Il Petrarchismo del Cinquecento

(recensione di Lirici europei del Cinquecento¸ a cura di G. M. Anselmi et alii, «Poesia», XVIII, 2005, 193, p. 68) 

Nella coscienza letteraria più diffusa, la quale sembra risentire di vaghi luoghi comuni romantici e idealistici, petrarchismo è ancora, pressappoco, sinonimo di artificio, inautenticità, maniera, esteriore esercizio di forma. Invero, anche a prescindere dal fatto che al petrarchismo possono essere ascritte alcune delle esperienze maggiori della lirica europea del Cinquecento, dai sonetti di Shakespeare alla Pléiade alla lirica di Camões, tale movimento ebbe, almeno nelle sue espressioni più mature, il merito non indifferente di tener viva una nobile e limpida tradizione di humanitas, una linea di valori estetici condivisi, saldi, vitali, e di difendere, pur fra gli ineludibili condizionamenti imposti dallo status del poeta di corte, un bene prezioso come l’autonomia, la specificità, l’incondizionatezza dell’esercizio poetico, garantite dall’indispensabile sostegno della poetica, della coscienza storica e teorica, del consapevole confronto con gli antecedenti e i modelli.

Delle multiformi e sorprendentemente diversificate esperienze creative alimentate dal dialogo con un modello come quello del Petrarca (che del resto, a dispetto del presunto monolinguismo, della sublime monotonia che l’opinione corrente vorrebbe attribuirgli, poteva di per sé, con il suo «vario stile», con il suo dettato poetico «unus conflatus ex pluribus», incoraggiare, tramite una aemulatio che andasse oltre l’imitatio, una ripresa creativa e innovativa che travalicasse i limiti di un pedestre rifacimento, tutta una molteplicità di scelte e di cammini), rende ora testimonianza una monumentale antologia, redatta da una équipe di studiosi fra i quali si dovrà menzionare almeno, accanto a Gian Mario Anselmi, profondo e amoroso conoscitore della cultura dell’umanesimo e del rinascimento, Davide Monda, erudito e traduttore di vivacissima curiosità e di operosità inesauribile.

Agli occhi del lettore contemporaneo, educato alla scuola di Hölderlin, di Leopardi, di Rilke, di Heidegger, uno degli aspetti più rilevanti della lirica petrarchista appare certo il legame che in essa si stringe fra il discorso poetico e quello filosofico, in particolare di matrice platonica e neoplatonica. L’archetipo del sema-soma, l’idea del corpo come carcere o tomba dello spirito, della morte come liberazione dell’anima dalle catene della carne e come ritorno all’Uno, al Padre, alla vera patria (emblematici, in proposito, testi come la Canzona alla morte di Pandolfo Collenuccio, che sembra, con il «placidissimo sonno» e l’«alta quiete», con le «membra» che il «peregrin nel vago errore stanco (…) posar desia nel loco ov’el già nacque», scorrere, celata, da Foscolo a Leopardi, nella memoria culturale della poesia italiana, o come Alma cortese, che dal mondo errante del Bembo), percorre in modo ostinato, e quasi ossessivo, l’universo petrarchista; nel quale, peraltro (si pensi al Ronsard dei Derniers vers: «Heureux qui ne fut onc, plus heureux qui retourne / En rien comme il estoit»), gli eide tendono, per così dire, a farsi eidola, le idee platoniche a divenire fragili ed illusori simulacri risolti in puro suono, in liquida e labile materia verbale, per sparire infine nel buio del nulla. La sezione latina di questa antologia mostra come i motivi della «morte bella», della morte come «dolce dormire» circolino anche nella nobile ed eburnea tradizione umanistica dell’epicedio e dell’epitaffio. 

Per questi risvolti filosofici (e lo sottolineava, tra gli altri, con la sensibilità del critico poeta, il giovane Luzi di Un’illusione platonica), l’orizzonte culturale e speculativo in cui respira la lirica cinquecentesca è lo stesso di certa grande trattatistica rinascimentale, dal Ficino del Libro sopra lo amore al Cortegiano del Castiglione, dai Dialoghi d’amore di Leone Ebreo agli Asolani del Bembo. E basterà, in un diverso contesto, considerare il riuso e la rifunzionalizzazione a cui il Bruno degli Heroici Furori sottopone alcuni sonetti del compaesano Tansillo («Poi che spiegat’ho l’ale al bel desio…..»), facendone l’allegoria del proprio volo icario, del proprio estremo e tragico sforzo gnoseologico, per capire a quali potenzialità e a quali aperture, anche sul piano concettuale e conoscitivo, oltre che formale, potesse inclinare la polivalenza semantica di un codice lirico così saldo e profondo, levigato e screziato a un tempo, collaudato e insieme duttile.   

Si può dire, nel complesso, che proprio questo sfondo filosofico, questa antitesi e questo agone di corpo e spirito, di materia e parola, di esperienza e fantasma lirico, costituiscono il tramite, il ponte gettato sui secoli che rende praticabile quello che è stato felicemente definito il “petrarchismo ermetico”, e più in generale novecentesco. Innumerevoli i richiami possibili, dall’interesse di un Montale e di un Bigongiari per Maurice Scève, l’arduo e contratto cantore di Délie, al Luzi di Copia da Ronsard, dall’antologia di Carlo Bo Lirici del Cinquecento alle traduzioni montaliane e ungarettiane dello Shakespeare lirico (il cui enigmatico ed ambiguo «onlie begetter» prefigura, per chiaro ma scarsamente raccolto suggerimento dello stesso autore degli Ossi, il “tu” montaliano), alla singolare attenzione che vari poeti critici, dallo stesso Montale a Sereni a Ungaretti a Parronchi, hanno dedicato al Michelangelo poeta. I concetti chiave di “assenza” e “memoria”, l’idea, fondamentale nella poesia moderna da Mallarmé agli ermetici, di una parola poetica rarefatta, impalpabile, disincarnata, derivano in parte proprio dall’immaginario della lirica cinquecentesca. «How like a winter hath my absence been», esordisce il sonetto XCVII di Shakespeare, che fa quasi presentire il Mallarmé glaciale e ferale del Cygne. 

«Non ha l’ottimo artista alcun concetto», cantava Michelangelo nell’esordio di un sonetto tutto plasmato e bilanciato da antitesi e contrarietà petrarchesche, «c’un marmo solo in sé non circonscriva / col suo soperchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce all’intelletto». Questa mano che ubbidisce all’intelletto, questa lotta dell’anima e dell’idea con un «soperchio» che può essere tanto il carcere del corpo quanto la resistenza della materia e del mezzo al poiein, al fabrile operare dell’artista, sono in fondo emblemi della coscienza critica e del travaglio intellettuale, e insieme esistenziale, che presiedono ad ogni poesia autenticamente, cioè consapevolmente, moderna.


                                                                                                                                        Matteo Veronesi