pag. 13-21
Si sa che di notte tutto è nero. In quel periodo, da qualunque parte Teofilo posasse lo sguardo, gli stillavano lacrime e il suo cuore gridava all’infinito: “Non nascondermi il tuo volto”. Quando parlava con lo Starez, gli sembrava di rivedere la luce, ma subito dopo veniva il buio. Anche leggendo la storia della margherita qualcosa parve illuminarsi in lui ma, appena ebbe terminato, tutto tornò come prima.
Allora il novizio andò nella cappella, questa volta non per pregare, ma per gridare. Poi prese della carta e volle scrivere, cosa che non gli era congeniale, ma lo fece. Rivolto verso la tenda del Signore dov’era conservata l’Eucarestia, in quella notte più silenziosa che mai, guardava e scriveva:
Da millenni, Signore, cerchiamo il tuo volto perché ci hai fatti assetati di te, desiderosi di vedere almeno un raggio della tua luce, di udire anche una sola delle tue parole e tu fai silenzio. Forse ci lasci in quest’attesa – che non è lunga – per la Celebrazione dell’incontro? O forse perché, attirati da te, possiamo maturare una fede adulta? Spesso mi sembra di aver inteso. Ma quanti, come me, hanno sentito le tue parole e poi si sono nuovamente domandati se sei stato proprio tu a parlare!
“Mio Dio, mio Dio, grido tutto il giorno e non rispondi”. Perché? Forse hai già parlato e sono sordo? Faccio pure fatica a credere a chi dice di averti visto o sentito, perché sei l’Invisibile e le tue non sono parole d’uomo. Mi tendi la mano e, in alcuni momenti, ho l’impressione di sentirla così forte, sicura, dolce. Ma, proprio perché mano di Dio, infinita. E così, se la mia povera mano di carne vuol sentire la tua piena di mistero e possederti e toccarti almeno per un istante, non sente più nulla e si chiude, vuota.
Ma chi ha fatto il cielo, modellato la terra e portato le galassie negli spazi? Non io, certo. Chi ha inondato la terra d’acqua e riempito di vita tutti gli abissi? No, non sono stato io e nessuno che abbia cuore, cervello e mani come me. E chi ha tessuto me, nel ventre della terra? Sei tu, Dio, certo. Sei tu che mi hai tratto dal ventre di mia madre. Sei tu che al mio nascere mi hai raccolto e fatto vivere. Sì, sono sicuro che sei tu e che non potrebbe essere diversamente, ma perché, se mi volto indietro nella mia povera storia, vedo solo il volto di mia madre all’inizio della mia vita e non il tuo, Signore?
È vero, e lo ripeto: agli uomini di tutti i tempi e, in particolare, a quelli degli ultimi millenni, hai dato la possibilità di comunicare con te. Ma, proprio perché volevi farti capire, hai usato voci umane. Così, dopo averle intese con tanta sicurezza, troppe volte è tornato in noi il dubbio che fossero tue. Hai operato segni e prodigi ma, proprio perché potessimo vederli, li hai compiuti sulle cose visibili: così, in breve tempo, ci tornava il dubbio che quei segni fossero davvero tuoi.
Nel santo libro della Bibbia sta ancora scritto: “La Parola è diventata carne”, così, per ciascuno di noi, è stato possibile vederla. Sì, Gesù Cristo è certo la più bella Parola che hai pronunciato nel mondo. Ma anche questa Parola è giunta visibile a me, ancora una volta, in un uomo. Le parole che abbiamo udito da Lui e i suoi segni erano anche parole e segni di questa terra. Almeno per una volta potevamo pretendere di udire una tua parola pronunciata non con la solita voce umana.
Signore Gesù, in attesa della tua venuta, ecco la mia speranza. Nella notte, Gesù, faccio la mia professione di fede: credo tutto ciò che c’è stato nel tuo cuore umano. Questa è la mia fede. Anch’io voglio credere che Dio ha parlato. Donami la Speranza fino al giorno in cui ti incontrerò nei Cieli nuovi e Terra nuova”.
Il giorno dopo, letta ogni parola con calma, lasciandola rimbalzare nel proprio cuore come quando leggeva i Salmi di Davide, l’anziano monaco gli domandò:
«Figlio, perché hai scritto questo?».
E il novizio:
«Sapete che spesso arrivano qui da noi anime scoraggiate: volevo un rotolo per loro».
«Vorrei dirti che all’uomo e non solo a Gesù Cristo è stato fatto il dono di comunicare con Dio, e nel cuore di Gesù che è umano e divino si risolve il Mistero del passaggio della Parola da Dio all’uomo. Ma adesso sei stanco. Aggiungo soltanto che alle anime disperate non devi dare rotoli di carta. Accompagnale davanti all’Eucarestia. Invitale a inginocchiarsi come ci si inginocchia davanti a Dio, non importa cosa credono di avere nel cuore, né importa se pensano a Lui. Se ti ascoltano, parla loro del Natale. Di’ che i pastori, proprio perché erano umili e semplici, poveri e piccoli, hanno meritato di ricevere la rivelazione degli Angeli. La teologia del presepio è la più semplice: non fa domande, non chiede risposte, semplicemente vuol vedere un Bambino avvolto in fasce, deposto in una mangiatoia. Eppure la loro notte si è illuminata: hanno incontrato il Signore, probabilmente senza rendersene conto e senza cercarlo. Il Signore si rivela gratuitamente.
Parla poi ai tuoi amici della Settimana Santa: essi sentiranno che un uomo che era tutt’uno con Dio e tutt’uno con noi, per amare – e per amare proprio noi –, si è lasciato crocifiggere. Parla poi di quei tre giorni prima di Pasqua: la notte più buia del mondo. Ebbene, anche quella notte si è incendiata di luce nel mattino di Pasqua. Di’ loro che non c’è più ragione né posto per la disperazione».
Quando si rincontrarono, Teofilo gli domandò:
«Padre, potrei ripetere una domanda che forse è già stata posta da tutti gli uomini del mondo?».
«Fin quando non abbiamo udito una risposta che riempia il cuore, le nostre domande hanno il diritto di essere ripetute infinite volte, anche se con umiltà dobbiamo riconoscere che non tutte hanno altrettante risposte».
«Alla mia domanda ho sentito le risposte di tanti filosofi, teologi e uomini di cultura, ma vorrei sapere cosa risponde Dio all’uomo quando questi grida nel dolore, nella malattia e di fronte alla condanna a morte. Proprio all’inizio del libro più santo, Dio si dichiara soddisfatto per tutte le cose che ha creato: in quella pagina sta scritto “Dio vide che tutte le cose erano buone”. Padre, quando Lui ha visto il dolore nella sua creazione, può aver detto che era buono? Quando ha visto la morte, che pure era uscita dalle sue sacre mani creatrici, può aver detto che tutto era buono?».
«Teofilo, se le risposte che hai già sentito non ti sono bastate, io non ne ho altre. Ti lascio però una storia da meditare, anche se nulla potrà arricchire ciò che è scritto nella Bibbia. Ma quel linguaggio spesso è arduo e tu, Teofilo, hai ancora bisogno di latte e non di cibo solido: leggi questa parabola, ti aiuterà almeno a dire grazie».
Con quel rotolo di carta, Teofilo ricevette la benedizione e si congedò. Mentre camminava, sentiva crescere la curiosità ma, sapendo che quelle pagine non avrebbero potuto dire più di ciò che già aveva sentito e letto, la offrì a Dio senza sforzo, rimandando la lettura a un altro momento. Il giorno seguente, terminate le preghiere che ormai erano diventate il suo cibo quotidiano, prese il rotolo per la meditazione e lesse:
Una piccola nave, dopo aver perso ogni controllo nella burrasca, finì per schiantarsi contro le rocce di una costa sconosciuta dell’oceano. Tutti i navigatori – uomini, donne e bambini – si salvarono, ma la nave, in pezzi, fu risucchiata dalle onde violente.
Dapprima i naufraghi si riunirono per ringraziare Dio di aver loro salvato la vita, poi perlustrarono il territorio lungo la costa, finché ritornarono al punto di partenza. Solo allora si resero conto di essere prigionieri sopra un’isola sconosciuta, chissà a quale distanza dal resto del mondo. Bisognava però ricominciare a vivere, per ubbidire a quella forza istintiva che alimenta il desiderio della sopravvivenza inscritto in ogni essere umano.
Il più anziano, che aveva poco più di cinquant’anni, cercò di organizzare la vita sociale sull’isola, riuscendovi con discreto successo. Per lungo tempo non fu facile adattarsi alla coltivazione, senza esperienza e senza mezzi adatti. All’inizio, gli uomini cacciavano e pescavano, senza fare a meno dei frutti di quella buona madre che è la terra.
Forse a causa delle fatiche sproporzionate, della solitudine, della paura di un futuro incerto per sé e i propri figli, col tempo il popolo si votò alla lamentazione. Per ogni avversità, fatica o sofferenza, primo fra tutti, il capo alzava al Cielo un grido: “O Dio, perché hai fatto il mondo in questo modo? Perché i nostri bambini innocenti devono soffrire? Perché ci affliggono le angosce, le paure e ogni sorta di male? Perché, o Dio, hai fatto un mondo così sbagliato?”.
Nei luoghi di culto, intanto, si moltiplicavano le liturgie, e tutte le preghiere si risolvevano nella richiesta: “O Dio, toglici ogni tipo di dolore”, a cui seguivano lunghi elenchi di tutti i mali. La seconda invocazione era invece: “Rendici sempre felici, donaci ogni piacere che la vita può darci”. Ma, poiché non venivano esauditi tutti i desideri – bensì solamente qualcuno, di tanto in tanto – serpeggiava in mezzo al popolo una tale tristezza per la vita che, tra depressioni e suicidi, sull’isola si rischiava di compromettere la sopravvivenza stessa. Nessuno riusciva più ad accettare che Dio permettesse la sofferenza e, di conseguenza, nemmeno a vedere tutto ciò che di bello e incantevole c’era attorno.
Il capo, consultando il gruppo dei ministri addetti alle varie occupazioni, un giorno prese un’importante decisione: “Visto che stiamo morendo di dolore, di sofferenza e tristezza, tutti insieme chiederemo a Dio che mandi il suo Angelo a cancellarli da quest’isola. Poiché nessuno tra noi riesce a capire ancora il senso della sofferenza nella nostra vita, chiediamo che venga rimossa”.
Tutti si prepararono a fare questa richiesta con estrema serietà. Digiunarono quaranta giorni e fecero ancora nove novene di preghiere per meritare di essere esauditi. Giunse così il giorno sospirato, che dall’alba al tramonto diventò una sola, lunga e ricorrente preghiera: “Cancella il dolore dalla nostra vita. Cancella il dolore dalla nostra vita”. Dopo il tramonto del sole, in mezzo all’assemblea apparve una luce simile a un Angelo: “Siete stati esauditi. Da oggi il dolore non avrà più dimora su quest’isola”. Quando l’Angelo scomparve, un grido di gioia incontenibile si levò in mezzo al popolo, che continuò a ringraziare Dio per l’intera notte, fin quando, al mattino, tutti si addormentarono in una pace mai sperimentata prima. Poi la vita riprese e tornò la serenità e la gioia sul volto di ciascuno.
Un primo risultato si riscontrò il mattino stesso, quando due mamme partorirono il loro bambino senz’ombra di dolore. Altri fatti simili si moltiplicarono. Tutti coloro che avevano emicranie, mal di denti, coliche di vario genere o ferite, all’improvviso furono liberati dal dolore e tutta l’isola si ubriacò di gioia. Allora il capo domandò a un soprintendente: “Perché Dio ha tardato millenni prima di fare questo regalo all’umanità e, probabilmente, solo a questa piccola isola?”. Qualche giorno dopo, però, sopraggiunse un primo problema: essendo quegli uomini un poco primitivi e violenti, dopo un bisticcio un giovane massacrò di frustate la moglie, lasciandola sfinita e tutta un livido. Quando si rialzò, la donna rise in faccia al marito, il quale si rese conto che la sofferenza non esisteva più e che stava perdendo parte del controllo sulla sua famiglia. Quella donna aveva fatto un grave sbaglio e, secondo lui, meritava una grande punizione. Da allora, anche un semplice schiaffo al figlio disubbidiente non ebbe più senso. I bambini non avevano più alcun timore dei genitori, né dei loro insegnanti: anche la minima punizione fisica risultava inutile (il che, ovviamente, sarebbe stato positivo, se quel gruppo fosse stato più evoluto). Nello stesso tempo, però, non venivano più avvertiti sintomi importanti. Un bambino a cui era gonfiato un braccio era morto poche ore dopo: nessuno aveva notato i segni dei denti di un serpente che aveva iniettato il veleno senza provocare dolore.
Nell’equipaggio di quella nave c’erano pure due medici, che venivano continuamente consultati o chiamati, quando qualcuno era visibilmente malato e rischiava di morire. Essi arrivavano, ma senza poter fare diagnosi: non potevano capire se il malato aveva un problema intestinale, al fegato o ai reni, poiché nessun dolore poteva indicare loro una pista sicura per una qualche terapia. Così sull’isola ci furono molti più morti degli anni precedenti, quando il dolore era a servizio delle diagnosi. Inoltre, la paura di ferirsi, di fare un incidente – in una parola la paura per il dolore – andava diminuendo, con conseguenze sempre più devastanti.
A quel punto, il capo si consultò nuovamente col gruppo del ministero, che decise all’unanimità di chiedere al buon Dio di liberare il popolo anche dalla malattia, visto che l’aveva già esaudito circa la sofferenza. Tutti si prepararono quindi con il digiuno di quaranta giorni e le novene, come avevano già fatto precedentemente e anche l’Angelo della malattia fu autorizzato ad affrancarli da essa. Quindi si rallegrarono: non ci sono parole per descrivere una gioia così grande. I malati di tubercolosi, i lebbrosi, coloro che avevano coliche in atto al fegato o ai reni, i malati di cuore, chi faceva una gran fatica a respirare a causa dell’asma, tutti, proprio tutti, all’istante furono guariti e l’Angelo della malattia lasciò l’isola, come l’aveva lasciata l’Angelo del dolore.
Il capo riunì poi tutto il popolo per ringraziare Dio, ma non riuscì a trattenersi: “Questo era il modo in cui Lui avrebbe dovuto creare il mondo”, disse. Ma i più intelligenti avvertirono qualcosa di molto strano nei loro corpi e compresero che in ciascuno di noi, anzi, in ogni organo, c’è una lotta continua tra microorganismi che, come veri e propri eserciti, si combattono per mantenere un equilibrio che è appunto la vita. Quando infatti i nostri corpi sono assaliti da virus, o comunque da agenti estranei che possono provocare la morte, intervengono le malattie per aggredire gli invasori, surriscaldando la temperatura e scatenando le difese immunitarie fino a quando lo scontro non termina e si ristabilisce l’armonia necessaria per vivere. Sull’isola, quindi, la gente ora moriva senza più passare attraverso la lotta nascosta e invisibile, ma necessaria e benefica, della malattia. Così, avvertendo che sarebbero morti tutti in brevissimo tempo e l’isola sarebbe rimasta un cimitero, prima di estinguersi il capo e il popolo fecero in tempo a gridare al Cielo: “Signore, non stancarti di noi, ti chiediamo solo più questo favore: comanda al tuo Angelo della morte di risparmiarci perché possiamo vivere sempre”. Anche quest’ultima richiesta fu accolta e tutti coloro che stavano per morire si ripresero: senza dolore, senza malattia ed ora anche senza la morte. Quasi stentavano a crederlo, ma di fronte all’evidenza non fu possibile contenere un’esplosione di gioia. Dopo essersi ubriacati di festa, però, si guardarono attorno e si resero conto che l’isola era troppo piccola, che, col tempo, l’incremento della popolazione non avrebbe lasciato spazio per la coltivazione e che il cibo sarebbe mancato. In ogni caso, tutti si rallegrarono perché avrebbero vissuto ugualmente, anche senza cibo.
E così iniziò la storia che avrebbe dovuto essere la più felice di quell’isola e del mondo intero. Il cibo, infatti, si ridusse davvero al minimo e così pure le forze vennero meno. Gli anziani pensavano:
“Come sarebbe stato diverso se questo fosse accaduto quando eravamo giovani e pieni di vigore ed energia!”.
A causa della mancanza di cibo e di spazio, il capo avrebbe voluto decretare una legge per bandire definitivamente le nascite dei bambini sull’isola, ma non fu necessario, perché le passioni giovanili per concepire altre vite si erano ormai spente.
Passarono così alcuni secoli e sull’intera isola si finì per non trovare una sola cellula morta. Gli abitanti non si nutrivano più, ma nessun attacco di morte poteva aggredirli. Da circa ottocento anni le notizie erano le stesse. Parlavano poco, pensavano poco. Non pregavano più. Non sapevano cosa chiedere al buon Dio, perché avevano ricevuto tutto ciò che avevano domandato. Non sapevano più ringraziare, perché tutto sembrava loro dovuto. Non piangevano più: nessuna lacrima di dolore poteva avere senso su quei volti. Non ridevano più: in quella situazione sarebbe stato impossibile. Si guardavano come gli scogli si possono osservare gli uni gli altri, immobili, sulle rive del mare. Avevano osato pensare che il loro progetto della creazione sarebbe stato migliore di quello di Dio stesso e adesso ne subivano le conseguenze.
Anche i più giovani, che avevano ormai sette secoli, non ricordavano più com’era fatto un bambino, né il gioco di rincorrere le onde sulla spiaggia. Poiché non erano morte, le cellule della pelle si erano accartocciate su tutto il corpo: a distanza, più che esseri umani, quelle persone sembravano coccodrilli rinsecchiti dai secoli, benché vivi e coscienti di tutto quel nulla che capitava loro intorno. Ma anche l’orgoglio merita un perdono, se domandato a Dio stesso, che è pietoso e misericordioso verso chiunque abbia sbagliato.
Così, un eremita di nome Ezechiele fu invitato in sogno a raggiungere l’isola, per liberare quel popolo da una condizione insostenibile, che era diventata il più assurdo progetto sulla crosta della terra. A causa del suo nome, Ezechiele pensò di essere stato mandato sull’isola a rimettere il sangue nelle vene dei morti o a ridistendere la pelle e la carne sulle ossa aride, ma ben presto si accorse che la sua missione sarebbe stata molto più ardua di quella dell’omonimo profeta.
L’eremita arrivò insieme al sole, che continuava a dar vita – come aveva fatto per oltre otto secoli – tutti i giorni, uguali e monotoni uno più dell’altro, visto che erano privi di tutto e persino della morte. E domandò cosa fosse capitato all’origine della loro sventura. Con un fil di voce, i più anziani raccontarono del naufragio e specialmente del rifiuto di accogliere il progetto di Dio, anche se misterioso: “Avevamo dovuto faticare tanto per sopravvivere senza mezzi, tra sofferenze, malattie e morte. Ci parve che ogni male si fosse abbattuto sopra di noi in modo sproporzionato. E ci lamentammo all’infinito di ciò che Dio permetteva nella nostra vita. Ci siamo rifiutati di accettare un mondo fatto così e l’abbiamo implorato di liberarci: vennero l’Angelo della sofferenza, poi quello della malattia e infine della morte e ci concessero quanto richiesto”. Mentre parlavano, Ezechiele piangeva. Aveva capito che gli toccava scavare sotto quelle cortecce di pelle ancora umane per raggiungere i cuori, che pure segnavano il ritmo del tempo: bisognava riscaldarli nuovamente, poiché erano ormai incapaci di amare.
Un uomo che non ama muore, ma essi non potevano morire: questa era la loro disgrazia. Da secoli non avevano più avuto bisogno di amare nessuno, né di essere amati per poter vivere. Il loro cuore pulsava il sangue nelle vene e le sinapsi del cervello non si erano ancora addormentate, ma avevano disimparato a fare un qualunque servizio per qualcuno, poiché nessuno ne aveva più avuto bisogno. Su quell’isola si era disimparato a far coraggio, a consolare, ad asciugare una lacrima, perché di tutto questo per secoli non c’era più stato bisogno. Non si sapeva più perdonare, perché nessuno chiedeva perdono e si era dimenticato Dio stesso, pensando che non dovesse più fare nulla.
Ezechiele pregò e digiunò a lungo. Poi, come a dei bambini, insegnò loro nuovamente le preghiere del mattino e della sera. E, prendendo a ciascuno la mano destra, gliela portava sulla fronte, sul petto, poi ancora alla spalla sinistra e destra. Infine ricongiungeva le loro mani e passava accanto a un altro. Per intere giornate fu questo l’estenuante lavoro di Ezechiele. Qualcuno gli domandò: “Perché lo fai?”. “Vedi, è il segno della croce e su di essa ci sono la sofferenza che voi avete rifiutato e la malattia – vale a dire l’infezione, il tetano, l’avvelenamento, il soffocamento – da cui avete voluto essere liberati. E, ancora, sulla croce c’è la morte, di cui avete bisogno più di ogni cosa”.
L’eremita parlava loro, ogni giorno, di Gesù, di come aveva vissuto, amato, sofferto ed era morto. Poi raccontava la storia del terzo giorno, il giorno della Resurrezione. “Come sarà la vita dopo la Resurrezione?”, gli chiesero infine. “Lo sapremo quando Lo vedremo faccia a faccia”. Così Ezechiele prese a gridare: “Pregate e ripetete con me: Signore!”. “Signore”, ripeterono. Poi urlò: “I tuoi pensieri non sono i nostri”. E tutti insieme risposero: “I tuoi pensieri non sono i nostri”. L’uomo di Dio continuò a proclamare, mentre il popolo ripeteva le sue parole: “Le tue strade non sono le nostre; Abbiamo preteso di fare un mondo migliore del tuo; Ti chiediamo perdono; Manda i tuoi Angeli accanto a noi; Li accoglieremo”.
Tre uomini vestiti di luce arrivarono quindi dal mare ed entrarono sull’isola. Gli abitanti, allora, iniziarono a piangere e continuarono per mesi, mentre le fibre dei loro corpi, come cristallizzate, si sciolsero e il dolore, entrando nella loro carne, li abbracciò. Poi vennero la febbre, il sudore, il respiro affaticato di tutte le malattie, finché il terzo Angelo li prese per mano. Mentre stavano morendo gli ultimi, Ezechiele prese la corda della piccola campana rimasta silenziosa per secoli e iniziò a suonare dapprima i suoni della Passione, poi della Morte e infine della Festa. Era il mattino di Pasqua”.
Prima che spuntasse il nuovo giorno, appena terminate le preghiere, il Padre chiamò Teofilo:
«Hai letto il rotolo che ti ho dato?».
«Sì, e mi sono accorto di essere simile a un bambino che ha bisogno di parabole, più che a un adulto-scienziato in cerca di risposte per tutto. Oggi anch’io posso rivolgermi a Sorella Morte, come la chiamò il caro Francesco, e benedire il suo nome.
Dicendoti che sono un bambino, riconosco pure che nelle mie domande ci sono molte ingenuità, ma in ogni caso mi sento capito da Voi al punto da trovarmi a mio agio per qualunque richiesta».