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Il dialogo dei monaci - Il Sacramento del perdono

Il dialogo dei monaci

Cap. V - Il Sacramento del perdono

 pag 51-62

Sommario

La Resurrezione, sigillo di verità

   Non passò molto tempo e Teofilo si ritrovò a fare altre domande: «Padre, alcuni di coloro che vengono all’eremo si sentono tagliati fuori dalla Chiesa, non capiti. Qualcuno, privato della Comunione eucaristica, dopo lunghi anni sente il peso di questo digiuno, che sembra causare in lui una comprensibile anemia spirituale».

   «Quando Gesù, davanti al pane e vino, segno del suo corpo e sangue, dice che li offre per il perdono dei peccati, non lo dice per convincere il Padre a perdonarci, cosa che Dio ha già fatto. Io parafraserei: “Sì, domani mi lascerò crocifiggere per il perdono dei peccati, cioè per poter perdonare chi mi crocifigge. Vi ho detto che bisogna amare i nemici e mi lascerò crocifiggere per poterne dare testimonianza. I nemici li perdonerò io perché anche voi perdoniate ‘in memoria di me’: se avrete anche voi la forza divina di perdonare diventerete veri uomini, vere donne, in altre parole, sarete salvi e la mia Resurrezione sarà anche il sigillo di questa verità”».

   «Sentendovi parlare della misericordia di Dio, ho annotato dei pensieri per far meditare i nostri ospiti. Se lo riterrete opportuno, avremo un pezzo di carta in più per ricostruire nuove speranze».

   Lo starez apprezzò la suggestione di Teofilo e si stupì persino che il giovane avesse preso tanto sul serio le lezioni ( per aiutarlo ad entrare più profondamente nella vita religiosa. Si accordarono poi di ritrovarsi settimanalmente per rileggere quegli appunti riordinati e completati, in modo che ne potesse nascere un piccolo opuscolo di misericordia e di speranza. Non passarono molte settimane che gli appunti furono pronti per essere donati. Eccoli:

 Appunti di misericordia e di speranza  

   Se non hai ancora ricevuto un perdono pronunciato ad alta voce, un’assoluzione nella Confessione e ti manca la stretta di mano ufficiale della Chiesa, non scoraggiarti non lasciare la tua comunità che si raduna alla domenica per l’Eucarestia solo perché ti è stato chiesto un tempo penitenziale di digiuno dalla comunione eucaristica. Non giudicare male la tua Chiesa se spesso non ha i mezzi sufficienti per capirti: sentiti sempre amato/a da Lui, il Signore. Il sacramento del perdono è comunque per chi vive senza perdono; per chi vive di espedienti; per chi è divorziato; per chi lavora in attività illecite; per chi pratica l’omosessualità; per chi è tossicomane, spacciatore; per chi distrugge la salute con i vizi; per chi si prostituisce; e tutti gli altri, tutti noi. Tutti hanno bisogno di essere perdonati e tutti devono perdonare. Il sacramento del perdono che ci riconcilia con Dio e i fratelli è un grande dono della nostra Chiesa. È una stretta di mano che mi dice: “Sì, sei perdonato, vivi nella pace, non peccare più”.

Mi è capitato tempo fa di avere una discussione con degli zingari. Mi sembrava che uno, di nome Parnò, non volesse capirmi e non trovavo le parole adatte per farmi comprendere. Così persi le staffe e trattai male quell’amico rom, per di più di fronte agli altri. Il tutto finì lì, ma mi restò un peso sul cuore più grande di me. Non riuscivo a dormire, poi mi dissi: “Tanto Parnò mi capisce, mi perdona, non è capace di serbare rancore: è buono di natura…”.

   Più tardi continuai a pensare: “Come potrebbe non perdonarmi? Sento che mi ha già scusato di tutto” e mi addormentai. Il giorno seguente lo vidi e mi affrettai a chiedergli scusa. Lui mi strinse la mano: “Non pensiamoci più, amici come prima”. È vero che sapevo di essere scusato anche se non avessi mai più incontrato fisicamente l’amico rom, ma quella stretta di mano era ciò di cui avevo particolarmente bisogno. Il sacramento della Confessione, grande dono dello Spirito Santo fatto alla Chiesa, è la stretta di mano di cui abbiamo bisogno, come abbiamo bisogno di tutti i sacramenti. È vero che alcune persone ne fanno a meno per molti anni o per tutta la vita, ma mancherà loro quella gioia e pace che il Signore vorrebbe donare.  

Un accenno storico  

   Fino al 300, la Confessione si faceva una sola volta nella vita, dopo di che si affidava il penitente alla misericordia di Dio. Si concesse poi la possibilità di confessarsi più frequentemente e oggi viene dato il Sacramento del perdono ogni volta che il cristiano lo chiede. Anche se qualcuno non riesce a vedere un particolare legame tra questo sacramento e i testi evangelici, dobbiamo in ogni caso riconoscere che il sacramento del perdono è un grande dono dello Spirito Santo alla Chiesa.

Una liberazione faticosa

   Ci sono situazioni, chiamate da alcuni “stati di peccato o di irregolarità o di incoerenza”, proprie di chi è vittima di un errore o di una disgrazia e non è disponibile ad uscirne perché lo considera il minor male per la propria vita o perché non trova la forza di decidere altrimenti o ritiene che quello stato di vita sia la scelta migliore, quindi un bene, mentre gli altri cristiani lo valutano un male. Ora, se un cristiano giudica buono il proprio comportamento morale, non può chiedere perdono per ciò che ritiene buono. Può avere una coscienza erronea, che però pur sempre coscienza è e anche Dio la rispetta. Ci sono però anche coloro che portano nel cuore la sofferenza di un’incoerenza e proprio questi, bisogna pur dirlo, potrebbero ricevere una risposta più liberante dalla Chiesa, anche quando i canoni ufficiali, non potendo prevedere tutte le situazioni personali, si esprimono in maniera diversa. 

La storia fatica a capire la giustizia e a diventare misericordia  

   Qual è il criterio per dire che un determinato comportamento è peccato? Non intendo, in queste pochissime pagine, fare un riassunto della morale, desidero solamente ricordare una certa relatività storica nel considerare i comportamenti morali o immorali e questa relatività è data dai limiti umani e dai mutamenti storici, dalla durezza di cuore e dalla dura cervice. Qualche esempio. Nell’Antico Testamento “non uccidere” significava non uccidere quelli del tuo popolo, gli ebrei e “non rubare” significava non rubare a quelli del tuo popolo. Ma i nemici potevi e spesso dovevi ucciderli e pure derubarli dei loro bottini. Con Gesù Cristo si fa luce. Il solo desiderio di peccato è già peccato. Se uno vuole la tunica, il Vangelo ci dice di dargli anche il mantello. Non solo non si deve uccidere, ma nemmeno tagliare un orecchio al nemico. Con Gesù ci viene chiesto persino di amare chi non ci sa amare o il nemico stesso.

   Nasce dunque il cristianesimo e, con esso, un nuovo comportamento morale, che libera sempre di più il cuore dell’uomo, ma quanta fatica per camminare verso un cuore più libero! Fino al III secolo, per ordine del successore di Pietro e degli altri Vescovi, i cristiani non potevano fare il servizio militare per non rischiare di uccidere qualcuno e chi aveva grande difficoltà a lasciare una carica militare doveva promettere che non avrebbe mai ucciso nessuno. Nonostante queste aperture, dopo Costantino capita il contrario. Le stesse persone danno un ordine diverso: solamente i cristiani possono prendere le armi e fare le guerre (infatti ci si fidava solo più dei cristiani). Prima del 300, chi faceva la guerra era fuori della Chiesa. Dopo il 300 era fuori della Chiesa chi non la faceva. Questi esempi ci dicono con quanta umiltà dobbiamo giudicare le azioni degli altri e persino di noi stessi. 

Il perdono è gratuito  

  Molti cristiani che si trovano in situazioni particolari si chiedono: “Posso ricevere il perdono di Dio nella Chiesa con la Confessione? Posso partecipare alla Messa e ricevere l’Eucarestia?”. Alcuni si sono scoraggiati dopo le parole di un confessore disattento o di chi, con una grande speranza, cercava di stimolarli a una revisione di vita più vera. Altri non hanno nemmeno provato a sentire la parola o un consiglio diverso perché si sono già condannati da soli.

   Queste pagine sono per dire che il perdono esiste e il perdono, voglio gridarlo, è gratuito. Non nasce da un contratto di questo tipo:

   “Io do la mia conversione a Dio ed Egli mi dà il perdono”. Dio non mi dice: “Ti perdono se ti converti”, no! Il Signore mi perdona e poi mi chiede la conversione, anzi, mi chiede tutto: avere un cuore puro per vedere Dio; essere povero per accogliere in me il Regno di Dio; porgere l’altra guancia a chi mi ha percosso; fare del bene a chi ha fatto del male; amare i miei nemici; amare come Lui ha amato; essere perfetto come è perfetto il Padre che è nei cieli.

Gesù all’adultera   

   Gesù non dice a quella donna: “Se sei disposta a cambiare vita ti perdono, altrimenti vado a chiamare quelli che volevano lapidarti, perché tornino indietro”, no. Gesù la perdona gratuitamente e indipendentemente dai progetti di lei. Solo in seguito le rivolge un invito: “Va’, non peccare più”. E non fa firmare nessun documento per accertarsi se è pentita e nessuna parola dice che lo fosse. È possibile che quella donna amasse follemente l’uomo con cui era stata sorpresa in flagrante adulterio. È possibile che nella sua caparbietà dicesse nel suo cuore: “Preferisco morire sotto le pietre che lasciare quell’uomo”. In ogni caso, Gesù la perdona. 

Ancora perdono   

   Così Gesù fa con il paralitico: in primo luogo lo perdona, perché sa che più di ogni cosa ha bisogno di quella guarigione interiore, poi gli farà la catechesi, la spiegherà agli altri, lo guarirà pure, ma prima di tutto gli dà il sacramento del perdono, gratuitamente.

   Può sorprendere, ma in questi casi del Vangelo, il perdono non viene nemmeno richiesto (e chi avrebbe osato?). Viene dato e basta. Dato perché Gesù ha l’autorità di darlo, gratuitamente perché il perdono non richiede ricompense, accolto dal peccatore non per altro, ma solo perché è disposto a lasciarsi perdonare. Bisogna pur dire che quando preghiamo: “Signore, pietà”, oppure: “Signore, perdonaci”, probabilmente nella nostra mente chiediamo che Dio ci guardi nuovamente con sguardo pietoso e misericordioso e cessi di essere offeso o arrabbiato con noi, ma volga un’altra volta il suo sguardo benigno e finalmente ci perdoni ancora.

   In realtà, Dio non deve fare nulla di tutto questo (come troviamo in alcune preghiere). Egli non è mai stato arrabbiato o offeso con noi. Ha già perdonato il nostro peccato da quando l’abbiamo pensato e poi realizzato, fosse anche stato il peggiore dei progetti criminali. Dio mi ha già perdonato e la ragione è semplice: Lui è Dio e in quanto tale non può non amarmi. E come potrebbe amarmi senza avermi perdonato? Il problema è un altro: sono io che non ho la buona volontà di ricevere il perdono.

   Dal momento in cui abbiamo errato e Lui ci ha perdonati, il Signore sta alla nostra porta e bussa: “Figlio, ho il perdono da consegnarti, ma apri la porta perché possa offrirtelo. Sono già due ore, già tre settimane, sono già tre anni o trenta che aspetto: io busso per consegnarti il perdono, ma tu non apri. Apri la porta del tuo cuore e riconciliati con me. Io sono già riconciliato con te, ma aspetto che faccia la tua parte”. E come si apre la porta da parte mia? Col pentimento di aver sbagliato, col proposito di non commettere più quell’errore e una sincera volontà di convertirmi e fuggire le occasioni prossime del peccato. Se c’è questo da parte mia, il sacramento del Battesimo e della Penitenza mi confermano che mi sono riconciliato con Dio.

   Durante la Confessione, in seguito all’accusa dei peccati e alla richiesta di perdono, il confessore non deve telefonare a Dio per autorizzarlo a perdonarci, perché Lui ha già perdonato, ma semplicemente deve aiutare il penitente a pentirsi e a desiderare sinceramente di voler cambiare vita, dopodiché il confessore ha ancora il ruolo di rappresentare l’intera comunità ferita dagli sbagli di ciascuno. Se, infatti, ho dato scandalo in piazza davanti a mille persone e, in seguito, ciascuno è andato da mille parti diverse, come posso chiedere e ricevere il perdono, se queste persone nemmeno le conosco? Il fatto che il presbitero rappresenti la comunità mi aiuterà ad ottenere quel perdono.

   “Allora, se offendo una persona e le chiedo perdono, posso ricevere il perdono direttamente da lei, senza confessione?”. “La confessione è un dono ed è bene non rinunciarvi, perché ogni peccato, piccolo o grande, ferisce la grande famiglia umana di cui faccio parte, quindi in qualche modo ho bisogno del perdono di ciascuno, e anche in questo caso il presbitero – che rappresenta tutta la Chiesa e il mondo ferito dal mio peccato – può aiutarmi a ricevere il perdono”. Da ultimo, è come se il confessore dicesse: “Dio ti ha perdonato, da parte mia e da parte della comunità io pure ti offro il perdono. Ora devi solo più pentirti dei tuoi peccati, proporre di non peccare più e io ti dichiaro riconciliato con Dio”.

   Il confessore non è un “Dio in terra”, incaricato di perdonarmi o meno a suo piacimento, o uno che, dopo avermi sentito e valutato le mie intenzioni, viene autorizzato da Lui a perdonarmi. No, nulla di tutto questo: Dio ha già perdonato tutto e ora attende solo più la mia riconciliazione. E che significa dunque: “Ciò che non sarà sciolto sulla terra non sarà sciolto in cielo”? Semplicemente che, in alcuni casi, quando il presbitero si rende conto che il penitente non è pentito e non è disposto a lasciare il peccato, né a rimuoverne le cause e non vuole convertirsi o non è disposto a perdonare chi lo ha offeso, deve dirgli: “Poiché non sei sinceramente pentito e non vuoi convertirti, non posso ancora dichiararti riconciliato con Dio”.

 A quel punto, il confessore può chiedere un tempo penitenziale aumentando la preghiera, gli atti di carità, il digiuno da curiosità, letture o immagini che idiotizzano la persona, per ottenere dal Signore la grazia di una conversione sincera. E, dopo qualche settimana, tornare e riproporre la revisione di vita accompagnando con infinito rispetto la fatica della Resurrezione.

Bisogna proprio confessarsi?  

 A chi chiede se bisogna proprio confessarsi almeno una volta l’anno come indica la Chiesa, anche se molte chiese protestanti non sentono l’importanza di questo sacramento, si può rispondere, senza scomunicare nessuno, che si può vivere anche senza questo sacramento, come un bambino può vivere anche tutta la vita senza un bacio della mamma, ma chi ne ha ricevuti tanti è molto più fortunato.

Il ladro crocifisso  

   “Oggi sarai con me, in Paradiso”. Non è fuori posto vedere anche qui un perdono incondizionato, un’accoglienza nella misericordia.

   Gesù non dice neppure: “Non peccare più”, non tanto perché non ci fosse più tempo per fare peccati; infatti lunghe ore lo separavano dalla morte, ore immense e più che sufficienti per disperarsi, per mettersi a bestemmiare. Gesù non chiede nulla, perché la sofferenza è troppo grande e deborda da ogni parte: in questi casi si offre solo più il perdono. 

Il documento dei Vescovi del Reno  

   Il testo a cui mi riferisco è stato pubblicato integralmente in italiano dalla rivista “Il Regno”. Quell’opuscolo non è un capitolo di un documento conciliare, bensì un’accorata proposta di alcuni pastori (Vescovi) che invitano il loro gregge alla misericordia.

   La misericordia non si usa quando tutti i conti tornano, ma specialmente quando non tornano. La misericordia non si usa solamente verso chi si è già convertito, ma specialmente per chi è ancora nell’errore e spesso non sa venirne fuori o non ha la forza di fare un passo più coraggioso. In breve, tutti hanno bisogno di essere perdonati e tutti devono perdonare. A 83 anni, prima di morire dopo una vita di guida spirituale intensissima, il mio parroco mi disse: “Non ho mai negato l’assoluzione a nessuno. Ho sempre cercato qualche ragione per poter perdonare. Così ha fatto il nostro Maestro di Nazareth”.

   I Vescovi del Reno avevano proposto un testo per i sacerdoti che attendevano le confessioni e un testo per coloro che volevano approfondire il discorso sul sacramento del perdono in situazioni familiari irregolari. E, ancora, i vescovi avevano pure preparato una lettera pastorale semplificata per essere letta in tutte le parrocchie delle Diocesi del Reno e così si fece in sostituzione dell’omelia per due domeniche consecutive.

  Il documento si riferiva alla Comunione ricevuta o negata a chi vive in situazione che contrasta in parte con la disciplina generale della Chiesa cattolica romana. Si diceva che, se una persona sposata ha ricostruito una seconda famiglia per diverse ragioni di fragilità o per errori propri o del partner e non ha ricevuto l’annullamento del primo matrimonio da parte della Sacra Romana Rota (Tribunale ufficiale della Chiesa Cattolica), può incontrare altre soluzioni per giungere alla riammissione al sacramento della Comunione.

  Infatti, se oggi questa stessa persona riconosce nel profondo della sua coscienza che al momento del suo matrimonio era stata presente una qualche invalidità (ed è così raro che non ve ne siano) questa persona può accostarsi al sacramento della Comunione (pur senza aver ricevuto un’invalidità ufficiale). 

   Nel testo si consigliava pure che questa decisione fosse presa durante una revisione di vita fatta con il proprio parroco o altra guida spirituale, ma al di fuori del contesto della Confessione, perché non si chiede che venga perdonata una colpa per accedere all’eucarestia, ma semplicemente si fa luce sulla propria situazione a livello di coscienza, privilegiato luogo dove Dio dice l’ultima parola. Si chiedeva pure che, quando il chiarimento fosse avvenuto mediante un confronto con una guida spirituale (non il parroco), bisognava semplicemente informare il proprio parroco che la situazione di irregolarità era stata risolta a livello di coscienza.

   La succitata proposta del piccolo episcopato del Reno prende in considerazione la seconda convivenza matrimoniale che non ha ottenuto l’annullamento del precedente matrimonio, perché non sempre si può esprimere, con parole, un’invalidità a un Tribunale ecclesiastico che si può solo basare su particolari terminologie con contenuti giuridici, mentre la propria esperienza può andare ben oltre l’esprimibile giuridico e solo la coscienza la può leggere.

   A questo punto voglio esprimere una considerazione personale, non esplicitata nel testo. Indirettamente si può arrivare alla conclusione che, se un uomo e una donna vivono una relazione matrimoniale e si riconoscono in grazia di Dio (in quanto partecipano alla Comunione), la loro relazione è quella del Sacramento del matrimonio con tutte le Grazie che il Sacramento comporta, anche se questo sacramento non è stato celebrato ufficialmente in una chiesa.

   Per capire come lavoravano in sintonia il Prefetto del Tribunale Vaticano Cardinal Ratzinger e Giovanni Paolo II, è bene osservare come si concluse la proposta sopraccitata. Un anno dopo (non tre giorni dopo) la pubblicazione del testo dei Vescovi del Reno, il Prefetto Card. Ratzinger rispose ai Vescovi del Reno che, dopo lunga preghiera e riflessione, il suo Ufficio che presiede alla Fede cattolica non si sentiva di dire un Sì ufficiale alla loro proposta, ma invitava a una riflessione più profonda, accompagnata da preghiera per ottenere una luce in più nel futuro, mentre Giovanni Paolo II nominò Cardinali due dei tre vescovi che avevano redatto il testo. Questo “Sì” e “Non ancora” espresso dalla Chiesa di Roma diceva anche la difficoltà di offrire linee guida alle più diverse culture del mondo che si sarebbero prestate a letture non corrette del documento. Penso non sia fuori posto ricordare che, nella sua prima omelia, Papa Francesco, parlando della misericordia, citò un libro del Card. Kasper (appunto uno dei tre, allora Vescovi, redattori del testo commentato appena sopra). In quell’omelia sulla misericordia il Papa aveva concluso: “Dio non si stanca mai di perdonare. Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono”. 

Ammettere ai sacramenti  

   Qualche sacerdote è preoccupato di ammettere ai sacramenti un “peccatore pubblico” a motivo dello scandalo: è un rischio che dobbiamo correre nelle nostre comunità. Se i cristiani non diventano misericordiosi verso gli altri, bisogna aiutarli a diventare tali, altrimenti facciamo un peccato in più giudicando il fratello peggiore di noi stessi.  

Verso il perdono  

   Qualcuno dice che il pentimento è vero quando il peccatore lo dimostra prima a Dio, poi a se stesso e alla Chiesa, cambiando vita e rimuovendo gli ostacoli che impediscono un onesto comportamento morale. Da parte mia, mi ostino a dire che il pentimento è la sofferenza, il dispiacere per le ferite del peccato che ci sono in noi e questo non significa sempre essere capaci di guarire.

Il figlio prodigo  

   È pur vero che non posso dire: “facciamo festa” al giovane mentre pascola i porci e si accontenterebbe delle ghiande dei medesimi. A questo ragazzo devo dire: “Cerca di tornare a casa, là c’è la vita”, ma se questo non riesce a tornare che faccio? Lo lascio morire?

   Ho un bel ricordo di un figlio che, a differenza del figlio prodigo, non tornò mai a casa. Era alcolizzato e non aveva mai creduto di poter fare qualcosa di più che vivacchiare. Ma il fratello maggiore, che si sentiva responsabile di lui, ogni giorno gli portava da mangiare e non gli lasciò mai mancare nulla, nemmeno i soldi per le partite a carte con gli amici e le sigarette. Motivava il tutto in questo modo: “È fatto così, ha questa malattia ed è mio fratello”. Il tutto tradotto in linguaggio teologico: non lasciò il fratello senza sacramenti.

   Ancora una parabola:

   Se la pecora smarrita non torna a casa, il buon pastore va in cerca di lei. Se la trova tra le spine non può invitarla a fare festa tra i rovi, la festa si fa nell’ovile dove si mangia l’erba e si beve. Ma se il pastore trova la pecora in qualche crepaccio della montagna e non riesce a tirarla fuori, non si rassegnerà facilmente a lasciarla morire di fame e di sete per il solo fatto che non può mangiare e bere come le altre nell’ovile.

   Il buon pastore porterà l’erba, la lascerà calare nel crepaccio con l’acqua mentre cercherà qualche soluzione per il giorno dopo, sperando che l’energia della pecora e la creatività del pastore trovino una via d’uscita. 

Ai margini  

   Non escludo che un breve tempo ai margini della Comunione, tempo in cui si priva un fratello del cibo della festa, non possa essere utile alla purificazione e stimolo a un cammino di autentica vita cristiana. Non escludo nulla di tutto questo, purché il tempo del digiuno sia breve, altrimenti il fratello rischia di morire di fame e i sacramenti sono questo cibo e se tutti ne hanno bisogno, in primo luogo ne ha bisogno chi è più debole.

Giovanni Battista  

   E se il tuo confessore non ti ha ancora offerto il sacramento del perdono, mentre preghi e leggi la Bibbia e compi azioni di carità, tutti sacramenti del Cristo, pensa a Giovanni Battista che manda da Gesù alcuni amici per chiedere se è Lui il Cristo o se deve attendere un altro. Gesù invita i messaggeri di Giovanni a riferire: “I ciechi vedono, gli storpi camminano, i carcerati sono liberi, i morti risuscitano”.

   Cosa avremmo pensato noi al posto di Giovanni, se avessimo inteso “i carcerati sono liberati” e intanto avessimo dovuto costatare che le catene e i piedi restavano chiusi, mentre l’inferriata alla finestra e la porta continuavano a imprigionarci? E se avessimo inteso “i morti risuscitano”, quando noi sapevamo che la sera stessa sarebbero venuti a decapitarci? A noi sarebbe bastata una libertà qualsiasi, una “libertà provvisoria”, pur di uscire dal carcere, invece a volte il Cristo e anche la Chiesa ci può lasciare in “detenzione” provvisoria per una liberazione e assoluzione con “formula piena”.

A un amico penitente che soffre  

   Caro amico,

  pur in una situazione difficile, simile a una di quelle di cui ti ho parlato, se nella nostra Chiesa ti senti capito da qualcuno che può incoraggiarti e illuminarti nel tuo difficile cammino, ringrazia il Signore. Se invece ti sei sentito rifiutare i sacramenti e per questo ti sei emarginato, sappi che il Signore Gesù può capirti e, mentre lo stesso Signore ti chiede soluzioni sempre più coraggiose, sa accogliere anche la tua impotenza e persino la tua volontà fragile, al punto di essere incapace di cambiare vita e guarire. Intanto prega, leggi il Vangelo, compi gesti d’amore, rifletti e renditi disponibile a un domani migliore, più maturo e quindi più portatore di gioia. E, se ne hai la possibilità, non cercare di fare il cammino da solo, ma fatti accompagnare con umiltà.  

Misericordia con autorità

   Quarto capitolo del Vangelo di Giovanni: la samaritana arriva al pozzo, dove Gesù riposa e l’attende. Lei è una pluridivorziata, una peccatrice pubblica, tutti la conoscono. Gli stessi apostoli si stupiscono che Gesù sia stato così imprudente a parlare con lei. Lei è scomunicata. Lei non ha il coraggio di chiedere a Gesù la “comunione” con lui, ma è Lui che chiede la comunione a lei: “Dammi da bere!”. E, come se non bastasse, le dice di andare a chiamare anche suo marito, ben sapendo che non è suo marito perché, come tutti sanno, ne ha avuti cinque.

   Agli occhi di alcuni giuristi questo Gesù é veramente esagerato, più di Papa Francesco. Che misericordia! che perdono! E che autorità per chiedere l’inizio di una vita nuova! Mi permetto di aggiungere in questo contesto che nella pastorale alle famiglie ferite certamente sono utili i tempi penitenziali di digiuno, di digiuno eucaristico anche prolungati, ma quando le ferite sui figli sono avvenute e pur se saranno perdonate non potranno essere cancellate e quando l’egoismo ha vinto e ha spaccato una famiglia, e quando il desiderio di vendetta ha provocato altri danni, e quando la donna che é venuta davanti a te “pastore della chiesa”, lei che dopo il divorzio ha avuto già altri cinque mariti, ebbene non sarà necessario fermarsi a ripensare il tutto e risentire Papa Francesco che ci chiede, proprio in quel momento, uno sguardo di rispetto e compassione, che concretamente sa “curare”, “liberare” e “animare a maturare nella vita cristiana”? 

A un confratello desideroso di perdonare  

   Posso assolvere una persona che vive una situazione irregolare? Se una persona sposata ha rimesso in piedi una seconda famiglia con un altro partner e nella nuova famiglia ha pure figli che non deve lasciare, per non creare una situazione più grave della precedente e se questa è la situazione che giudico la meno sbagliata e se questa persona chiede il perdono, posso dare l’assoluzione? A chi mi appello se chi mi manda mi dice di no? Il sacerdozio ministeriale è una proprietà privata che posso gestire io o è dipendente?

   Un’ umile risposta fraterna:

   - i Concili, il Papa, i Vescovi hanno detto dei no, ma non per la persona specifica che incontri tu oggi, nel suo particolare contesto storico, culturale e psicologico. L’autorità della Chiesa ha sempre dato norme generali che illuminano ogni realtà umana; - il tuo sacerdozio ministeriale non è proprietà privata, ma è dipendente;

   - il tuo sacerdozio ministeriale è dipendente sì, ma non dipendente dal Vescovo o dal Papa, bensì da Cristo;

   - il sacerdozio ministeriale non è una tua proprietà privata, ma in esso “è impresso il carattere”, sei costituito giudice e in quanto tale dovrai giudicare;

  - non sei un delegato del Vescovo, ma un mandato da Cristo (secondo il Concilio di Trento). Il Papa e il Vescovo ti inviano in una comunità, ti scelgono il tribunale, ti danno un Codice con delle norme, ma dovrai giudicare tu. Non dimenticare però che la Norma, la Legge è Cristo e nella Chiesa, pur nell’obbedienza rispettosa, non c’è Democrazia, né Monarchia, ma solo Cristocrazia.