L'ode alla polvere di Franco Fortini

        (apparso, con il titolo Fortini: usciremo per esistere in una sola verità, su "Il Domenicale", 6 marzo 2004, p. 4)

«Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non sempre invisibili agenti e spie, non chiari ma visibilmente nemici; vi saluta un intellettuale, un letterato, dunque un niente. Dimenticatelo se potete».  Con queste parole - le ultime della Lettera all'assemblea "Per la libertà dell'informazione" - si chiude, emblematicamente, il recentissimo «Meridiano» Saggi ed epigrammi, che raccoglie, per le cure di Luca Lenzini e con una vivida e fervorosa introduzione di Rossana Rossanda, una parte significativa della produzione critica, e in minor misura di quella poetica, di Franco Fortini. 

La pagina appena citata (animata, tra l'altro, da quella stessa espressione lucida e tagliente, da quella sintassi spezzata e acuminata che, maturate forse al contatto dei versi di Brecht tradotti con devota passione, incontriamo anche nel Fortini poeta) può, una volta svincolata, e se si vuole depurata, dai riferimenti più diretti allo scenario mutevole, e per molti aspetti meschino, del dibattito politico, anzi partitico, essere letta quasi come un ultimativo suggello, come una sintesi essenziale e suprema dell'opera e della figura dell'autore.

La scrittura di Fortini, quasi ostentando ed ergendo a propria difesa quella marginalità e quella «nullità», seppe farsi a suo modo, con i mezzi stilistici e concettuali che le sono propri, una forma, in senso lato, di ideologia, di militanza, di impegno, riuscendo quasi sempre a serbarsi libera da etichette, formule cieche, schieramenti unilaterali, a non lasciarsi contaminare da strumentalizzazioni propagandistiche, né piegare a finalità contingenti ed estrinseche. 

Il suo vasto e coerente discorso culturale, che abbracciò, accanto alla poesia, anche la pubblicistica, la saggistica, la traduzione, la divulgazione, riuscì a confrontarsi con le esigenze, del resto ineludibili, e lucidamente avvertite, di quella che l'amico-nemico Pasolini chiamò «industria culturale», conservando in pari tempo purezza, dignità e spessore intellettuale: basti pensare alle Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, schede e articoli nati per la divulgazione, in cui letture vastissime, folgoranti accostamenti ed associazioni, definizioni profonde e lucidissime convivono meglio che altrove con le esigenze della chiarezza e della fluidità. E si dovrà precisare, a quest'ultimo riguardo, che anche la proverbiale complessità, la densità a tratti impenetrabile, la profondità di pensiero spinta e calcata a volte fino alle soglie dell'oscurità, che contrassegnano alcuni momenti del discorso di Fortini, trovano il loro fondamento nella difficile posizione di un  intellettuale che tenta di mediare fra le istanze della letteratura e quelle dell'impegno, fra la poesia e il mercato, la cultura e la politica. 

Come chiarisce l'Introduzione ai Saggi italiani, semplificare lo stile - aderente, con le sue sfumature sottili, i suoi sottintesi, le sue vertiginose condensazioni, talvolta anche con il suo carattere un poco involuto, ripiegato su se stesso, quasi contorto - sarebbe equivalso a «ledere (…) un dovere verso la verità», nascondendo al lettore la complessità, la molteplicità, la dialettica irriducibile che agitano il mondo della realtà e del pensiero. 

E si può arrivare, per questa via, ad uno degli scritti più noti del Fortini teorico e saggista, vale a dire Astuti come colombe, apparso nel '62 su «Menabò», nell'àmbito del dibattito su Industria e letteratura; un testo che, fin dal titolo, riecheggia, a tratti alterandolo, un passo evangelico (Matteo, 10). La poesia dev'essere il montaliano «anello che non tiene», «la crepa, il solco, la spaccatura», la «spada» portata nel mondo, la segreta e pervasiva forza dialettica che «mette padre contro figlio e fratello contro fratello», e nello stesso tempo annuncia e prepara una redenzione, una futura salvezza. Ma essa vive, in pari tempo, anche lo «scacco» e il «paradosso» della sua marginalità orgogliosa e strenuamente difesa, del suo essere come un «feroce verme prezioso nel nocciolo stesso della realtà», un'ombra o un tarlo insinuati, tramite la forza sottile e quasi insensibile della parola letteraria, nelle pieghe della società e della conoscenza. Pur essendo - e qui cito  Mandato degli scrittori e fine dell'antifascismo, un intervento del '64-'65 - «illegittima», precaria», «irrilevante», «un'ode alla polvere», anzi paradossalmente proprio perché tale, la poesia trova una sua «delimitata e perciò tragica dignità». «Derisa impresa, ironia che resiste, / e contesa che dura», si legge in Metrica e biografia

È qui che la posizione di Fortini converge, insospettabilmente, con quella dei tanto avversati ermetici, con la loro «assenza», il loro rifiuto del «tempo minore» in cui risiedono le transitorie contingenze storiche e politiche che tentano di contaminare la poesia e ne minacciano la libertà. La poesia è, per Fortini, un po' come per il Bo di Letteratura come vita, proprio lo spiraglio che mette in comunicazione il «tempo della storia» e il «tempo del sacro», messaggera di una sorta di «plenitudo temporum», testimone di una tensione escatologica e messianica. 

«Noi dal sogno usciremo per esistere / in una sola verità. // Tutti i perfetti amori un solo amore. / Tutti i giorni più belli un solo giorno». Così si legge nella quarta delle Poesie delle rose, in Una volta per sempre: versi in cui l'eco della Lettera ai Colossesi tinge l'ideologia - un po' come accade nel Benjamin amico di Schölem e di Rosenzweig, tutt'altro che cieco ai bagliori del divino - di un'ansia religiosa, di una tensione e un'apertura verso l'Altro e il trascendente, riscattandola, per questa via, dalla sua caducità storica, dalle angustie e dalle ombre delle sue concrete e particolari manifestazioni. 

A costo di ricorrere proprio a quella retorica umanistica, a quella «prosa untuosa» che Fortini non amava, si sarebbe tentati di dire che questa sorta di mistica della poesia, di rinnovata e criticamente ripensata «religione delle lettere», trascende e sublima ogni ideologia dogmatica e faziosa, anzi ne prende il posto, si fa essa stessa una forma di ideologia, appannaggio non più di una classe, di un partito, di un «blocco storico», ma dell'umanità e della cultura. 

Si potrebbe porre nuovamente la domanda, aperta ed inquieta, che emerge dall'ultima pagina di Verifica dei poteri: «Che cosa tutto questo ha a che fare ancora col marxismo?» Non è un caso che Fortini sia stato così duramente avversato da quei «non sempre chiari compagni» che della letteratura si ostinavano (si ostinano?) a fare una inerte sovrastruttura, un passivo «rispecchiamento», o tutt'al più una fredda «omologia» linguistica, un gelido riflesso verbale, di condizioni e di scambi meramente materiali, rapporti di forza, nichilistiche e preconcette opposizioni.