(a stampa in Quando l'opera interpella il lettore. Poetiche e forme della modernità letteraria, a cura di P. Pieri e G. Benvenuti, Pendragon, Bologna 2000, pp. 189-207)
“Nel LIBRO, a noi sedentari ed inquieti, la nostra azione; il pensiero che si conforma in linee tipografiche continua la nostra vita. (...) Il Libro, espansione totale delle lettere, si raffigura, con queste, in una mobile sequenza, per corrispondenze, per eccitazione, per analogia, per diretto e puro disegno. (...) Ed un solitario e tacito concerto mentale si disviluppa dal leggere, perché, qualche volta, è completare, sempre interpretare: sognare preziosamente, sopra di una sinfonia una dolce aspettazione desiderata, perché è un riconoscere parte di sé stesso, prima ignorata, dietro le indicazioni del poeta, se insiste sopra di un suo dolore, di una sua gioia, di una sua malinconia” (1).
Nel passo luciniano appena citato campeggia un vistoso intertesto mallarmeano, del resto richiamato in una nota dallo stesso autore. Lo scritto a cui Lucini fa riferimento è Le Livre, instrument spirituel, apparso sulla "Revue Blanche" nel luglio del 1895, e confluito poi nelle Divagations. “Le Livre, expansion totale de la lettre, doit d’elle tirer, directement, une mobilité et spacieux, par correspondances, instituer un jeu, on ne sait, qui confirme la fiction. (...). Un solitaire tacite concert se donne, par la lecture, à l’esprit qui regagne, sur une sonorité moindre, la signification”.
Ciò che maggiormente interessa al teorico della Ragion poetica è l’idea dell’elemento creativo che è insito nell’atto della lettura, dell’intentio lectoris - si direbbe oggi - che completa in modo determinante l’intentio operis, e che concorre in modo attivo e dinamico a produrre il senso del testo.
Questo snodo intertestuale, se da un lato si innesta sulla secolare topica della “leggibilità del mondo”, sulla fecondissima linea di metaforizzazione insita nell’immagine del Mondo come Libro (2), dall’altro deve essere compiutamente contestualizzato in rapporto al “ruolo di prim’ordine”, e “tutto ancora da indagare” (3), che la dottrina mallarmeana riveste, al crocevia tra i due secoli, nella genesi delle teorizzazioni di Lucini, e più in generale - forse, come si vedrà, non senza una possibile mediazione operata dallo stesso poeta delle Revolverate - nella costituzione della più profonda ed inquieta coscienza letteraria primonovecentesca.
E il discorso si dovrebbe a questo punto estendere, sempre con un più o meno diretto riferimento all’idea di una lettura-interpretazione creativa, simpatetica, collaboratrice, a tutta una fitta costellazione di riferimenti ai testi mallarmeani, noti e meno noti.
Lucini, nel passo citato e in altre non dissimili formulazioni, può aver avuto in mente anche un’altra enunciazione, presente nella conclusione di Le Mystère dans les Lettres. Sono pagine in cui Mallarmé si difende - come nell’intervista ad Huret, o nelle giovanili Héresies artistiques, che peraltro, escluse dalle Divagations, furono riscoperte solo nel 1940 - dall’”injure d’obscurité”, rivendicando il carattere elitario, quasi iniziatico della poesia moderna, che severamente seleziona ed elegge il proprio pubblico. “Lire - / Cette pratique - / Appuyer, selon la page, au blanc, qui l’inaugure son ingenuité (...): et, quand s’aligna, dans une brisure, la moindre, disseminée, le hasard vaincu mot par mot, indéfectiblement le blanc revient, (...) pour conclure que rien au delà et authentiquer le silence”.
Si riscontra, in questo passo, la tipica dialettica di “bianchi” e parole, di silenzio e frammento, che percorre ed anima in più luoghi la riflessione e la sperimentazione mallarmeane culminanti nel Coup de dès, e, soprattutto, nella densa nota che ne accompagnerà la pubblicazione su "Cosmopolis".
Si deve, a questo punto, far riferimento a quello che appare, a mio giudizio, uno dei testi chiave dell’inaugurazione della modernità, fino ad ora non adeguatamente considerato. Alludo alla Bibliographie apposta in appendice alle Divagations, datata Novembre 1896 (4), che rappresenta forse, alle soglie del Novecento, la più potente e feconda sintesi delle diverse correnti e dei vari orientamenti di quella concezione della critica come creazione e come arte che aveva costituito un aspetto essenziale, e ancora tutt’altro che compiutamente indagato, della décadence: dal Baudelaire dei Salons e degli scritti wagneriani, teorico e insieme artefice di una “critique amusante et poétique”, al Wilde di The Critic as Artist, fautore di un “independent criticism” inteso come autonoma creazione sopra un’altra creazione al D’Annunzio delle Note su Giorgione e su la Critica e del Prologo del "Marzocco", araldo di una critica che arrivi, “per via di segrete analogie”, a cogliere e a ricomporre, “con sintesi geniale”, il cuore profondo della creazione artistica, e che si esprima nelle forme melodiose ed alate del “poème en prose”, della “prosa plastica e sinfonica” teorizzata, sulla scia di Baudelaire, nella prefazione al Trionfo della morte; concezioni, queste, che al Novecento passeranno in eredità forse non senza la mediazione e il concorso di critici e di teorici minori ed oggi per lo più obliati: dall’Angelo Conti sorprendente ed esplicito promotore, nel Giorgione, di un’organica e feconda “collaborazione” tra l’artista ed il critico, alla “critique voluptueuse” di Jules Lemaître, alla “critique d’analogie” di Camille Mauclair, alla trattatistica di un René Ghil, su cui si avrà modo di tornare più oltre (5).
Nella Bibliographie, dunque, Mallarmé si preoccupa di chiarire la “raison des intervalles, ou blancs”, delle pause, dei “bianchi”, dei silenzi, che punteggiano le sue pagine teoriche e critiche ancor più che i suoi poemi in prosa. I bianchi intervallano e scandiscono le “écailles d’intérêt”, i rari, fulgidi “fragments (...) où miroita le sujet”. Si tratta, per il poeta-critico, di “mobiliser, autour d’une idée, les lueurs diverses de l’esprit, à distance voulue, par phrases”. La scrittura poetico-critica, con la sua armonia di pieni e di vuoti, con la sua sapiente compenetrazione di “frammenti” e di “bianchi”, visualizza e spazializza le irradiazioni e le diffrazioni - quanto mai centrifughe, ancorché sapientemente coordinate - del pensiero critico. In questo modo si incontra, anche in sede di teoria della critica, qualcosa di simile a quelle “subdivisions prismatiques de l’Idée” di cui parla la nota al Coup.
Dunque, sul discrimine di quella fusione tra poesia e prosa che, nel sistema del simbolismo europeo, presiede alla genesi del verso libero da un lato, alla fioritura del poema in prosa dall’altro, “une forme (...) en sort, actuelle, permettant, à ce qui fut longtemps le poème en prose et notre recherche, d’aboutir, en tant (...) que poème critique”. In nome di quello che oggi i poststrutturalisti definiscono come il “principio di reciprocità” tra critica creativa e poesia autocosciente, tra pensiero poetante e poesia pensante (6), la “critique poétique” teorizzata cinquant’anni prima da Baudelaire ha ora trovato il suo speculare e chiastico corrispettivo.
Non per nulla Lucini, discettando, proprio in apertura della Ragion poetica, di “Critica ed Autocritica” (7) e di “Arte e Critica riconciliate”, tratteggia il paradigma di un poeta che si faccia “critico, non d’altri ma di se stesso”, aperto ad una “fenomenologia del divenire e del perpetuo svolgimento”, e altrove invoca un lettore vigile e complice, “non inerte e distratto, ma collaboratore” - singolare punto di contatto, questo, con un teorico da lui tanto diverso come Angelo Conti -, e capace di non scambiare l’”originalità” per “oscurità” - ed ecco qui riemergere, palesemente, spunti polemici mallarmeani (8).
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Scrivendo a Carlo Linati il 21 agosto 1914 (9), Serra menziona Lucini, alludendo all’”antipatia temperata di stima” che nutriva nei riguardi di quell’autore troppo “sfacciato”, “rivoluzionario” e “stravagante”. E non è forse privo d’interesse riportare i tratti essenziali del giudizio che Linati aveva dato di Lucini nella lettera a Serra del 16 agosto, a tutt’oggi inedita: egli ne sottolineava, accanto alle “intemperanze”, anche la “delicatezza intima”, la “curiosità (...) febbrile”, il “senso della sfumatura”, della nuance; in un’altra missiva, anch’essa inedita, del settembre dello stesso anno, Linati, pur senza citare esplicitamente l’opera del Lucini teorico, accennava all’attitudine, propria del cenacolo di scrittori milanesi cui lo stesso autore della Ragion poetica poteva essere accostato, per le “conversazioni raffinate”, gli “ozi meditativi”, le “ricerche sottili, frastagliate” (9bis): espressioni in cui pare riassumersi, pur se per rapidi cenni, quasi un ritratto dell’artista critico.
E’ lecito supporre che, tra le “poche cose” che Serra asseriva - forse con quella punta di sprezzatura che non gli era estranea - di aver visto, “di sfuggita”, fino a quel momento, alcune delle pagine fin qui prese in esame avessero potuto attrarre in modo particolare la sua vigile e prensile attenzione. Del resto, come osserva Raimondi, la missiva in questione cade in un periodo di esitazioni, ansie, ripensamenti, all’indomani della pubblicazione delle Lettere; una fase in cui egli tenta di “uscire (...) dal quadro interpretativo di un ipotetico umanesimo di provincia”, e viene colto dal “sospetto (...) d’avere forse frainteso, se non addirittura ignorato il senso di un lavoro comune” (10). Sarà forse eccessivo vedere in Lucini, come avrebbe voluto Glauco Viazzi, l’”odiosamamo maestro di tutt’una generazione” di critici scrittori profondi ed inquieti, da Serra a De Robertis allo stesso Boine (11); un Lucini che sarebbe stato “letto, adoperato e subito avversato e messo in disparte con fastidio” (12). Quel che è certo è che non si possono escludere suoi rapporti di convergenza e di contatto, se non di influsso e di anticipazione, nei riguardi di quella “cultura vociana” - da intendere ed inquadrare per via di “scorci”, “generalizzazioni” ed “approssimazioni” (13) - cui tali autori erano in varia misura legati. E non è casuale che proprio alle colonne della rivista prezzoliniana, il 10 aprile del 1913, il poeta delle Revolverate affidasse la sua cruciale presa di distanza dal Futurismo.
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“Filosofia, Lirica, Storia, Sentimento, Grammatica, ed Anarchia: tutto si avvicenda in questi fogli. Io mi confido alla capacità del lettore, che tutto legga e sappia leggere; gli procuro un nuovo piacere. Come la vita” (14).
Poche righe, estrapolate dalla dedica a Marinetti, in cui parrebbero quasi sintetizzati alcuni temi e motivi destinati a divenire tipici di quella che si vorrebbe definire l’antropologia letteraria vociana: l’anelito ad un sapere assoluto ed onnicomprensivo, peraltro, nel Papini di Un uomo finito, a tratti ansioso, convulso, frustrato, risolventesi in un continuo oscillare tra l’”eterno slancio verso il tutto” e il “ricascare nel nulla”; l’analogia, o meglio la dialettica, tra letteratura e vita, che tanta fortuna avrà nel Novecento; e, quel che ora più conta, l’idea di un “saper leggere”, qui già quasi terminologicamente delineato, che ponga testo ed esegeta in un rapporto di vitale continuità, di comunione simpatetica - e si rammenti che già il Mallarmé di Le Mystère dans les lettres, davanti alla ricordata “injure d’obscurité”, preferiva “rétorquer que les contemporaines ne savent pas lire”.
Poco importa che qui l’autore fissi princìpi di lettura che devono valere non tanto in linea generale, quanto piuttosto in relazione all’interpretazione della sua stessa opera: è tipico proprio del simbolismo fin da Poe (si rileggano al riguardo le prime righe di The poetic principle) il proiettare su tutte le opere, del presente come del passato, i canoni della propria estetica, fino a configurare una poetica che evolve in metodo critico.
E si può tornare, allora, all’ampia parafrasi mallarmeana da cui siamo partiti: il “solitario e tacito concerto”, tutto raccolto in interiore homine, chiuso in mute armonie, che si risolve nel “riconoscere parte di se stesso, prima ignorata, dietro le indicazioni del poeta”. Difficilmente si potrebbe trovare, per il “saper leggere” serriano e derobertisiano, una definizione più efficace; e potrà non essere del tutto infruttuosa una ricerca, proprio nelle pagine dei vociani, di possibili esemplificazioni, tanto in sede teorica quanto sul versante dell’esercizio critico, di questa concezione.
Conviene partire da uno dei testi serriani più noti, il Ringraziamento ad una ballata di Paul Fort (15). Si tratta di un poeta di cui proprio la lettura serriana invita a ripensare, al di là del noto carattere volutamente “chiaro” e “popolare”, le ascendenze colte e simboliste: l’autore di testi come la Reconnaissance matinale de la ville (16), che attrae l’attenzione del critico cesenate nella piovosa mattina domenicale, è lo stesso animatore di quel “Théâtre d’Art” cui sono legati in varia misura i nomi di Verlaine, di Mallarmé, di Maeterlinck, e lo stesso poeta di cui Remy de Gourmont, nella sesta serie delle Promenades littéraires, aveva lodato la “manière de sentir” capace di tradursi consapevolmente e sapientemente in una “manière de dire”.
“Nul bruit que ce doux chant que zézaie la mésange....” Non è casuale che Serra, dopo aver temporaneamente trovato riposo alla sua inquietudine nei versi della Reconnaissance, si soffermi proprio su quel canto di cincia, su quella sorta di “pedale” iniziale, riverberato, nella stanza successiva, dall’onomatopea del “bruit frais de fointaine”: “Le mie labbra ridicono: ‘nul bruit’...”. E quell’onomatopea si lega, com’è evidente, a tutta una tradizione simbolista, da Verlaine (“O bruit doux de la pluie”) a Régnier (“Bruit de l’eau qui s’égoutte”) a D’Annunzio (“ti sien come la pioggia che bruiva”), di cui Serra loda altrove, pur se tra le note riserve, il “miele diffuso”, l’”oro liquido e senza forma” (17). Un’onomatopea, questa del “bruire”, che doveva avere profondamente suggestionato il nostro autore, se è vero che egli vi ricorreva anche nelle lettere d’amore, laddove parlava di acqua che udiva “fuggire e bruire”, e di una “fantasia d’amore e di ricordi” che sentiva “bruire nell’anima” (18). Ma questo alone fonosimbolico avvolgeva anche il “canto divino del silenzio”, la “sinfonia di voci purissime” che in Romain Rolland - autore, com’è noto, assai congeniale all’ultimo Serra - rapiva d’un tratto Christophe e Olivier: “Le bruit d’abeilles, le parfum du tilleul ... / (...) Le doux bruit de la pluie avec l’odeur des roses”. Un’amicizia, quella fra i due giovani, che è come l’intimo e concorde vibrare di due anime, venato di “profondo e silenzioso giubilo”, di “silenzio amoroso” (18bis) (e sul significato di questi silenzi si avrà modo di tornare).
Si può notare ancora, nel testo di Fort, il procedimento tipicamente impressionista - tra la “blancheur de troupeaux” dell’Après-midi di Mallarmé e il pascoliano “nero di nubi” - che porta in primo piano la “blancheur rosée de désert insonore” propria della “grand’rue”. Un’immagine, questa, che del resto ritroveremo, contaminata con il pascoliano “bianco di strada”, anche in quei luoghi dell’Esame di coscienza che parlano di “stanchezza delle vecchie strade bianche”, di “strade di una bianchezza che è falsa sotto le nubi di mobile piombo”.
Ma una sensibilità in senso lato simbolista non si riscontra solo nei tratti stilistici che, oltre a sollecitare la sensibilità del critico, si ripercuotono sul suo dettato prosastico. Essa, infatti, informa di sé la stessa modalità dell’approccio al testo, la stessa fenomenologia dell’agnizione poetica.
“Anch’io sono un altro” (19), scrive il critico, dopo il “piccolo miracolo” di “luce e calma, argento e pace perfetta” operato dal poeta francese. E non è impossibile scorgere, qui, una qualche eco del rimbaudiano “Je est un autre” della lettera a Paul Demeny, resa nota da Berrichon nell’ottobre del 1912 e già inclusa nell’edizione del Mercure de France in cui, come si evince dagli abbozzi del saggio su Rolland (20), Serra leggeva il poeta di Charleville.
Ed era proprio ad un saggio su Rimbaud, oltre che ad uno su Verlaine, che, come si ricava dall’epistolario, Serra lavorava nello stesso torno di tempo - tra gli ultimi mesi del’14 e i primi del ’15 - cui appartiene anche la gestazione del Ringraziamento (21). Non per nulla, in questo stesso scritto, è ricordata l’adesione di Fort alla poetica del veggente, la sua concezione del poeta come “récreateur”, “visionnaire”, “esclave noir de ses symboles”, ma nel contempo, sulla scorta del Baudelaire lettore di Poe, “maître blanc de ses paroles”. E la disposizione interiore che accompagna l’approccio a Fort è anche esplicitamente accostata al “turbamento quasi misto di rancura e di durezza” con cui il critico si era avvicinato allo stesso poeta del Bateau ivre, e forse non troppo dissimile, come condizione emotiva, dall’”antipatia temperata di stima” di cui parla a proposito di Lucini, e al “sorriso di dolcezza” con cui si era “piegato verso le opere di Verlaine” (22).
Serra vive, come i simbolisti e, in parte, tramite loro, l’avventura di un soggetto che, come direbbe Agosti (23), si aliena, ma nello stesso tempo si riconosce e si invera, nel Linguaggio, scoprendo “parte di se stesso (...) dietro le indicazioni del poeta”; in questo senso, mediante il “naufragio” nel testo, la ragionata alienatio mentis da esso veicolata, il soggetto critico può divenire, rimbaudianamente, “un altro”.
E in quella stessa mirabile pagina, quasi incorniciata tra “Anch’io sono un altro” e “nul bruit”, tra alienazione e reiterazione, tra riconoscimento della poesia e sua solitaria “esecuzione”, si articola una fenomenologia dell’atto della lettura in cui sembrano affiorare concetti ed immagini di ascendenza, stavolta, mallarmeana. La “continuità silenziosa”, il “solitaire et tacite concert” che lega esegeta e poeta, che “si potrà rilassare ma spezzare non si può più”, è paragonato ad una successione di “cerchi propagati l’uno dall’altro sull’acqua”, ad un’assidua e solidale “vibrazione iniziale” che “si dispone (...) intorno al primo punto con quel rapporto che ha la circonferenza del circolo al centro”.
Una similitudine, questa, già preannunciata nelle prime pagine: le immagini che si susseguono fugaci davanti agli occhi e nella mente del critico nascono l’una dall’altra, e l’una nell’altra si annullano, “come cerchio da cerchio e suono da suono”, e “si dissolvono e tornano a formarsi intorno al punto che mai non muta”. Queste “forme leggere” “tutte premono e mormorano e vanno nella corrente silenziosa e dolce”. Una clausola limpida e tornita - due perfetti endecasillabi, separati da una tenue cesura dopo “vanno” -, rafforzata dall’allitterazione della “a” e dall’omoioteleuto che lega i tre verbi: la prosa critica assume le movenze della poesia. Ma siamo anche in presenza di una sorta di rivisitazione dell’archetipo eracliteo del fluire; e che non sia del tutto peregrino parlare di un eraclitismo di Serra è confermato dal leopardiano sgomento su cui si chiude la Partenza di un gruppo di soldati per la Libia: “tutto il flusso eracliteo che mi spaura, l’infinito che mi rapisce in ogni punto dell’universo”... E viene in mente, tra simbolismo ed estetismo, Pater, e per l’esattezza quell’accenno di una teoria della critica che è la Conclusione della prima edizione degli Studies in the History of the Renaissance, Conclusione che non per nulla reca in esergo una citazione dall’Oscuro. “Ogni oggetto” - scrive Pater - “si risolve in un gruppo d’impressioni (...) nella mente dell’osservatore. (...) Quelle impressioni della mente individuale (...) sono in perpetua fuga”. Si crea, allora, un incessante flusso, un “continuo svanire”, “uno strano e perpetuo intessere e stessere di noi medesimi”. “Svanire” - dirà Montale - è “la ventura delle venture”. Quelle “impressioni” sono anche quelle del critico; e questo soggettivismo gnoseologico è il più coerente presupposto di una critica intesa, secondo la definizione wildiana, come “a mode of autobiography”.
Tornando alla similitudine serriana del cerchio, pare quasi di trovarsi in presenza di una liberissima riscrittura di un prezioso incipit dantesco (“Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro”, accenno di “circulata melodia”); ma sembra profilarsi, ancora una volta, dietro questo incessante fluire, questo inesauribile cangiare di “forme leggere”, “sostanza di silenzio e di fugacità”, “visione mobile e labile”, questo gioco, si direbbe, di dissolvenze incrociate, l’ombra di Mallarmé: “Toute l’âme résumée / Quand lente nous l’expirons / Dans plusieurs ronds de fumée / Abolis en autres ronds”... Quale icona, del resto, avrebbe potuto visualizzare meglio del cerchio e dell’ellisse la nozione di un pensiero che pensa se stesso, di una poesia che – attraverso il molteplice gioco del reflectere – si fa critica di se stessa, e , specularmente, di una critica che si fa poesia, finendo per abbracciare ed inglobare in sé, anche nella reale e concreta matericità della scrittura e del testo, il proprio oggetto?
Sullo sfondo archetipico delle “metamorfosi del cerchio” (24), emergono richiami anche agli scritti teorici del poeta di Hérodiade, che parla di una “convergence de fragments harmoniques à un centre”, di un’”onda (...) i cui cerchi vibratori (...) producono un limite infinito che non raggiunge la calma del centro”. E riscontri altrettanto interessanti sono offerti dal teorico delle Divagations per ciò che riguarda il concetto di “vibrazione”: se già nell’articolo su Wagner del 1885 la musica appariva come “prolongement vibratoire de tout”, la più nota Crise de vers avrebbe poi parlato - riprendendo affermazioni già presenti nell’Avant-dire premesso dall’autore al Traité du Verbe del discepolo René Ghil - di una “disparition vibratoire” del reale “selon le jeu de la parole”. E lo stesso Serra parla di “suoni d’argento”, di una “vibrazione argentina” le cui onde “si trasmettono da assonanza a assonanza, da calma a calma, e si disperdono con un mormorare di aria sonora ....” - ove si può notare, nell’ordito prosastico serriano, e specie nell’ultimo colon, anche lo squisito effetto allitterativo.
E proprio in Ghil ritroviamo, pur se enfaticamente gravato di siderali risonanze metafisiche, l’àmbito metaforico del centro e del cerchio: come per una sorta di dantesca “visione metamorfica”, il “cercle virtuel virtuellement éternel et infini” si trasforma in una “ellipse” che muta, a sua volta, “la matière en mouvement”, dando vita ad una “universelle symphonie”, quasi una sorta di silenziosa musica mundana, di cui la poesia stessa è partecipe. E Lucini, che pure prende le distanze dall’ispirato ed entusiasta teorico del Traité, sembra riecheggiare proprio le parole di Ghil laddove delinea i caratteri di un’arte letteraria che, ravvolgendosi e svolgendosi “dal movimento che non si arresta mai”, “sintetizza la serie dei movimenti in un’astrusa e novissima linea vibrante, a cerchi, a nodi, ad ellissi, a spezzate, concentrica, rapidissima” (25).
Può essere qualcosa di più di una mera curiosità erudita il notare – nell’ottica di quello stesso “positivismo sentimentale” di cui Serra parlò a proposito di Pascoli, con un’intuizione destinata ad essere largamente sfruttata dalla critica successiva - come a questa metaforica della vibrazione, gravida di nuclei concettuali ed implicazioni teoriche, possa non essere del tutto estranea la suggestione offerta dalle ricerche di Helmholtz intorno alla natura e alla proprietà delle onde sonore; non a caso, la Théorie psychologique (sic, ma in realtà Théorie physiologique de la musique) dello scienziato tedesco, cui già Ghil si richiamava esplicitamente, figura tra le letture progettate dal critico cesenate in un taccuino giovanile (25bis).
Chi poi cercasse in Serra ulteriori riscontri della metafora del cerchio, non avrebbe che da aprire Di Gabriele D’Annunzio e di due giornalisti, ove la “voluttà”, vista da Serra quasi come una sorta di crociano “sentimento fondamentale” del poeta delle Laudi, appare come “principio”, concettuale e musicale, di una “cerchia di finzioni fantastiche” che “si è andata dilatando intorno alla persona del poeta con progresso ritmico, come quello delle increspature concentriche al tonfo del sasso nel lago”.
Mallarmé parla anche, sempre in Crise de vers, di “une orchestration, qui reste verbale”; Ghil, sulla sua scorta, di una “instrumentation verbale” cui fa riscontro, in chiave sinestetica, una forma di “audition colorée” (26). E neppure questa nozione di “orchestrazione verbale”, quest’idea di una sinergia tra parola e musica resa possibile proprio da un avvolgente gioco di vibrazioni, sembra essere rimasta priva di eco in Serra: “di verso in verso tutto vibra più forte; (...) tutto si canta, il sospiro è diventato profondo come un’armonia di orchestra. (...) - scandite queste sillabe a una a una per sentir con che gioia si staccano e vibrano”.
E i riferimenti potranno ancora ampliarsi, sempre limitandosi ai riscontri mallarmeani, sol che si estenda l’indagine alle pagine pascoliane: quando Serra nota che “le parole più comuni in un verso di lui rendono un suono nuovo”, poiché “pare che la sua voce nel proferire le faccia vibrare lungamente e tragga dai loro seni riposti echi non conosciuti” (27), pare di avvertire un’eco di un lapidario alessandrino del Tombeau d’Edgar Poe, “donner un sens plus pur aux mots de la tribu”; e quando egli rimprovera al poeta di san Mauro di essersi talora compiaciuto del “vago”, dell’”incerto”, del “simbolico”, insomma dell’”oscura vanità della suggestione” (28), sembra muoversi, pur se dall’ottica di una parziale presa di distanza, nel contesto teorico e anche terminologico della definizione mallarmeana del processo di simbolizzazione come “allusion” e “suggestion”, tra Crise de vers e l’intervista ad Huret.
Ma lo stesso approccio serriano, e già luciniano, al testo, è da ricondurre, in linea generale, ad una sensibilità simbolista. Al lettore prospettato da Lucini nella pagina poc’anzi richiamata l’autore chiede, tramite una programmatica “oscurità”, di “interporre spazio tra periodo e periodo, sostando per interpretare attentamente”; “il libro deve vivere nelle sue mani; al suo contatto vibrare” (29). Questo paradigma di lettore-esegeta complice e collaboratore pare prefigurare l’immagine serriana, affidata tanto all’epistolario, fin da una lettera all’Ambrosini del 1908, quanto al Ringraziamento, di un critico che agisce in modo intenzionalmente antisistematico, muovendo da “un gran fascio di appunti presi leggendo”, “commenti, divagazioni, impressioni” (30), e procedendo poi, come si legge nel Ringraziamento, “avanti, indietro, senza regola”. Ma questo lettore è anche, a ben vedere, quello auspicato da Baudelaire nel testo che, non a caso, segna la fondazione teorica di quel modello di prosa poetica, “lirica” e “musicale”, cui Mallarmé farà riferimento per la costruzione del “poème critique”: alludo alla lettera dedicatoria ad Arsène Houssaye che apre Spleen de Paris, e in cui si delineano i tratti di un’opera che esige un lettore capace di destreggiarsi abilmente e di muoversi con assoluta libertà nel dedalo di un testo che non ha, apparentemente, “ni tête ni queue”, ma in cui, al contrario, “tout (...) est à la fois tête et queue, alternativement et réciproquement”, in una sorta di circolare ricorsività. Lo sguardo del lettore potrà “hacher”, “smembrare” l’opera in “fragments”, in componenti particolari ed autonome di una sorta di metaunità dinamica e sfaccettata, non lontana da quella che gli esegeti vociani postulavano e ricercavano, più o meno arbitrariamente, nelle opere oggetto della loro indagine.
E in questo stesso contesto possono essere viste le presenze mallarmeane ravvisabili in De Robertis. In Saper leggere (31), l’orizzonte teorico dell’”orchestration verbale” è presente, in forma latente, nell’idea di una futura lirica “politonale”, cui si giungerà attraverso una “serie di ritmi e accordi nuovi che accennano a formarsi con una maggiore ricchezza di incroci e un tessuto armonico più sottile”. E in un altro fondamentale scritto vociano, Collaborazione alla poesia, soprattutto nella prima parte, Conti con me stesso, quest’idea s’intreccia con una sinestesia tipica dell’imagery del Mallarmé critico e teorico, quella che associa i suoni del verso a sensazioni luminose: proprio nella stessa pagina in cui De Robertis ha appena invocato, a conforto della propria “sensibilità malata, acuita all’estremo”, i nomi di Rimbaud e Mallarmé, e ha rivisitato il topos parnassiano e dannunziano del verso divino (“Il verso!... Cosa divina, nella sua vibrante fattura, nella sua unità brulicante...”), si parla, oltre che di “suggerimenti vasti” ed “emozioni (...) musicalmente lontane” che fanno pensare a Baudelaire, anche di “luccichii di parole”, “colori intravisti”; la stessa metafora della vibrazione luminosa è poi ripresa e sviluppata: “verso luccicante”, “improvviso barbaglio su un fondo chiaro”, “ripetersi di suoni vibratorii”, “movimento (...) simile a luce che si riversi (...) su una superficie sconfinata”; e qualche pagina oltre è ancora richiamato, con un ulteriore riferimento all’”orchestrazione verbale”, il “tessuto armonico, luccicante di infinita luce”, che il critico vuole ravvisare in una terzina dantesca (32).
Ebbene, come già si è accennato, anche a proposito di questa linea di metaforizzazione si deve richiamare Mallarmé, che in Crise de vers, dopo avere assimilato le parole che compongono il verso ad “alternatives lumineuses simples”, e a “touches”, a “pennellate” che “existent dans l’instrument de la voix”, ricorre poi all’analogia, tipicamente parnassiana, delle parole paragonate a pietre preziose, parole che “s’allument de reflets réciproques comme une virtuelle traînée de feux sur des pierreries”; nel Mystére, il già ricordato “centro di sospensione vibratoria” è anche fulcro di una “réciprocité de feux”; in La Musique et les lettres, il susseguirsi delle frasi, in cui è insita una “réminiscence de l’orchestre”, è simile all’”éruptif multiple sursautement de la clarté, comme les proches irradiations d’un lever de jour”. Altri riscontri emergerebbero ove questa sommaria indagine fosse estesa a testi meno noti. In Quelques médaillons, ad esempio, di “scintillation mentale” si parla a proposito di Villiers de l’Isle-Adam, e si dice che il sovrano ingegno di Poe “éclate en pierreries d’une couronne”.
Ma vengono in mente anche la “clarté melodieuse” e il “froid scintillement” che gli occhi di Erodiade attingono da “pierres” e “purs bijoux”, e, nel contempo, con una convergenza eloquente, la dannunziana “melodia di luce”. E Ghil aveva, dal canto suo, definito la poesia come una “peinture” ottenuta “par le moins de hasard lumineux donné aux mots” (33).
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In linea generale, un critico come De Robertis tende a proiettare sui testi del passato, si tratti di Dante, Petrarca o Leopardi, la sua moderna sensibilità simbolista e “malata”. Del resto l’autore, come egli stesso confessa nel quinto paragrafo di Saper leggere, “non può leggere la Divina commedia e i Canti che per suo piacere e esperienza personale, come un artista, per imparare il segreto di certe parole e espressioni nuove” - e si può notare quanto sia evidente, qui, il riferimento alla “critique amusante et poétique” e all’”independent criticism” del simbolismo e dell’estetismo, fino allo scoperto richiamo al titolo stesso del più importante fra gli scritti teorici di Wilde.
Il referente mallarmeano tornerà ad affiorare, in De Robertis, un trentennio dopo Saper leggere, nello studio Valore del Petrarca (34), che non a caso si conclude con una postilla polemica in cui l’autore ribadisce che tra i suoi “testi” si devono annoverare, accanto a Foscolo e Leopardi, proprio Poe, Baudelaire, Mallarmé, Valéry, a conferma di quanto la cultura e la critica vociane debbano alla grande tradizione simbolista e postsimbolista. Dopo la celebre e audace definizione di un “Petrarca ermetico” - che sarebbe poi stata sviluppata, pur se con specifico riferimento al problema variantisico, da Contini in apertura del Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare - viene esplicitamente richiamato un passo di Mallarmé, peraltro senza una precisa indicazione del testo a cui il critico fa riferimento. De Robertis allude ad uno scritto non tra i più noti, cioè Solennité (35), in Crayonné au théâtre, dedicato in massima parte a Banville. Il concetto che viene utilizzato dal critico italiano in riferimento al ruolo storico della poesia petrarchesca è quello di “recommencement”, inteso da De Robertis come “storia della poesia”, “ricerca ultima”, “ritrovamento delle misure perfette di quell’imperfetto che è l’uomo”: un sistema, in altre parole, di temi e motivi e caratteri che si inseguono e si richiamano nei secoli, con una sorta di assidua variazione nella ripetizione; e strettamente legata a questa è anche l’altra nozione mallarmeana cui De Robertis si rifà, sempre presente in Solennité, cioè quella di una “métrique absolue” che regola e scandisce i tempi di questo “recommencement” non meno che le sillabe dei versi e i “numeri” della prosa “filigranata di poesia”, e che, dunque, dalla concretezza e dall’immanenza del testo si riflette nella trascendenza del disegno metastorico. Ma, quel che ora più conta, nel seguito del testo mallarmeano veniva ribadito, una volta di più, il ruolo fondamentale rivestito dalla soggettività del lettore: la “métrique absolue” “réclame de quelqu’un, le poëte dissimulé ou chaque lecteur, la voix modifiée suivant une qualité de douceur ou d’éclat, pour chanter”. Quello che nel Mystère sarà definito come “air ou chant sous le texte”, e che si cela e fluisce nelle più riposte profondità di una secolare tradizione - un po’ come il “tema” di cui parlava, in un’annotazione inedita, il D’Annunzio del Vittoriale, che passa e si snoda “nell’infinita sinfonia dei secoli e dei popoli” (36) -, deve essere dunque portata alla luce da un lettore partecipe e complice, il cui punto di vista e il cui ruolo, nei confronti dell’opera in questione, non siano troppo dissimili da quelli dello stesso autore, caricandosi di una marcata valenza creativa.
Come si vede, tutto questo denso e complesso sfondo teorico trova espressione e consistenza attraverso un linguaggio alato, immaginoso, potentemente metaforico, che crea, anche sul piano stilistico, una stretta prossimità e un profondo legame di simbiosi e di reciproca integrazione tra la scrittura poetica e quella critico-teorica. Proprio in ciò risiede, forse, l’eredità più feconda che il “saper leggere” ha lasciato dietro di sé; e in ciò è possibile ravvisare, nel contempo, anche il più chiaro influsso che sulla sua genesi fu esercitato dalle poetiche critiche del simbolismo e della décadence.
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In un suo libro, L’art en silence, Camille Mauclair lodava il silenzio come “cristallizzazione dell’anima”, “padre dei sogni”, “dolce quiete che ci consente di ascoltare la melodia interiore”. Era, questo, certo ad un minore livello di profondità concettuale, qualcosa di simile al “solitario e tacito concerto” da cui abbiamo preso le mosse, a sua volta non lontano dal “concert muet” e dal “poème tu (...) aux blancs” di cui parla Crise de vers.
Per questa via, trovava riscontro sul versante specifico della teoria letteraria e delle dottrine estetiche quello che potrebbe essere considerato quasi come un vero e proprio mito simbolista del silenzio. Proprio al silenzio Maurice Maeterlinck - il cui Double jardin avrebbe attratto, nel 1901, l’attenzione del Serra traduttore (37) - dedicava un capitolo del suo Trésor des humbles, e Rodenbach, altro autore che potè esercitare, accanto a Samain e Laforgue, citati negli abbozzi del saggio su Rolland, una qualche suggestione sul critico cesenate (38), celebrava il Règne du silence, inseguendo, con il suo verso opaco e smorzato, “plaintes de cristal / qu’on s’obstine à poursuivre aux confins du silence”. Profondi silenzi solcavano a tratti anche i versi del Chariot d’or di Samain; e si può pensare, ancora, alle rarefatte atmosfere di quel théâtre du silence che tanta importanza ebbe per il D’Annunzio drammaturgo, così come per il Wilde di Salomé.
Sul versante dell’autocoscienza letteraria, il tema del silenzio si legava alla condizione, cui già si è accennato, di una poesia/frammento che nasceva dal bianco/silenzio, e che traeva vita, paradossalmente, proprio dal vuoto che la cingeva e la insidiava. Una dialettica, questa di parola e bianco, musica e silenzio, che della critica simbolista è carattere intrinseco e, a un tempo, oggetto di consapevolezza teorica.
“J’écrivais des silences”, dice Rimbaud in Alchimie du verbe. “Nel bianco di quelle righe, come nel silenzio che separa un verso dall’altro, una parola dall’altra, trema un riflesso: questo riflesso è la lontananza di una lingua che tutte le lingue precede e suppone e raccoglie” (39) - quasi la “lingua redenta” di Benjamin e Rosenzweig.
Questo battesimo del silenzio, questa genitura del vuoto, se assume in Mallarmé le sofferte implicazioni che sono ben note, non manca di affiorare, sorprendentemente, anche in D’Annunzio, che proprio all’Impero del silenzio consacra la seconda parte del Fuoco. “L’essenza della musica”, a parere del dottor mistico, dietro cui si cela Angelo Conti, che a questi concetti dedicò realmente alcuni scritti apparsi sul "Marzocco", “non è nei suoni”, ma “nel silenzio che precede i suoni e nel silenzio che li segue”, nell’”alto silenzio” astrale cui Stelio è appena riuscito a carpire la fugace “parola dell’elemento”, istituendo anch’egli, sullo sfondo dell’immensa quiete cosmica, un nesso tra segno verbale ed impressione luminosa. E’ già implicito, in quest’idea, il primo nucleo di quello che sarà il grande disegno del Libro segreto, il germe essenziale della “poetica del frammento” che si dispiegherà in quell’opera: una vasta corona di frammenti governati e tenuti insieme da una sorta di latente e quasi precaria tramatura prosodica - e non per nulla l’autore scriveva, nella più convulsa fase elaborativa, di stare cercando “il ritmo del libro”.
Ebbene, i concetti espressi nella pagina del Fuoco prima citata trovano una chiara risonanza nel De Robertis di Saper leggere: “L’interpretazione realizza le pause. Le pause, in arte, sono sospese tra sillaba e sillaba” (40). E il dantista del Vittoriale parrà quasi voler fare a sua volta eco a queste parole quando, a margine del commento Scartazzini-Vandelli, coglierà l’”incognito indistinto” di certi passi della Commedia, in cui il “mistero” o “aura” della poesia “spira tra parola e parola” (41).
Queste e altre simili enunciazioni non paiono prive di riscontri neppure in Serra, laddove egli, come nel saggio pascoliano, accenna a parole che “risuonano come in un grande silenzio” e “cantano nel silenzio lungamente come una eco nei cuori di infinita tacita melodia” (42), non lontana dal “tacite concert” da cui siamo partiti.
Analoga l’atmosfera del Ringraziamento: sono un “silenzio vuoto”, un “vuoto” e un “silenzio” che l’autore ha “cercato”, ad anticipare e prefigurare l’atto della lettura, mentre egli si accinge ad entrare nella “casa dei libri”. L’attitudine con cui il critico si accosta a tale atto non è troppo avulsa dalla “Muse moderne de l’impuissance” che, nella giovanile Symphonie littéraire, impone a Mallarmé l’”aimable supplice” di “ne faire plus que relire (...) les maîtres inaccessibles”; e anche in quel caso, lo scenario è quello di una “matinée” cristallina e dilavata, di un’”heure précieuse” che dona un “état de grace” tale da operare nel poeta, alla lettura di Gautier, “une insensible transfiguration”...
Quando il solitario e tacito concerto ha inizio, si levano e si mischiano “effetti di cielo o di silenzio o di suono”; il “nul bruit” che il critico ricanta nel profondo della propria coscienza letteraria è isolato “nel silenzio della lunga pausa”, silenzio che poi “si determina in un brusio di fontana”, quando nel testo di Fort “l’eau coule et le vers chante et fuit”; il poeta muove i suoi passi “in quel gran silenzio”, e la “limpidità del mattino” si accampa “con la sua brina e il suo silenzio”.
Il silenzio, se da un lato, trasfondendosi dall’orditura intrinseca del dettato poetico alle modalità della sua decodifica e della sua “esecuzione”, finisce per sostenere ed alimentare l’esistenza e la fruibilità stesse del testo, dall’altro viene a connotare il “vuoto” in cui il lettore, nel suo narcisismo sottile, nella sua straniante chiaroveggenza, finisce per trovarsi rinchiuso. E’ lo stesso Serra a parlare altrove del “carcere dell’inchiostro” che gli impedisce di “godere anch’egli un poco del vivere” (43); e si rammenti che anche la casa dei libri gli appariva, nel Ringraziamento, “il mio luogo, il mio carcere, il mio destino”.
Si rivisitino, ora, alcuni luoghi dell’Esame di coscienza. Alla vigilia del conflitto, “attendiamo in silenzio”, ed invano, “l’aurora di una letteratura nuova”. Dopo lo sterminio, l’erba “buona per i nostri corpi” sarà “tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera” - e si può, a riscontro, aprire il Diario di guerra alla data del 17 luglio 1915: “O proda di erba vera, vivace, non toccata ancora se non dalla luce - erba per camminarci a piedi scalzi e per dormire distesi, fra il silenzio e il cielo!”. Un cielo, nondimeno, infinitamente lontano: “il sole che filtra tra i riflessi del verde pare un’ironia sulla terra gibbosa, nuda e tetra” - e dell’ossessionante “sereine ironie” di un cielo puro ed impassibile aveva già parlato Mallarmé in L’Azur, anticipato dal “ciel ironique et cruellement bleu” del baudelairiano Cygne.
“Il silenzio” - per tornare all’Esame - “fuma in un vapore violetto”; “non c’è voce né suono se non di caligine”; “non si vedono gli uomini e non si sente il loro formicolare”. Sono già state segnalate, per queste immagini, suggestioni pascoliane e anche tolstojane; ma si potrebbe forse cautamente richiamare Apothéose, un sonetto di Laforgue, anch’egli menzionato negli abbozzi rollandiani, che fonde, in una densissima analogia, l’idea del formicolio e quella del silenzio: “En tous sens, à jamais, le silence fourmille / de grappes d’astres d’or mêlant leurs tournoiements”. Un esempio di poesia cosmica e “copernicana” che può avere offerto, tra le altre cose, qualche suggestione anche allo stesso Pascoli. Il formicolio è, qui, degli astri, più che degli uomini; ma da queste siderali lontananze si può intravvedere, tra i tetti di Parigi, “un pauvre fou qui veille”, intento a vergare lo stesso sonetto, e quasi emblema vivente della solitudine del letterato.
Solitudine che Serra tenta ora di spezzare, annientando i vincoli del suo carcere dell’inchiostro: inchiostro che ora “si scioglie in luce”, con una splendida nuance di ascendenza, ancora una volta, simbolista, mentre la corona di un pino è come “una pagina d’aria grigia” che si stempera in un “verde fosco e fresco”, in un “cielo più vasto”, in una “gran trasparenza scolorata”. Si ha voglia di “essere insieme”, “andare insieme”, “stanchi di parole”, seguendo l’incedere della “ruota silenziosa”, “fra il silenzio e il fremere uguale delle gomme”, “nel silenzio della mattina”. Una scrittura, quella dell’Esame, che - tutta filigranata ed istoriata di silenzi, iati, intermittenze - si fa, in ciò, specchio fedele e perspicuo di una sofferta condizione esistenziale, di una dilacerata “coscienza infelice”.
Ed è qui che la strada di Serra e quella di Lucini divergono. Rispondendo ad una inchiesta della rivista svizzera Coenobium (44), il poeta delle Revolverate articolava una delle infinite varianti della metafora della “leggibilità del mondo”. “Grande spazio (...) per me, grande biblioteca per accontentare la mia avidissima curiosità; essere circondato giornalmente dal flusso e riflusso della vita intensa degli uomini e della natura. (...) Grande libro tutto il mondo: (...) torno a rileggerlo”. Era proprio attraverso la letteratura che Lucini riusciva ad “essere insieme”, ad “andare insieme”, uomo tra gli uomini. Già nel passo citato in apertura, “il pensatore silenzioso” doveva, dopo la lettura, uscire “al sole del giorno, in faccia a tutti, partecipando al lavoro comune”, laddove invece, per il Serra di Intorno al modo di leggere i Greci, restava incompiuto l’anelito ad uscire dal carcere per “mettere in comune” (45).
Emergeva qui, forse, il Lucini erede di certo solido e generoso spirito fattivo e costruttivo di stampo risorgimentale e postrisorgimentale, che tanta parte aveva avuto nella critica italiana dell’Ottocento, da Foscolo a Settembrini a De Sanctis.
In Serra, invece, una volta che la “scelta della poesia”, anch’essa ben consentanea al simbolismo, e il mendace palliativo del “risarcimento estetico” (46) abbiano palesato tutta la loro fragilità e la loro fallacia, dischiudendo quello che è stato chiamato l’”abisso dell’estetismo”, il silenzio della lettura, in cui la parola poetica vive, nutrita di mute armonie, la propria umbratile vita, sfuma e si annichila, trasceso da quello, ancora più vasto e più vuoto, della morte. L’inchiostro si scioglie in luce, si dissolve e si disperde nel vuoto degli spazi, e solo a questo prezzo può cessare di essere un carcere.
NOTE
1) G. P. LUCINI, Ragion poetica e programma del verso libero, Edizioni di “Poesia”, Milano 1908, p. 192.
2) Cfr. H. BLUMENBERG, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il Mulino, Bologna 1984 (soprattutto, per la persistenza di questa metafora nell’imagery mallarmeana e simbolista, le pp. 314 e sgg., in cui non è, peraltro, preso in esame il passo ora in questione). Interessante, sempre nell’àmbito del simbolismo italiano, e pur se ad un livello di più immediata decifrabilità e di minor tensione concettuale e teorica, il riscontro offerto dal “libro del mistero” - senza posa perlustrato da un uomo “invisibile (...) come il pensiero” - che compare in Pascoli (Primi poemetti, Il libro). E si può notare che anche De Sanctis, avendo alle spalle l’ermeneutica romantica tedesca, ricorreva a questa metafora per asserire la natura creativa dello sforzo esegetico: “Il libro del poeta è l’universo; il libro del critico è la poesia: è un lavoro sopra un altro lavoro” (F. DE SANCTIS, Saggi critici, Laterza, Bari 1952, p. 70).
3) A. BERTONI, Dai simbolisti al novecento, Il Mulino, Bologna 1995, p. 180.
4) Il testo si può leggere in S. MALLARMÉ, Divagations, Charpentier, Paris 1953, pp. 367-372.
5) Rinvio per ora al mio studio, di prossima pubblicazione sulla rivista "Poetiche", Da Poe a Wilde. Intorno ad alcune fonti del concetto di critica tra il ‘Convito’ e il primo ‘Marzocco’.
6) Fondamentale, per questi concetti, G. H. HARTMAN, La critica nel deserto, Mucchi, Modena 1980; utili chiose in La critica salvata dalla poesia - intervista con Geoffrey Hartman, a cura di R. Bonadei, in "Poesia", V (1992), n. 49, pp. 19-23.
7) G. P. LUCINI, Ragion poetica, cit., pp. 17 sgg.
8) Ibidem, p. 203; per l’interessante riscontro contiano, cfr. A. CONTI, Giorgione. Studio, Alinari, Firenze 1894, p. 78. A possibili raffronti tra Lucini e Conti accenna anche A. BERTONI, Dai simbolisti al novecento, cit., pp. 14 e 179 n.
9) Epistolario di Renato Serra, Le Monnier, Firenze 1953, pp. 520-523.
9bis) Le due lettere di Linati sono conservate alla Biblioteca Malatestiana (Fondo Grilli, b. 22).
10) E. RAIMONDI, Una lettera ariostesca dell’ultimo Serra, in AA. VV., Scritti in onore di Renato Serra, Le Monnier, Firenze 1974, p. 281.
11) Per la concezione, in Boine, della critica come processo attraverso cui “l’opera d’arte (...) ti esprime, ti rivela (...) a te stesso”, cfr. lo scritto Un ignoto, in G. BOINE, L’esperienza religiosa e altri scritti di filosofia e di letteratura, a cura di G. Benvenuti e F. Curi, Pendragon, Bologna 1997, soprattutto pp. 142 e 144.
12) G. VIAZZI, Studi e documenti per il Lucini, Guida, Napoli 1972, p. 103.
13) F. CURI, Serra e la cultura vociana, in AA. VV., Scritti in onore..., cit., p. 113.
14) G. P. LUCINI, Ragion poetica, cit., p. 6.
15) Citerò da R. SERRA, Scritti, vol. I, Le Monnier, Firenze 1938, pp. 203-236.
16) La ballata cui si riferisce la lettura serriana si trova alle pp. 503-505 del corposo volume (P. FORT, Choix de ballades françaises, Figuière, Paris 1913) che il critico aveva iniziato a sfogliare, tra l’ansia e l’attesa, “un pezzo qui, un pezzo là, avanti, indietro, senza regola”.
17) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 201. Per il riferimento dannunziano e il relativo snodo intertestuale, cfr. G. D’ANNUNZIO, Alcione, a c. di P. Gibellini, note di I. Caliaro, Einaudi, Torino 1995, p. 55.
18) Cfr. E. RAIMONDI, Il lettore di provincia, Sansoni, Firenze 1964, pp. 101-2.
18bis) R. ROLLAND, Jean-Christophe, tr. di G. Carullo, pref. di C. Bo, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 835, 824, 827.
19) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 222.
20) Gli abbozzi sono editi in appendice al fondamentale studio di E. RAIMONDI, Il lettore di provincia, cit., pp. 121-149.
21) Cfr. ad es. R. SERRA, Epistolario, cit., pp. 516, 526, 557.
22) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., pp. 218 e 210.
23) Cfr. S. AGOSTI, Il Fauno di Mallarmé, Feltrinelli, Milano 1991.
24) Cfr. G. POULET, Le metamorfosi del cerchio, Rizzoli, Milano 1971 (per Mallarmé, soprattutto pp. 408 e sgg.).
25) Il passo di Lucini è in Ragion poetica, cit., p. 273-274; quello di Ghil in Traité du Verbe, Nizet, Paris 1978, pp. 122-123.
25bis) Cfr. F. LANZA, D’Annunzio e Serra negli incunaboli, Istituto di Propaganda Libraria, Milano s. a. (ma 1973), p. 49; per i riferimenti in Ghil, v. Traité du verbe, cit., pp. 111 e sgg.
26) Cfr. R. GHIL, ibidem, pp. 80 sgg.
27) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., pp. 10.
28) Ibidem, p. 39.
29) G. P. LUCINI, Ragion poetica, cit., p. 203, corsivi miei.
30) R. SERRA, Epistolario, cit., p. 228.
31) G. DE ROBERTIS, Saper leggere, in ID., Scritti vociani, Le Monnier, Firenze 1967, pp. 143-156.
32) Ibidem, pp. 65-67 e 74.
33) R. GHIL, Traité du Verbe, cit., p. 130.
34) G. DE ROBERTIS, Studi, Le Monnier, Firenze 1944, pp. 32-47.
35) S. MALLARMÉ, Oeuvres complètes, cit., pp. 330-336.
36) A. ANDREOLI, D’Annunzio archivista. Le filologie di uno scrittore, Olschki, Firenze 1996, p. 255.
37) Il manoscritto del breve saggio di traduzione, a tutt’oggi inedito, si trova alla Biblioteca Malatestiana di Cesena, Fondo Grilli (carte Grilli-Serra), b. 21 n. 18.
38) Cfr., al riguardo (come pure per ciò che concerne la presenza di unità melodiche e movenze versali all’interno della prosa serriana), G. GRECO, Adesione di Serra al mondo della poesia simbolista francese, in “Studi romagnoli”, IX (1958), pp. 289-296.
39) A. PRETE, L’ospitalità della lingua, Manni, Lecce 1996, p. 8.
40) Cfr. anche, per questi concetti, M. BRUSCIA, Alle origini del “saper leggere”, Boni, Bologna 1978.
41) Cit. in A. ANDREOLI, D’Annunzio archivista, cit., p. 183.
42) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 14.
43) ID., Scritti, vol. II, p. 473-4.
44) Cit. in L. MARTINELLI, premessa a G. P. LUCINI, Scritti critici, De Donato, Bari 1971, pp. XVII-XVIII.
45) R. SERRA, Scritti, vol. I, cit., p. 474.
46) Cfr. F. CURI, Serra e la cultura vociana, cit., p. 130.