge una letizia che innalza e più bella rende la vita».
Undici anni dopo tale tesi, nel 1846, nel testo Gegen Kriege, Carlo Marx, ormai molto più maturo, specificò che le radici del suo pensiero erano due: la legge cristiana dell’amore universale per l’uomo e l’analisi delle condizioni del proletariato oppresso. 213
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[213] - Cfr. C. Marx, Sulla religione, Milano, ed. Sapere, 1971, in G. Gennari, “Mattino”, 3
ottobre 2015, p. 7.
«Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta. [...] E le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni in quanto non furono particolari e limitate [...] ma investirono tutto l’uomo, l’anima stessa dell’uomo, non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana [...] perché l’impulso originario fu e perdura il suo [...] la rivoluzione operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale e conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità. 214
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[214] - B. Croce, op.cit., p. 15.
Prigioniero nel lager nazista tedesco di Treviri, nel Natale 1940, su invito dei colleghi, tra cui alcuni amici sacerdoti, Sartre scrisse un testo teatrale sulla Natività di Gesù. Ne riporto due frammenti: «Donna, questo bambino che vuoi far nascere è come una nuova edizione del mondo. [...] Tu ricreerai il mondo» 215
Ma il testo più significativo è quello che ha permesso all’ateismo di Sartre di lasciarsi incrinare almeno per un momento: «La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo volto è uno stupore ansioso che è comparso una volta soltanto su un viso umano. Perché il Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto delle sue viscere. L’ha portato in grembo per nove mesi, gli offrirà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. Qualche volta la tentazione è così forte da farle dimenticare che è Dio. Lo stringe fra le braccia e dice: “Bambino mio”.
Ma in altri momenti rimane interdetta e pensa: là c’è Dio, e viene presa da un religioso tremore per quel Dio muto, per quel bambino che incute timore.
Tutte le madri in qualche momento si sono arrestate così di fronte a quel frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino, sentendosi in esilio davanti a quella vita nuova che è stata fatta con la loro vita e che è abitata da pensieri estranei. Ma nessun bambino è stato strappato più crudelmente e più rapidamente di questo a sua madre, perché è Dio e supera in tutti i modi ciò che essa può immaginare...
Ma penso che ci siano anche altri momenti, fuggevoli e veloci, in cui essa avverte nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo bambino, ed è Dio. Lo guarda e pensa: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatto di me, ha i miei occhi, la forma della sua bocca è la forma della mia, mi assomiglia. È Dio e
mi assomiglia.”
Nessuna donna ha mai potuto avere in questo modo il suo Dio per sé sola, un Dio bambino che si può prendere fra le braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e ride. È in uno di questi momenti che dipingerei Maria se fossi pittore». 216
Questo bambino sembrerebbe solo un uomo, eppure è Dio: questo è lo sconcerto davanti al quale si pone anche Sartre.
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[215] - J.P. Sartre, Racconto di Natale per cristiani e non credenti, trad. ital. Christian Mariotti Editore, Milano, 2003, pp. 91-92.
[216] - J. P. Sartre, op. cit.
«Nessuna persona al mondo sostiene il confronto con Gesù [...], il suo Vangelo, il suo cammino attraverso i secoli, tutto rappresenta per
me un miracolo. È un mistero insondabile. [...] Tra il cristianesimo e qualsiasi altra religione c’è una distanza infinita. [...] Io conosco gli uomini, ebbene Gesù Cristo non era solamente un uomo. [...] Anche gli empi non hanno mai osato negare la sublimità del Vangelo che ispira loro una specie di venerazione obbligata! [...] Mentre tutto ciò che riguarda Cristo denuncia la natura divina, tutto ciò che riguarda Zoroastro, Numa, Maometto, denuncia solamente la natura terrena [...], ma quanti anni è durato l’impero di Cesare? Per quanto tempo si è mantenuto l’entusiasmo dei soldati di Alessandro? Invece per Cristo è stata una guerra [...] che dura tuttora. Dopo san Pietro (per tre secoli) i trentadue vescovi di Roma che gli sono succeduti sulla cattedra hanno, come lui, subito tutti il martirio. E intanto, i popoli passano, i troni crollano e la Chiesa di Gesù Cristo rimane! [...] Il mio esercito ha già dimenticato me mentre sono ancora in vita [...] Ecco qual è il potere di noi grandi uomini! Una sola sconfitta cidisintegra e le avversità si portano via tutti i nostri amici».217
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[217] - Cfr. Sentiment de Napoléon sur le christianisme, Conversations religieuses raccolte a Sant’Elena da M. le Général Comte de Montholon et da M. le Chevalier de Beauterne, Waille, Paris, 1843.
Gandhi, di religione indù, con la sua grande anima arrivò a dire: «Credo che Gesù appartenga non solo al cristianesimo, ma al mondo intero, a tutte le razze e a tutti i popoli». E Tagore, pure lui indù, in un libro su Gesù, scrisse di Lui: «Il suo immenso amore per me sa ancora attendere il mio amore».
In un’intervista 218 a proposito della propria fede, Albert Einstein afferma: «Da bambino ho ricevuto un’istruzione sia sul Talmud che sulla Bibbia. Sono un ebreo, ma sono affascinato dalla figura luminosa del Gesù di Nazareth».
Per tanti pensatori non cristiani, e tra questi i maggiori filosofi di questi 2000 anni che si sono confrontati con Gesù Cristo, Gesù è morto quel venerdì pomeriggio e ha lasciato nelle loro mani solo la ricchezza dei suoi insegnamenti morali e del suo comportamento della più nobile virtù. Essi non hanno fatto in tempo ad incontrarlo risorto e vivente, ma hanno testimoniato di aver incontrato in Lui il cuore della Storia e nessuno da porre a confronto con Lui.
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[218] - Sul “The Saturday Evening Post” del 26/10/1929.
Le premesse a quella che sarà la visione razionalistica dell’illuminismo contro il cristianesimo (visione di chi crede vero solo ciò che è dimostrabile con la ragione), appaiono già subito all’inizio del cristianesimo stesso. Poco dopo la nascita dei Vangeli, nel II secolo, due filosofi pagani sollevarono dei dubbi. Celso espresse nei suoi scritti una grossa obiezione e cioè che secondo lui, per Gesù, un candidato alla divinità, era indecorosa la debolezza della sua natura umana e più ancora il lamento della sua agonia e inammissibile la sua morte in croce. Di conseguenza risultava erronea la storia evangelica e quindi indiscutibilmente assurda l’idea di un Dio che si fa uomo. Origene rispose eloquentemente a Celso, il quale cadde nel silenzio. Dopo di lui, all’inizio del III sec., in 15 libri contro i cristiani, Porfirio pone due grandi questioni: “Può patire un Dio?” e “Può risuscitare un morto?” A lui risposero teologi e Concili.
Dopo Costantino, tutti questi testi sparirono e arrivarono a noi pochi frammenti. Mille anni dopo, con lo scozzese Duns Scoto e ancor dopo con l’inglese Guglielmo di Ockham, entrambi francescani, si era cercato di liberare la fede e la ragione dai reciproci retaggi medioevali. Ma, se vogliamo, prima ancora e forse senza rendersene conto, già lo stesso Francesco d’Assisi, con quel presepio con la statua di un bambino simile agli altri bambini di questo mondo, iniziava una rivoluzione sottolineando l’umanità di Gesù. Le icone orientali di Gesù, lo stesso Pantocrator erano immagini di un Gesù divino e poco umano. Il crocifisso di San Damiano a cui lo stesso Francesco si rivolge è un esempio di crocifisso sì, ma non sofferente: è già risorto. Ci vorrà Giotto per ricordare che Cristo è anche e veramente un uomo che, in croce, patisce e muore. Giotto
dipinge il crocifisso riprendendo un corpo dal vero (Cimabue stesso non aveva ancora raggiunto questo risultato).
Un secolo prima di Cartesio, un altro dubbio iperbolico attaccò l’apparente solidità della Chiesa di Roma, regina sia in ambito politico, sia religioso. Consapevole della difficoltà di leggere e interpretare le Sacre Scritture, la Chiesa cattolica aveva riservato a se stessa questo compito. Con i Concili, il Papa e i Vescovi cercavano di riflettere sul senso delle Sacre Scritture e proponevano le conclusioni, generalmente sotto forma di dogmi. Per attaccare Roma, Lutero, Calvino, Zwingli e altri proposero una lettura diversa dei testi sacri. Il motto divenne sola scriptura.
I riformatori suggerivano che con questa parola ogni uomo o donna, religioso o laico, poteva leggere la Bibbia da solo, in quanto Lutero e altri consideravano la Scrittura trasparente in se stessa. Suggerivano pertanto che ogni lettore potesse interpretare individualmente i testi sacri senza alcun aiuto da parte del clero, dei papi o dei concili, per evitare che questi li potessero manipolare. In tal modo si dichiarava l’indipendenza da Roma.
Nei secoli XVII e XVIII, si affacciava intanto l’Illuminismo, con una sfiducia intellettuale incontrollata specialmente in materia di religione. In Germania, in Inghilterra, in Francia e altrove gli intellettuali cominciarono a dubitare non solo delle strutture e delle gerarchie ecclesiastiche, ma soprattutto vennero squalificati dogmi e tradizioni di ogni tipo. Il dubbio cartesiano, la sfiducia e il sospetto si facevano strada nella scienza moderna: dall’Illuminismo gli scienziati della fisica impararono a sospettare di tutto ciò che è considerato mistero, superstizione o miracolo.
Intanto la scienza cominciò a insegnare che è vero solo ciò che è sperimentabile, approccio che fu definito razionale. In un mondo
demistificato, senza superstizioni e senza soprannaturale, gli scienziati pretendevano così di scoprire come funziona veramente il mondo e sembrava che il mondo funzionasse proprio come dicevano loro. Si entrò così in un mondo svuotato di verità e di trascendenza, La strada era comunque aperta per i critici storici (Renan, Strauss, etc.), che trionfalmente provavano come non si potesse dimostrare che Gesù aveva fatto o detto questo o quello.
Dall’altro lato c’erano quelli che usavano lo stesso metodo positivista dell’archeologia e della storiografia per affermare il contrario e comprovare che tutto è realmente capitato esattamente come narra la Bibbia: questo metodo era ancora più pericoloso dell’altro. Un autore riporta con ironia l’intervento di uno studioso che sosteneva di aver effettuato serie indagini e di aver scoperto che un certo vulcano estinto era senza dubbio la “montagna... ardente di fuoco” del Deuteronomio (5, 23). Un altro accademico gli domandò sarcasticamente se aveva pure scoperto quali erano i monti che“saltellavano come arieti” del Salmo (114, 4). Queste due posizioni sono diametralmente opposte: ciascuna ha del vero, ma carica anche una gran quantità di zavorra.
Secondo questo metodo di ricerca esclusivamente razionale, 219 anche se si riconosce che Gesù è un personaggio veramente storico come ci
risulta dai Vangeli, lo si considera però un fenomeno come tanti altri, senza nulla di soprannaturale, senza miracoli, senza risurrezione né
divinità, per il semplice fatto che queste verità non possono dimostrarsi con la ragione. Per questi razionalisti, quindi, Gesù, dopo la morte, sarebbe stato divinizzato dai discepoli, che gli avrebbero attribuito miracoli, guarigioni e infine la Risurrezione. Per essi, questo Gesù rimane uno schizofrenico che credeva o comunque diceva di essere il Messia atteso dal popolo di Israele e che i discepoli riconobbero come tale, trasformandolo poi in Dio stesso.
Uno dei primi attacchi alla coscienza cristiana arrivò da H. S. Reimarus (1694-1769), che aveva interpretato i Vangeli cancellando tutta la dimensione della fede: per lui, infatti, Gesù non avrebbe compiuto miracoli, non sarebbe risorto, né avrebbe mai pensato di fondare una religione. Lo studioso lo interpretò come un Messia politico che aveva fondato un regno solo temporale, con lo scopo di liberare il popolo giudeo dalla dominazione straniera. Per Reimarus sarebbero stati i discepoli, delusi dalla morte del loro maestro, a divinizzare lo stesso Gesù e a fondare una religione.
In seguito, il teologo tedesco Heinrich Paulus (1761-1851), poi il filosofo anarchico francese Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), insieme a tanti altri, avevano parlato di un Gesù senza misteri, senza miracoli e senza necessità di atti di fede. Per loro va da sé che, per realizzare la moltiplicazione dei pani, dovevano aver portato prima il pane sul posto per distribuirlo ai poveri. E, se a Cana c’era stato il cosiddetto miracolo del vino, questo evento sarebbe stato possibile solo se il vino stesso fosse stato trasportato prima nella casa degli sposi, eventualmente come regalo di nozze da parte di Gesù. In questo modo, hanno riletto tutto il Vangelo riducendolo a una storia qualsiasi, ma tale tesi non ha goduto di grande fortuna, nemmeno tra i loro contemporanei.
Ancora in Francia, il filosofo francese e storico delle religioni Joseph Ernest Renan (1823-1892) raggiunge un successo straordinario. Il suo libro su Gesù diventa il best seller del secolo.220
Egli sostiene che l’indomani di Pasqua la piccola società cristiana operò un vero miracolo: essa risuscitò Gesù nel suo cuore per l’intenso amore che gli portava, quindi sarebbe stata quella stessa comunità a decidere che Gesù non sarebbe mai più morto. Lo stesso Renan scrive che, in un certo senso, Gesù era già risuscitato, per cui eventi insignificanti come un semplice spostamento d’aria, il cigolare di una porta o il rumore del tuono, inteso come una parola attinente alla risurrezione, potevano bastare per far pensare che il suo corpo non fosse più quaggiù. In quel modo sarebbe stato fondato per l’eternità il dogma della risurrezione.221
Il suo allievo, lo storico del cristianesimo Charles Guignebert (1867-1939), continua a scrivere su questo tema, sostenendo che Gesù è una fiaba e solo una fiaba.
Alfred Firmin Loisy (1857-1940), un altro storico e biblista francese, nega le guarigioni, affermando che, durante il suo primo soggiorno a Cafarnao, accompagnano presso Gesù dei malati da guarire. Sembra che Lui voglia predicare il Regno di Dio e convertire e non fare miracoli, ma la gente vuole le guarigioni e così i sostenitori di questa tesi dicono che la gente gliele attribuisce gratuitamente. Questi autori osservano che Gesù parlava loro con autorità e che i malati, anime tribolate e inquiete, riacquistavano la calma, almeno per qualche tempo: ciò veniva considerato miracolo.
In tal modo, con tante pagine simili a questa, Loisy pretende di demistificare definitivamente quell’alone di mistero che si era creato attorno a Gesù.
Le analisi di questi autori vennero subito confutate e in pochi anni caddero nel silenzio.
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[219] - Da non confondere con il metodo critico moderno per l’interpretazione delle Scritture, diventato indispensabile specialmente nella Chiesa cattolica.
[220] - E. Renan, op. cit.
[221] - Cfr. E. Renan, op.cit.
Vorrei usare ora un linguaggio plastico per sottolineare quanto sopra riportato. Se mi trovo davanti all’icona della Madonna col Bambino
Gesù detta “Madonna della Tenerezza” di Sant’Andrej Rublëv, mi metto in relazione – attraverso la preghiera – con quella madre di nome Maria, la Madre di Gesù che visse a Nazareth poco più di 2000 anni fa, in una piccola casa i cui ruderi esistono ancora: la stessa Maria che oggi vive col Figlio nella gloria di Dio ed è oggetto della mia preghiera.
Questa icona, quindi, rappresenta per me due personaggi storici, con la loro bontà, tenerezza, il loro intenso abbraccio materno e filiale. Ho detto personaggi storici perché in quanto tali ha voluto rappresentarli Rublëv. Ora, per pronunciarmi su questa icona, se voglio usare il metodo critico di autori come Renan e altri, che intendono demolire tutto ciò che non è storicamente dimostrabile con certezze assolute, dovrò concludere che il grande velo che copre la testa e le spalle e il vestito blu di quella immagine non hanno nulla in comune con un abito che Maria avrebbe potuto vestire a Nazareth.
Sulla fronte e sulla spalla sono dipinte due macchie dorate che vengono comunemente chiamate stelle, le quali non hanno nulla in comune con le stelle del cielo, fissate in uno spazio ed esistenti in un tempo storico. I due occhi, il naso e la bocca ubbidiscono ai canoni dell’iconografia russa, ma non rappresentano nulla dei volti storici di Maria e Gesù. Il colore del viso è totalmente artificiale e le stesse mani, con le dita affusolate e senza falangi, non ubbidiscono per nulla alle ragionevoli pretese di un ritratto storico. Strettamente parlando non avrei particolari ragioni per eliminare lo sfondo e la cornice, ma onestamente dovrei riconoscerli come gli unici elementi che rimangono di quella meravigliosa opera d’arte e icona di fede che da 5 secoli è identificata come l’immagine di Maria Madre di Gesù con il Figlio, entrambi riconosciuti storici da tutti i cristiani del mondo.
Gesù è solamente un mito? Il coro unanime di coloro che seguono questo metodo dice di sì. Platone vedeva nei miti dei mezzi per esporre le questioni dell’origine o della fine del mondo che la scienza greca non riusciva a spiegare, ma era pur curiosa di indagare, almeno per tutto ciò che concerneva l’umano. In epoca moderna, invece, si è utilizzato il mito anche per leggere i Vangeli. Strauss, rifacendosi ai principi della ragion pura di Kant e poi di Hegel, arrivò a concludere che i testi rivelati e i fatti narrati nei Vangeli sarebbero solo dei miti e sostiene che l’ideale religioso dei primi cristiani ha prodotto un mito che si è materializzato in una leggenda che si chiama Gesù. E così il Cristo dei Vangeli, considerato dai cristiani un Dio incarnato, sarebbe solo un mito frutto della fantasia.
Lo stesso Strauss sostiene che è impossibile scrivere una vita del Gesù storico. Il Gesù dei Vangeli, per lui, quindi non può essere considerato un Gesù storico, come lo intendiamo noi oggi, ma un Gesù ideale disegnato dalle prime generazioni cristiane. La figura del Gesù ideale influenzò molto il mondo protestante. Più recentemente, l’antropologo rumeno Mircea Eliade, il teologo evangelico tedesco Rudolf Carl Bultmann e molti altri usarono anche il mito per esprimere la sostanza della vita spirituale per interpretare e spiegare tutti i fatti del Vangelo, spogliandoli però di ogni valenza storica. Meno accettabile risulta il fatto che molti di questi autori, dopo aver rigettato le verità evangeliche e dopo averle spogliate di qualsiasi contenuto storico, pretendono ancora di usarle e di stra-affermarle, con la triste conseguenza che, attraverso quei testi, si incontra un Gesù distorto e senza storia. Se, attraverso parabole, prototipi, allegorie, leggende, immaginazioni, ipotesi leggendarie – si pensi alle belle immagini di Adamo ed Eva, dell’albero della vita, della tentazione del serpente, etc. – il mito può servire a spiegare delle verità, non ha però nessuna utilità quando si tratta di affermare e constatare un fatto storico. Risulta quindi inutile utilizzare il mito per spiegarlo, tanto più se questo fatto è stato ampiamente documentato in tempi recenti, com’è capitato per i Vangeli, messi per iscritto nel I secolo dopo Gesù e per i testi di San Paolo, scritti ancora prima: tra il 53 e il 55 d. C.
È più comprensibile sentir parlare di mito quando ci si riferisce a un fatto a molti secoli di distanza, come sostiene il teologo David Friedrich Strauss: per esempio la manna nel deserto, o l’olio e la farina moltiplicati da Elia per la vedova di Sarepta. Potremmo aggiungere molti di questi fatti miracolosi o straordinari, come il passaggio del Mar Rosso o l’acqua fatta scaturire dalla roccia nel deserto. In questi casi non ci sono molti testimoni che possano smentire quanto è stato scritto, ma per ciò che riguarda i fatti o i miracoli raccontati nei Vangeli – riportati e messi in ordine poche decine di anni dopo essere accaduti – non può certo servire l’utilizzo del mito per capirli o approfondirne il significato.
Nel XX secolo alcuni studiosi arrivano a condurre all’insignificanza la figura di Gesù e, in particolare Paul Louis Couchoud arriva a negare addirittura la sua esistenza. Il filosofo, medico ed esegeta francese, porta lo scetticismo alle estreme conseguenze, concludendo così le sue indagini: «Gesù è il più grande Esistente della storia, e ancora oggi si può considerare il più grande Abitante della terra, ma non è mai esistito, almeno nel senso storico della parola: non è nato, non è morto sotto Ponzio Pilato. Tutto questo è una fiaba mistica». 222 Ma lo stesso filosofo dovette rendersi conto ancora in vita che quella tesi non stava in piedi: arrivò a dire che continuava a pensare che Gesù non è esistito ma, se proprio lo fosse, non avrebbe potuto essere che Dio, ma proprio per questo motivo, per la prerogativa di Dio, un Dio senza storia. Lo stesso
Renan, pur molto critico su altri punti, discutendo con chi rifiuta la storicità di Cristo, afferma che non ha nessun senso negare il Gesù
storico e che la scuola che pretende di sostenere tale tesi “non merita nemmeno di essere confutata”, come ho appena detto.
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[222] - P. L. Couchoud, op. cit., p. 36.
A conclusione di questa carrellata sugli attacchi del razionalismo alla fede cristiana, occorre notare che gli studi di questi autori, pur con
molti gravi errori, hanno il merito di aver riflettuto, ponendo anche molte obiezioni, che pretendevano risposte sulla storicità di Gesù. Altro risvolto positivo è il fatto che, specialmente nel secolo XX, la Chiesa cattolica, stimolata anche da questi autori, si è per così dire risvegliata, per rispondere a questi errori e in tal modo ha approfondito tutta una serie di verità che restavano sepolte sotto la cenere.
Espongo qui due letture di fatti evangelici.
Dopo la morte di Lazzaro, Gesù incontra Marta e la invita a credere che il fratello risorgerà. Lei, allora, professa: «Credo che risusciterà
nell’ultimo giorno». Egli ravviva la fede di Marta e lei crede nuovamente nella Risurrezione. Sembra che, per alcuni, il grande miracolo di Gesù finisca qui, così la seconda parte del racconto con il grido a Lazzaro: «Vieni fuori!» e la conseguente rianimazione di quel cadavere risulterebbe meno importante o addirittura inutile.
C’è un secondo fatto: la moltiplicazione dei pani. Gesù invita i suoi a provvedere del cibo per la folla distante dalle case. Gli apostoli trovano solo cinque pani e due pesci e Gesù li moltiplica e li fa distribuire a tutti. Riporto un’ipotesi alternativa: “Qualcuno può aver domandato alla gente se aveva qualcosa da mangiare e probabilmente tutti potevano averne, anche se tenuto ben nascosto perché mostrare ciò che avevano con sé significava condividerlo con gli altri. Un bambino, però, potrebbe aver detto: “La mia parte la metto”, e tutti potrebbero aver seguito il suo esempio, al punto che ne avanzarono dodici ceste.
Queste due ipotesi, forse originali, possono aiutare la spiritualità di chi legge il testo sacro ma, fra 50mila anni, chi vorrà confrontarsi con quelli o altri testi biblici, li incontrerà come sono stati scritti. Se sono verosimili − com’è verosimile che Gesù abbia resuscitato Lazzaro o moltiplicato i pani − quei testi rimarranno sempre il punto di riferimento per chiunque li leggerà: se Gesù avesse voluto comportarsi proprio come dicono i Vangeli, chi avrebbe potuto impedirglielo? Occorre comunque domandarsi: il fatto di ricordare a Marta che suo fratello sarebbe risorto nell’ultimo giorno avrebbe potuto avere un impatto così grande come ebbe di fatto la risurrezione di Lazzaro? E, per quanto riguarda il miracolo della moltiplicazione dei pani, Gesù avrebbe potuto scatenare un delirio tale da volerlo eleggere re se si fosse limitato al consiglio di condividere con gli altri ciò che avevano?
Le nostre riflessioni e quelle di migliaia di altri scrittori di spiritualità resteranno invece semplici spunti, stimoli preziosi per la conversione, senza però sostituirsi all’autorità della Bibbia. Dovremmo onestamente scegliere tali ipotesi, se non ce n’è un’altra scientificamente provata. Se, invece, il testo non è verosimile, se ne modificherà la lettura secondo le nuove leggi della scienza, secondo quanto l’autore sacro voleva esprimere. Nel caso del «Fermati, sole» di Giosuè, ad esempio, con le conoscenze astronomiche di oggi possiamo affermare che il miracolo sarebbe consistito nel fermare la terra e non il sole, che già relativamente fermo era, almeno nei confronti di essa.
In ogni caso, anche chi ha letto questa pagina prendendola alla lettera prima della scoperta scientifica a cui ho fatto riferimento ha potuto cogliere tutta la portata teologica di un intervento divino che l’autore biblico desiderava comunicare.
Occorre soggiungere che, generalmente, non sono i contenuti teologici a determinare o a creare frasi, racconti o miracoli che poi devono essere demitizzati, mentre sono invece le sentenze e i fatti a motivare una riflessione teologica, eventualmente completata con una citazione dell’Antico Testamento, o il ricordo di un fatto riportato dalle Scritture per dar loro continuità. In un brano dopo la nascita di Gesù, ad esempio, viene descritta – con parole simili e azioni ripetute quasi alla lettera – una fuga in Egitto che ricalca quella di Mosè, tanto da far pensare che quel testo sia una creazione teologica.
Qualcuno conclude che l’evangelista ha creato un racconto, un mito per sostenere come Gesù sia un altro Mosè che libera il suo popolo. Tale ipotesi non si può escludere a priori, anzi è da considerare seriamente. Tuttavia, i miti biblici nascono da fatti reali. Nell’esempio in questione, Giuseppe, spaventato dalla situazione politica di un Erode pazzo, può aver cercato di emigrare in un luogo più sicuro, come Nazareth o un’altra località e l’evangelista, volendo significare che Gesù è il nuovo Mosè, potrebbe aver preso spunto da quel fatto per metterlo in parallelo con la sua fuga, collocandovi alcuni nomi come Egitto, morte del Re, ritorno, etc. Tutto ciò per non perdere l’occasione di un approfondimento teologico che può far intendere meglio una pagina della vita di Gesù. In ogni caso, lo studio dei generi letterari, le scoperte archeologiche e gli approfondimenti teologici possono ampliare la conoscenza dei fatti che alimentano e approfondiscono la fede.
Quando le ricerche hanno dato esiti scientifici e inconfutabili tali da offrirci non solo un’ipotesi, ma nuove certezze, abbiamo il dovere di
accoglierle per alimentare più in profondità la nostra fede – penso per esempio che, se si trovasse una lapide con la data sicura della nascita
di Gesù, la accoglieremmo tutti volentieri – o se si trovasse qualche documento in grado di dimostrare scientificamente che la nascita di Gesù è avvenuta a Nazareth invece che a Betlemme, potremmo accettarlo senza problemi.
Se, invece, gli studi non indicano elementi nuovi, storicamente provati, ma solo ipotesi, pur credibili e originali, diverse da quelle dei Vangeli, per alimentare la nostra fede ci basta restare fermi all’ipotesi presentata dall’evangelista, che voleva certamente trasmetterci delle verità. Si deve aggiungere che un rispettabile esegeta come H. Windows pensa che occorra considerare fedele a priori la tradizione evangelica, a meno di poter dimostrare il contrario. In tal modo non ci distanzieremmo dalla storia come la intendiamo oggi e accoglieremmo integralmente il messaggio teologico.
Le ipotesi non soddisfano gli storici e i fatti non sempre sono dimostrabili, specialmente quando i millenni ci separano dagli eventi riportati. Se nel Nuovo Testamento non si può parlare di fatti mitologici poiché avvenuti in tempi relativamente vicini a chi li ha riportati per iscritto, neppure nell’Antico Testamento, epoca molto più lontana nel tempo, in cui il mito avrebbe tutti i diritti di cittadinanza, nemmeno in quelle antichissime pagine si può dare per scontato che tutto sia mito creato dalla fantasia popolare senza rischiare grossi errori. Anche fatti che si presentano immediatamente con il linguaggio mitico della leggenda, come il diluvio o la Torre di Babele e quant’altri, potrebbero riferirsi a fatti ovviamente interpretati, ma con radici nella storia.
Diamo uno sguardo al racconto che narra di un diluvio che avrebbe coperto tutto il mondo, raggiungendo le cime dei monti stessi, cosa del tutto impensabile da un punto di vista scientifico. Senza scomodare le ere glaciali, in cui per almeno quattro volte lo scioglimento di una gran quantità di ghiaccio deve aver causato catastrofici allagamenti, distruggendo gran parte dei viventi che incontravano, nel racconto biblico possiamo trovare spunti molto più vicini a noi.
Si aggiunge il fatto che racconti di un diluvio apparentemente mitici di epoche antiche si trovano in varie parti del mondo, come in Australia, in India, in Polinesia, o nel Tibet, nel Kashmir o in Lituania. Miti simili? Qualche cataclisma primordiale? Anche nel più antico testo della religione induista, il Matsya Purana, in cui si narra dei tre mondi sommersi, si parla pure del re Manù, il quale, avvisato di un diluvio in arrivo, costruisce un’imbarcazione che ospiterà una coppia di tutti gli animali e che alla fine si fermerà con tutto l’equipaggio su un Monte dell’Himalaya.
Per avere lo spunto per scrivere un testo sul diluvio, non era necessario che un’alluvione coprisse l’intera Mesopotamia: bastava un allagamento come quelli avvenuti a Kish, o in Fara, Ninive o Uruk. Eppure sembra che sia capitato addirittura qualcosa di più. Un’alluvione che potrebbe aver ispirato il testo biblico potrebbe essere quello scoperto da Woolley verso la fine del 1800.
Gli scavi in Mesopotamia, effettuati in epoche diverse da vari ricercatori, premiarono l’archeologo inglese che, dopo anni di lavoro, trovò uno spessore di tre metri di limo: il sedimento lasciato da una probabile alluvione che, verso il 1700 a.C., avrebbe invaso un’area che va dal Golfo Persico fino oltre l’attuale Bagdad per un’estensione di 630 km di lunghezza e 160 km di larghezza. Oggi potrebbe essere considerato appena un grande disastro, ma alle popolazioni dell’epoca sembrava che fosse stato coperto tutto il mondo. Probabilmente fu lo stesso fenomeno o un altro simile a dare lo spunto per raccontare la storia di Utnapistim nell’epopea di Gilgamesh, che ritroviamo molto simile nel racconto di Noè.
La storia di Utnapistim era conservata nella biblioteca del re Assurbanipal (VII sec. a. C.): 13 tavolette di terracotta scritte in cuneiforme accadico che narravano una storia del tempo del re Hammurabi, ovvero di mille anni prima dell’epopea di Gilgamesh. In essa, come si dirà nella Bibbia, si parla di un diluvio e di un’imbarcazione enorme, che ospita gli animali e la famiglia di Utnapistim. 223 Terminati i preparativi, costui chiude la porta della nave da dentro: nel caso di Mosè, invece, è Dio stesso che chiude la porta da fuori. La storia di Utnapistim si conclude con l’espressione «tutta l’umanità era stata trasformata in fango», mentre nella Genesi, finito il diluvio, si constata come «ogni carne che si muoveva sulla terra era stata distrutta».
Dopo aver analizzato il mito del diluvio, che però trova riferimenti in un ampio sito archeologico e nel poema di Gilgamesh, occorre accennare a un altro mito biblico, quello della Torre di Babele, pure radicato nella storia. L’autore biblico poteva prendere spunto da diversi siti: per ispirare la storia della Torre di Babele, forse bastava una torre escalonica come quella di Mari, o di Assur o di Ninive o ancor più quella di Babilonia. La ziggurat di Babilonia, alta 90 metri con una base di 91 metri – probabilmente quattro parallelepipedi di 20 metri di altezza ciascuno che vanno restringendosi verso l’alto e un tempio sulla sommità – potrebbe essere stato l’ispiratore del testo biblico, ma anche il racconto di “Enmerkar e il signore di Aratta”, che narra pure come l’inizio della diversificazione delle lingue può aver ispirato il testo biblico. Quando furono trasportati schiavi a Babilonia, gli ebrei poterono ancora vedere questa costruzione che faceva pensare a una grande fede o alla strafottenza umana.
Questa digressione era necessaria per sottolineare che non solo nel Nuovo Testamento, ma persino nell’Antico Testamento, collocato molto più lontano nel tempo, gli episodi raccontati si riferiscono generalmente a fatti storici, anche se interpretati. Si può quindi condividere l’affermazione sensata secondo cui la Bibbia non è un romanzo, ma un libro di fatti che, per quanto siano interpretati, sono pur sempre storici.
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[223] - Ecco come cominciano le due storie: secondo il poema dei sumeri (Tavoletta XI in cuneiforme dell’Epopea di Gilgamesh, Biblioteca di Ninive secolo VII a. C.: «Figlio di Ubarututu,/ distruggi la tua casa/ costruisci una nave/ abbandona le ricchezze,/disprezza gli averi,/salva la vita!/ introduci ogni specie degli esseri viventi nella nave/ Della nave che dovrai costruire,/ le misure dovranno essere ben rispettate», poi segue tutto il poema, che ricalca in modo impressionante il testo biblico: «[Dio] disse a Noé [...] costruisci un’arca di legno ben piallato e farai entrare nell’arca un maschio e una femmina di tutte le specie di animali, perché si salvino con te».
A conclusione di questa carrellata, è bene precisare che il libro sulla vita di Gesù di Renan – la pubblicazione più venduta del secolo, che pareva avere ormai dato una svolta nella lettura dei testi biblici – dopo essere stato ampiamente confutato, in pochi anni ha perso tutta
la sua pretesa parascientifica: in molti Paesi del mondo, questa corrente di pensiero non arrivò nemmeno ad essere considerata e nei libri di esegesi biblica il volume non viene quasi più citato da nessun autore.
Dopo quarant’anni, Loisy riprese il discorso con successo ma, anche in questo caso, molti teologi e filosofi contemporanei ne hanno mostrato l’inconsistenza. Con analogo successo, alla fine del XX secolo apparve per alcuni anni il Jesus Seminar, con 150 “studiosi” che, in modi diversi, cercarono di rivitalizzare le teorie del razionalismo, presentando un Gesù semplicemente uomo, senza miracoli né risurrezione. In meno di dieci anni, tuttavia, con la morte di J. D. Crossan, uno dei fondatori di tale “nuova e già vecchia visione”, finì anche l’entusiasmo di questa intera scuola.
Lo stesso Renan, pensando di rafforzare la sua tesi di un Gesù senza divinità, aveva scritto a suo tempo: «Solo la Verità può durare a lungo... Tutto ciò che è vero è stabile e duraturo. Al contrario, ciò che è falso non è durevole. Il falso non costruisce nulla, mentre la piccola casa della verità è di acciaio e si alza continuamente». 224
Occorre inoltre notare che i filosofi, i teologi e i biblisti del secolo XX hanno confutato le tesi di cui sopra, e attestato le basi della teologia cattolica con scrupolosa documentazione. A titolo di esempio, nelle oltre 700 pagine di un volume cattolico su Gesù Cristo, si riportano le citazioni di oltre 1.300 autori diversi, i quali hanno ovviamente speso l’intera vita a studiare il Mistero di Gesù: questo fatto ci dice con quale professionalità si è lavorato per aiutarci ad approfondire la nostra fede.
Si può concludere perciò che i cosiddetti “studiosi” razionalisti o sostenitori della tesi mitica degli ultimi due secoli, dopo aver preteso di annullare l’importanza di Gesù, in pochi anni sono ricaduti nel silenzio della storia, mentre il Carpentiere di Nazareth continua ad alimentare la spiritualità dell’umanità.
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[224] - E. Renan, op. cit., p. 15
Alcuni studiosi hanno preteso di ipotizzare come probabile il fatto che i Vangeli siano stati creati dalla comunità primitiva e precisamente da quella dei primi 30-50 anni d. C. Tale tesi ha riscosso un esagerato successo (anche se per poco tempo): per questa ragione vi dedico alcune righe. Ora, questa stessa comunità conosce un Gesù che ha oltrepassato i limiti della storia, un Gesù che era già prima di Abramo e il cui Regno non avrebbe avuto fine. I cristiani di questi primi anni credono che Gesù ha vinto la morte, che vive oltre la dimensione umana storica come resuscitato, glorioso, che siede alla destra del Padre, Giudice supremo, immortale, datore di immortalità e salvatore. Ebbene, come possono creare un personaggio così straordinario, un Dio in terra, utilizzando un linguaggio così umano e spesso banale, vivendo con una simile icona di Gesù davanti agli occhi? Alla nascita registrano soltanto che è nato: avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. Alla morte
dichiarano appena: rese lo spirito. Come possono allora inventare un Gesù – candidato ad essere Messia – che vive per trent’anni facendo
il carpentiere in un paese sconosciuto, grande poco più di una borgata, in una regione quasi malfamata? Non dicono nemmeno se sia andato a qualche scuola.
Gesù viene presentato come un uomo che va alla sinagoga o al tempio come ogni ebreo, che troviamo stanco, seduto accanto a un pozzo o addormentato su una barca, tanto da non sentire nemmeno la tempesta e le grida degli amici. Se qualcuno voleva davvero divinizzare Gesù, come avrebbe potuto affermare che era stato creduto addirittura indemoniato e che alcuni tra i suoi parenti l’avevano pensato fuori di testa? Un giorno rischia di farsi buttare giù da un precipizio, per cui deve nascondersi e fuggire. In ultimo finisce per essere inchiodato a una croce come schiavo e bestemmiatore: di fronte agli stessi ammiratori che potrebbero sperare di vederlo scendere da quel legno, Lui vi rimane e conclude la vita nella massima umiliazione e delusione dei discepoli e di tutti. Sono comportamenti poco confacenti a un Dio, se fosse stato inventato dalla comunità primitiva.
Inoltre, nei suoi racconti e parabole si incontrano le cose di tutti i giorni: pescatori, barche, reti, pesci; contadini che arano i campi, che
seminano e raccolgono; donne che fanno i semplici lavori di casa, come impastare la farina per il pane e aggiungere il lievito o che, per qualche moneta persa, mettono a soqquadro tutta la casa o rattoppano un vestito consumato. Un Gesù che, per parlare di Dio, invece di accompagnare gli uditori a riflessioni filosofiche e teologiche trascendentali, fa vedere gli uccellini che volano, i fiori selvatici del
campo, i capelli del capo. Se davvero fossero stati inventori del personaggio Gesù, questi cristiani avrebbero potuto descrivere con magnificenza almeno i miracoli più grandi e sottolinearne lo straordinario. Per la risurrezione del figlio di una vedova, invece, tocca la barella col morto e lo invita semplicemente ad alzarsi; per la risurrezione di Lazzaro suo grande amico gli bastano tre parole: «Lazzaro vieni fuori»; per ridare vita a una bambina, due parole: «Talithà Kum!».
Quali parole magiche usa per i miracoli? Eccone alcune: «alzati e cammina»; «stendi la mano»; «vedi!»; «sii guarito», «sii purificato». Questi miracoli sono raccontati con un linguaggio scarno, senza cornici né commenti. Agli evangelisti interessano i fatti e basta. E ancora: se vogliono fare di questo Gesù un Dio, come possono i cristiani mettergli sulla bocca la preghiera del salmo: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» o presentarlo come Dio, se dice di non sapere nemmeno quando avverrà la fine del mondo? Oppure, invece di scegliere tra i suoi apostoli degli intellettuali – farisei o scribi – o alcuni sacerdoti del Tempio, Gesù sceglie dei pescatori, un odiato gabelliere che riscuoteva le imposte, uno zelota rivoluzionario e violento, due fratelli che non vogliono perdere l’occasione di occupare un posto di governo nel nuovo Regno promesso da Gesù stesso. Non solo: mette un cleptomane a fare l’economo della sua comunità e, come capo dei dodici, sceglie uno già sposato, che
avrebbe dovuto occuparsi ancora della famiglia. Se tutto ciò non bastasse, come possono gli inventori di Gesù, al momento della sua nascita a Betlemme, far dare l’annuncio dagli angeli a dei pastori, a cui era preclusa la possibilità di dare testimonianza in tribunale? E questi ipotetici contraffattori avrebbero mai potuto, dopo la risurrezione, far apparire Gesù per primo a una donna che, come tutte le donne nel mondo ebraico, non godeva di alcuna considerazione per essere ritenuta testimone credibile? Infatti uno come San Paolo, incardinato profondamente nella sua cultura non cita nemmeno quel fatto, ma presenta la prima apparizione di Gesù risorto a Pietro.
Uno dei più grandi teologi protestanti del secolo scorso, lo svizzero Karl Barth (1886-1968), ritiene impossibile pensare alla comunità primitiva come creatrice del Gesù divinizzato proprio per questo linguaggio così scarno, essenziale, privo di fronzoli, che non si addice in nessun modo a una strategia per creare un’apoteosi di Gesù, per farlo Dio.
Sul Tabor, durante la sua trasfigurazione davanti a tre discepoli, non avviene un fatto straordinario, come spesso pensiamo: in quel caso Gesù mostra semplicemente ciò che è, mentre straordinario è stato il fatto di nascondere fino ad allora la sua divinità in un corpo e in una vita così umana da non lasciar trapelare il minimo sospetto. Infatti, scendendo da quel monte, impone ai tre amici l’assoluto silenzio su ciò che hanno visto. E, quando fa dei miracoli particolarmente significativi, chiede spesso di tacere.
Gesù non ha potuto dire esattamente chi era perché non avrebbero potuto capirlo: se – almeno i discepoli – si fossero resi conto di chi era, come avrebbero potuto convivere con Lui, camminare, lavorare, nutrirsi, stancarsi, riposarsi, piangere o far festa, vivere la vita di tutti i giorni accanto a una luce così abbagliante?
Già l’Antico Testamento affermava che non era possibile vedere Dio e rimanere in vita, ma i suoi amici avevano bisogno di guardare il suo volto senza morire, di parlare con Lui e sentire la sua voce umana, di vedere il suo sorriso e le sue lacrime, di celebrare con Lui al tempio o alla sinagoga.
Se un biblista archeologo, o storico, o teologo vuole fare uno studio onesto sui testi del Nuovo Testamento e in particolare sulla comunità
primitiva, per capire a fondo il Mistero di Gesù Cristo, ma senza una fede cristiana profonda, mancherà di uno dei principali strumenti per
mettersi in sintonia con una comunità di fede com’era quella che incontrò il Gesù risorto e credette in Lui. Se la Bibbia non viene letta
in ginocchio, smette di essere un libro di Dio.
Di solito uno storico profano studia argomenti profani e proprio per questo gli sarà difficile, se non impossibile, occuparsi di eventi connessi con il trascendente: «il suo sguardo, infatti, non ha sempre perspicacia sufficiente per penetrare quanto di puro, di delicato, di energico vi sia in una coscienza toccata da Dio, in una coscienza in cui Iddio ha infuso un’ispirazione divina».225 Gli apostoli predicano... perché debbono predicare. Una forza li costringe. Guai se non annunciano il Vangelo!
È probabile che i molti studiosi del XIX e XX secolo, che hanno ridotto Gesù a un semplice uomo, o a un mito o a un inesistente, l’abbiano avvicinato come oggetto di studio, ma senz’amore e, per questo, non abbiano avuto alcuna autorità di poterlo giudicare, né di capirlo.
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[225] - K. Adam, op.cit., p. 185.
Nello scorrere le pagine di una qualche biografia di Gesù, il lettore ha diritto di pretendere che si dia importanza al fatto storico, elemento indispensabile quando si parla di qualcuno che è esistito nella nostra stessa storia e che non si parli di Lui come di un personaggio da romanzo. Se la fede cristiana viene spogliata della dimensione storica, crolla totalmente.
Gli specialisti ci mettono in guardia: per arrivare a conoscere la persona di Gesù c’è da fare un lungo cammino, con un bagaglio ben fornito di metodologia biblica, teologica, morale e storica, arricchito poi da discipline integrative: diritto, antropologia, archeologia, psicologia, storia, storia delle religioni, geografia e politica. Nelle biblioteche vediamo una quantità innumerevole di studi e commenti di tutti i libri biblici che oggi possono spiegarci con competenza l’autenticità e autorità di molti brani e versetti evangelici, la loro attendibilità storica, la valenza teologica e tutta una serie di dati e informazioni che si possono raccogliere attorno ad ogni versetto.
Davanti a questo quadro di specialisti che hanno dedicato tutta la vita allo studio biblico, senza per questo potersi considerare “arrivati” a
un punto soddisfacente della conoscenza di Gesù di Nazareth, mi sento in dovere di porre il problema specifico della brevità della vita, come scoglio insormontabile per un’adeguata conoscenza di Gesù. La ricerca per comprendere più in profondità il Mistero di Gesù Cristo continuerà fino all’ultimo giorno della nostra storia. La vita di una persona non è perciò sufficiente per approfondire i vari aspetti della personalità di Gesù e quindi per essere in grado di «dar ragione della propria fede» in pienezza. Bisognerà, con umiltà, fidarsi degli altri, ma tra questi ci sono santi ed eretici e non è sempre facile distinguere gli uni dagli altri.
Tommaso d’Aquino, Ernest Renan o Karl Rahner hanno dedicato la vita a studiare Gesù Cristo con conclusioni molto diverse. Ed io, come mi pongo di fronte a loro? Io dovrò pur dare un assenso di fede mio, personale, motivato, sensato e ragionevole. Se mi interessa Gesù Cristo e voglio conoscerlo, potrò prendere il Nuovo Testamento e affidarmi ad esso? Per fondare la mia fede, come distinguerò un testo più o meno attendibile dal punto di vista storico? E se non ho avuto la possibilità di studiare teologia o frequentato corsi per approfondire il Mistero di Gesù come lo possono fare gli specialisti, non potrò considerarmi cristiano?
Tra tante eresie e tesi avverse sulla natura dei Vangeli – i quali per alcuni sono stati creazioni della fantasia, per altri storie autentiche che non si possono smentire, ma spiegate senza misteri, né miracoli, né guarigioni, come se Gesù fosse stato semmai un buon prestigiatore, che alla fine è stato divinizzato – ebbene, tra tutte queste tesi poste o confutate, si può raggiungere qualche riscontro sensato? Certo: si può rispondere affermativamente con tutta onestà, sostenendo con serenità che i Vangeli sono stati scritti da uomini che conoscevano la storia di Gesù, gli avvenimenti principali della sua vita, i suoi miracoli, le sue parabole e i suoi discorsi. Gli evangelisti collocarono nei loro scritti le testimonianze oculari e quelle della prima comunità cristiana per trasmetterci con scrupolo le verità che essi conoscevano, 226 anche se spesso con generi letterari a cui non siamo abituati: cerchiamo infatti continuamente di leggerli con i nostri parametri moderni, penalizzando i contenuti che essi volevano tramandare.
In conclusione, se pongo le mie domande ai Vangeli – anche sapendo che non tutte le parole riportate possono essere suffragate dalla loro
legittimità o da sufficiente attendibilità storica – mi affido comunque ai testi più autorevoli, gli unici che mi porteranno a conoscere Gesù
Cristo. Ma, leggendo i Vangeli dell’infanzia, per esempio, di fronte al particolare della stella che accompagna i Magi, ci si può domandare come considerare questo testo, visto che gli astronomi non hanno localizzato in quel periodo una stella che abbia potuto diventare un segno significativo. E quale risposta mi posso aspettare, rispetto al censimento, se non si trovano oltre a Matteo altre corrispondenze sui documenti dell’epoca o se nutro dei dubbi sul luogo della nascita di Gesù localizzata a Betlemme o sulla strage degli innocenti o altri fatti ancora? Ebbene, se i versetti, presi singolarmente, uno per uno, potrebbero anche non appartenere alla storiografia moderna come la intendiamo oggi, si può essere certi che trasmettono un contenuto vero.
Nel seguire quella versione, ci si avvicina di più alla storia (anche in senso moderno) di quanto si possa fare aderendo a un’ipotesi che può sembrare anche più originale. Joseph Ratzinger, il quale ha dedicato tre volumi a Gesù Cristo, avendolo studiato per tutta la vita, è convinto che la figura che emerge dai Vangeli sia molto più logica e, dal punto di vista storico, anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali il Papa stesso si è dovuto confrontare negli ultimi decenni. E conclude: «Ritengo che proprio questo Gesù, ovvero quello dei Vangeli, sia una figura storicamente sensata e convincente».227
Occorre infatti ricordare che gli evangelisti non erano preoccupati di redigere un articolo di cronaca o di registrare dei resoconti neutri e
strettamente oggettivi di ciò che ha detto o fatto Gesù, bensì di tramandare una testimonianza impegnata, cercando di far capire il significato delle sue parole e di trasmetterci delle verità fondate su fatti storici. Le parole di Gesù sono dei messaggi di vita, sono pronunciate per essere vissute e, in definitiva, solo chi è disposto a viverle potrà comprenderle a fondo. Quindi, anche se una singola parola, un racconto, una parabola, o un’affermazione di Gesù possono non essere suffragati da tutti gli elementi della storiografia moderna, non per questo possiamo sentirci autorizzati a buttare via l’acqua col bambino. Nel loro insieme, gli stessi Vangeli dell’infanzia, che sembrano più problematici per quanto riguarda la loro autenticità, si appoggiano su fatti storici: Giovanni è nato, Gesù è nato ed è cresciuto in una famiglia ebrea, è stato permeato di cultura e fede ebraica, integrato nel lavoro, nelle feste e nelle celebrazioni del suo popolo. Per Lui sono stati importanti la sua casa a Nazareth, la Sinagoga, il Tempio di Gerusalemme. Se prendiamo in blocco i comportamenti, le parabole e i discorsi come li hanno
trasmessi gli evangelisti, non ci distanzieremo dalla storia come la intendiamo anche noi, oggi.
Un fatto come la strage degli innocenti, per esempio, che – per essere solo riportata da Matteo e non, per esempio da Giuseppe Flavio (il quale scrive molto di Erode) – può essere messa in dubbio nella sua storicità e legittimità, ci riporta però dei dettagli storici preziosi, utili per capire il mondo politico in cui Gesù passò l’infanzia: com’erano i capi che, per accreditare la loro autorità, non esitavano ad abusare del potere o ad usare la violenza, a impiegare le armi contro il popolo che stavano governando; com’era il re Erode, il quale era stato capace di far uccidere la moglie, la suocera, il cognato e tre dei suoi figli, per cui ci si poteva aspettare da lui qualunque atrocità, compresa una strage di innocenti.
Dallo stesso racconto possiamo capire inoltre come la gente respirasse un’aria di rivolta contro gli invasori romani e con quanta spasmodica speranza aspettassero una qualche liberazione da tale potere, al punto che questo popolo ebreo, mentre poteva ascoltare e accettare qualunque verità seria da un profeta, sentiva però il dovere morale di mettere al primo posto la sua liberazione politica. Se allora si parlava di Messia, questi doveva essere senz’ombra di dubbio un liberatore da quella schiavitù e da ciò si desume pure il fatto che i discepoli di Gesù non riuscissero a pensare a un Messia che non fosse un liberatore sociale.
I Vangeli sono comunque dei documenti di fede e la loro finalità non è quella di ricostruire lo svolgimento storico, il più prezioso possibile della vita di Gesù, ma, come sottolinea il teologo belga Camille Focant: «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché credendo abbiate la vita nel suo nome».228 E, ancora, secondo il biblista Bruno Maggioni, «i Vangeli costituiscono un genere letterario a sé. Si collegano al genere storico, in quanto riportano ricordi e tradizioni che raccontano cose realmente accadute. Il prologo del Vangelo di Luca sottolinea con forza questa attenzione alla realtà dei fatti. L’esigenza di fedeltà alla storia delle prime comunità cristiane non va in alcun modo sottovalutata. I cristiani erano interessati a sapere se i fatti raccontati – di grande importanza per la loro vita – fossero o no accaduti. Tuttavia i Vangeli non sono paragonabili a resoconti cronachistici. Il loro scopo fondamentale è nutrire la fede. Per questo sono un intreccio inscindibile di storia e di interpretazione della storia stessa e si permettono alcune libertà che difficilmente uno storico moderno si permetterebbe». 229
Non si può dimenticare, a questo punto, che la fede in Gesù – come sottolinea il gesuita João Batista Libanio – non dipende «in modo assoluto dagli studi esegetici e teologici. Essi sono solo al servizio dell’approfondimento della fede, aiutano a rispondere a tante domande che il cristiano si pone e alimentano una fede adulta, ma non sono strettamente indispensabili in quanto tali, perché il cuore dell’uomo e l’azione dello Spirito Santo si pongono oltre». 230 A tal proposito, la Commissione Biblica, Bibbia e Cristologia, precisa: «Può capitare di ammettere troppo facilmente la storicità di tutti i dettagli in certi racconti evangelici, mentre essi possono avere una funzione teologica secondo le convenzioni letterarie dell’epoca; oppure di attribuire autenticità verbale a certe parole che i Vangeli mettono sulla bocca di Gesù, mentre invece sono riportate in modo diverso in ognuno dei Vangeli, ma allo stesso modo bisogna dire che, se a Gesù e al suo messaggio riportato nei Vangeli, noi togliessimo la dimensione della storia, la fede cristiana semplicemente crollerebbe».
Lo studioso del N. T. Günther Bornkamm soggiunge: «Non si può certo affermare seriamente che i Vangeli e la loro tradizione ci proibiscano ogni ricerca sul Gesù Storico. Essi non solo permettono, ma esigono questo sforzo. Poiché, quali che siano state le opinioni degli storici su questioni di dettaglio, nessuno può contestare che alla tradizione evangelica interessa in maniera notevolissima la storia pre-pasquale di Gesù, anche se questo interesse è molto diverso da quello della scienza storica moderna». 231
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[226] - «Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc. 1, 1-4).
[227] - J. Ratzinger, op.cit., p 17-18.
[228] - Cfr. Gv. 20, 31.
[229] - B. Maggioni, Impara a conoscere il volto di Dio nelle parole di Dio, Commento alla “Dei Verbum”, Padova, 2001, p. 120.
[230] - J. B. Libanio, Creo en Jesu Cristo, Bogotà-Colombia, San Pablo, 2010, p. 42.
[231] - G. Bornkamm, Gesù di Nazareth. I risultati di quaranta anni di ricerche sul «Gesù della storia», Torino, Claudiana, 1968, p. 169.
Tutti gli episodi del Vangelo sono, come sottolinea Maggioni, un insieme di storia, di racconto, di interpretazione e di fede. E quando ci troviamo di fronte a un’interpretazione teologica molto significativa, non per questo dobbiamo sentirci autorizzati a negare una sua origine storica.232
Per esempio, la vocazione di Paolo, riportata in tre testi dallo stesso evangelista Luca, ci aiuta a capire come gli evangelisti stessi narrino i fatti. Nel primo racconto c’è solo una voce e l’invito ad alzarsi; 233 nel secondo viene annunciata a Paolo la sua missione da Anania, mentre nel terzo è Gesù stesso che gli manifesta per esteso la sua missione presso i pagani. 234
In questi tre momenti è evidente una maturazione che nasce dall’esperienza di anni di lavoro missionario. Gourgues sostiene che, attribuendo a Cristo il “discorso missionario” di At. 26,16-18, si falsa certamente l’esattezza materiale dei fatti, ma non il loro significato
profondo. Il discorso di Gesù comincia infatti con “Ti sono apparso”. Il fatto che Gesù sia apparso è comune nei tre testi, mentre il discorso
di Gesù che segue è piuttosto ciò che Paolo attraverso gli anni ha capito da quell’apparizione, potremmo dire, il discorso che Gesù ha fatto nel cuore di Paolo attraverso gli anni.
Un altro esempio molto significativo è quello dei testi della Passione che, nel Vangelo, sono talmente simili ad altri dell’A.T. da far pensare che essa sia stata ricostruita su quella falsariga. Occorre comunque sottolineare che i fatti interpretati, o arricchiti teologicamente con citazioni che inseriscono con maggior evidenza la vita di Cristo nel piano di Dio e quindi delle profezie, non cessano tuttavia di essere fatti. Se poi, nei testi paralleli, vengono descritte situazioni simili, non stupisce che gli evangelisti adottino con gioia quel vocabolario e a volte le stesse immagini.
Per esempio, al fine di mostrare il compimento delle Scritture, si dice che Gesù di fronte a Pilato restò muto, gesto anche verosimile, ma sottolineato probabilmente pensando al Servo di Adonai: «Maltrattato, si umiliava e non apriva la bocca».235 Un ulteriore esempio si ritrova ancora nella scena degli oltraggi, in cui c’è solo l’imbarazzo della scelta, tanti sono gli elementi in comune. In Luca si trova appena un gioco, una burla, una presa in giro contro il prigioniero Gesù. Ma l’atteggiamento delle guardie nei confronti di un condannato era comune e faceva parte in qualche modo delle pene che venivano inflitte. 236 La scena viene trasformata da Marco e più ancora da Matteo attraverso alcuni dettagli, conferendo al racconto di Luca una portata sconosciuta. Qui, oltre che “colpire” Gesù, gli si sputa in faccia, lo si oltraggia, lo si schiaffeggia: per descrivere tutto ciò, gli evangelisti adoperano lo stesso vocabolario usato nel terzo canto del servo di Isaia: «Ho prestato il dorso a quelli che mi colpivano e le guance agli schiaffi, non ho sottratto la mia faccia agli oltraggi e agli sputi». 237
Non solo c’è somiglianza, quindi, ma si utilizzano anche le stesse parole e, talvolta, le medesime immagini, che descrivono un comportamento simile sia ai tempi di Isaia, sia ai tempi di Gesù. Nella descrizione della Passione e morte di Gesù, questi oltraggi e maledizioni contro il condannato si sono ripetuti sia durante il viaggio verso il luogo del patibolo, sia davanti ai crocifissi stessi, quasi per sottolineare che la decisione del tribunale era un atto pressoché democratico, condiviso dal popolo, che si prolungava negli esecutori della condanna e in coloro che assistevano e che si dimostravano in accordo con quella decisione appena presa dalle autorità giudiziarie.
Nel descrivere questi fatti, simili a quelli del servo sofferente di Isaia, è comprensibile che gli evangelisti, avendone tutta la possibilità, approfittino per fare un riferimento specifico alle Scritture, così la spartizione dei vestiti dei condannati, consuetudine comunissima dopo tutte le forme di esecuzione capitale (Mc. 15,24 par. = Sal. 22,19); o, ancora, lo scuotere la testa dei passanti (Mc. 15,29 par. = Sal. 22,8); lo scherno dei capi (Mt. 27,43 par. = Sal. 22,9); il fiele offerto a Gesù, che si porgeva sempre (Mt. 27,34 = Sal. 69, 22); il tradimento (Mc. 14,18 = Sal. 41,10) e, infine, l’abbandono di Gesù (Lc. 23,49 = Sal. 38,12).238 Sono comunque fatti che si ripetevano sia al tempo di Isaia, sia al tempo di Gesù.
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[232] - B. Maggioni, I racconti evangelici della passione, Assisi, Cittadella editrice, 2006.
[233] - At. 9, 6.
[234] - At. 22, 5-16; 26, 15-18.
[235] - Is. 53,7.
[236] - Lc. 22,63-65.
[237] - Is. 50,6.
[238] - 238 Cfr. M. Gourgues, Gesù davanti alla sua passione e alla sua morte, Torino, Gribaudi, 1981, p. 13.
Non possiamo dimenticare che alcuni scritti biblici risalgono all’inizio della scrittura stessa: i testi proto-sinaitici appartengono proprio a questo straordinario periodo. Ma anche il nuovo Testamento, che ha quasi 2000 anni in meno, è arrivato a noi con una straordinaria documentazione di prima mano. Nel 1930, in Egitto fu rinvenuta una raccolta di quasi tutti i libri del Nuovo Testamento scritti prima del 200, quando l’originale era di cent’anni prima. E nel 1956 comparve uno straordinario documento contenente quasi l’intero Vangelo di Giovanni, che risale addirittura al 150 d. C. e fu quindi copiato appena cinquant’anni dopo la sua composizione. Questi rotoli contano quindi 1800-1850 anni. L’insieme dei testi antichi neotestamentari ammonta a 4.610, più 70 preziosi papiri e un gran numero di frammenti. Nessun libro dell’antichità è stato trasmesso fino a noi con tanta documentazione.
È interessante notare che, mentre i più antichi manoscritti degli autori greci sono stati riprodotti almeno 1200 anni dopo la prima stesura, i pensieri di Platone sono stati messi per iscritto ben 1300 anni dopo gli originali e, ancora, la copia della più antica tragedia di Eschilo ha appena 500 anni − sono passati cioè 1500 anni da quando l’ha composta −, le distanze cronologiche di papiri e pergamene del N. T., come ho già ricordato, non superano i 50 o i 100 anni e alcuni testi di san Paolo molto di meno.
Dalle fonti pagane 239 si può citare Tacito (55-120 d.C.) il quale, scrivendo la storia dell’Impero romano, quando riporta l’incendio di Roma verificatosi nel luglio del 64 sostiene che il popolo romano attribuì quell’incendio a Nerone stesso, il quale, per scagionarsi accusò i Cristiani. 240
In una lettera del 112 all’imperatore Traiano, Plinio il Giovane (62-114 d. C) riferisce una denuncia contro un gruppo di cittadini: «Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore sarebbe consistito nel fatto che solevano riunirsi in un giorno determinato della settimana, prima del sorgere del sole, e cantare un inno a Cristo come a un Dio». Verso il 120 d.C., Svetonio Tranquillo (75-150 d.C.) riporta invece che, intorno al 49 dell’era cristiana, l’Imperatore Claudio (41-54) «espulse da Roma i Giudei, i quali istigati da un certo Crestos [Cristo], provocavano spesso tumulti».
Poche decine di anni dopo la Pentecoste, i cristiani erano dunque già a Roma. Anche Luca parla dell’incendio citato negli Atti, quando Paolo, giunto a Corinto, incontrò un giudeo convertito al cristianesimo, «arrivato poco prima dall’Italia con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei».
Tra le fonti giudaiche che parlano di Gesù non si può omettere quanto scrive Giuseppe Flavio (37-100 d. C.) che conobbe bene la primitiva comunità cristiana, anche se non simpatizzò per essa. Verso il 93 d. C., questo storico di rilievo scrisse di Gesù quale uomo saggio e virtuoso, informandoci che fu condannato da Pilato, che gli ebrei avevano della responsabilità e che la sua esecuzione è consistita nella crocifissione. E lo stesso Flavio cita ancora in un testo “Gesù detto il Cristo”, mentre riporta la condanna a morte di Giacomo, capo della comunità di Gerusalemme, lapidato nella Pasqua del 62.
Nel Talmud babilonese si trova poi ancora una testimonianza, in cui si afferma che Gesù [il Nazareno] «lo appesero alla vigilia [del šabbāt e della Pasqua]» (Sanhedrin 44°): essa riferisce che la morte di Gesù è avvenuta il l4 di Nisan, come riportato nel Vangelo di Giovanni.
In ogni caso, le testimonianze su Gesù sono veramente scarse: Messori informa che gli scrittori dell’epoca si occupavano esclusivamente dei re che mostravano la loro grandezza con la forza (vittorie militari, ampi territori). Al contrario, «le tracce che Gesù ha lasciato non sono quelle su cui si basa la storia ufficiale: palazzi reali, templi, monete con il suo nome e il suo profilo, segni di guerre e di conquiste [...]. Gli storici, non hanno colto il Cristo, confuso com’era nel torrente delle vicende orientali. Hanno notato invece il cristianesimo, che andava organizzandosi come vivace e inquietante “gruppuscolo che era impossibile disperdere”».241
Lo stesso Messori afferma che sarebbe come meravigliarsi di trovare solo qualche riga sulla strage dell’11 settembre 2001 in un’enciclopedia della storia dello sport di inizio millennio. Pur con poche documentazioni, grazie a Tacito e a Svetonio troviamo confermata la presenza dei cristiani a Roma già tra il 49 e il 68, al tempo degli imperatori Claudio e Nerone.
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[239] - Cfr. A. Lapple, La Bibbia oggi. Quando parlano le pietre e i documenti, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1988; R. Penna, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1986.
[240] - «Volendo mettere a tacere questa diceria (contro di lui), Nerone incolpò altri. Punì con supplizi crudeli coloro che il popolo chiamava “chrestianos” [...] questo nome ha avuto origine da Cristo, che fu condannato a morte dal procuratore Ponzio Pilato sotto il regno di Tiberio» (Annales, XV,44). Tale testo comprova quanto il cristianesimo fosse già ben presente a Roma prima del 120.
[241] - V. Messori, Ipotesi su Gesù, Torino, SEI, 1983, pp. 239-240.
Occorre soggiungere, come ricorda Penna, che «l’accesso alla storia di Gesù, dal punto di vista documentaristico, cioè delle fonti scritte che ci permettono di conoscerla, è sostanzialmente possibile soltanto passando attraverso attestazioni di mano cristiana. Al 99% i racconti che riguardano [Gesù] sono stati redatti da autori cristiani, cioè da credenti in Lui, sicché la sua storia è sostanzialmente attingibile soltanto passando attraverso una testimonianza di fede». 242 La ricerca biblica moderna afferma che, tra tutta la documentazione cristiana, i Vangeli canonici sono i documenti più antichi e più attendibili. Alla storia e alla fede bisognerà ovviamente attribuire il rispettivo ruolo. La Pontificia Commissione Biblica in Ispirazione e Verità nella Sacra Scrittura sostiene infatti che «mentre le affermazioni teologiche su Gesù hanno un valore diretto e normativo, gli elementi puramente storici hanno una funzione subordinata».
Se, con fiducia ragionata, ci appoggiamo ai brani evangelici riconoscendo almeno la differenza dei generi letterari usati nella stesura del testo sacro, potremo nutrire a sufficienza la fede durante la nostra esistenza anche perché, oggettivamente, non si può pretendere che ciascuno possa approfondire tutti gli elementi della fede a causa della brevità della vita umana, come ho accennato sopra.
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[242] - R. Penna, Gesù di Nazareth. La sua storia, la nostra fede, Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni, 2008.
Non potremo considerarci discepoli di Gesù fin quando non otterrà risposta la domanda: “A chi mi affiderò per raggiungere la verità conservata nelle Scritture? Alla mia intelligenza? Alle conclusioni delle mie ricerche personali?”. Emerge subito il problema della brevità della vita a cui ho già accennato: se anche dedicassi tutti i miei giorni allo studio dei sacri testi, non potrò comunque approfondire i temi biblici, così numerosi e complessi.
Mi affiderò allora agli specialisti, che sovente sono arrivati a conclusioni molto diverse le une dalle altre? E, nel caso, chi sceglierò tra Renan, Barth, Rahner o Bultmann? La Chiesa è uno specialista affidabile? Personalmente escludo di fidarmi solo di me ed escludo anche di fidarmi di uno specialista che a turno propone una nuova lettura della Bibbia, pur con originalità. Preferisco scegliere altrove.
La Chiesa può offrirmi una fiducia maggiore, infatti, anche solo considerandola come struttura umana, essa è in grado di raccogliere la molteplicità delle varie esperienze culturali e di fede di tutti i suoi membri del mondo e in tutte le epoche della storia, avendo la possibilità di riflettere sulle varie problematiche attraverso Sinodi e Concili e, soprattutto, potendo invocare la luce dello Spirito Santo.
Poiché si tratta di un’istituzione di grandi dimensioni, che si evolve a passi lenti, con le sue proposte e conclusioni non mi allontanerò da una lettura della Bibbia ragionevole e sensata.
Da ultimo mi domando ancora se il Gesù che oggi ci propone la Chiesa è veramente lo stesso Gesù di Nazareth, che ha fatto storia, nella nostra stessa storia. Il Gesù che mi propone oggi l’ultimo Concilio è il Gesù vero, quello che l’uomo deve conoscere? Dovremmo onestamente riconoscere che Gesù Cristo è molto di più di quello che conosciamo. Oggi noi vediamo il suo volto come riflesso sopra un metallo lucido o sullo specchio dell’acqua. I suoi lineamenti sono imprecisi.
Il volto di Gesù attraverso i secoli si è arricchito di nuove dimensioni: sulla sembianza di Gesù uomo-Dio si riflette l’ombra delle nostre culture. La sua conoscenza non è comunque solo una questione intellettuale, anzi possiamo già raggiungerlo dopo un primo annuncio della sua esistenza, quando abbiamo ricevuto la grazia di inginocchiarci davanti a Lui. Sia chiaro però che potremo conoscere il Gesù totalmente vero solo l’ultimo giorno, quando la storia e le sue culture saranno finite: allora vedremo il suo volto come veramente è.
Ricercare comunque Gesù nelle Sacre Scritture è una delle avventure più affascinanti, anche se i colleghi dei diversi dipartimenti delle università che pretendono di studiare le scienze esatte, ti emargineranno e probabilmente ti considereranno una reliquia dell’Era della Superstizione. 243
Al fratello nella fede vorrei dire con San Paolo di non amareggiarsi per essere diventato “spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini” stolto a causa di Cristo, mentre gli altri si sentono sapienti, debole mentre gli altri si sentono forti, disprezzato mentre gli altri vengono onorati. Fratello, quando sei insultato benedici, perseguitato sopporta, calunniato conforta. Non ci dispiaccia diventare “spazzatura del mondo, rifiuto di tutti”, se tutto questo avviene a causa di Cristo, infatti Lui ha solidarizzato con questa nostra condizione. Non ci dispiaccia diventare come Lui.244
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[243] - Il mondo del visibile, del dimostrabile, dell’“oggettività scientifica” non può pretendere di monopolizzare e spiegare tutto. Non si può pretendere che diventi “oggetto di scienza” l’idea di Dio, dell’anima immortale, della risurrezione o della divinità di Gesù Cristo. Si potrà raggiungere quella dimensione oltre lo sperimentabile, attraverso una ben fondata “fede razionale”, tutto il campo della realtà, ma sapere che rimanda oltre i suoi confini sperimentabili.
[244] - Cfr. 1 Cor 4,1-16.
Mi pare doveroso, a questo punto, affermare che l’impresa di scrivere oggi una biografia di Gesù con il rigore di quelle moderne comporta molte difficoltà. Se fissare delle date, precisare dei luoghi, ordinare gli avvenimenti risulta un compito difficile, pur con delle lacune e almeno a grandi pennellate, è però legittimamente possibile ricostruire l’esistenza terrena di Gesù. 245
Confrontandoci con i Vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni, con gli Atti e le lettere canoniche, utilizzando tutti i mezzi che abbiamo a disposizione, prediligendo ovviamente la contemplazione di quei testi e la lettura in ginocchio, possiamo trovare in quelle pagine l’orientamento della nostra vita, la volontà di Dio e ciò che lo Spirito Santo vuole suggerirci nell’oggi della nostra storia. La Chiesa poi, che raccoglie gli sforzi intellettuali prodotti da tutti gli studiosi del mondo dopo averli meditati e pregati, chiedendo la luce dello Spirito Santo e riunendosi in concili, ci aggiorna sugli ultimi approfondimenti che possono alimentare la nostra fede.
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[245] - Cfr. X. Léon-Dufour, Les Evangiles et l'histoire de Jesus, Seuil ed., 1964; D. Gutierrez Martin, op. cit.
I Vangeli non sono trattati di morale o di teologia, ma opere narrative. Non sono però un romanzo, che viene generalmente scritto per intrattenere il lettore con le più imprevedibili avventure. Il loro stile si potrebbe invece avvicinare al genere biografico, che ha come scopo quello di offrire un ritratto attendibile del protagonista. Comunque, se di biografia volessimo parlare, dovremmo riconoscere una grande sproporzione dei vari periodi della vita. Vediamo per esempio che, in un evangelista, tutta l’infanzia di Gesù non è nemmeno accennata e, in tutti, il vuoto che va dall’adolescenza fino a circa trent’anni viene sintetizzato con tre parole: “cresceva in sapienza e grazia”, mentre si dà ampio spazio agli ultimi anni e specialmente alle ultime ore della sua vita.
I Vangeli non appartengono a una letteratura colta, o a quella che chiamiamo “d’autore”, ma piuttosto a un genere popolare, in quanto riporta storie da raccontare al popolo. Alcuni autori preferiscono avvicinare i Vangeli alla biografia antica di tipo greco, come le vite dei filosofi, qualcuno preferisce invece paragonarli alle biografie di un personaggio stilate da diverse mani, come per esempio la vita di Alessandro Magno scritta da quattro storici suoi contemporanei: Callistene, Onesicrito, Tolomeo e Aristobulo.
Dalla lettura dei quattro storici riusciamo a farci un’immagine del condottiero abbastanza vicina alla realtà. Così, per interpretare l’immagine storica di Gesù, ci troviamo dinanzi a Marco, Matteo, Luca e Giovanni. Come si è arrivati a scrivere dei libri, anche se brevi, per esprimere la complessa personalità di Gesù?
Per metterci nel modo più corretto di fronte ai loro testi, occorre escludere che gli evangelisti – specialmente i redattori di Matteo, Marco e Luca – abbiano pensato a qualche forma di libro tascabile per la conoscenza e meditazione su Gesù di Nazareth, come generalmente lo pensiamo oggi. Se qualcuno ci chiede di voler conoscere Gesù noi potremmo mettergli un Vangelo in tasca e dire: “Leggi i Vangeli e sostanzialmente in quelle righe incontrerai Gesu’”. Se ai tempi della prima comunità qualcuno avesse fatto questa domanda, con probabilità avrebbe ricevuto invece una risposta diversa: “Vai ad ascoltare quando i cristiani si riuniscono, frequentali, ascolta bene tutto ciò che raccontano di Gesù e lo incontrerai anche tu”. Per tale motivo i Vangeli, specialmente i sinottici, e un altro vero e proprio, andato perso – quello che, sotto il
nome di Fonte Q (in tedesco Quelle), è forse il testo ispiratore dei quattro che conosciamo – possono essere considerati appunti per i catechisti, per fare l’omelia in sinagoga o nelle case o sotto un porticato del Tempio. Per quanto riguarda la parabola della perla preziosa, ad esempio, è stato sufficiente annotare che un commerciante di perle ne trova una preziosa, vende tutto ciò che ha e l’acquista. Ora, il catechista che conosce bene la parabola spiegherà che cos’è la perla, in che cosa consiste la sua preziosità, che cosa vende lui per acquistarla, che cosa se ne farà quando se ne sarà impossessato, che cosa rappresenta e tutti quei particolari che lo stesso Gesù può aver inserito nel racconto stesso, altrimenti non avrebbe senso un testo così essenziale. Chi approfondisce i Vangeli cerca infatti, anche oggi, tutte le informazioni possibili circa la storia dei tempi di Gesù, la geografia, la politica di quel periodo, la mentalità e la cultura in cui Gesù stesso si muoveva e tutto ciò che aiuta a conoscere gli infiniti particolari omessi nei testi del Nuovo Testamento.
Prima di addentrarci a leggere i Vangeli, mi sembra doveroso accennare brevemente ad alcuni dettagli che ci introducono appunto nelle note di questi quattro personaggi o quattro tradizioni di insegnamenti che, messe per iscritto, sono giunte fino a noi con i nomi di Matteo, Marco, Luca, Giovanni.
Organizza il suo Vangelo attorno a cinque grandi temi: il primo è il discorso evangelico con le beatitudini, il ricco discorso della montagna e i preziosi insegnamenti morali con le indicazioni portanti del comportamento del cristiano, arrivando a richiedere persino l’amore per i nemici, atto fondamentale, da considerare lo statuto del discepolo. Nel testo si legge l’impegnativo discorso della missione con cui si inviano i discepoli a predicare. Tale mandato può pretendere anche l’eroismo nelle persecuzioni e, di conseguenza, di fronte al martirio.
C’è poi il corpo delle parabole, che abbracciano particolarmente il tema del Regno di Dio e ne svelano la natura e, inoltre, il discorso sulla vita comunitaria, che tratta il tema dell’accoglienza reciproca, con la centrale parabola della pecora perduta, l’importanza del gregge unito attorno a un solo pastore e in cui viene riservata una particolare attenzione a ciascuno, soprattutto a chi rischia di perdersi. E, da ultimo, si ritrova il discorso della fine dei tempi, in cui si mescolano i ricordi della distruzione di Gerusalemme che devono far pensare a una distruzione molto più globale – quella della fine dei tempi, appunto – da cui però emerge la fiducia nella misericordia e nell’amore di Dio, che concluderà la storia con la celebrazione di una misericordia infinitamente giusta e della giustizia infinitamente misericordiosa. Sempre nel suo Vangelo, Matteo presenta Gesù come un secondo Mosè, che però lo supera, ponendosi a compimento ultimo della Legge stessa, rappresentata appunto da Mosè.
Se tutti i Vangeli sono gli appunti per le omelie dei catechisti, ciò vale in modo particolare per Marco, il quale evidenzia due grandi affermazioni: da un lato Pietro – modello del catecumeno che ha terminato il suo percorso – a Gesù che gli domanda cosa pensa di lui, professa con solennità: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”; dall’altro, al termine del Vangelo, sempre come conclusione del cammino catecumenale, davanti a tutte quelle evidenze anche il pagano può esclamare: “Veramente quest’uomo era il figlio di Dio”.
Nel suo Vangelo, Marco sottolinea molto la forza di Gesù che vince il male nella figura del demonio, usando il linguaggio del tempo, presentandolo come un personaggio quasi fisico. Marco sottolinea inoltre il peregrinare permanente di Gesù tra la Galilea e Gerusalemme. In Galilea annuncia le sue catechesi, compie guarigioni e miracoli – che costituiscono il 30% del suo Vangelo – mentre in Gerusalemme incontra l’ostilità e le trame contro la sua stessa vita, che concluderà sulla croce. Ai miracoli, che potrebbero presentare un Gesù inviato da un Dio potente e glorioso, si pone in parallelo la prospettiva della croce, con tutta l’umiliazione che comporta e insistenti sono le richieste al discepolo di seguire Gesù nella via della croce e non del successo.
Con un linguaggio poetico e simbolico traccia le linee guida di una solida teologia dell’infanzia di Gesù. Fa pensare che lui stesso abbia raccolto le testimonianze di quel periodo di storia dalla viva voce della madre di Gesù o da qualche diretto testimone.
Anche in Luca si ritrova il pellegrinaggio verso Gerusalemme, durante il quale Gesù insegna e compie miracoli, ma attorno a tale città ruota tutta la sua missione. A Gerusalemme Gesù muore, risorge, invia gli apostoli in missione prima della sua ascensione e, per non lasciare soli i suoi, invia lo Spirito Santo a continuare il suo insegnamento. Nella sua catechesi, Luca ama presentare da un lato l’immagine di Gesù misericordioso che perdona e ama fino all’impossibile e dall’altro un Gesù esigente e radicale nel fare la proposta di seguirlo con distacco totale dai beni, per scegliere il Bene che è lui stesso. Pur essendo presentato come ben incarnato tra la sua gente, Egli appare infatti nel contempo separato e isolato, nei lunghi tempi di preghiera prima del suo battesimo, prima di pronunciare il discorso della montagna e di scegliere i Dodici, prima di chiedere agli apostoli di pronunciarsi circa la sua identità, sul Tabor, prima di insegnare il Padre nostro e nella terribile notte di agonia.
Anche se «il quarto vangelo è un libro su Dio più che su Gesù», Giovanni non solamente conosce la storia di Gesù con il quale ha vissuto tutti gli anni della vita pubblica, ma è diventato un suo grande amico, oltre ad essere un suo alunno. Conosce la storia nei dettagli, al punto che, narrando il suo primo incontro con Gesù, può affermare che erano circa le quattro del pomeriggio, ma non si sofferma su di essi: va oltre con le sue riflessioni teologiche, che ci mostrano come, proprio durante tutto il percorso della sua vita con Gesù, lui abbia già colto in ogni avvenimento ciò che gli altri evangelisti faticavano a vedere, per cui si limitavano a delineare la geografia, la cronologia e le azioni pur pregnanti di insegnamenti.
Giovanni è teologo, perciò fa teologia anche quando racconta i fatti di Cana, la guarigione del paralitico, la moltiplicazione dei pani, la guarigione del cieco nato, la risurrezione di Lazzaro, l’incontro con Nicodemo, con la Samaritana e con i discepoli dell’ultima cena, la lavanda dei piedi. Lui sa che Gesù è il solo che conosce il Padre e che quindi, in quanto Figlio, ha l’autorità e il potere di rivelarcelo.
Secondo Wikenhauser e Schmid, «l’evangelista fa parlare Gesù nella sua lingua, con la sua mentalità. Gli fa prendere posizione su temi che erano attuali nel suo tempo», perciò storia e interpretazione di fede si trovano in Giovanni strettamente intrecciate. Ma si può ancora sostenere con Dreyfus che «Gesù avrebbe riconosciuto in queste affermazioni parole che, se non pronunziò avrebbe almeno potuto pronunciare, perché corrispondono a quello che egli pensava di sé, della sua persona e del suo mistero». Quindi, in ultima analisi, Giovanni finisce per essere più legato alla storia di altri o, come afferma Martyn, è «il non-storico che dà senso alla storia». Potremmo ipotizzare che Giovanni sia il primo teologo nello stesso senso in cui lo intendiamo oggi. Dopo di lui, seguiranno infatti la sua scia i Concili stessi, i Padri della Chiesa e la riflessione teologica che ancora oggi ci introduce nel mistero di Gesù Cristo.
Non è questo un tema così secondario come può apparire, se pensiamo che dei 613 comandi, divieti e leggi del Codice ebraico, la maggior parte apparteneva a disposizioni riguardanti il cibo. E ancora si dica che una popolazione che si ciba di pesce, è molto diversa da una che si ciba di carne da caccia o ancora da una popolazione vegetariana. Quindi la dieta non è secondaria per conoscere una persona. Detto questo, è sufficiente spendere alcune parole su questo tema desumendole sostanzialmente dai testi biblici.
Tenendo conto che il paese di Gesù era povero, si deve concludere che il cibo era essenzialmente per il nutrimento, ma non mancavano i cibi della festa come la carne, il vino o qualche dolce a base di farina, latte e miele.
Al tempo di Gesù, il pane è certamente l’alimento principale: quello di tutti i giorni si preparava con farina di frumento o di orzo (per i più poveri), con lievito o azzimo, cotto al forno o a forma di sottili tortelli su piastre di metallo o di pietra. L’importanza di questo alimento viene confermata dalla preghiera che Gesù stesso propone ai suoi: «Dacci oggi il nostro pane», in cui non intende il cibo in generale, ma il pane in specifico, quello di tutti i giorni, quello che continua ad essere l’alimento principale in molte culture: si diceva, infatti, che quando finiva il pane cominciava la carestia. E, all’inizio di ogni pasto, il capofamiglia spezzava il pane con la preghiera: «Benedetto sei tu, Signore, re dell’universo, che tiri su il pane dalla terra». Come sottolinea il saggista Joseph Campbell, il momento dei pasti era sacro, tanto che la presenza di Dio era attesa e accolta in ciascuno. Pur essendosi guadagnata il pane quotidiano, la gente comune riconosceva che era Dio a provvedere tutto ciò che serviva per vivere.
Nei pasti principali erano poi comuni le lenticchie, i ceci e le fave. Per chi viveva vicino al fiume o al lago, alimento comune era il pesce e anche il vino era spesso presente almeno sulla tavola dei lavoratori. La carne era riservata alle feste. Bisogna poi ricordare che molti animali erano considerati impuri e quindi non apparivano mai sulle tavole del popolo ebreo. Era severamente proibita la carne di maiale, cammello, lepre, topi, rettili, tartarughe o talpe. Anche i pesci senza pinne e senza scaglie tipo le anguille, a pesca terminata venivano buttati, come riferisce una delle parabole del regno. Anche gli insetti in genere erano proibiti e facevano solo eccezione le cavallette, i grilli e le locuste. Il cibo forse più comune (anche se non in tutti i territori) potrebbe essere considerato il pane e il pesce che è pure l’oggetto della straordinaria moltiplicazione dei pani e pesci. Senza azzardarsi a un ricettario tipo, si può comunque convenire che ci fosse una colazione (almeno per la classe media) a base di pane, latte (yogurt, formaggio o ricotta), miele selvatico, fichi secchi e uva passa o frutta fresca alla stagione dei fichi, dell’uva o dei melograni.
Nei pasti principali, oltre al pane lievitato o azzimo, potevano essere messe in tavola zuppe di verdure con cipolle, lenticchie, ceci, fave, zucche, porri, oppure il pesce, generalmente arrostito, o carne di vitello, pecora o capra. C’erano poi le erbe amare con cicoria cotta, capperi, olive o pistacchi. A volte si abbrustoliva il grano, che si poteva mescolare in insalata con olive, capperi e mandorle tostate. E, a sera, si usava specialmente qualche minestra di verdura: molto comune quella di lenticchie. I cibi qui elencati erano quelli accessibili alla classe media, che disponeva di risorse ridotte, mentre i ricchi avevano molto di più. I poveri, invece, non avevano accesso a tutti questi alimenti, anche se sulla loro tavola si potevano trovare ora gli uni, ora gli altri.
Gesù riceve dalla tradizione ebraica il gusto e l’apprezzamento della preghiera. Nel suo tempo si registra anche il rovescio della medaglia: i capi religiosi, i farisei e non solo, con la loro ipocrisia andavano in giro a pregare in piazza per essere visti e, per la stessa ragione, davano l’elemosina e si vestivano con segni che li qualificavano come persone religiose, che meritavano tutto il rispetto del popolo.
Ciò non può che dare fastidio a Gesù, il quale si sente autorizzato a smascherare il comportamento dei falsi maestri: «Quando preghi non imitare gli ipocriti, che amano pregare in piedi nelle loro sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere visti da tutti. In verità vi dico che hanno ricevuto la loro ricompensa. Ma tu se vuoi pregare, entra nella tua stanza, chiudi la porta e prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti esaudirà. E quando preghi, non fare lunghi discorsi come i pagani, che pensano di essere esauditi a forza di parole. Dio, tuo Padre, sa di che cosa hai bisogno prima ancora che tu glielo chieda». 246
Lo spirito di questo versetto si respira anche in Levitico 247 e persino in Platone, ma come suona diversamente sulla bocca di Gesù, che non finge alcun ascetismo! Gesù prega e medita in luoghi isolati, su montagne o colline. 248 Al mattino prima dell’alba è già partito per un luogo deserto a pregare, 249 ma lo troviamo lassù sul monte, anche dopo aver terminato il lavoro della giornata: dopo aver licenziato la folla, sale lassù per stare con il Padre suo in preghiera.250 La preghiera del mattino e della sera era uso comune presso il popolo ebreo, ma Gesù compie questo rito con un cuore nuovo e dissemina inoltre la preghiera in altri vari momenti della giornata. Come ogni ebreo, generalmente Gesù prega in piedi – lo vediamo alzare gli occhi al cielo –, 251 ma anche prostrato a terra.252
Oltre alle preghiere ufficiali del pio israelita, c’erano altri momenti di orazione per Gesù, che in qualche modo davano un’anima a tutte le sue azioni: quando sperimenta la fatica di farsi capire dai sapienti o incontra la fede genuina dei semplici, dei piccoli, di chi non ha bisogno di apparire, di mostrarsi importante, Gesù coglie l’occasione per rivolgersi in preghiera al Padre, Signore del cielo e della terra e lo ringrazia perché ha nascosto “i misteri del Regno ai sapienti e intelligenti e li ha rivelati ai piccoli”. 253 E, ancora, prega quando cura i malati – per esempio il giovane epilettico 254 – o quando, prima della risurrezione di Lazzaro, ringrazia Dio per essere stato esaudito.255
Ci sono poi ancora vari momenti importanti di preghiera, come quando deve scegliere gli apostoli e non va solo sul monte a pregare, ma si ferma tutta la notte in preghiera; o nel Getzemani, prima della Passione, dove la preghiera diventa così intensa da trasformarsi in gocce di sangue. Gesù prega ancora, con una confidenza infinita, prima dell’ultimo grido, sapendo a chi consegna l’ultimo respiro, ora che tutto è compiuto: «Nelle tue mani affido il mio spirito».
Gesù cerca di purificare la preghiera, elevandola al cuore e non accontentandosi solo di liturgie, sacrifici, luci, incensi, etc. Alcuni profeti come Osea, Malachia e in particolare Isaia, con la loro libertà, avevano già gridato: «Il vostro incenso mi dà persino fastidio, quando le vostre mani sono sporche di sangue; purificate i vostri pensieri, smettete di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia e allora potrete venire a fare la vostra offerta e la vostra preghiera.». 256 Con Gesù, tuttavia, nasceva un culto assolutamente nuovo, fondato sulla purezza del cuore e sulla fraternità umana.
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[246] - Mt. 6, 5-8.
[247] - Lv. 11, 44; 19,2.
[248] - Mt. 14, 23; Lc. 4, 42.
[249] - Mc. 1, 35.
[250] - Mc. 6, 46.
[251] - Mc. 7, 34; Gv. 17, 1.
[252] - Mc. 14, 35.
[253] - Mt. 11, 25.
[254] - Mc. 9, 29
[255] - Gv. 11, 41.
[256] - Is. 1, 11 ss.; cfr. tutto il cap. 58; Os. 6, 4-6; Ml. 1, 10 ss.
Egli, il Verbo increato da tutta l’eternità, diventando uomo, diventa figlio, Figlio di un padre che è Dio, un Dio che ama tutti, i giusti e gli ingiusti. Quello che ha lo dà a tutti, ai buoni e ai cattivi, a tutti dà il sole, la pioggia e tutto ciò che può far vivere una creatura umana.
Fin dai primi passi di uomo adulto, Gesù instaura con Dio un rapporto da figlio a padre. I profeti dell’Antico Testamento avevano visto in Dio il giudice che punisce e condanna, ma il Dio di Gesù è padre, è nostro Padre.257 Per Gesù suo Padre, non è solo il Dio di Israele, ma il Dio di tutti.
Con un’immagine non strettamente biblica possiamo immaginare il Padre di Gesù che fa festa sulle rive del mar Rosso e batte le mani con Maria, Mosè e tutto quel popolo che canta: “Cavallo e cavaliere li ha buttati nel mare”, ma non si ferma là. Possiamo anche immaginarlo mentre si tuffa in quelle onde che stanno travolgendo gli egiziani e, sott’acqua, cerca e raccoglie quei ragazzi, uno ad uno, perché anche quelli sono suoi figli e se li nasconde sotto il braccio e corre a portarseli a casa, per asciugarli e curare i feriti, di nascosto dagli israeliti che pensano di essere gli unici figli di Dio.
Nel Vangelo, infatti, con un’immagine diversa Gesù dice la stessa cosa quando racconta del pastore che lascia le pecore “buone” e va a
cercare quella persa e se l’abbraccia con un affetto che forse non ha mai dimostrato così forte nei confronti delle altre 99.
Il Dio di Gesù è il Dio dell’umanità. Egli crede profondamente di essere in diretto rapporto con Dio, crede profondamente di essere Figlio di Dio. La più alta coscienza di Dio che sia esistita in seno all’umanità è stata quella di Gesù. Gesù non sente che Dio gli parla come si fa con una persona distinta, ma che Dio è in Lui e ciò che dice di suo Padre gli viene dal cuore. Egli vive immerso in Dio. Gesù non vede Dio, ma lo sperimenta, senza aver bisogno né di tuono, né di roveto ardente, né di nube infuocata come per Mosè, né di terremoto o vento leggero come per Elia: Gesù si sente un tutt’uno con il Padre. Il Dio di Gesù ama i figli onesti, che lavorano, che amministrano i beni del padre con responsabilità, ma anche coloro che non lavorano e sperperano i beni degli altri. E quando un figlio dà appena un segnale di volersi recuperare, il Dio di Gesù fa subito festa, senza pensare che il giorno dopo, quel figlio potrebbe tornare a pascolare i porci.
Questo Dio ha un figlio che si chiama Israele, un popolo che ha amato per secoli. Ma quante delusioni gli ha dato questo figlio! Quanti abbandoni, quanti tradimenti! Per un momento, questo Dio aveva persino dichiarato di essersi pentito di averlo messo al mondo, ma poi gli è bastato che uno gli chiedesse pietà 258 e Lui ha nuovamente perdonato e ripreso in braccio Israele, suo figlio. Gesù ha capito che non c’è nessuno come questo Padre, anzi l’ha compreso perché già a casa aveva respirato un amore di padre molto simile, nel suo papà Giuseppe, nella vita di tutti i giorni, in bottega, nei cantieri, in sinagoga, in piazza, in casa. Né gli ebrei, né i mussulmani – che pure si erano incontrati con questo Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe – non sono mai riusciti a cogliere in Lui l’anima di un Padre.
In qualche occasione, quando Gesù torna dalla preghiera manifestando sul volto la stessa bellezza che sprizza dagli occhi degli innamorati che si incontrano, i discepoli gli chiedono di insegnare anche a loro un modo di pregare che sia proprio del gruppo, come Giovanni Battista, per esempio, aveva insegnato a pregare in un modo particolare ai suoi. Sono infatti presi da un desiderio incontenibile di sperimentare quello che sta provando Gesù stesso in quel momento e così insegna loro la preghiera del Padre nostro, la preghiera della massima confidenza che, mai più dimenticata da nessun cristiano, è una sintesi di altre espressioni bibliche.
I discepoli già pregavano ogni giorno, come ogni israelita, con scrupolosa fedeltà, ma intravedevano che Gesù forse aveva qualche segreto per la sua preghiera, per questo insistettero di voler imparare la novità che vedevano in Lui ed Egli disse loro: «Quando pregate dite: Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà come in cielo, così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. Non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Amen». 259
Nella sua forma originale o in parallelo con quella riportata da Luca, in ambiente giudaico si usava questa versione: «Sia magnificato e santificato il suo nome grande, nel mondo che Egli ha creato secondo la Sua volontà; Egli consolidi il suo Regno, nella vostra vita e nei vostri giorni, nei giorni di tutta la Casa d’Israele, adesso e nel tempo futuro. Amen! Che il Suo nome grande sia benedetto nei secoli dei secoli. Amen».
Dire “nostro” non è una forma qualsiasi di preghiera per degli uomini qualsiasi. Questa preghiera presuppone un noi, infatti diciamo: “Padre nostro!”. Quando Gesù ha pronunciato quella preghiera ha abilitato noi a pregare con lui e diventare una unica voce, un unico cuore che prega davanti al Padre. Con questa preghiera Gesù permette a noi di unirci a lui, ci invita e anzi ci comanda di unirci a lui in modo tutto particolare nella sua intercessione presso Dio suo Padre. Gesù con questa preghiera ci permette, ci invita e ci comanda di pregare con lui questa sua
preghiera, quindi di adorare Dio, di lodarlo con una sola bocca, quella di Gesù e la nostra, con una sola anima, un tutt’uno, lui e noi, di fronte al Padre che non dirà mai dei no al Figlio e quindi nemmeno a noi. In questo caso il noi ha pure un nome: Chiesa. Quindi uniti alla Chiesa con il cuore di Gesù Cristo possiamo osare di rivolgerci al Padre e dire “Padre nostro”.
Nella prima parte di questa preghiera, siamo invitati ad interessarci della causa di Dio e cioè che il suo nome venga rispettato, onorato, lodato, glorificato e amato e mai più bestemmiato sulla terra se non dai pazzi. Che tutti conoscano la bontà e la forza del suo nome Santo. Che nessuno lo ignori o lo disprezzi. Che nessuno lo profani facendo violenza a qualunque dei suoi piccoli. Quel nome merita tutta la nostra fiducia come suggerisce il Salmo «mi abbandono alla fedeltà di Dio, ora e per sempre». 260
Gesù poi, prega il Padre, affinché il suo Regno si realizzi al più presto: come sostiene Pagola, lo predica come la presenza di un “Padre buono che vuole umanizzare il mondo” e rendere questa umanità più felice. Gesù predica il suo regno come regno di giustizia. Dio vuole che nel suo regno i poveri abbiano una vita dignitosa, che coloro che piangono ritrovino il sorriso, egli vuole che gli affamati e gli assetati abbiano il buon pane profumato, nelle loro famiglie, per questo ha insegnato a dividere i propri beni con il vicino, non vuole più vedere gente intirizzita per il freddo lungo le strade e per questo ha chiesto a chi ha due tuniche o mantelli di dividere con chi non ha.
Non vuole più vedere le guerre nel suo regno, per questo ha insegnato ad amare i nemici e non combatterli, non vuole più vedere nessun tipo di violenza o di vendetta, per questo ha comandato di amare il prossimo e non ripagare il suo male con la vendetta, ma superare ogni animosità con il perdono e la compassione. E là dove i potenti non vogliono smettere di opprimere i poveri, verranno ribaltati dai loro troni e gli oppressi verranno liberati e gli umili innalzati. Gesù vuole vedere già qui su questa terra il realizzarsi della politica di Dio e vuole vedere già adesso il regno di giustizia e di pace per la consolazione dei poveri, degli spiantati e dei tapini. Infatti per il samaritano soccorrere il malcapitato tra i briganti non è una questione di bontà, di misericordia o di compassione ma è un atto di giustizia, in quanto quello sfortunato massacrato ha il diritto di essere soccorso, è una questione di giustizia per il nuovo Regno.
Gesù, pregando con noi, ci invita a dire: “Sia fatta la tua volontà in cielo e in terra”. Il Signore da tutta l’eternità ha sognato e scritto sulla sua mano un progetto per la nostra vita. Non è una imposizione, ma una proposta, un desiderio che quel progetto si realizzi. Ciascuno di noi ha desideri e progetti per il futuro, però riconosciamo che quel progetto sognato da lui è il migliore, il più prezioso in assoluto, è infatti progetto di Dio.
Tu che leggi ed io possiamo dire: “Io lo conosco in parte, quel progetto, quello che ho vissuto fino ad oggi con tutte le mie infedeltà, ma non conosco la parte che mi resta da vivere, ora vorrei insieme a Gesù Cristo firmare quella parte del progetto che ancora non conosco per dirti, o Padre, che sono d’accordo con te. Qualunque cosa sia scritto lì sulla tua mano, io voglio metterlo a frutto e viverlo e anzi se qualche volta io non capisco i tuoi suggerimenti o mi ribello, ti prego: forzami a realizzare quel desiderio che tu conservi per me. Io non posso rischiare di deludere il tuo sogno su di me”. Gesù ci chiede di unirci a lui per chiedere tutto questo. Dio non vuole fare e disfare a modo suo, da solo, ma ci vuole collaboratori. Dio «non vuole agire, esistere, vivere, operare, lavorare, combattere, vincere, regnare, trionfare senza l’uomo. Egli non vuole che la sua causa sia unicamente sua; vuole che sia anche causa dell’uomo, quindi di ciascuno di noi. Con il “Padre nostro” Gesù ci invita a partecipare all’opera di Dio che è anche nostra e ci invita a partecipare al suo governo della Chiesa e del mondo». 261
Nelle altre domande del Padre Nostro, il noi è quello di una comunità (ferita e curata permanentemente) che vuole essere solidale con tutta quella porzione di popolo che vive tutte le miserie della condizione umana, che ha bisogno di pane, di perdono richiesto e donato e che ha bisogno di vincere le tentazioni ed essere liberato da ogni male e si rivolge al Padre mano nella mano con Gesù Cristo per questo gesto di solidarietà.
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Non chiediamo al Signore benessere, ricchezze, potere, ma umilmente chiediamo il cibo per vivere oggi e anzi per avere la forza di servire Lui e i fratelli. Con la parola “nostro”, chiediamo che non passi per la nostra mente di chiedere il pane per me o anche per la mia famiglia, ma noi lo chiediamo per tutti, nessuno escluso. E, come ogni ebreo del suo tempo, quando si sedeva a tavola per prendere cibo, Gesù spezzava il pane dicendo la preghiera di benedizione (non benediceva il pane, ma Dio che lo provvede), dicendo: «Benedetto sei tu, Signore, re dell’universo, perché tiri su il cibo dalla terra [per noi]», Sempre nella preghiera al Padre, Gesù non solo chiede il pane, ma il pane quotidiano, il pane di questa giornata che, come ammonisce Sandro Galazzi, è il pane simile alla manna che Dio mandava ogni giorno: se qualcuno ne avesse raccolto più del necessario, essa sarebbe marcita.
Se anche ne raccogliamo di più per capitalizzare o averne solo più degli altri, la nostra manna marcisce. Se qualcuno ne prende di più per venderla e commercializzarla, la manna marcisce. Se poi qualcuno ne raccoglie tanta per avere più potere e schiavizzare gli altri, la manna marcisce. Per questo Gesù ci insegna a chiedere il pane per oggi, non cento pani per eventualmente venderli e arricchire e di conseguenza ergersi sopra gli altri, no, il pane per oggi. E ancora, nella preghiera al Padre chiediamo il dono del perdono, ricevuto e donato: perdonare non significa dimenticare il passato, ma recuperare tutto l’affetto e l’amicizia ferita.
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[257] - Lo avvertiamo ascoltando il soffio leggero che dice dentro di noi: “Padre” (Gal. 4,6).
[258] - Dt. 10, 10.
[259] - Lc. 11, 2 b-4.
[260] - Sal. 52, 10.
[261] - Cfr. K. Barth, La preghiera. Commento al Padre nostro, Torino, Claudiana, 2013.
Sovente Gesù saliva sul monte, solo, a pregare. L’atto di salire sul monte richiama certamente la dimensione dell’isolamento, o meglio di un dialogo a tu per tu tra Lui e il Padre, soli. Gesù ha bisogno di silenzio: come testimoniano alcuni testi, ai suoi tempi negli ambienti di fede più genuini lo si coltivava per mettersi in dialogo con Dio stesso.
La Mishnà riporta: «In altri tempi, i primi Hassidim [i pii] aspettavano in silenzio un’ora prima di mettersi in preghiera, al fine di orientare i loro cuori verso Dio»,262 così in altri targumin [traduzioni] sono riportati testi simili. Poiché Gesù dedicava lunghi tempi alla preghiera, è possibile che questa pratica di valorizzare il silenzio fosse molto radicata in Lui. L’abitudine di isolarsi sul monte a pregare, certamente gli veniva dagli anni di Nazareth dove, sia alla sera tardi dopo il lavoro, sia al mattino presto prima di iniziare il giorno, dopo aver fatto le preghiere che ogni ebreo giornalmente compie, poteva riservarsi dei lunghi tempi per la preghiera.
Sembra che in tutte le religioni esista una tendenza privilegiata a pregare sull’alto. Se si pensa, infatti, che Dio è nei cieli, più si sale, più ci si avvicina a Lui, ma nel caso di Gesù c’era probabilmente un’altra ragione. Egli sale sul monte perché la sua preghiera è intrisa di Sacre Scritture, e lassù è immerso nelle pagine della Bibbia aperta sulle colline e sui monti davanti a Lui. Non ha bisogno di portarsi i rotoli delle Sacre Scritture che si leggono in sinagoga perché lassù sul monte c’è già tutto.
Come sembra probabile, Gesù più volte può essere andato a lavorare a Sefori, città che, in quegli anni, era un fermento di costruzioni edili: al mattino poteva salire la collina nella quale era incastonata la sua cara Nazareth, per poi scendere la valle verso nord e raggiungere i cantieri della città che, tra l’altro, aveva il vantaggio di non distare più di un’ora dalla sua abitazione all’andata e un’ora e mezza al ritorno, se ripercorreva la stessa strada in salita fino a raggiungere l’alto della collina di Nazareth dove, a poche decine di metri verso valle, la madre lo aspettava.
Pertanto, al mattino in cima a quel colle prima di scendere al lavoro e la sera al ritorno su quello stesso luogo, Gesù trova un luogo privilegiato per spendere tempi significativi di preghiera. Là, su quel “monte”, come ho detto sopra, si trovava davanti a una Bibbia, aperta nelle quattro direzioni: poteva essere questa una ragione per cui gli piaceva salire sull’alto. Se si metteva in piedi in direzione della città santa e spingeva lo sguardo verso sud – che si riversava sul suo borgo di Nazareth e si arrestava all’orizzonte – di fronte a lui, sulla collina di Gerusalemme, intravedeva la città dove, per tutto il suo popolo, abitava Dio stesso, nel Tempio e più ancora nel Santo dei Santi. Poi dava ancora uno sguardo verso il monte Garizim e si compiaceva con suo Padre perché presto anche i Giudei avrebbero capito che Dio non abita né a Gerusalemme, né sul Garizim, ma ben più vicino, nei nostri cuori, in spirito e verità. Poi, spostando lo sguardo più verso oriente, il suo pensiero ritrovava il Mar Rosso, con tutti i ricordi biblici di quell’epopea del suo popolo, che con Mosè aveva attraversato tutta quella distanza ed era venuto in direzione della terra promessa, dove ora Gesù stesso abitava. Una nuvola di fuoco dal cielo lo aveva accompagnato ed ora, con quello stesso fuoco, Gesù voleva incendiare il mondo.
Nella stessa direzione vedeva quella porzione di cielo che sovrastava il monte Sinai, l’Oreb di Dio. E rivedeva ancora nel suo spirito quel cielo coperto di folgori, tuoni e quel sacro terrore che emanava all’intorno, al suono delle parole pronunciate da Dio. Ora, Gesù stesso si sentiva investito del compito di pronunciare quelle stesse parole, ma con un altro linguaggio, che potesse non solo incidersi sulle pietre di Mosè,263 ma penetrare nel più profondo del cuore. Alla sua destra, vedeva poi stagliato il Gelboe, con i tristi ricordi dei Filistei che avevano ucciso i grandi eroi. Saul e Gionata erano morti là. Dopo di che Gesù poteva ritornare a guardare verso Gerusalemme e là ripensava tutta la storia di David, che avrebbe potuto essere un prototipo del Messia stesso, quindi un liberatore, un re che aveva garantito la pace, almeno dopo di lui con suo figlio, un re antenato del Messia. Quando pensava a lui, gli batteva forte il cuore, poi lasciava questi pensieri, che dovevano essere ripresi a suo tempo. E, se voltava le spalle verso la sua sinistra, trovava la direzione da cui erano arrivati Abramo, Isacco e, da ultimo, Giacobbe, che aveva poi attraversato tutte quelle vallate fino all’estremo sud-est, verso l’Egitto.
Se poi spostava appena l’occhio, a pochi chilometri davanti a lui vedeva il Carmelo con la grotta di Elia a ovest e, dall’altro lato, l’avvallamento dove lo stesso Elia avrebbe fatto giustizia dei falsi profeti. Ma non poteva ripartire senza rivolgere lo sguardo verso le colline dove tramonta il sole. Là, oltre i confini dell’orizzonte, la regione di Tebe gli ricordava Isaia, il grande profeta. Sul cielo di Gerusalemme c’era il ricordo di Davide e dal lato del tramonto quello di Isaia. Da essi erano state preconizzate le due immagini del Messia: la prima del re che avrebbe posto il mondo sotto il sigillo della giustizia e l’altra di un Messia sofferente che avrebbe percorso una strada degna soltanto di uno schiavo criminale e chissà con quanta emozione Gesù intravide che quello poteva essere il suo cammino.264
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[262] - Mishnà Berfakot, 5, 1.
[263] - Es. 34, 28.
[264] - Tutti i monti e le colline di Israele sono una Bibbia aperta.
Dopo la risurrezione, la comunità primitiva ha saputo accogliere la preziosa eredità che Gesù le aveva lasciato: la preghiera. Egli aveva
mostrato come la sua vita era stata pervasa di preghiera, di giorno, di notte e in ogni azione. Così i discepoli e la comunità perseverarono in orazione come il loro maestro. Li troviamo in preghiera durante le ore rituali che si praticano nel giorno. La comunità continua la preghiera in sinagoga, al tempio e nelle case. Pietro è in preghiera a mezzogiorno sulla terrazza.265
Troviamo la comunità di Gerusalemme in preghiera per un’intera notte per chiedere la liberazione di Pietro che è in prigione.266 Tra le
testimonianze c’è quella di Paolo e Sila, che a mezzanotte cantano le lodi di Dio nella prigione.267 Durante i grandi avvenimenti troviamo a
pregare gli apostoli riuniti, alcune donne con la madre di Gesù e con tutti i fratelli e sorelle.268
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[265] - At. 10, 9.
[266] - At. 12, 5-12.
[267] - At. 16, 25.
[268] - At. 1, 14.
Ritengo importante riportare alcune preghiere che Gesù pregava giornalmente e più di una volta al giorno. L’ebreo religioso è un uomo che sa mettersi davanti a Dio e pregare: grida, chiede soccorso, piange e la sua tribolazione quanto la sua gioia diventano preghiera; nella sua preghiera l’ebreo insiste, prostrato o in piedi, supplica, intercede, implora e chiede le grazie. Alcuni testi scritti accompagnavano il momento della preghiera, che, normalmente si faceva in piedi, e rivolti verso Gerusalemme, dove il Tempio conservava il Santo dei Santi.
Dopo le varie purificazioni, si iniziava la preghiera del mattino con un ringraziamento a Dio per il dono del giorno e ancora per la liberazione del popolo ebreo. Poi, si pregava per i poveri e si ricordava ancora l’obbligo dello studio della Torah e la sua pratica e il grande comandamento di onorare il padre e la madre e il prossimo. Si faceva poi memoria di alcuni brani dell’Esodo, che erano riportati su cartapecora pulita, senza macchia, a caratteri quadrati: aššurît. 269
I versetti erano: Es. 13, 1-10;11,6; Dt. 6, 4-9;11,13-21.
Queste pergamene venivano poste sulla fronte o sul braccio. Si aggiungeva ancora qualche salmo e seguiva il Quaddiš, molto simile al Padre nostro. 270 «Sia magnificato il suo grande Nome, nel mondo che egli ha creato secondo la sua volontà; venga il suo Regno, nella vostra vita e nei vostri giorni, nei giorni di tutta la casa d’Israele, adesso e nel tempo che verrà. Amen! Che il Suo Nome grande sia benedetto nei secoli dei secoli. Amen!». Si recitava ancora il Sanctus. Quando c’era il servizio sinagogale, esso consisteva nella lettura di testi biblici.
Al Quaddiš seguiva la grande proclamazione di fede dello Šhema Israel: «Ascolta, Israele, il Signore è nostro Dio. Il Signore è uno. Benedetto il suo nome glorioso, per sempre. E amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. E metterai queste parole che io ti comando oggi, nel tuo cuore, e le insegnerai ai tuoi figli, pronunciandole quando riposi in casa, quando cammini per la strada, quando ti addormenti e quando ti alzi». 271 E si concludeva con una preghiera molto tipica per il mondo ebraico, detta Šemonèh eśreh, che oggi consiste in diciotto benedizioni, mentre al tempo di Gesù se ne conoscevano soltanto sei (le prime tre e le ultime tre): «Signore apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode».
Prima benedizione: «Benedetto sei tu, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe, Dio grande e forte e venerando, eccelso, che concedi la ricompensa e crei ogni cosa; ricordi la pietà dei padri e fai venire il Redentore per i figli dei loro figli, in grazia del tuo Nome, con amore. Re liberatore che aiuti, salvi e difendi. Benedetto tu Signore, scudo nostro...».
Seconda benedizione: «Tu sei potente in eterno, Signore che risusciti i morti, che sei grande nel concedere salvezza, che fai spirare il vento e fai scendere la rugiada. Egli nutre i viventi per grazia, fa risorgere i morti con grande misericordia, sostiene i cadenti, guarisce i malati, libera i prigionieri e mantiene la sua fedele promessa a chi dorme nella polvere. Chi come te, o Potente? Chi ti assomiglia, o Re che fa morire e risorgere, che fa sbocciare per noi la salvezza? Tu sei fedele nel far risorgere i morti. Benedetto tu, Signore, che risusciti i morti».
Terza benedizione: «Di generazione in generazione proclameremo la regalità di Dio, perché Egli solo è eccelso e Santo. La tua lode, o Dio nostro, non venga meno dalle nostre labbra in Eterno, perché Tu sei un Dio re grande e Santo. Benedetto Tu, Signore, Dio Santo».
Sedicesima benedizione: «Possa Tu compiacerti, Signore, Dio nostro nel Tuo popolo Israele e accogli la sua preghiera; restaura il tuo culto nel santuario della Tua casa e accogli prontamente con amore e benevolenza i sacrifici di Israele e la loro preghiera. Sempre ti sia di compiacimento il culto di Israele tuo popolo. Possano i nostri occhi vedere il tuo ritorno a Sion e a Gerusalemme, Tua città, con misericordia come in antico. Benedetto, Tu, Signore che fai tornare con misericordia alla Tua Presenza, a Sion».
Diciassettesima benedizione: «Noi ti ringraziamo perché Tu sei il Signore Dio nostro e il Dio dei nostri padri; per la nostra vita affidata alle tue mani, e per le nostre anime affidate a te e per i prodigi che di giorno in giorno operi con noi, per le cose meravigliose e per le opere di bontà che compi in ogni tempo, alla sera, al mattino e a mezzogiorno. Tu sei buono, infatti la tua misericordia non viene meno; Tu sei misericordioso, infatti non si esaurisce la tua carità: da sempre abbiamo sperato in Te; non ci hai fatto restare delusi. Signore Dio nostro, non ci hai abbandonato e non hai distolto il tuo volto da noi. Benedetto Tu, Signore. Il tuo Nome è altissimo e a te conviene rendere lode».
Diciottesima benedizione: «Dona pace, bene, benedizione, grazia, carità, misericordia, a noi e a tutto Israele tuo popolo. Benedici, Padre nostro, noi tutti insieme, con la luce del tuo volto, perché con la luce del tuo volto hai dato a noi, Signore, Dio nostro, la legge di vita, amore, grazia, carità, benedizione, salvezza e misericordia, vita e pace. Ti piaccia di benedirci e benedire tutto il tuo popolo Israele sempre, in ogni tempo e in ogni ora, nella tua pace. Benedetto Tu, Signore, che benefichi il tuo popolo Israele, nella pace. Amen».
Era anche comune la breve, ma bella preghiera prima dei pasti che generalmente il capofamiglia faceva. L'ebreo non benedice il cibo, ma Dio che lo dona. Gesù ha certamente ascoltato questa benedizione da Giuseppe, per tutto il tempo di Nazareth e poi Lui stesso la pronunciò ad ogni refezione con i suoi discepoli.
Il testo è il seguente: «Benedetto sei tu, Signore, re dell’universo, tu che tiri su il cibo dalla terra [per noi]» e la preghiera dopo i pasti:
«Benedetto sei tu, Signore, Dio nostro, re dell’universo, che alimenti il mondo con la tua bontà, il tuo amore e la tua misericordia e dai il cibo a ogni vivente. Il tuo amore per noi è eterno e la tua grande bontà non è mai venuta meno. Non ci mancherà alcun bene perché il tuo nome è grande, e hai sempre provveduto il nutrimento a tutti. Benedetto sei tu, Signore, che nutri ogni vivente». Si aggiungano poi nei vari tempi del giorno, settimane, anno, i Salmi e i testi biblici.
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[269] - Mt. 23, 5.
[270] - Probabilmente questa preghiera, in questa forma, esisteva già al tempo di Gesù e Lui potrebbe averla completata con il testo riportato dal Vangelo.
[271] - Dt. 6, 4-9; 11, 13-21; Num. 15, 37-41.
Per alcuni i miracoli sono da relegare nel museo delle antichità pur venerabili, ma ai giorni nostri privi di reale importanza. Il razionalismo dice che si può attraversare il lago a nuoto o in barca, ma non camminando sull’acqua e ancora che la malattia viene curata dalla medicina e non dalla volontà istantanea di un santo.
Quando mi pongo davanti a un miracolo, il non-credente che è in me tenta di eliminare Dio da tale contesto, mentre il credente che è in me (secondo la mia fede) lo riconosce: il Dio che, con la sua Provvidenza, agisce continuamente nel mondo è lo stesso che, attraverso alcuni segni straordinari, vuole entrare in dialogo con me e dimostrarmi nei fatti quanto mi vuole bene, ovvero manifestarmi la sovrabbondanza di un amore che abbatte tutte le barriere entro le quali vorrei costringerlo.272
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[272] - 272 Cfr. X. Léon-Dufour, (a cura di), I miracoli di Gesù secondo il Nuovo Testamento, Brescia, Queriniana, 1980, p. 15.
Nella misura in cui esiste una tradizione sulla vita di Gesù, la sua attività miracolosa ne fa parte a pieno titolo: questa è una certezza che si impone, riconosciuta ormai dalla quasi totalità degli studi contemporanei in campo cattolico e molto diffusa anche oltre tale confine. Leggendo i resoconti degli evangelisti, lo storico Légasse riferisce che non è difficile rendersi conto che essi non manifestano alcuna reticenza sulla verità dei racconti che narrano. Per gli autori del N.T., tanto la realtà dei miracoli quanto la loro origine soprannaturale era scontata, come risulta da alcune allusioni.273
Gli autori dei Vangeli erano animati da una convinzione pari, se non superiore, a quella che avevano per i miracoli del passato. Gesù, più grande di Mosè, di Elia e di Eliseo, depositario in pienezza dei poteri divini, non avrebbe mai potuto essere messo in discussione dagli evangelisti come taumaturgo 274 Ci possiamo però imbattere in uno studioso come Hume, il quale lamenta: «È strano [...] che tali eventi prodigiosi oggi non accadano mai». Secondo il Vangelo (Gv. 9,32), alcuni farisei di Gerusalemme, ragionavano pure a quel modo: «Non si è mai sentito dire che qualcuno abbia aperto gli occhi ad un cieco nato». Ma Légasse risponde così a tale obiezione: «Invece è possibile registrare, almeno attraverso rapporti scrupolosamente stabiliti qualche guarigione che la scienza medica confessa di non essere in grado di spiegare».
275
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[273] - Cfr. Lc. 4, 25-27;17, 27-29; Gv. 3, 14; 6, 30-32.49; 1 Cor. 10, 1-5; 2 Cor. 3, 7-13.
[274] - Cfr. S. Légasse, Lo storico alla ricerca dell’evento, in Léon-Dufour X., op.cit., 1980.
[275] - 275 Cfr. S. Légasse, in X. Léon-Dufour, op. cit., 1980, p. 119. Si pensi all’attuale “Bureau des Consultations de Lourdes”.
Rahner afferma che la critica storica non può eliminare, nel loro complesso, i miracoli della vita di Gesù, qualificandoli semplicemente come abbellimenti poetici creati poi dalla comunità primitiva. Sottolinea inoltre che Gesù è certamente stato un taumaturgo, nel senso di mostrare con le proprie azioni dei segni per indicare che attraverso lui il Regno di Dio si stava avvicinando in un modo nuovo.276
Oggi possiamo dire che questo modo nuovo di rivelare il Regno è appunto la passione, la compassione che Gesù mostrava di avere per
indigenti, malati e poveri in genere. Non è un problema se, in alcuni casi, tali segni possono essere stati ampliati o interpretati. Essi non
cessano di mostrare il comportamento di Gesù nei confronti dei sofferenti.
Da Lui giungevano mamme e papà che chiedevano un aiuto per i loro figli, ma anche uomini, donne, giovani e bambini malati che, avendo sentito e visto altre guarigioni di Gesù, gli si avvicinavano con una fiducia tanto grande da permettere dei miracoli, i quali rivelavano come era il suo cuore. Dobbiamo comunque vedere i miracoli non come segni della potenza sua o riferita a Dio, ma come degli atti di compassione e di misericordia.
Gesù era innamorato del suo popolo. Per questo gli dava tutto il bene che possedeva: l’istruzione perché era maestro, la guarigione in quanto taumaturgo, il perdono perché era buono e, infine, spiegava quanto Dio è Padre, affinché nessuno si sentisse orfano. Comunque il sopraccitato Rahner non nasconde che l’uomo d’oggi, inserito in un mondo tecnologico e razionale, fa una grande fatica a capire che possa esistere il miracolo.
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[276] - Cfr. K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni, 2005, p. 331.
Le posizioni critiche del razionalismo moderno, che cancellano volentieri miracoli, risurrezione e divinità di Gesù Cristo, sostengono che quelle piccole azioni dette miracoli servono a ben poco, rafforzano soltanto i nostri sogni infantili e ci portano ad evadere dalla realtà. Essi sostengono che ciò che conta è impegnarsi coraggiosamente, nella politica, nel sindacalismo o nell’economia e proclamare attraverso la propria condotta una nuova maniera di vivere, che modifichi le strutture sociali ingiuste.
Se è vero che per molto tempo la religione cristiana si è relegata nelle sacrestie e ha meritato spesso di essere considerata un anestetico del popolo, possiamo però dire a testa alta che i “cristiani di razza” come Martin Luter King, Helder Camara o Madre Teresa di Calcutta, si sono nutriti tutt’altro che di oppio del popolo: con il programma del Regno di Dio predicato da Gesù, hanno affrontato con dedizione totale le più terribili situazioni di miseria. Il miracolo, che possiamo considerare come il prolungamento della creazione, testimonia l’assoluta gratuità di Dio e deve condurre a un impegno più radicale nell’attività di servizio.
Léon-Dufour cita Légasse, il quale, in un ampio studio, con una lealtà sorprendente, va a caccia di tutti i sofismi, ovunque si nascondano, sia che provengano dal razionalismo, sia dall’apologetica. Lo storico riconosce che Gesù ha comunque compiuto dei miracoli, anche se gli è impossibile cogliere tutti i particolari dell’avvenimento riferito.277
Lo stesso Légasse conclude il suo studio sulla storicità dei miracoli sostenendo che il contesto storico-culturale nonché il genere letterario dei Vangeli esigono un esame critico dei racconti relativi ai miracoli, se ci si vuole pronunciare sulla loro storicità. Di conseguenza, una grande umiltà deve accompagnare e ispirare ogni pronunciamento sui dettagli dei miracoli raccontati, ma nell’insieme s’impone un’evidenza: «Gesù si è presentato ai suoi contemporanei come un taumaturgo dotato di poteri straordinari».278
Quanto ai diversi episodi e dettagli, lo storico dovrà scrutare ogni pericope evangelica, utilizzando il maggior numero di criteri che ha a
disposizione. Ad ogni modo, egli non arriverà che ad un grado relativo di probabilità: non si può sperare di più dalla scienza storica. Se poi il cristiano si domanda se si può ancora affermare che la missione e la natura del Cristo siano state provate dai suoi miracoli, si può rispondere affermativamente, considerando però che gli atti prodigiosi di Gesù potrebbero anche essere solo il suo modo di raggiungere l’altro, di dirgli che gli vuol bene, di dirlo in fretta e al più gran numero di persone. Potrebbe essere stato il suo modo di amare i poveri, i piccoli, i malati, i sofferenti, tutti coloro che accorrevano a Lui per chiedere la sua compassione e il suo amore indiviso.
Gesù offre personalmente, ad uno ad uno, il dono del miracolo. Non ha guarito tutti i malati della Palestina, né ha resuscitato tutti i giovani morti prematuramente, ma ha guarito il “prossimo”, il malato che incontrava, con il quale stabiliva un rapporto che curava e convertiva: così avvicinava il Regno di Dio, in cui anche i poveri sarebbero stati beati.
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[277] - X. Léon-Dufour, op. cit.
[278] - S. Légasse, op. cit.
Se a un ateo accade di constatare un fenomeno che noi chiamiamo “miracolo”, non potrà far altro che confessarsi incapace di iscriverlo nella sua sintesi scientifica. Un non credente non può accettare un miracolo e dovrà sforzarsi di trovare tutte le spiegazioni razionali possibili. Sono stato personalmente coinvolto in un fatto straordinario: un signore della periferia di Rio de Janeiro fu colpito da una malattia che lo stava paralizzando. Egli, costretto alla carrozzella, aveva già perso la sensibilità degli arti inferiori e in parte delle braccia. Il medico, che conosceva bene il decorso della malattia, con sensibilità umana l’aveva aiutato ad accettare la sua situazione, ormai irreversibile.
Ma quest’uomo, con una grande fede, trovò il coraggio di chiedere a Dio il miracolo per l’intercessione di un testimone, che lui riconosceva come grande santo. Improvvisamente recuperò la salute, lasciò la carrozzella e riprese la sua vita normale, con la certezza di aver ricevuto un miracolo. Quando si presentò al suo medico ateo, che lo aveva seguito in tutte le fasi, compresa l’ultima, chiese se poteva testimoniare quel miracolo avvenuto davanti ai suoi occhi.
La risposta fu la seguente: “La medicina ha molte zone d’ombra che noi non conosciamo. C’è poi il fatto che se questa guarigione è avvenuta, significa che poteva avvenire e se poteva avvenire io non posso considerarla un miracolo”.
In quanto ateo, il medico non poteva andare oltre, ma la persona onesta che pretende risposte oggettive può rimanere perplessa di fronte a tale conclusione.
Leggendo i miracoli di Gesù, non dobbiamo preoccuparci di presentarli a noi e agli altri con caratteristiche razionali, dimostrabili, infatti non sono annoverati tra i dati di questo mondo: parlare di miracolo significa parlare di Dio, che non è uno degli elementi di quaggiù. Qualcuno dice che, essendo un fenomeno difficile da accettare per l’uomo moderno, è meglio parlare il meno possibile di miracolo, proprio per non irritare appunto la sensibilità contemporanea.
A tal proposito, Duquesne risponde: «Se c’è una verità lì davanti a te, continuerà ad essere una verità, anche se è inaccettabile per l’uomo moderno, e se c’è un dubbio, continuerà a rimanere un dubbio, se c’è un errore continuerà ad essere un errore [...] l’importante, l’essenziale non è sapere quello che è “accettabile”, ma ciò che è vero»..279
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[279] - J. Dusquesne, Jesus a verdadeira historia, Geraçao Editorial, 2019, p. 99.
Gli studiosi cattolici hanno riconosciuto all’unanimità che Gesù ha comunque compiuto dei miracoli, anche se non sempre è possibile
determinare tutti i particolari del racconto come avvenuti in quel modo.280 Tutto il lavoro effettuato dagli storici per appurare la validità e credibilità del miracolo hanno lo scopo di dirci che i miracoli evangelici non sono delle “favole”, ma dei fatti che esigono l’esistenza di un referente per avere un qualche senso. Però il fatto in sé, pur essendo indispensabile, non sarebbe sufficiente senza che qualcuno lo abbia colto, interpretato e utilizzato per la sua conversione o crescita umana e spirituale.
Il fatto che un giorno Gesù, passando, abbia curato un malato, non sarebbe così straordinario, in quanto ogni giorno migliaia di persone con questa o quella medicina curano dei malati. Ma, leggendo gli atti di miracoli nei Vangeli, dobbiamo focalizzare l’attenzione sul contesto in cui il fatto è avvenuto, su chi ha compiuto quell’azione prodigiosa e a quali persone è stata data una testimonianza; tutto questo ci dice che quel miracolo è andato molto oltre la somministrazione di un antibiotico.
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[280] - Per alcuni non è importante di dove venga il racconto del miracolo, se da Gesù stesso o se riportato dalla comunità, ma al credente cattolico interessa sommamente se quel fatto raccontato sia veramente capitato e se i fatti sono avvenuti come dicono i racconti. Senza i fatti non potrebbero esistere le interpretazioni dei miracoli stessi e non potremmo ricevere i messaggi che Lo stesso Gesù voleva offrirci con quegli atti di bontà.
I miracoli sono sempre rivolti a un preciso destinatario: con il miracolo Gesù parla sempre a qualcuno, invitandolo alla conversione, alla fiducia, al superamento della paura, al desiderio di inserirsi nella comunità degli uomini, a non considerarsi più tagliato fuori dal mondo e altro. Quando Gesù calma la tempesta, non agisce primariamente sul vento o sulle nuvole, ma sugli apostoli, sulla loro paura e sfiducia, e li integra nuovamente nella fede che stavano perdendo.
Quando guarisce i lebbrosi, Gesù non agisce primariamente sui virus o i tessuti umani in decomposizione: toccando e accogliendo i malati, li inserisce nuovamente nella loro famiglia, li rimanda al Tempio da cui si sentivano rifiutati e li riaccoglie nella società umana dalla quale si erano autoesclusi. E la fede di chi ha ricevuto il miracolo, in primo luogo, insieme alla fede di chi lo ascolta o lo legge, riportato da un testimone, è ciò che conferisce valore a quell’avvenimento.
Ferretti sostiene che la «compassione-cura di Gesù per l’uomo lo prende talmente da caratterizzare tutta la sua vita come: “servizio all’uomo”», 281 tanto che, nell’ultima cena, davanti ai segni del suo corpo e del suo sangue afferma: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi [...] questo è il mio sangue [...] versato per voi». 282 E ancora: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve». 283 Lo stesso Ferretti cita poi Bonhoeffer che, con grande efficacia, qualifica la figura del Cristo come “l’esserci per gli altri”.
Di fronte a tutta quella gente malandata, Gesù si è infatti lasciato coinvolgere dalla sofferenza umana, facendo perfino miracoli che non avrebbe voluto fare, come quello di Cana di Galilea o quello verso la donna siro-fenicia.284 Si può concludere che questo Gesù misericordioso, totalmente per gli altri, pieno di compassione di fronte alla sua gente affaticata e stanca a cui dà sollievo incoraggiandola, curandola e liberandola con pietà, fino alle lacrime, è l’immagine più divina che abbiamo di Gesù. Come, dal primo giorno della creazione, il Padre è stato e sarà fino alla fine totalmente “per noi”, così Gesù è totalmente per noi.
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[281] - 281 G. Ferretti, Essere cristiani. Il «nostro» cristianesimo nel moderno mondo secolare, Torino, Elledici, 2016, p. 90. Cfr. Mt. 20, 28: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
[282] - Lc. 22, 9-20.
[283] - Lc. 22, 27.
[284] - Bonhoeffer presenta Gesù come “Dio in forma umana!” e sostiene che non è il mostruoso, il caotico, il lontano, l’orribile in forma animale, come nelle religioni orientali, ma neppure il dio dei filosofi, di coloro che indagano sulla metafisica e l’infinito, ma “l’uomo per gli altri” e perciò il crocifisso. (Cfr. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni, 1999, p. 462).
Gesù compie i miracoli all’interno di un discorso o a lato di un messaggio: per esempio, il racconto della pesca miracolosa è lo spunto per esprimersi in relazione ai “pescatori di uomini”. Nella moltiplicazione dei pani, il ricordo della manna nel deserto mostra che Gesù (non Mosè) è il portatore della salvezza definitiva; il vino delle nozze di Cana evoca il banchetto della fine dei tempi; il fico seccato illustra l’abbandono divino in cui cade il peccatore e, ancora, il fico secco e il tempio “secco” meritano il rimprovero e il gesto profetico di Gesù mentre ribalta la mercanzia dei venditori del Tempio.
Secondo Légasse «questi testi così come ci sono giunti hanno poco a che vedere con il puro “racconto di miracolo” che ha prima di tutto lo scopo di esaltare la persona del taumaturgo e le sue divine competenze. Il prodigio in quanto tale passa in secondo piano, mentre ciò che prevale è la catechesi» 285 Lo storico soggiunge poi che la comunità primitiva non aveva alcuna necessità di presentare un Gesù che compie miracoli, infatti nessuno dei titoli che il cristianesimo apostolico ha conferito al suo fondatore come Messia, Profeta, Figlio dell’uomo, Figlio di Dio, Maestro, implicava che egli venisse considerato un taumaturgo capace di esercitare il suo potere ugli ossessi e sugli infermi, né si era mai pensato che un Messia dovesse compiere miracoli.
Per sottolineare ancora la storicità dei miracoli di Gesù, si possono ricordare i particolari “palestinesi”: vengono infatti date precisazioni
geografiche come Genezareth, Cafarnao, Betsaida, Dalmanutha, la Regione di Tiro e Sidone. Si specifica inoltre che Gesù guarisce nella
sinagoga, che una malata tocca la “frangia” del suo vestito, che si disfa la terrazza di una casa per far scendere un paralitico di fronte a Lui e si usano pure parole aramaiche come Thalità kum, oppure Effata.
Gesù si differenzia dai taumaturghi dell’epoca intervenendo con una sola parola come: «Alzati; sii mondato, Lazzaro vieni fuori», etc. In alcuni resoconti emergono poi dei limiti, che testimoniano una legittimità difficile da contestare: ad esempio non guarisce personalmente il cieco nato, ma gli comanda di immergersi nella Piscina di Siloe.286
Anche il cieco di Betsaida viene guarito in due tempi: prima comincia a vedere uomini come alberi. In altri casi utilizza mezzi terapeutici che facevano parte della medicina contemporanea: dita nelle orecchie, saliva sulla lingua, fango con saliva spalmato.
Légasse sottolinea che questi passi invitano a vedere i residui di una tradizione autentica, più credibile di quella secondo la quale Gesù si
comporta come una persona sicura dei suoi poteri divini. Non si può dimenticare poi il fatto che, in alcuni casi, l’assenza di fede nel malato rendeva più difficile il miracolo.
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[285] - S. Légasse, op. cit., p. 91.
[286] - Gv. 9, 7.
Nel trattare di guarigione da malattie, non si può evitare lo scontro con Satana, le possessioni demoniache e gli esorcismi. I particolari di
questi racconti possono essere attribuiti agli evangelisti stessi o alle tradizioni popolari dell’ambiente in cui visse Gesù. Al tempo di Gesù, malattia e possessione demoniaca erano spesso sinonimi. Per potersi far capire nei suoi discorsi e nelle sue azioni, Egli ha assunto così profondamente la mentalità e cultura dei suoi contemporanei da condividere persino le loro credenze anche in questo campo.
L’animismo spontaneo delle popolazioni primitive, infatti, era diventato sempre più complesso in tutti i paganesimi dell’antichità, dando vita a mitologie molto elaborate che presentavano le lotte tra il Bene e il Male, la Luce e le Tenebre, l’Ordine e il Caos, quindi spiriti buoni e spiriti cattivi.
Come aveva reagito la religione di Israele prima e il giudaismo poi di fronte a tutto ciò? Non si è ostacolato il mondo degli spiriti, ma lo si è adottato disciplinandolo secondo le proprie esigenze dottrinali. «Poiché il Dio unico assorbe ormai in sé tutto ciò che gli antichi attribuivano alle divinità, non rimaneva più posto accanto a Lui se non per Potenze a Lui subordinate, ausiliarie del suo disegno di benevolenza verso gli uomini o, al contrario, ostili a tale disegno, emissari incaricati di eseguire i suoi ordini o, al contrario, di farli fallire, così in Israele prese poco a poco forma una dottrina degli Angeli e dei demoni nella quale si potrebbero rilevare elementi presi da tutte le civiltà circostanti: Canaan, Egitto, Mesopotamia, Iran, insieme al sincretismo greco». 287
Nel giudaismo – orientamento distante dai paganesimi –, la potenza del Dio unico domina in modo assoluto sulle altre. Le forze personificate fuori di Lui sono sempre pensate come creature alle quali Dio concede un potere limitato nella misura in cui l’uomo deve essere provvidenzialmente “messo alla prova” o “tentato” (il concetto di tentazione e quello di prova viene designato con lo stesso termine), affinché l’uomo superi le prove e si irrobustisca nella fede. Si può dire che Gesù non ha insegnato nulla di nuovo in materia di demonologia, ma ha semplicemente usato il linguaggio simbolico del suo tempo per farsi comprendere dalla sua gente.
A conclusione di questa riflessione, riporto una risposta illuminante data nell’aula del Concilio Ecumenico Vaticano II. A Pierre Benoit domandarono che cosa si poteva pensare a riguardo dell’oscuro personaggio di Satana: il Padre rispose che non possiamo cancellare quel nome senza strappare diverse pagine della Bibbia, ma dobbiamo riconoscere con umiltà che non sappiamo che cosa sia, se cioè un essere personale o simbolico, la personificazione del male, l’insieme dei peccati o altro ancora. Questa risposta umile e sapiente ci aiuta a leggere con umiltà tutti i testi che, nei Vangeli, riferiscono qualcosa della demonologia.
Tutti oggi ammettono che i racconti evangelici di miracoli non sono stati inventati dagli evangelisti, i quali li hanno ricavati da fonti scritte o orali. Secondo molti esegeti, Matteo e Luca avrebbero utilizzato il Vangelo di Marco e sia Luca, sia Giovanni, avrebbero poi aggiunto alcuni racconti che provenivano da altra fonte indipendente. Marco avrebbe potuto attingere a “collezioni di miracoli” poi distribuite nel suo racconto e Giovanni a un’altra “fonte di segni”.
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[287] - P. Grelot, I miracoli di Gesù e la demonologia giudaica, in X. Léon-Dufour, op. cit.,
1980, p. 49.
Ci sono poi alcuni racconti di miracoli che riportano alcune analogie con i racconti di miracoli dell’A.T., come quello tra Elia e la vedova di Sarepta e tra Gesù e la vedova di Naim,288 o ancora tra la moltiplicazione dei pani di Eliseo e la moltiplicazione dei pani di Gesù,289 o tra il racconto di Giona che dorme nella nave e la tempesta calmata e Gesù che dorme sulla barca mentre infuria la tempesta che viene poi sedata.290
Maurice Carrez ci mette comunque in guardia dicendo che i miracoli di Gesù sono comunque situati in un luogo e uno spazio ben precisi e non sono da considerarsi delle “ripetizioni”. Le analogie sono sufficientemente velate e i racconti hanno un’autonomia tale da permettere una lettura del testo senza alcun riferimento ad altri racconti dell’A.T. Queste analogie tanto discrete evocano semplicemente nella persona di Gesù un compimento che supera la realtà antica.291
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[288] - Cfr. 1 Re 17, 10, 21-23; Lc. 7, 11-15.
[289] - Cfr. 2 Re 4, 42-44; Mt. 14, 16-20.
[290] - Cfr. Gn. 1, 3-15; Mt. 8, 23-25; Mt. 4, 37-41; Lc. 8, 22-25
[291] - 291 Cfr. M. Carrez, L’eredità dell’Antico Testamento, in X. Léon-Dufour, op. cit., 1980.
Durante i secoli, non sono tuttavia mancati coloro che, desiderosi di approfondire il problema dell’autenticità dei Vangeli o spinti da correnti razionaliste, si sono posti infinite domande sulla fedeltà di questi racconti, studiando le fonti da cui potevano provenire. Si voleva capire se fossero giunti dall’ambiente giudaico e greco, se potevano essersi formati dal gusto orientale del meraviglioso o folclorico di quelle regioni, o ancora se si fossero sviluppati dai “raccontafavole delle fiere e i narratori delle veglie invernali”, che avrebbero quindi potuto ricamare sull’attività del guaritore Gesù e farne un eroe dei miracoli.
Per quanto riguarda quest’ultima tesi, occorre però sottolineare come i racconti dei miracoli, così essenziali e scarni, poco si addicono a narratori che devono attrarre il pubblico e far apprezzare il loro racconto. A turno gli studiosi hanno comunque scandagliato tutte le ipotesi, ponendo ogni domanda possibile e analizzando le fonti, il metodo usato, le possibili provenienze, le parole più probabili dei racconti e quelle che possono essere state inserite in fase di redazione. Luca cerca di spiegare i miracoli descrivendo una forza che opera in Gesù 292 e nei suoi inviati.293
Barret mostra che Luca attribuisce i miracoli all’azione dello Spirito.294 Propriamente parlando, almeno nei Vangeli non abbiamo mai una spiegazione del miracolo, ma semmai uno sforzo per comunicare come quei fenomeni si sono presentati. D’altra parte, sappiamo che nessun miracolo può essere dimostrato come una formula matematica, perché è un atto di Dio stesso, della libertà suprema.
Il miracolo, infatti, può solo essere ricevuto e mai preteso e dovrà sempre essere accolto nella fede, anche quando l’evidenza s’impone con un linguaggio particolarmente convincente. E da ultimo portiamo nel cuore le parole di Gesù, consegnate ai messaggeri di Giovanni: «Andate e riferite ciò che avete udito e sentito: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano e all’orecchio dei poveri arriva la buona notizia».295
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[292] - Lc. 4, 36; 5,17; 6,19.
[293] - Lc. 9, 1; At. 3, 12; 4,7; 6,8.
[294] - C. K. Barret, The Holy Spirit and the Gospel Tradition, Wipf and Stock, 2011
[295] - Mt. 11, 5.
Al termine di questi appunti, voglio rivolgermi al credente che, dopo aver approfondito lo studio dei miracoli di Gesù, si trova ancora confuso o perplesso nell’accettarli o anche a chi la fede l’ha persa, pure se è rimasto in lui qualche riflesso di una credenza del passato.
Questi credenti o miscredenti sappiano che ogni volta in cui, trovandosi nella burrasca, in una nave immersa due volte sotto le onde e poi riemersa o alle prese con dolori che la medicina non riusciva a calmare o, ancora, davanti a un figlio in rianimazione con pochissime speranze di vita, ebbene se in quei momenti, senza nemmeno rendersene conto, essi hanno rivolto gli occhi al cielo, quasi per chiedere un qualche aiuto, sappiano che in quel preciso momento hanno chiesto un miracolo anche loro.
Quando Gesù chiamò i primi discepoli, subito Natanaele lo seguì dicendogli: «Tu sei il re di Israele!». Durante il ministero pubblico, Lui doveva scappare, perché la gente voleva farlo re. Specificava, spiegava, evangelizzava, ma nel suo ingresso a Gerusalemme la gente lo accolse ancora con: «Benedetto il Regno che viene di nostro padre Davide!». E non solo la gente aveva l’idea fissa. Nell’elenco dei Dodici figura un certo Simone, designato con l’appellativo di “zelota”, e forse qualche altro apostolo che perseguiva la stessa idea degli zeloti di liberare in fretta Israele e costituire un nuovo regno politico di pace che chiamavano anch’essi volentieri: “Regno di Dio”. E lo stesso accadde durante la sua passione, con Pilato: «Tu sei il re dei Giudei?». E così sulla croce: fu scritto perfino su un cartello. E anche dopo la sua morte, sulla via di Emmaus, i discepoli di cosa possono discutere se non del solito argomento? “Noi speravamo fosse lui a liberare Israele e diventare nostro re”. Un minuto prima della sua ascensione, ancora quella domanda. A ricordarci che non sono cambiati.
I Dodici avevano capito chiaramente che Gesù era il Messia e, se era tale, doveva essere il liberatore dagli invasori romani. Egli aveva dimostrato di avere una forza superiore che nessuno aveva mai dimostrato di avere, per cui era doveroso aspettarsi che sarebbe stato lui a portare a termine l’impresa della liberazione. Tutti avevano sognato il tempo del Messia. Il tempo era arrivato. Gesù era diventato questa speranza. Si respirava ormai un tempo che avrebbe portato una vita senza guerre, cibo abbondante, il buon pane profumato, vino, latte e miele, come si era sempre sognato per il tempo in cui sarebbe arrivato il Messia. Gli apostoli avevano sentito Gesù pronunciare parole portatrici di grandi contenuti come amore, giustizia, perdono, misericordia, sofferenza, morte-risurrezione, ma tutto questo doveva essere subordinato a una liberazione dai nemici, all’impianto di una struttura politica nuova, che rendesse possibile vivere in un regno nuovo, una politica diversa promessa da secoli.
E tutto ciò che Gesù diceva riguardo al Regno, i suoi discepoli dovevano tradurlo nel loro contesto storico. Quando sentirono parlare di Beatitudini udirono: «Beati i poveri». Certo, perché nel nuovo Regno essi non saranno più poveri, ma tutti avranno il necessario per vivere. «Beati coloro che hanno fame». Certo, perché nel nuovo Regno tutti avranno cibo e una vita dignitosa, infatti i pani e i pesci si sarebbero moltiplicati, come i discepoli avevano già sperimentato, e nemmeno il vino per la festa non sarebbe più mancato e, poiché nel Nuovo Regno si vivrà di giustizia e di pace, non ci saranno più crimini, né carcerati. Nel nuovo Regno non ci saranno più distruzioni di case, paesi o città né di raccolti, perché non ci saranno più guerre. Si ricordarono che qualcuno aveva profetizzato un Nuovo Regno in cui avrebbero fatto fondere le armi per farne degli aratri.
I discepoli capirono che nel Nuovo Regno non ci sarebbero più stati malati, infatti avevano constatato con i loro stessi occhi che dove Gesù arrivava i malati guarivano. Nemmeno le calamità naturali come la burrasca, il vento e le tempeste, che avevano causato tanti naufragi sul mare o sul lago non avrebbero più avuto potere di distruzione, perché dove arrivava Gesù anche le tempeste si calmavano. Non più ciechi, né sordi, né paralitici o lebbrosi: tutti questi avrebbero incontrato la guarigione.
Quando poi Gesù cominciò a parlare di un comandamento nuovo, i discepoli capirono che i nemici non sarebbero più esistiti, in quanto nella nuova legislazione i nemici sarebbero stati amati. E quando Gesù parlò dei bambini che erano il segno del Regno di Dio, i discepoli intesero che nel nuovo regno anche gli adulti avrebbero ottenuto un cuore da bambini, quindi non ci sarebbero più stati l’orgoglio, la violenza, la sopraffazione, l’umiliazione dei poveri.
E quando Gesù, rivolto a chi era andato ad arrestarlo nel Getzemani, domandò chi cercavano ed essi risposero che cercavano proprio Lui, egli indicò se stesso come l’uomo che essi cercavano; in quel momento tutti stramazzarono a terra fulminati da tanta autorità. Gli apostoli furono certi che ormai uno per uno sarebbero caduti tutti, fino all’ultimo principe di questo mondo: Pilato, Erode, Cesare, i re di Babilonia con i loro eserciti, tutti avrebbero consegnato le armi e si sarebbero convertiti al nuovo Regno di giustizia, di misericordia, di perdono e di pace.
Quando poi Gesù comandò di amare come lui aveva amato, capirono ancora meglio la bellezza del Regno: seppero che dovevano confidare in Dio come confidava Lui; credere nell’amore come ci credeva Lui; avvicinare i sofferenti come li avvicinava Lui; difendere la vita come la difendeva Lui; guardare le persone come le guardava Lui; affrontare la vita e la morte con la speranza con cui le affrontava Lui; annunciare quella Buona Notizia come l’annunciava Lui.
Tutto questo era il nuovo Regno che ormai si sognava attorno a
Gesù. Come non essere disposti a dare la vita per un Regno di questo tipo! Quindi, il Regno che sognavano i discepoli di Gesù non era una
realtà banale, come spesso una certa predicazione ha proposto, quasi fosse un regno come quello di Davide, di Erode o di Cesare Augusto: no! Era un sogno molto serio e si poteva capire come i discepoli, sinceri, fossero anche disposti a dare la vita per un regno così. Certo Gesù sapeva che essi comprendevano in questo modo la realtà del Regno di Dio, ma era tutto quello che avrebbero potuto capire. Come avrebbero potuto capire che il Regno di Dio andava molto oltre questi loro pensieri?
I discepoli furono però forzati a intravedere che la proposta del Regno di Dio andava oltre le loro aspettative, infatti nel Getzemani, dopo aver visto coloro che erano andati ad arrestare Gesù che erano caduti a terra, li avevano pur visti rialzarsi ancora, e quando davanti alla croce non potevano che aver sperato disperatamente di vedere Gesù scendere da un momento all’altro dal patibolo per iniziare finalmente la rivoluzione, ma poi contro ogni loro aspettativa Lui non era sceso e Gesù era morto davvero.
Così, invece di capire, arrivò la notte più lunga del mondo, carica di domande senza più risposte. In quella notte, tutti i sogni si infransero con ciò che era stato sperato con assoluta certezza. Essi, i poveri discepoli, avevano nutrito tanti sogni, ma almeno uno, quello del Regno di Dio era stato garantito loro dalla persona più autorevole che essi avevano incontrato nella loro storia. Ma quello stesso sogno era stato crocifisso con chi l’aveva proclamato e promesso. Nessuno mai più, su questa terra, avrebbe potuto promettere o riproporre quel progetto o tanto meno realizzarlo.
Adesso bisognava ripensare che cosa era questo Regno predicato da Gesù e che significava entrare nel Regno di Dio: non equivale certo ad entrare in Paradiso, nella Vita Eterna. Quest’ultimo dono Dio può darlo come regalo insieme al nostro desiderio di riceverlo, ma entrare nel Regno significa entrare nella mentalità di Gesù, nel suo progetto di salvezza, nella sua politica, che abbatte la potenza del potente e innalza l’umiltà del piccolo (il potente e il piccolo che c’è in ciascuno di noi). Entrare nel Regno di Dio significa dunque entrare nel suo cuore. Se poi qualcuno fosse superficiale nel fare questo passo e pensasse che vendere i beni è solo una questione di economia, è bene che sia informato su tutte le conseguenze che implica voler entrare nel Regno di Dio e quindi nella sua mentalità.
All’inizio della sua predicazione, Gesù ha cominciato a parlare del Regno nuovo, cercando di far capire che quel Regno non è gestito come i regni e gli imperi che comunemente conosciamo. Non è gestito con la forza, con il potere, con la violenza: è tutt’altra cosa. Diamo uno sguardo ai due regni: quello del mondo e quello di Dio. Il regno degli uomini ha palazzi e fortezze che devono scoraggiare i nemici: in India, una fortezza ha 26 km di strada al suo interno.296 La Muraglia cinese è lunga 7.500 km. Il muro di sabbia e mine che divide Marocco e Algeria è di 2.400 km. Di mura ce n’era anche uno a Berlino e ancora uno taglia la stessa Gerusalemme. Gli eserciti degli imperi hanno soldati che devono essere forti, violenti, senza scrupoli. Durante le guerre mettono a ferro e fuoco i nemici con tutto ciò che loro appartiene, distruggendo ogni cosa senza fare distinzione tra palazzi, case, ponti, uomini, donne e bambini.
I regni di questo mondo devono mostrare che sono potenti e che nessuno può osare di misurarsi con loro. Mostrando violenza e crudeltà, i regni mondani vogliono ottenere la paura e il terrore dei sudditi e dei nemici. Un esempio tra gli infiniti: nel XIII secolo, dopo la vittoria a Van, Tamerlano fece gettare tutti gli abitanti dall’alto delle scogliere, mentre a Sivas (Sebaste) non lasciò uccidere gli ultimi 4mila soldati per farli seppellire vivi. Da ultimo, raccolti tutti i bambini in un piazzale, li fece calpestare dai cavalli dei vincitori, per incutere terrore nei dintorni e mostrare a che punto potevano giungere la sua forza e il suo potere.
Il primo palazzo-fortezza del Regno di Dio è stata invece una grotta-capanna della massima fragilità, a Betlemme. E la reggia in cui è vissuto per 30 anni era in parte scavata nella roccia col tetto di fango pressato sui fasci di rami. L’esercito del Regno di Dio è composto di uomini e donne, di molti giovani che si sono lasciati torturare, impiccare, segare, bruciare come torce per illuminare i giardini dei regni di questo mondo, altri che si sono lasciati macinare dai denti di animali feroci, che sono finiti inchiodati o squartati per divertire coloro che desideravano vedere la fine del cristianesimo.
Il loro Re, che invita alla battaglia in prima fila, è un uomo crocifisso, Gesù Cristo. Il Regno di Dio è tutto questo. Gesù cerca di far capire – senza riuscirci sempre – che entrare nel suo Regno, cioè diventare cristiani, significa fare il suo stesso percorso e in mille modi spiega che passerà dal Calvario attraverso una passione cruenta, portando una croce: chi vuol seguirlo dovrà caricarsi della propria croce e andare dietro di Lui. La madre di Giacomo e Giovanni, un giorno gli chiede un grande favore: che i suoi due figli possano sedere nel suo Regno, uno alla destra e l’altro alla sinistra (potremmo dire uno Primo Ministro e l’altro Segretario di Stato). Gesù, senza rimprovero, risponde solo: “Ma vi rendete conto di quello che chiedete?”
Ricorda ancora che seguirLo in tutto significa essere disposti a dare la vita come Lui e, a quel punto, i due fratelli, baldanzosamente – non per nulla erano chiamati figli del tuono – accettano, ma con molta probabilità sono disposti a combattere al suo fianco in una guerra sperata, che Gesù stesso avrebbe dovuto fare per diventare il Re del mondo. I due fratelli, quindi, assicurano che saranno disposti a combattere in prima fila, all’arma bianca e quindi anche a morire per un Regno di quel tipo. Gli altri dieci s’infuriano con i due, perché anch’essi si sentono soldati altrettanto valorosi, ma Gesù vuole aiutarli a capire che il suo Regno è ben altro.
Per spiegare il nuovo Regno di Dio, Gesù parla con molte parabole. Sì, paragona il Regno, non a un grande cedro, ma un granello di senape – tanto piccolo che quasi non si vede – anche se dentro ha una forza straordinaria per diventare albero e a un poco di polvere di lievito, che pare nulla, ma dentro ha la forza di dilatare una grande quantità di pasta.
Un certo giorno Gesù mette un ragazzotto nel mezzo, quello che nella casa è il più giovane, il servo di tutti, comandato da tutti, considerato senza valore alcuno perché ancora piccolo, anche se ha dentro di sé una forza che lo farà diventare un uomo: Gesù spiega che il Regno di Dio è come quell’adolescente, anzi Gesù stesso si identifica con lui. E una parabola in particolare deve aver catturato l’attenzione dei discepoli di Gesù: quella della perla preziosa, per cui chi la trova è disposto a vendere tutto per acquistarla, ma gli apostoli continuavano a pensare a preziosità come oro, argento, denaro, potere, etc. E come avrebbe potuto Gesù far capire che la “perla preziosa” per Lui era anche la morte in croce? Sì, è una morte che comporta anche la Risurrezione, ma come spiegare questo prima che gli apostoli avessero avuto la possibilità di farne esperienza? E come si spiega che quando preghiamo o rivolgiamo le preghiere e invocazioni anche durante la liturgia chiediamo sempre di star bene, chiediamo la salute per noi, per i nostri parenti ed amici, la soluzione di tutti i problemi che ci fanno soffrire, la serenità e ogni benessere? Chiediamo la pace che è però la pace del mondo e non la Pace di Dio. Questa preghiera come s’incastona nella predicazione del Regno di Gesù?
Quando Isaia descrive il “Servo sofferente”, se non legge in una bolla di cristallo, descrive la strada dell’uomo giusto, di ogni uomo giusto e di ogni vero servo del Signore, che è un uomo maltrattato, flagellato, caricato di sputi e di insulti. È vero che, quando chiediamo al Signore di essere giusti, di seguire il cammino della sua volontà e chiediamo che venga il suo Regno, noi non ci rendiamo conto che domandiamo tutte le conseguenze di un “Servo del Signore”, un “Servo sofferente”. Gesù stesso, leggendo questi testi di Isaia, li applica a sé, quando
preannuncia la passione e la preannuncia perché sarà così per tutti coloro che vogliono seguire il cammino della giustizia e della verità.
Penso sia per questo che ci dice di prendere la nostra croce e di seguirLo. La croce sarà diversa per ciascuno, ma il grido umano sarà lo
stesso. 297
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[296] - Forte di Cittorgat.
[297] - Cfr. R. Rosso, Il dialogo dei monaci.
Osanna al Figlio di Davide,
lo gridò il popolo in festa.
Osanna, ripeterono i bambini.
Benedetto Colui che viene
nel nome del Signore.
Le donne si affacciarono alle
porte,
si coprirono il volto
e sorrisero di gioia
e ricordarono che era proprio
Lui,
Gesù, quello che aveva
benedetto
i loro figli.
Osanna! Osanna!
Lo proclamarono tutti
Nuovo Re di Israele.
E gli anziani si sollevarono
dalle loro stuoie
e ringraziarono:
lascia, o Signore, che noi
ce ne andiamo in pace,
ormai abbiamo visto,
sì abbiamo visto
la salvezza del nostro popolo.
Adesso conosciamo
Chi è il salvatore.
E ancora pregarono e
cantarono:
quanto è grande il tuo nome
su tutta la terra,
o Signore.
La tua grandezza
è più alta dei cieli,
e oggi,
proprio con la bocca
dei bambini e dei lattanti,
affermi la tua potenza
contro i nemici,
per ridurre i ribelli al silenzio
e noi possiamo cantare.
E il popolo canta: Osanna!
È Lui il nostro Salvatore!
Eravamo ignoranti, ci ha
illuminati;
eravamo malati,
ci ha guariti;
eravamo peccatori,
ci ha perdonati.
La superbia, l’invidia
E tutti i demoni
che portavamo dentro
vedendo Lui
sono fuggiti
e noi siamo stati liberati.
Osanna al Figlio di Davide,
ci ha fatti vivere.
Osanna! Osanna!
Il corteo si era fatto lungo,
tutta Gerusalemme era corsa,
amici e nemici.
Alcuni stavano in silenzio,
ma chi gridava
diceva: Osanna!
Evviva Gesù!
I malati
ricordarono le loro guarigioni.
Gli apostoli e i discepoli
si rallegrarono per la loro
chiamata
e si sarebbero fatti
bruciare vivi
pur di non perdere l’occasione
di essere là, in quel momento,
alla destra e alla sinistra
di Gesù il Salvatore.
Osanna! Benedetto
Colui che viene!
Per un momento quel canto
aveva fatto tacere
ogni suono.
Gesù sarà incoronato!
È Lui il nuovo Re.
Pilato, Erode
e i sacerdoti del Tempio
se ne andranno,
capiranno e sapranno
che hanno sbagliato strada,
hanno tradito la religione
e se ne andranno per sempre.
Il Regno di Gesù,
il nuovo Regno
sarà stabile per sempre,
sarà come un albero
piantato lungo il fiume
che dà frutto a suo tempo
e sarà coperto come scudo
dalla bontà del Signore.
Mentre gli altri si vantano
di carri corazzati e di cavalli,
noi siamo forti nel Signore
e il nostro Regno
resterà in piedi per sempre.
Il nostro Re Gesù
dominerà tutte le nazioni
e dinanzi a Lui
persino i morti
si prostreranno.
Osanna, Osanna,
Osanna al Figlio di Davide.
E i discepoli sognarono e
cantarono:
la vittoria è vicina.
Dio preparerà una mensa
sotto gli occhi dei nemici,
essi saranno vinti per sempre.
sarà Re per sempre.
Felicità e grazia
ci saranno compagne
tutti i giorni della nostra vita
e noi abiteremo col Signore
per lunghissimi anni.
Osanna, Osanna,
Osanna al Figlio di Davide.
Ma molti fanno silenzio,
hanno paura.
Erode e la corte
ha paura.
I sacerdoti e i servi del Tempio
hanno paura.
Si respira odore di sangue,
l’aria é pesante.
Si teme la rivoluzione.
Tra i molti amici di Gesù,
alcuni sognano la rivolta:
una rivoluzione che cambierà
la storia di Israele.
Anche chi canta smorza la
voce,
di tanto in tanto è assalito da
paura.
Poi qualcuno bisbiglierà:
se la rivolta esplode
Roma si vendicherà
e non resterà più
una pietra sull’altra nel
Tempio.
Le nostre case
saranno distrutte
e tutti noi
e i nostri figli
saremo flagellati,
inchiodati, uccisi
e deportati.
Non resterà più nulla di
Israele.
Ma ancora si ripete:
Osanna al Figlio di Davide,
poi lo si disse più piano,
poi si fece un grande silenzio.
Mentre Gesù
guardava ogni cosa,
qualcuno continuò a pensare:
eppure è Lui,
sì, Gesù è il Messia, Osanna.
Benedetto colui che viene
nel nome del Signore.
Ma si fece tanta paura
nel cuore di tutti
e qualcuno parlò sotto voce:
meglio soffocare,
sì, soffocare la rivolta
prima che esploda.
Meglio che qualcuno muoia
adesso.
Se aspettiamo,
saremo tutti uccisi.
Uno alzò la voce:
meglio che muoia uno adesso
piuttosto che tutti dopo.
Altri udirono e ripeterono:
sì, meglio la morte di uno.
Quelli che prima
facevano silenzio,
presero forza per ripetere:
meglio che muoia
uno adesso.
Quelli che avevano paura
si fecero coraggio per ripetere:
sì, è meglio che muoia
uno adesso.
Quelli che temevano di
perdere il potere gridarono:
meglio che muoia uno adesso.
Gli scribi e i farisei gridarono,
quelli che erano ipocriti
gridarono,
la generazione incredula, ‘
piena di paura gridò,
le vipere e i sepolcri
imbiancati
gridarono tutti:
sì, è meglio che muoia uno,
crocifiggilo,
sì, crocifiggilo.
Nessuno voleva mettere mano
su Gesù ed inchiodarlo,
ma tutti volevano
che altri lo facessero.
Un sacerdote disse a Pilato:
crocifiggilo tu.
Pilato al sacerdote:
crocifiggilo tu.
Erode disse:
crocifiggetelo voi.
E tutti gridarono:
sia crocifisso!
Sia crocifisso!
Qualcuno pianse
e gridò altre parole,
ma fu soffocato
dall’altro grido:
sia crocifisso!
Sia crocifisso!
E Gesù diventò triste,
triste fino alla morte,
ma non per la sua croce.
Tra quelle urla
si rivolse al Padre
e con tutto il Suo Spirito
gridò, nel Suo silenzio:
sì, è giunta l’ora,
mi arrendo,
nelle Tue mani
affido il mio Spirito,
io voglio che si compia
la Tua volontà,
che è anche la mia.
Ecco io vengo.
Dopo questa consegna,
la tristezza lo inchiodò,
prima dei soldati.
In ogni caso Gesù
non pensò ai chiodi,
né ai flagelli,
né di essere lasciato solo, no,
pensò al cuore di Pilato
che doveva essere perdonato e
curato.
Pensò ad Erode
e vide chiaro
quanto era malato
e che bisognava pur guarirlo.
I soldati che lo flagellavano
e lo deridevano
erano immaturi e superficiali
e bisognava farli crescere
senza che si lasciassero
uccidere
da terribili sensi di colpa,
dopo aver capito.
Intanto seguì con lo sguardo
Giuda,
lo vide allontanarsi,
mentre stavano caricando
la croce sulle sue spalle.
Era spezzato dal dolore,
ma quasi non se ne accorse
perché col pensiero
seguiva suo fratello.
Dopo pochi passi
perse l’equilibrio
e cadde in un tonfo
sotto il legno della croce
e tutti pensarono
che era stato quel peso
a farlo cadere.
In realtà, Lui, Gesù,
aveva visto nel cuore
suo fratello
staccarsi da un albero,
appeso a una fune,
come foglia morta
ed ebbe pochi secondi
per guarirlo.
Gesù arrivò in tempo,
ma lo scandalo rimase là,
appeso per sempre.
Un amico,
che aveva predicato con Lui,
aveva scacciato i demoni,
guarito i malati,
aveva pregato con Lui,
aveva ricevuto
la più grande
amicizia del mondo
e adesso
il suo corpo era là
a testimoniare il tradimento.
E Gesù, pur avendolo guarito,
pianse
e si rialzò con la croce,
riprese il cammino,
si guardò intorno
e vide Pietro.
Ma Pietro non si accorse
Che quello era Gesù,
non lo riconobbe.
Gesù pensò
che suo fratello,
primo tra i Dodici,
avesse perso la ragione,
ma subito
lo vide piangere,
piangere come chi ha perso il
padre,
la madre, la sposa e l’unico
figlio.
Allora capì che il cuore
stava guarendo
e riprese a camminare.
Vide sua madre
e fu il primo sorriso
di quel giorno.
E anche Maria,
raccolte tutte le forze,
in quel momento sorrise.
E gli disse:
ho capito,
io non piango per Te,
cosa che non fai
nemmeno Tu;
noi piangiamo per loro.
Vai Figlio,
vai in fretta,
stanno tutti aspettando
che la tua consegna
sia compiuta.
E Gesù
camminò più veloce.
Intanto, una donna
gli rallegrò l’anima,
arrivò vicino a Lui,
e con quel cuore
che Lui stesso aveva purificato
lo amò e Gli asciugò il volto.
Gesù la guardò
e gli occhi dissero:
il mio volto
lo avrai sempre con te,
lo potrai vedere sempre
perché hai il cuore puro.
Uno intanto, Lo aiutò
a portare il legno di croce,
mentre altri portavano i chiodi,
i martelli, le scale, le corde.
Con sforzo
cercò tra la folla qualcuno.
E vide che i dodici non
c’erano:
appena uno
lo seguiva a distanza.
Cadde un’altra volta,
e si ruppe il cuore.
Forse non era ancora il
momento
di lasciarli.
Così giovani,
così immaturi.
Quando un padre sta morendo
vorrebbe vedere i figli
abbastanza adulti.
I dodici, così bambini,
come avrebbero potutocontinuare la missione di
Gesù?
E cadde ancora,
pensando alla sua comunità
così impreparata,
così paurosa,
così delusa.
Gesù si sentì solo,
nudo,
sulla montagna dei crocifissi.
Appena appoggiarono i chiodi,
l’urlo di Gesù
spaventò gli stessi soldati.
Aveva sentito i martelli
che inchiodavano
gli schiavi accanto a Lui
e gridò: Padre,
abbi pietà di loro.
Io so perché sono qui,
ho una ragione,
ma essi
forse sono andati a rubare
per sfamare i loro figli,
forse sono stati mandati
perché schiavi.
Padre, guarda loro,
allevia il loro tormento.
Gesù aveva sentito
entrare i chiodi
nei polsi dei vicini,
di quei suoi fratelli,
di quei suoi figli,
come fossero entrati
nella sua stessa carne;
nel frattempo
era stato crocifisso
anche Lui.
Per un momento
i soldati lo pensarono morto,
perché stavano passando
nella sua mente
migliaia di crocifissi che
urlavano,
bestemmiavano, si
ribellavano,
mentre si contorcevano
nel dolore;
impiccati, fucilati, crocifissi,
impalati:
erano milioni.
Gesù riaprì gli occhi e disse:
Padre.
Poi non sentì più i chiodi,
solo si ricordò
che più volte
aveva ripetuto: resterò con voi
fino alla fine.
Ricordò, in quel momento,
che fino alla fine del mondo
non avrebbe più
lasciato la croce.
Fino a quando ci sarebbe stato
un fratello,
un figlio,
carne della sua carne,
sul patibolo,
Lui, Gesù,
avrebbe dovuto stare
con lui.
Ricordò che fino a quando
ci sarebbe stato un cuore
inchiodato dal peccato,
Lui, Gesù,
avrebbe dovuto stare con lui.
Ricordò che fino a quando
ci sarebbe stato un bambino
inchiodato sulla croce dei
poveri
Lui, Gesù,
avrebbe dovuto stare con lui.
Il peccato e il dolore
del mondo e del tempo
Gli caddero addosso
e Lui, Gesù,
gridò e morì.
Dopo tre giorni, quando i suoi
Lo videro risorto
si rallegrarono,
ma, pur nella festa
di una speranza compiuta,
Gesù mostrò loro
che le sue ferite
erano ancora aperte.
Sarò con voi tutti i giorni
fino alla fine del tempo.
Quando il servizio si fece
pesante
e rischiò di scoraggiare
quei figli,
un giorno
uno corse sul Golgota,
dove un crocifisso
gemeva
bruciato dal tetano
e, col respiro soffocato,
lo guardò intensamente
e si accorse
che Gesù, dopo tanti giorni,
era ancora là
e disse: “Veramente Lui
è il Figlio di Dio”.
Amen.298
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[298] - R. Rosso, Un filo tra cielo e terra, Sondrio.
Per parlare di ebraismo e cristianesimo, al centro delle due religioni, oltre allo stesso Dio, bisogna porre due figure indispensabili: Mosè e Gesù Cristo. Mosè è il salvatore di Israele, lo libera dalla schiavitù d’Egitto e dà al popolo una legislazione divina: la Legge, (la Torah, i Dieci Comandamenti). Gesù è legislatore con un comando nuovo.
Il capitolo su “Gesù Ebreo” ci aiuta a capire la connessione profonda tra Ebraismo e Cristianesimo. La nuova Legge di Gesù consiste nel perdonare incondizionatamente e nell’amare anche chi non sa amare e i propri nemici. E la liberazione che Gesù porta va oltre i confini del cristianesimo. Gesù infatti appartiene anche alle altre religioni. Il dialogo con altre religioni non si può fare in maniera astratta ma con persone concrete, che rappresentano la loro religione anche se non in modo esaustivo.
Verso la fine del secondo millennio, alcuni ebrei 299 hanno riflettuto e si sono posti in dialogo con il Gesù di Nazareth mostrando quanto egli fosse profondamente inserito nella cultura, negli usi e costumi del suo popolo. Questi studiosi, radicati nella stessa cultura che è stata anche quella di Gesù, hanno fatto scoprire le radici storiche di Gesù stesso. Il cristiano deve poi proseguire nel suo approfondimento e scoprire anche l’unicità della persona di Gesù.300 Dopo aver detto che è un ebreo, bisogna pur aggiungere che Gesù non è solo Ebreo, non è solo un profeta, un guaritore o un Maestro, ma per il cristiano è anche l’Icona di Dio stesso.
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* P. Rossano parla di dialogo con persone e non con le religioni in sè.
[299] - Lapide, Flusser, Vermes e Neusner.
[300] - 300 Il cristiano nella sua riflessione «dovrà evidenziare il fatto che, pur assumendo la cultura e la religione giudaica, Gesù l’ha anche trasformata profondamente al punto che in Lui nascesse una nuova realtà» (J. Dupuis, op. cit.).
Per secoli, accanto ai loro dei che sono una rappresentazione dei fenomeni naturali, gli induisti hanno anche venerato Gesù. Già dal primo secolo molti Indù hanno scelto il cristianesimo. Nel XIX secolo nasce un nuovo induismo, una fusione tra induismo e cristianesimo accettato, pur con visioni diverse, da quasi tutti i pensatori rappresentativi dell’India. E questo è stato possibile perché la mentalità indù ha avuto una straordinaria capacità di distinguere il cuore del cristianesimo, Gesù Cristo, da quello che è il comportamento delle Chiese d’Occidente e del cristianesimo (es. dei colonizzatori), al punto che molti sono riusciti a sceglierlo come loro religione.
Qualcuno, in questo periodo, ha pensato il Cristianesimo come il coronamento dell’Induismo e per dire una parola sull'induismo stesso preferisco dirla con le espressioni di alcuni pensatori che lo rappresentano e hanno anche saputo dialogare con il Cristianesimo
stesso.
Mahatma Gandhi: Gesù è per Gandhi un modello da imitare e un motivo di ispirazione a cui riferirsi. E. Stanley Jones scrisse che «Il Mahatma era influenzato e pervaso da principi cristiani, specialmente dal discorso della montagna».301 Il discorso della montagna ha avuto certamente un fascino speciale nella vita di Gandhi infatti egli stesso dice: «Questo discorso è all’origine del mio legame con Cristo».302
Egli disse: «Senza lo studio di Cristo, la mia vita sarebbe incompleta» e per questo aggiunse: «Voglio dire a voi induisti che la vostra vita sarà incompleta se non studiate con rispetto gli insegnamenti di Gesù». «Credo che Gesù appartenga non solo al cristianesimo, ma al mondo intero, a tutte le razze e a tutti i popoli. Se questo non bastasse, negli ultimi anni della vita di Gandhi, nella sua stanza era rimasta al muro una sola icona, quella di Gesù Cristo.
Keshub Chunder Sen, grande pensatore del neo induismo del XIX secolo, considera Gesù, all’inizio e alla fine della creazione, il “culmine dell’umanità”, “l’espressione ultima della Divinità”, cioè “l’Umanità Divina”. “Dio scende (in mezzo a noi) raggiungendo il fondo dell’umanità” percorrendola in tutta la sua estensione, “egli penetra nel mondo e, con il potere dello Spirito Santo, riporta a sé l’umanità degenerata”.
Questo pensatore indù, come dice H. Staffner, ha unito “la coscienza mistica indù all’ideale che Cristo rappresenta”. Basti dire che Keshub è orgoglioso del fatto che Gesù sia asiatico come lui.
Sarvepalli Radhakrishnan, uno dei più significativi filosofi indù (Presidente della Repubblica Indiana indipendente 1962-1967), tentò una sintesi tra filosofia occidentale e il pensiero orientale. Dice a proposito di Gesù che si capisce meglio come «un mistico che crede nella luce interiore [...] ignora ciò che è rituale e rimane indifferente di fronte alla pietà legalistica» (è profondamente libero)303 e apprezza talmente il Cristianesimo da scrivere: «Forse il Cristianesimo, che originariamente nacque in uno scenario orientale, ma che nel corso del suo propagarsi, sposò presto la cultura greco-romana, può rinascere oggi nell’eredità dell'India».
Akhilananda, pur essendo considerato un grande teologo indù, accetta gli avvenimenti principali della vita di Cristo, «attribuendo una particolare importanza alla Croce e alla risurrezione anche se, come afferma J. Samartha, sono da intendere come simboliche e significanti principi universali».
M. C. Parekh, pensatore della religione indù, dedica il libro al protagonista della nostra storia: “Un ritratto indù di Gesù Cristo”, in cui presenta con passione il Gesù come asceta. Egli accettò persino il battesimo nella comunione anglicana per professare pubblicamente quanto si sentiva discepolo di Gesù, pur rimanendo indù. Egli seppe distinguere molto bene il cuore del Cristianesimo, Gesù, dai comportamenti dei cristiani, non ultimo il colonialismo.
Bhawami Charan Banerji si basa soprattutto su una esperienza personale profonda della persona di Gesù Cristo, Figlio di Dio che diviene per lui ad un tempo il guru e vero amico. Sembra che il Gesù che incontra non gli chieda di rinunciare all'induismo, ma proprio attraverso Gesù stesso riscopre dimensioni nuove nell’induismo stesso. Come Parekh, anche lui grande pensatore indù, è arrivato al battesimo, ma ha poi fatto significativi passi nel dare un nuovo colore alla sua fede. Cerca tutta la vita di armonizzare induismo e cristianesimo cercando però di prendere ciascuno nella sua rispettiva purezza.
Diventa monaco mantenendo queste due dimensioni apparentemente contraddittorie. Arriva a dire: “Siamo indù per nascita e resteremo indù fino alla morte, ma in virtù della nostra rinascita (sacramento del battesimo), siamo cattolici”. L’induismo che egli veste è particolarmente una cultura più che una fede. Egli sostiene infatti che l’induismo non ha un credo definito: si è quindi indù non per opinioni religiose. “In breve, siamo indù per ciò che riguarda la nostra costituzione fisica e mentale, ma per ciò che concerne le nostre anime immortali siamo cattolici. Siamo indù-cattolici”. Per lui i Veda rappresentano la preparazione al Vangelo e sostituiscono l’A.T.304
Nella sua sintesi vuole mettere la filosofia indù al servizio del messaggio cristiano, in modo da rivestire la dottrina cristiana di un abito indiano. La filosofia indiana racchiusa nel Vedanta afferma che renderà alla fede cattolica in India ciò che la filosofia greca ha reso all’Europa. Se poi nel Vedanta ci sono errori, non di meno ce n’erano in Platone e Aristotele, ma gli errori si possono correggere. Questo monaco arrivò a programmare, nel suo impianto religioso, un ordine monastico cristiano indiano e questo ci dice quanto le due religioni siano sorelle, ma è necessario fare un lungo cammino per penetrare la cultura e la fede dell’altro.
Rabindranath Tagore, nome difficile da collocare in una tradizione, ma pur sempre indù. Egli affermò: “Tra coloro che hanno una risposta per le domande più segrete del nostro spirito c’è Gesù” e scrisse anche un libro su di Lui: “Spesso dimentico il suo nome, non lo tengo nel cuore e nella mente. È assente dalle mie preghiere, eppure il suo immenso amore per me sa ancora attendere il mio amore. Mi nascosi dietro il continuo lavoro del giorno, mi persi tra i sogni della notte, eppure la sua mano inseguitrice s’apriva davanti ai miei occhi ad ogni mio respiro. Riconobbi così che lui sapeva la mia strada, che era padrone lui d’ogni luogo e d’ogni tempo. Ora ho un solo desiderio: donargli tutto quello che ho, pagargli tutto il mio tributo d’amore, per aver diritto di prendermi un posto nel suo regno”.
Dopo questa breve carrellata, non azzardo nessuna sintesi su quella religione perché impossibile, ma riporto ciò che Brahmabandhab arriva a dire: «Qualunque possa essere la teologia dei Veda essi sono galvanizzati dall’inizio alla fine dall’idea di un Essere supremo che conosce ogni cosa, un Dio personale che è Padre, amico e anche fratello dei suoi fedeli, un Dio che ricompensa il virtuoso e punisce l’empio, che controlla il destino dell’uomo». 305 Se le poche note di alcuni pensatori indiani sopra riportate non sono esaustive per descrivere l’induismo, sono però rappresentative dei maggiori pensatori filosofi del XIX e del XX secolo che non hanno potuto fare a meno di confrontarsi con Cristo e il neo-induismo, il quale ha anche mostrato come le due religioni possano sviluppare molti punti di incontro.
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[301] - E. Stanley Jones, Mahatma Gandhi: an interpretation, Abingdon-Cokesbury P., 1948.
[302] - M. K. Gandhi, The message of Jesus Crist, Greenleaf Books, 1980.
[303] - P.A. Shilpp, The philosophy of Sarvepalli Radhakrishnan., New York, Tudor Publishing Company, 1952.
[304] - Anche se l’induismo non è solo una cultura ma anche una fede, non è da negare neppure la simbiosi tra due fedi religiose, la cristiana e l’indù, concetto che sembra sottinteso dallo stesso Brahmabandhab.
[305] - Cfr. J. Dupuis, Gesù Cristo incontro alle religioni, Assisi, Cittadella editrice, 1992.
Per metterci nella giusta posizione e riflettere su Gesù e l’Islam, dobbiamo evitare il confronto tra Gesù e Maometto o tra Vangelo e Corano, ma la nostra riflessione comparativa deve essere tra Gesù e Corano. Quest’ultimo, per l’Islam, è la Parola di Dio che si è incartata ed è diventata libro, leggibile dalla nostra umanità. Esso, riportando tutta la volontà di Allah, per il mussulmano merita tutto il rispetto, una fede totale e l’ubbidienza incondizionata. Questa è la fede del mussulmano credente. Per i cristiani, Gesù Cristo è la Parola di Dio, che non diventa solo un libro (fosse anche il Vangelo), ma un uomo vivente in mezzo a noi che abbiamo potuto ascoltare e vedere in tutta la sua gloria: così pensa il cristiano credente. Per il mussulmano, il Corano è dettato da Dio stesso, o meglio da un Arcangelo a nome di Allah, in arabo, la lingua dello stesso Dio.
Non consideriamo il Vangelo come dettato da Dio, bensì nato nella prima comunità cristiana che ha visto e sentito Gesù stesso e ha cercato di raccontarcelo, pur con tutti i limiti di quella comunità e della storia in genere, quando vuole farci conoscere gli uomini che sono vissuti tra noi.
Per l’Islam, il Corano è la Parola di Dio; per il cristianesimo la Parola di Dio è un uomo: Gesù Cristo. L’Ebraismo e l’Islam preferiscono pensare Dio come il totalmente altro, inaccessibile e invisibile nell’alto dei cieli e raggiungibile solo con la preghiera e l’ubbidienza alla legge della Torah e del Corano. Il cristianesimo osa pensare a un’umanità che è l’incarnazione di Dio, il quale, facendosi uomo, ha permesso all’uomo stesso di raggiungere la dimensione divina. Da tutta la storia, fin dai suoi primordi, l’uomo si era staccato dagli alberi e aveva imparato a vivere con i piedi per terra, in tende e poi in case. Imparò a guardare verso il cielo e arrivò a vedere sul volto dei suoi simili la stessa luce di Dio. Imparò a vivere superando lentamente gli istinti, che pure gli avevano permesso di sopravvivere tra la natura ribelle e gli animali pericolosi, mentre il cervello diventava sempre più umano. Quest’uomo imparò a darsi delle leggi, imparò la misericordia, il perdono e l’amore. L’umanità andò evolvendosi e diventò sempre più divina, fino alla pienezza dei tempi, alla fine della storia, quando è diventata Dio stesso e questo
avvenne in Gesù Cristo, l’ultimo uomo della storia.
Ma questo Gesù Cristo visse in mezzo a noi quando la storia umana non era ancora conclusa e un gran numero di uomini e donne stavano
(e stanno) ancora camminando in direzione di quella meta, pur essendo ancora molto distanti e molto diversi da Colui che è già arrivato alla fine. Così fu più facile per tutti noi avere un Fratello da seguire, che è diventato nostra Direzione, Verità e Vita.
Il teologo presbiteriano W. A. Meeks ha aiutato a riflettere su un dialogo interreligioso sincero al punto che il cristiano possa accogliere come propria fede quella di Isa del Corano e che il mussulmano, leggendo il Vangelo, possa accogliere il Gesù dei cristiani: personalmente non mi sento di sottoscrivere questo.
Il teologo indiano Amalados, invece, paragonando la religione a un elicottero, con un’immagine plastica afferma che, sull’eliporto del palazzo, non può atterrare un altro elicottero quando ce n’è già uno. Penso infatti che la nostra fede adulta sia sigillata e totalizzante (anche se in continua evoluzione) e che non ci sia bisogno di metterla in questione per instaurare un dialogo interreligioso sincero, anzi: sembra che si possa dialogare con sincerità solo se si è profondamente radicati nella propria fede e religione.
Ebrei, cristiani e mussulmani sono quindi tre fratelli della stessa famiglia: gli ebrei costituiscono il fratello maggiore dei cristiani, mentre i mussulmani sono l’ultimo fratello: gli uni eretici per gli altri, condividono però una vera fraternità, nel riconoscersi figli dello stesso Abramo, padre della loro fede. I tre fratelli hanno riconosciuto Gesù Cristo come grande profeta, mentre i cristiani, dinanzi a Lui, si sono inginocchiati.
Caro fratello mussulmano e fratello ebreo, una delle ragioni per cui ci siamo distanziati gli uni dagli altri è stata la nostra incapacità di mostrarvi il vero volto di Gesù. Vi abbiamo lasciato pensare che, per noi cristiani, quel corpo di Nazareth, che camminava nella Galilea, nella Giudea, nei villaggi e nella città di Gerusalemme, i suoi capelli, i suoi occhi, le mani e il suo cervello e il suo cuore era Dio, mentre tutti quegli elementi elencati appartengono alla sua natura umana. Il carbonio, l’ossigeno, il silicio che faceva parte del corpo di Gesù apparteneva alla sua umanità e non alla sua divinità. Persino ciò che gli apostoli vedevano di Gesù con gli occhi della carne non era propriamente Dio, ma era l’umano di Lui. Il divino in lui lo potevano vedere solo con la fede.
Quando ci accusate che abbiamo riconosciuto come Dio un corpo umano, potete anche avere ragione se intendete che vi abbiamo presentato l’umanità di Gesù come Dio. In realtà l’umanità di Gesù appartiene alla natura umana, mentre la divinità di Gesù appartiene alla natura divina. Noi non adoriamo gli atomi, le molecole che facevano parte di Gesù perché appartenevano alla natura umana, ma ci siamo inginocchiati davanti al Dio che aveva occupato tutte le parti della sua umanità. Se questo discorso ti spaventa, pensa a te stesso e a me. Anche in noi Dio vive ed è presente ma, nell’umanità di ciascuno di noi, una gran parte di noi è occupata dalla pigrizia di fare il bene, dall’egoismo, dalla cattiveria, dalla violenza e da tutti i vizi e uno spazio ridotto è occupato da Dio.
Ma è sufficiente per affermare che Dio è in me e in te e io posso inginocchiarmi davanti a te e adorare il Dio presente in te, vivo e vero e lasciarmi incantare dal tuo volto, o fratello, perché è attraverso quel tuo volto che intravedo una parte del divino in te. E allora anche il carbonio, l’ossigeno che erano parte di Gesù diventano reliquia preziosa perché sono quegli elementi e non altri che hanno permesso
a Dio di diventare carne.