Da Poe a Wilde

DA POE A WILDE. INTORNO AD ALCUNE FONTI DEL CONCETTO DI CRITICA TRA IL CONVITO E IL PRIMO MARZOCCO

(pubblicato dapprima in "Poetiche", n. 1/2000, pp. 38-57)

1. "Noi vogliamo restare soli di fronte all'opera d'arte: ne vogliamo sorprendere la genesi, ne vogliamo cogliere tutto il significato (...). Nel presente trionfar delle ricerche positive, (...) la ricerca del documento in letteratura e nelle arti plastiche ha preso finora il posto della critica che penetra il segreto della creazione artistica e con sintesi geniale la ricompone" (1).

Questi passi sono tratti da un testo abbastanza noto, il programmatico Prologo che apriva il primo numero del Marzocco, e dietro il cui anonimato si celavano i nomi di Gabriele D'Annunzio e Giuseppe Saverio Gargàno. Credo che resti ancora qualcosa da chiarire circa i legami che possono ricondurre ad un più vasto contesto europeo la genesi e l'articolazione del concetto di critica maturato in seno all'estetismo romano e fiorentino del secondo Ottocento.

"Vogliamo sorprendere" - dice il Prologo - "la genesi" dell'opera d'arte. E' evidente, in questa nozione di "genesi", il contributo di Gargàno. Questi aveva pubblicato, su Vita nuova, un articolo intitolato La genesi di una poesia, in cui accennava alla Philosophy of composition di Poe; un interesse, quello di Gargàno, che deve essere contestualizzato in rapporto alla fortuna del poeta di The Raven nella cultura italiana del secondo Ottocento, tra l'epidermica ricezione scapigliata e l'approccio, più testuale che teorico, da parte di Pascoli (2). Nell'articolo di Gargàno venivano sostanzialmente còlti il significato e il valore della "razionalizzazione del romanticismo" compiuta dal poeta americano: il critico sottolineava "quel bisogno stesso della mente del Poe di volere analizzare tutti i momenti della genesi d'un'opera artistica" (3). Ed era evidente, fin dal titolo, la traccia della mediazione di Baudelaire, che proprio col titolo di La genèse d'un poème aveva tradotto, unitamente a The Raven, la Philosophy of composition, accompagnando la sua versione con una Note (4) in cui, pur avanzando il sospetto, poi fatto proprio anche dal critico italiano, che all'autoesegesi di Poe non fosse estraneo un intento ironico, riconosceva la provocatoria carica innovatrice di un poeta che "prétend que son poëme a été composé d'après sa poétique", che il momento riflessivo, ideativo, progettuale, preceda ed informi di sé quello dell'espressione, laddove per secoli si era invece creduto che la poetica fosse "faite (...) et modelée d'après les poëmes". E' proprio qui, nel fino e fertile humus dei "minori", che possiamo rinvenire uno dei tanti esili fili che legano la genesi e le articolazioni del concetto di critica maturato nel milieu dell'estetismo romano e fiorentino della fine del secolo ad uno dei più vivi fermenti del simbolismo europeo e, insieme, ad uno dei nodi cruciali della riflessione metaletteraria attraverso la quale la modernità, "istituita dall'atto duplice e unitario che scandisce la critica e la poesia", si fece "sistema" (5).

Era stato proprio il giovane Baudelaire a propugnare, nel paragrafo introduttivo del Salon de 1846, una "critique amusante et poétique" da contrapporre a quella, "froide et algébrique", praticata dai "professeurs-jurés d'esthétique". La contrapposizione tra "le due critiche" era stata ripresa, nel secondo Ottocento, da Jules Lemaître, che sulle colonne della Revue bleue sosteneva le ragioni di una "critique voluptueuse" da contrapporre a quella "ascétique et raisonneuse" degli eruditi e dei filologi. Strumento metodologico di tale critica doveva essere, per Lemaître, una forma di "imagination pittoresque" o "symphatique" (7) in cui si fondevano alcuni concetti chiave della gnoseologia baudelairiana. Per il Baudelaire interprete di Poe, attraverso l'"imagination", "faculté quasi divine", tanto l'artista quanto il critico riescono ad illuminare "les rapports intimes et secrets des choses, les correspondances et les analogies"; e di artisti capaci di scoprire "nuove relazioni fra le cose" parla, con palese allusione baudelairiana, anche il citato Prologo. E all'idea di "imagination" Lemaître fondeva abilmente quella della "sympathie" che unisce tanto l'uomo alla natura quanto il critico all'artista e il traduttore all'opera tradotta. Le teorie del Lemaître vennero puntualmente recepite in àmbito marzocchiano (8).

Si delineava, in tal modo, una "critica poetica", che poteva eleggere a proprio oggetto, indifferentemente, opere letterarie o figurative, sotteso com'è a tutta la poetica del simbolismo e dell'estetismo l'orizzonte teorico dell'ut pictura poësis, mediato dalla definizione ruskiniana del poeta come "pittore che scrive".

Agli occhi degli esteti, la critica "fredda ed algebrica" veniva ad identificarsi con taluni aspetti del biografismo di Sainte-Beuve o del determinismo del Taine, il quale venne, peraltro, letto e plagiato, pur se in un'ottica di "falsificazione" e di "attraversamento", dallo stesso D'Annunzio critico (9). Ma l'oggetto più immediato e diretto delle polemiche degli esteti era l'eruditismo positivista di scuola storica, specie in certe sue esasperazioni o degenerazioni di matrice fisiopsicologica e lombrosiana (10); questo fermi restando, ovviamente, i debiti, segnalati e studiati soprattutto negli ultimi anni, che il D'Annunzio romanziere contrasse con la scienza del tempo.

Nelle dannunziane Note su Giorgione e su la Critica (11), testo chiave della poetica critica dell'estetismo italiano, uno degli elementi più marcati era rappresentato proprio dall'ostentata indifferenza per le "ricerche pazienti e anguste dei classificatori", così come per "il metodo biografico praticato dal Sainte-Beuve" e per "quello sociologico e geografico praticato dal Taine"; e in tale ottica va visto anche il riferimento, nel Prologo citato in apertura, al "trionfar delle ricerche positive". A tali metodi venivano contrapposti una critica intesa come "arte di goder l'arte" e un critico visto come "artifex additus artifici", artista che elegge, ad oggetto della propria arte, non già la natura o il sentimento, idoli mitici della rêverie romantica, ma l'arte stessa. Era sempre il Baudelaire delle pagine introduttive del Salon de 1846 ad offrire un fondamento teorico per questa concezione: come un bel dipinto è "la nature réfléchie par un artiste", così la critica "amusante et poétique" è "ce tableau réfléchi par un esprit intelligent et sensible". Forse era a questo passo che pensava Anceschi quando definiva "il mondo dell'arte" come "'natura' della critica" (12).

Idee, queste, che indubbiamente circolavano già nell'àmbito della Frühromantik. Nelle notissime formulazioni programmatiche di Friedrich Schlegel, ad una poesia "universale progressiva", capace di fondere "genialità e critica", doveva fare riscontro una "critica divinatoria" (fr. Athenaeum 116), tale da prepararne l'avvento e fiancheggiarla: una critica il cui "giudizio sull'arte" fosse "esso stesso un'opera d'arte" (fr. Lyceum 117). Enunciazioni analoghe emergono a tratti in De Sanctis, secondo il quale, come si legge nell'Introduzione, redatta nel 1868, al Saggio critico sul Petrarca, in un passo la cui "enfasi non insolita" susciterà l'irriverente ironia di D'Annunzio nelle Note su Giorgione, "la critica è dirimpetto all'opera d'arte quella che la filosofia è dirimpetto all'opera della natura", e il critico "può dire con l'orgoglio di Fichte: - Io creo Dio!". Nelle polemiche osservazioni intorno al Cours familier de littérature di Lamartine, testo che poteva rappresentare, pur se in un'ottica ancora genuinamente romantica, un altro illustre esempio di "critique d'impressions", De Sanctis affermava che "la critica germoglia dal seno stesso della poesia. (...) Il libro del poeta è l'universo; il libro del critico è la poesia; è un lavoro sopra un altro lavoro": un "palinsesto", si direbbe oggi. Ma se ci si sofferma su alcune pagine di Novalis, i cui Frammenti gli esteti italiani potevano leggere nella versione francese di Maeterlinck, apparsa a Bruxelles nel 1896, si avrà un'ulteriore conferma di quanto profondamente queste e altre simili enunciazioni - pur temperate, nel De Sanctis più maturo, da un forte senso dello storico, del materiale, del contingente - fossero legate alla cultura idealistica del primo Ottocento. "Ad una vera critica" - scrive Novalis - "si appartiene la capacità di produrre noi stessi il prodotto che si critica". Una cultura, quella idealistica, da cui gli esteti, in special modo Conti, erano innegabilmente affascinati, ma che difficilmente poteva trovare convinte ed incondizionate adesioni nella generazione, disincantata e dubbiosa, di quelli che già Rimbaud, nella Lettre du Voyant, definiva "les deuxièmes romantiques".

Sempre lungo la linea che da Poe conduce a Baudelaire si sviluppa un'altra importante nozione. "Tous les grands poètes deviennent naturellement, fatalement, critiques. (...) Dans la vie spirituelle des premiers, une crise se fait infailliblement, où ils veulent raisonner leur art, et découvrir les lois obscures en vertu desquelles ils ont produit" (13). Alle sue spalle, stava il Poe della Letter to Mr_______, che introduceva i Poems del 1831: vi si leggeva che "a poet, who is indeed a poet, cannot fail of making a just critique" (14), "non può mancare" di esercitare su di sé una serrata e tormentosa autocritica, in forza di quell'ineludibile "coazione alla teoria" che caratterizza, quasi come dato essenziale e distintivo, la modernità letteraria (15), o, se si vuole, della "necessitazione all'estetica" di cui parla Adorno nella Teoria estetica. "Naturellement", "fatalement", "inévitablement", "cannot fail": espressioni in cui si potrebbero ravvisare, parafrasando un noto studioso di Leopardi, i "segnali della coazione". In virtù di quello che oggi Geoffrey Hartman definisce come "principio di reciprocità" (16), alla fondazione teorica di una critica artistica, "autonoma" e "poetica", faceva riscontro una consapevole teorizzazione, e insieme rivendicazione, del carattere voluto, calcolato, "artificioso" nel senso più alto, della creazione poetica.

A questo riguardo, se si leggono alcuni degli scritti marzocchiani di Conti, ben difficilmente si potrà liquidare, come talora si è fatto, la critica creativa degli esteti quale forma di "generico dilettantismo estetizzante" (17). Nell'articolo Le vicende dell'arte, apparso nel dicembre del 1899 e confluito poi in Dopo il canto delle sirene, Conti notava lucidamente che "ogni poeta, e in generale ogni artista che tenta il nuovo, si fa critico di sé stesso, ponendo alcuni principî teorici che spiegano il suo tentativo e lo giustificano" (18). In un articolo dell'anno successivo, I poeti d'oggi in Francia (19), il teorico, tutt'altro che sprovveduto, coglieva lucidamente l'elemento che rendeva "l'ispirazione lirica odierna" "essenzialmente dissimile dalla romantica e dalla antica ispirazione dei greci". Si trattava di un "elemento di essenza logica", che si poneva quale tramite e filtro tra "intuizione" ed "immagine"; "un elemento che costituisce il carattere di tutta l'età nostra: la critica". E si potrebbe quasi scorgere, in questo elemento riflessivo posto come filtro tra "intuizione" ed "immagine", una sottile allusione anticrociana; non si dimentichi che in quello stesso 1900, pochi mesi prima dell'articolo di Conti, vedono la luce quelle Tesi di estetica che costituiscono il primo nucleo, già marcatamente intuizionistico, della più vasta Estetica del 1902.

Proprio fondandosi, con ogni probabilità, su questa idea di una "meditazione" sottesa all'"immagine", Conti poteva sottolineare, in veste di simpatetico recensore del Fuoco (20), che "l'immagine, nello spirito di Stelio, non si congiunge al pensiero per arricchirlo, ma nasce in forma di pensiero o lo sostituisce quasi sempre". Il critico esteta coglieva, a suo modo, l'essenza di una scrittura, tra narrativa e saggistica, in cui il pensiero e la riflessione si trasfondono in un'affabulazione immaginifica e in una trasfigurazione metaforica che si danno fin dall'origine "in forma di pensiero", e a cui, dunque, è intimamente fusa, e velatamente sottesa, la tramatura limpida e severa dell'autocoscienza letteraria.

2. Torniamo al contesto culturale e alle "fonti". La linea che da Poe conduce a Baudelaire prosegue con Mallarmé, anch'egli teorico e artefice di una critica "creativa" e "poetica". Nella giovanile Symphonie littéraire, il poeta di Hérodiade aveva offerto, accostando, per via di analogia e di suggestione, Baudelaire, Gautier e Banville, un esempio di quella critica che più di trent'anni dopo, nella Bibliographie che chiude le Divagations (21), avrebbe definito come "paysage emblématique", pervaso da un "souhait de transposition mentale". Era inevitabile che una critica di questo tipo, fondata sulla soggettività e sulla creatività del lettore, si traducesse - ed è proprio questo l'aspetto che più ora ci interessa - in forme non lontane dal "poème en prose" simbolista, da quella prosa "poetica", "musicale" e "lirica" "sognata" da Baudelaire in limine a Spleen de Paris. Non per nulla, in Crayonné au théâtre la "Critique" è definita come "genre littéraire créateur de quoi la prose relève" (22). E il Mallarmé della Bibliographie, ripercorrendo tutto il suo cammino di critico, introdurrà la nozione di "poème critique", che sembra chiasticamente saldarsi e integrarsi, a distanza di mezzo secolo, con quella baudelairiana di una "critique amusante et poétique". Dalla teorizzazione di una critica creativa, immaginosa, analogica, può scaturire, secondo Mallarmé, "une forme (...) actuelle, permettant, à ce qui fut longtemps le poème en prose et notre recherche, d'aboutir, en tant (...) que poème critique".

E' proprio su questo punto che, sul versante della teoria della critica, il percorso di Mallarmé può convergere con quello di un D'Annunzio. Già Raimondi segnalava come il D'Annunzio recensore di Pascoli, parlando di una poesia in cui "manca il mistero", potesse avere in mente il Mallarmé della risposta all'Enquête sur l'évolution littéraire (23). Più interessante è, ai nostri fini, il fatto che nel 1887 D'Annunzio segnali tempestivamente, in veste di aggiornato anche se un po' frettoloso cronista culturale, l'uscita delle mallarmeane Notes sur le théâtre, appena apparse sulla Revue indépendente. Quella del poeta francese appare a D'Annunzio una critica contraddistinta da uno "stile ansante e singhiozzante", cui sono inframmezzati "certi inaspettati punti ammirativi che tolgono il respiro". "Non mai la prosa era giunta ad un tale grado di artificiosità". C'è da credere che nel travaglio formale del poeta-critico francese il giovane esteta potesse vedere in qualche modo un riflesso del "doloroso e capzioso artifizio dello stile" che caratterizzava, nello stesso torno di tempo, la meditata e ardua elaborazione del Piacere. E può essere interessante notare che nelle Note su Giorgione lo studio Giorgione di Conti viene definito, forse con allusione ad una mimesi verbale della Tempesta del pittore veneto, come "pieno di lampi e di vapore", e si nota, con una terminologia non lontana da quella della segnalazione mallarmeana, che il critico non aveva potuto "misurare i suoi periodi se non sul respiro breve e rapido dell'uomo ansioso".

Erano, non a caso, proprio quelli gli anni in cui il giovane teorico maturava il primo germe della sua concezione di una prosa "plastica e sinfonica, ricca d'imagini e di musiche"; concezione che sarebbe poi stata sviluppata, negli anni '90 del secolo, lungo una linea già ampiamente nota, dalla lettera prefatoria del Trionfo della morte all'intervista con Ojetti, testi a cui si può ora aggiungere la parte finale dell'ampio frammento del dramma La Nemica recentemente riemerso. Ed è interessante notare che quest'ultima opera sembra letterariamente trasfigurare e celebrare, nella ritualità assoluta e sospesa del gesto teatrale, e pur se nella fittizia ottica di una malinconica e a tratti ironica rievocazione, la reale vicenda di quel "vivo fascio di energie militanti" che si sarebbe raccolto, di lì a poco, intorno al Convito di De Bosis (24), e della cui militanza antipositivistica ed antinaturalistica era parte integrante la crociata contro ogni forma di "critique froide et algébrique".

E il concetto di critica era, in Mallarmé come, mutatis mutandis, nel giovane D'Annunzio, esplicitamente ricondotto al dominio della prosa. "A quanti sono giovini artisti e giovini critici, (...) e segnatamente ai critici", il poeta raccomandava, nell'articolo Per una festa della scienza (25), di frequentare le conferenze di Jakob Moleschott, la cui "parola" - prefigurando chiaramente la valenza suasoria e psicagogica dell'orazione di Stelio nel Fuoco - "penetrava nelli spiriti attenti (...) e li sollevava al luminoso apice della sintesi". Una sintesi che ricompone, nel cerchio magico dell'affabulazione letteraria e del virtuosismo verbale, gli sparsi dati della percezione e della conoscenza. E si può pensare, allora, alla "sintesi geniale" di cui parlava il Prologo, e in cui il critico "ricompone" i variegati e in sé disuniti materiali di una fruizione estetica ostentatamente "dilettantistica" ed "impressionistica". Anche l'artifex additus artifici di cui parlano le Note deve saper "ricomporre la sua commozione con tutti i mezzi della parola"; la sua critica, proprio attraverso la funzione conoscitiva riguadagnata, per questa via, dall'artificio letterario, non si risolverà dunque in una forma di indiscriminato e disordinato emozionalismo. Conti doveva anzi riconoscere che "la critica, anche se fatta da artisti, nasce quasi sempre dalle ceneri dell'emozione estetica" (26).

In questa specifica e pregnante accezione va vista, nelle Note, la definizione del libro di critica come "eccellente libro di prosa", cui il critico deve "conferire per mezzo dello stile un valor d'arte"; e non si dimentichi la pregnanza che assume, nella riflessione di D'Annunzio e di Conti, tra la prefazione al Trionfo dell'uno e il Giorgione dell'altro, il concetto di stile, "impronta di luce" che l'artista imprime sulla "materia domata", e attraverso cui l'artista stesso "continua la natura", la sublima e la trascende.

3. Ci si deve, ora, soffermare su un'altra probabile "fonte" della concezione della critica sviluppata dagli esteti italiani. Alludo al dialogo The Critic as Artist di Oscar Wilde, che, apparso su The Nineteenth Century tra il luglio e il settembre del 1890, confluì poi, l'anno successivo, nel volume Intentions. Prima le fondamentali ricerche di Richard Ellmann, poi le ardite e talora geniali evoluzioni metacritiche dei decostruzionisti (27), hanno concorso a mostrare quale spessore culturale e quale profondità di pensiero si celino, nel Wilde saggista, dietro l'irridente maschera del dilettantismo e della causerie. L'"independent criticism" wildiano è l'esatto corrispettivo, nel contesto culturale inglese, della "critique amusante e poétique" teorizzata, qualche decennio prima, da Baudelaire, e condotta da Mallarmé fino a divenire, in buona sostanza, un nuovo genere letterario, il "poème critique". Che le pagine introduttive del Salon de 1846 avessero profondamente suggestionato il teorico di Intentions, è comprovato, se mai ce ne fosse bisogno, da un passo di una delle conferenze tenute in America nel 1882, The English Renaissance of Art, in cui compare un preciso calco della duttile e metastorica definizione baudelairiana del romanticismo, indicato dal poeta francese come "l'expression la plus récente, la plus actuelle du beau", da Wilde come "our most recent expression of Beauty" (28).

Per il vero critico - afferma Wilde per bocca del maligno e spregiudicato Gilbert - l'opera d'arte è "simply a suggestion", quasi un pretesto o, come si direbbe oggi, una "traccia", un gramma, "for a new work of art of his own" (29). Il critico è "a creator in his turn", e la critica è addirittura "more creative than creation".

Ma l'altra faccia di questa posizione si rivela consistere, a conferma del "principio di reciprocità" e della "coazione alla teoria" di cui si è prima parlato, in un'asserzione e in una teorizzazione, a loro modo rigorose e limpide, del carattere voluto, intenzionale ed autocosciente della creazione poetica: "there is no art without self-consciousness, and self-consciousness and critical spirit are one". In un'accezione non dissimile, forse, agli albori di quella "coscienza letteraria" che, nutrita di filologia, sarebbe giunta con i vociani al suo pieno compimento, Conti avrebbe di lì a poco, in un altro "manifesto" della "critica estetica", cioè l'Epilogo del Giorgione, definito il critico come "coscienza dell'artista", come colui che "all'artista parla (...) spiegandogli il suo mistero", e che "illumina", "dinanzi alla attività dell'intelletto curioso e ansioso", "il simbolo consolatore" che il poeta offre "alla umanità assetata". Rispetto all'artista, il critico non è soltanto "un comentatore", ma, "in maniera indiretta, un collaboratore" (30). Nell'estetismo, "entusiasmo e rêverie non sono se non l'altra faccia dell'intellettualismo estetico" (31). Sarà in questo senso che due anni dopo, nel Prologo, D'Annunzio e Gargàno proclameranno di voler cogliere "tutto il significato" dell'opera d'arte, "anche quello che è sfuggito all'autore stesso nella sua inconsapevolezza". Un'"inconsapevolezza" che, fiancheggiata dalla collaborazione della critica, si risolve non in una forma di na(veté irriflessa e trasognata, ma, piuttosto, in qualcosa di non lontano dall'"enfance retrouvée à volonté" di cui parla Baudelaire, corroborata, e insieme contaminata, dall'"esprit analytique". E si noti che a veicolare la "relazione critica" è, qui, l'"illuminazione", forma principe della gnoseologia simbolista; e l'oggetto di tale illuminazione è proprio il "simbolo", di per sé circonfuso, nelle poetiche della décadence, da una nube di ambiguità e di oscurità, che solo l'intermittente ed epifanica chiaroveggenza di una critica creativa e collaboratrice può tentare di dissipare.

E anche per quanto concerne il rapporto di reciprocità che lega la natura simbolica, e dunque polisemica, dell'espressione artistica alla libertà dell'interprete, il dialogo di Wilde può aver offerto agli esteti qualche spunto. E' "the beholder who lends to the beautiful thing its myriad meanings", facendo sì che essa divenga "a symbol of what we pray for"; e anche in questo senso, forse, nella Beata riva Conti dirà, riprendendo ancora l'idea baudelairiana dell'arte come natura della critica, che "se l'arte è una preghiera che l'uomo rivolge alla natura, la critica dev'essere una preghiera che l'uomo rivolge all'arte". La Bellezza, "symbol of symbols", "has as many meanings as man has moods", e in tal modo istituisce tanto la pluralità delle interpretazioni quanto la collaborazione dell'ermeneuta alla produzione dei significati. Il Wilde profeta del'estetica della ricezione e del reader oriented criticism trovava così anche in Italia i suoi non del tutto sprovveduti proseliti. E si può notare, a complemento di questa appena accennata analisi del densissimo passo contiano, come l'immagine dell'"umanità assetata" rinvii all'"icona mistica della sete", non infrequente in D'Annunzio, messa in luce da Niva Lorenzini. Un'immagine, quella contiana, che può anticipare, per l'esplicito riferimento all'idea del critico come oratore, come artifex, come funambolico virtuoso della parola, l'orazione di Stelio, le cui parole potevano, come l'acqua di Lete, "placare la sete" e "largire l'oblio".

Quasi con un riflesso o un riverbero dell'"illuminazione" prospettata dal "dottor mistico", lo stesso D'Annunzio, nell'aggiunta apportata alle citate Note in occasione della loro riedizione come "ragionamento" premesso alla Beata riva, sarà il primo a riconoscere il rilievo assunto dalla collaborazione dell'amico, con termini che riecheggiano ed omaggiano, fin dalla ripresa dell'arcaismo grafico, le parole del Giorgione. Nel "fratello pensoso", nello stesso "spirito fraterno" con cui Stelio colloquia in una nota pagina del Fuoco, D'Annunzio dichiarava di trovare "una specie di conscienza rivelatrice e nel comento di lui talvolta una illuminazione impreveduta della mia propria opera" (32).

Già per Schleiermacher, del resto, l'ermeneuta doveva "capire il discorso anzitutto altrettanto bene e poi meglio di quanto non lo capisse l'autore stesso". E che la critica fosse "la coscienza o l'occhio della poesia, la stessa opera spontanea del genio riprodotta come opera riflessa dal gusto", era chiaro - sulla base di presupposti teorici e metodologici ben diversi, e ovviamente assai più profondi e meditati - già al De Sanctis delle lezioni zurighesi, nelle osservazioni intorno alla versione dantesca del Lamennais.

Come che sia, al di là di possibili, e del resto difficilmente dimostrabili, suggestioni primoromantiche o desanctisiane, è, che io sappia, proprio nel passo appena citato del Giorgione che si incontra per la prima volta, almeno in Italia, la precisa e letterale definizione del critico come "collaboratore" del poeta; una definizione che, su basi teoriche in larga parte diverse, e innegabilmente più solide e mature, si ritroverà prima in Lucini, poi in De Robertis (33). Come è stato acutamente notato, proprio nel Giorgione contiano Lucini trovò un insospettabile supporto per la sua fondazione di una "critica integrale" capace di superare tanto il determinismo e l'eruditismo positivisti, quanto certe degenerazioni ed esasperazioni della "critica mistica" (34). Dati, questi, che varrebbero da soli a suggerire possibili e proficue indagini circa l'eredità, in àmbito novecentesco, di quella che un risentito Croce liquidava come "critica estetizzante", notandovi peraltro, in modo assai pertinente, l'"ibridismo" di "escogitazioni analogiche, di sottigliezze immaginifiche e di riflessioni intellettive" (35).

Tornando alle fonti, la ricezione del dialogo nel milieu del Marzocco e del Convito era legata alla figura di Ugo Ojetti, che proprio in quel giro di anni intratteneneva con il poeta delle Laudi uno stretto sodalizio (36). In uno scritto del 1895 (37), Ojetti plagia scopertamente il dialogo dell'esteta inglese, a tratti traducendolo alla lettera. Tra le più pregnanti formulazioni wildiane riprese dal giovane giornalista-scrittore, vi era quella della letteratura intesa come "criticism of life", che Wilde trovava, a sua volta, nella prima serie degli Essays in criticism di Matthew Arnold (38). "La critica" - scrive Ojetti, contaminando lo spunto wildiano con l'idea baudelairiana dell'arte come "natura della critica" - "è un'interpretazione dell'opera d'arte, così come l'opera d'arte è una interpretazione della vita. L'arte è la critica della vita".

Il teorico di The Critic as Artist, peraltro, trasfunzionava la definizione arnoldiana spostandola dal piano etico a quello estetico, dalla valenza ideologica al terreno dello specifico letterario. La definizione di Arnold "showed how keenly he recognized the importance of the critical element in all creative work". Non per nulla, lo stesso Ojetti, lettore simpatetico, sarebbe arrivato a ravvisare proprio nell'"historical sense" del Wilde critico, e segnatamente del beffardo relativista di Pen, Pencil and Poison, una "confusione fra il senso etico e il senso estetico" del tutto analoga alla "malattia morale di Andrea Sperelli nel Piacere" (39). Proprio in Pen, Pencil and Poison, poi, gli esteti trovavano, accanto ad una delle più radicali e provocatorie rivendicazioni dell'autonomia dell'arte dalla morale - che, peraltro, autori come Gargano o Conti condividevano solo in parte -, anche un ulteriore supporto teorico per l'identificazione tra scrittura critica e "poème en prose": secondo Wilde il critico, nella fattispecie figurativo, "traduce in parole" le sue "impressioni", raccolte e organizzate in "un insieme artistico", "per donarci (...) un equivalente letterario del risultato immaginativo e mentale". La "reale identità dei semi fondamentali della poesia e della pittura" giustificava "il concetto del creare un poema in prosa ispirato a un quadro".

Non escluderei che proprio il dialogo The Critic as Artist, mediato dal plagio di Ojetti, possa aver suggerito a Conti, malgrado la nota ostilità che questi nutriva nei riguardi dell'autore di Cose viste, l'idea di scrivere anch'egli un "trattato", per larga parte in forma di dialogo, in cui uno degli aspetti essenziali - forse il più rilevante in assoluto, e certo il più "moderno" - consistesse nell'enunciazione, lucida e "militante" più di quanto non si possa a prima vista credere, dei presupposti teorici di una via italiana alla "critique amusante et poétique" espressa dal grande simbolismo europeo. In quest'ottica, può non essere pura pedanteria sottolineare che le Note, al momento di essere riedite, con aggiunte, come Ragionamento premesso al dialogo contiano, presero un titolo - Dell'arte, della critica e del fervore - assai prossimo a quello dello scritto di Ojetti, Della critica e dell'entusiasmo; "fervore" ed "entusiasmo" che potevano rendere entrambi il concetto del platonico enthousiasmos, di quella "faculté d'enthousiasme toujours prête" in cui, in una lettera di Flaubert puntualmente registrata dal Gargàno, veniva indicata una delle qualità essenziali di un critico che volesse essere "artiste, mais bien artiste, rien qu'artiste" (40). Anche secondo Ojetti, il rimedio ai mali della critica "è e sarà l'Entusiasmo". Proprio all'antecedente platonico poteva, del resto, essere direttamente ricondotta la scelta della forma dialogica; un Platone mediato tanto dalla melodiosa ed antifilologica versione di Francesco Acri quanto dal Pater di Plato and platonism, che, giocando, tra Arnold e il Wilde di The Truth of Masks, sul carattere duttile e proteiforme proprio dello statuto formale dell'essay, definiva il dialogo platonico come "un saggio che di quando in quando passa nella forma precedente della poesia filosofica, i poemi in prosa di Eraclito".

Come che sia, Wilde mostrava in modo eloquente quali risorse la forma dialogica, aperta ad irriducibili antinomie, oscillazioni, disconferme, sapesse offrire al critico e al teorico della critica. Tramite il dialogo, l'autore può "exhibit the object from each point of view", evidenziando "side issues" e "felicitous after-thoughts", e dando alla sua esposizione "the delicate charm of chance". Nella Beata riva, peraltro, agli "imaginary antagonists" e ai "sophistical arguments" di Wilde si sostituisce una maieutica "ricerca del vero" a cui è intesa "l'opera concorde dei due interlocutori", e che tuttavia non prescinde dalle "considerazioni di carattere scettico e sofistico" (41) avanzate da Gabriele, palese alter ego di D'Annunzio. Non per nulla il padre di Andrea Sperelli, "incauto educatore", lodava e additava a modello proprio i sofisti, "artefici della parola", fioriti "al secolo gaudioso".

Ed era ancora il dialogo wildiano ad offrire agli esteti un'altra pregnante articolazione, sempre strettamente legata al concetto di critica, del disegno letterario di una prosa "poetica e "lirica". Tra i generi e le forme di cui il critico artista può liberamente avvalersi, vi è proprio la "mighty and majestic prose", la "imaginative prose" di un Ruskin, vivificata da una "elaborate symphonic music", che può anticipare la dannunziana "prosa plastica e sinfonica, ricca d'imagini e di musiche". Altrove, Wilde loda "the music of the mystical prose" di cui è materiata la celebre ékphrasis di Pater sulla Gioconda leonardesca, tramutata, con arbitrio fecondo e immaginoso, in "the symbol of the modern idea". Il "poème en prose" sulla Gioconda si trovava in Appreciations, di cui Enrico Nencioni, da anglista fine ed aggiornato, aveva tempestivamente còlto, specularmente al "carattere puramente estetico", lo "stile squisitamente artistico" e il "ritmo melodico del periodo", contrapposti, in chiave militante, alla natura "barbara", "senza vita, senza calore, senza colorito", propria delle pagine degli accademici, ossessionati da una "sacrosanta paura di passar per poeti" (42). Proprio dall'Essay on Style che chiudeva Appreciations (43) Wilde traeva l'idea e la definizione di una prosa "imaginative" e nondimeno, anzi forse proprio per questo, intrisa di spirito critico, autocoscienza letteraria, progettualità costruttiva e strutturale. Una "imaginative prose" che secondo Pater è, in quell'accezione baudelairiana che sarà fatta propria da D'Annunzio, "the special art of the modern world", e che esige, da parte di un già dannunziano "lover of words for their own sake", "architectural conception", "critical tracing out of that conscious artistic structure", "constructive intelligence", "scholarly conscience", insomma, in una parola, "self-criticism". E quella che il "mistico" e "dilettante" Pater ci offre, e che gli esteti italiani, con la loro concezione del libro di critica come "eccellente libro di prosa", a modo loro recepiscono, non è, a ben vedere, che una delle tante varianti del concetto, già elaborato da Poe, della scrittura letteraria come calcolata e sapiente "construction". E' anche in questa luce che va visto, nelle Note, il riferimento a Pater, "stilista delicato e ricco (...) ignoto in Italia fino ad oggi".

La sinergia e la fusione dei generi si articolano, nella décadence, secondo una dinamica di cui la Critica, vista come duttile e polivalente "genre littéraire créateur", è, a un tempo, strumento teorico e campo di sperimentazione. Questo è soltanto uno - anche se, forse, il più rilevante - tra i vari aspetti che caratterizzano, nel secondo Ottocento, tra Francia, Inghilterra e Italia, la genesi e l'evoluzione di quella critica che fu variamente indicata dai suoi fautori come "critique amusante et poétique", "critique voluptueuse", "independent criticism" o, ancora, "critique d'analogie", come scriverà, in modo assai pregnante, ai primi del '900, Camille Mauclair (44), uno degli ultimi teorici mallarmeani. A questo riguardo si potrebbe, forse, introdurre la categoria di "critica simbolista" (45). E', ad ogni modo, in questo contesto che, a mio avviso, la critica degli esteti italiani, tutt'altro - almeno nei presupposti teorici, se non nei particolari e determinati atti esegetici - che evasiva, trasognata o "mistica", può essere convenientemente inquadrata e studiata.

Matteo Veronesi

NOTE

1) Prologo, in Il Marzocco, anno I, n. 1, 2 febbraio 1896, p. 1.

2) Cfr., a quest'ultimo riguardo, G. OLIVA, I nobili spiriti, Minerva Italica, Roma 1979, pp. 112-3.

3) G. S. GARGANO, La genesi di una poesia, in Vita Nuova, n. 12, 23 marzo 1890, pp. 1-2. Il corsivo è mio.

4) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, vol. II, Gallimard, Paris 1976, pp. 343-4.

5) F. CURI, "L'umorismo" di Pirandello nel sistema della modernità letteraria, in AA. VV., Studi sulla modernità, a cura di F. Curi, Clueb, Bologna 1989, p. 11.

6) In CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, cit., pp. 415-417.

7) J. LEMAITRE, Les contemporains. Etudes et portraits littéraires (8 voll., 1887-1914), Boivin, Paris s. a., troisième série, p. 225; première série, p. 164.

8) Cfr. P. MASTRI, Le due critiche, in Il Marzocco, a. I, n. 14, 3 maggio 1896, p. 1.

9) Cfr. V. RODA, D'Annunzio critico e l'estetica del Taine, in "Atti della Accademia delle Scienza dell'Istituto di Bologna - Classe di Scienze Morali", vol. LIX (1970-1), pp. 98-146. L'autore ravvisa proprio in Taine, per l'innegabile lirismo di certe sue pagine, il prototipo del critico artifex additus artifici.

10) Nell'economia di questa trattazione, mi limito a rinviare alle polemiche osservazioni di Diego Garoglio in margine al Saggio psico-antropologico su Giacomo leopardi e la sua famiglia di Mariano L. Patrizi (Fratelli Bocca, Torino 1896), nell'articolo A proposito di Torquato Tasso. La critica estetica, in Il Marzocco, anno I, n. 29, 16 agosto 1896, p. 2. Il teorico marzocchiano oppone al determinismo un metodo critico, perfettamente speculare alle coeve teorizzazioni dell'autonomia dell'arte, che ricerchi il suo "criterio estetico (..) nell'opera d'arte stessa", e non nelle condizioni psicofisiche o ambientali in cui l'autore si trovava ad operare. Era stato, del resto, proprio Poe - additato, in anni recenti, quale remoto antesignano del formalismo - ad auspicare una critica, naturale corrispettivo dei suoi princìpi di poetica, che avesse per oggetto "this very poem - this poem per se - this poem which is a poem and nothing more - this poem written solely for the poem's sake" (Complete poems, cit., p. 158). Può servire a far respirare la temperie culturale del tempo un confronto tra il giudizio di Gargàno e quello, entusiasta, che riguardo allo stesso studio del Patrizi dava Rodolfo Renier sul Giornale storico della letteratura italiana, a. XIV (1896), vol. XXVII, pp. 442-452, lodandone, da "convinto seguace della critica storica", il "metodo vero" e lo "sperimentalismo sano".

11) In Il Convito, libro I (gennaio 1895), pp. 69-86.

12) L. ANCESCHI, Autonomia ed eteronomia dell'arte (1936), Garzanti, Milano 1992, p. 114.

13) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, cit., p. 793.

14) E. A. POE, Complete poems and selected essays, Everyman's Library, London 1993, p. 98.

15) F. CURI, L'umorismo di Pirandello, cit., p. 10.

16) G. H. HARTMAN, La critica salvata dalla poesia, intervista rilasciata a R. Bonadei, "Poesia", V (1992), n. 49, pp. 19-23.

17) Cfr. le pagine relative in R. LUPERINI, La crisi del positivismo, la critica letteraria, le riviste giovanili, in La letteratura italiana. Storia e testi, vol. IX, t. I, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 3-60.

18) A. CONTI, Dopo il canto delle Sirene, Ricciardi, Napoli 1911, p. 32.

19) In Il Marzocco, anno V, n. 38 (23 settembre 1900), p. 3. Il corsivo è mio.

20) In L'Illustrazione Italiana, 25 marzo 1900.

21) S. MALLARMÉ, Divagations, Charpentier, Paris 1943, pp. 367-372. La Symphonie littéraire si legge in ID., Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1945, pp. 261-265.

22) S. MALLARMÉ, Oeuvres complètes, cit., p. 295.

23) Cfr. E. RAIMONDI, D'Annunzio e il simbolismo, in D'Annunzio e il simbolismo europeo, a c. di E. Mariano, Il Saggiatore, Milano 1976, p. 36.

24) Cfr. le note di A. ANDREOLI a G. D'ANNUNZIO, La Nemica. Il debutto teatrale e altri scritti inediti 1888-1892, Mondadori, Milano 1998, p. 239. La definizione "vivo fascio di energie militanti" si trova nel Proemio - di mano dello stesso D'Annunzio, del primo libro della rivista, lo stesso su cui apparvero anche le Note.

25) In G. D'ANNUNZIO, Scritti giornalistici, a c. di F. Roncoroni, Mondadori, Milano 1996, pp. 944-947.

26) A. CONTI, Per la gloria dell'arte. A Gabriele D'Annunzio, in Il Fanfulla della Domenica, 7 agosto 1892.

27) Cfr., rispettivamente, R. ELLMANN, Oscar Wilde, ovvero il critico come artista, in "Tempo Presente", a. XII (1967), n. 1, pp. 21-34; G. H. HARTMAN, La critica nel deserto, Mucchi, Modena 1990 (soprattutto pp. 224 e segg.).

28) CH. BAUDELAIRE, Qu'est-ce que le romantisme?, in Oeuvres complètes, cit., pp. 420-422; O. WILDE, Essays and lectures, Garland, New York-London 1978, p. 109.

29) O. WILDE, Il critico come artista - L'anima dell'uomo sotto il socialismo, introduzione di S. Perrella, traduzione di A. Ceni, con testo a fronte, Feltrinelli, Milano 1995, p. 75. Da questa edizione sono tratte tutte le citazioni che seguono.

30) A. CONTI, Giorgione, Fratelli Alinari, Firenze 1894, p. 78, corsivo mio.

31) G. ZANETTI, Estetismo e modernità. Saggio su Angelo Conti, Il Mulino, Bologna 1996, p. 386.

32) G. D'ANNUNZIO, Dell'arte, della critica e del fervore, in A. CONTI, La beata riva. Trattato dell'oblio, Treves, Milano 1900, pp. III-IV.

33) Cfr., rispettivamente, G. P. LUCINI, Il Verso Libero - Proposta, a c. di M. Bruscia, Argalia, Urbino 1971, p. 124; G. DE ROBERTIS, Collaborazione alla poesia, in Scritti vociani, a c. di E Falqui, Le Monnier, Firenze 1971, pp. 62, 80, 113, e Saper leggere, ibidem, p. 151, ove tra l'altro si legge, con un'allusione wildiana che sembra palese: "Non posso leggere la Divina Commedia e i Canti che per mio piacere e esperienza personale, come un artista...". Per l'affascinante prospettiva che ravvisa in Conti un possibile trait d'union tra l'"independent criticism" dell'estetismo e il "saper leggere" vociano, cfr. l'accenno di R. RICORDA, Dalla parte di Ariele. Angelo Conti nella cultura di fine secolo, Bulzoni, Roma 1993, p. 49.

34) Cfr. A. BERTONI, Lucini e il simbolismo, Tesi di Laurea discussa all'Università di Bologna nell'A. a. 1977 / '78, rel. E. Raimondi, pp. 310-312.

35) B. CROCE, Esempio di critica estetizzante, in Problemi di estetica e contributi alla storia dell'estetica italiana, Laterza, Bari 1910, p. 50.

36) Cfr. il Carteggio D'Annunzio-Ojetti (1894-1937), a c. di C. Ceccuti, Le Monnier, Firenze 1979. Nella lettera del 12 luglio 1894 D'Annunzio accenna ad uno studio sulle sue opere che l'amico avrebbe compiuto "con acume di critica e lucidità di stile" (p. 70).

37) U. OJETTI, Dialoghi dei vivi. Della Critica e dell'Entusiasmo, in Il Marzocco, anno II (1897), n. 42 (21 novembre 1897), pp. 2-3.

38) M. ARNOLD, Essays in criticism - first series, a c. di T. M. Hoctor, The University of Chicago Press, Chicago-London 1964, p. 180.

39) U. OJETTI, La ballata del carcere di Reading, in Il Marzocco, a. III (1898), n. 44, pp. 1-2. Per la particolare posizione di Ojetti nell'àmbito della militanza marzocchiana, oltre che per un esaustivo quadro d'insieme, pur se riduttivo sul piano del giudizio valoriale, cfr. R. CONTARINO, Il primo "Marzocco" (1896-1900), Pàtron, Bologna 1982.

40) La lettera di Flaubert, che si può leggere in Correspondance - troisième série (1854-1869), Charpentier, Paris 1898, pp. 384-387, è citata in G. S. GARGANO, Arte e scienza, in Il Marzocco, anno I, n. 29 (16 agosto 1896), p. 1. Le lettere a George Sand, di cui fa parte quella qui citata, erano state pubblicate, con prefazione di Maupassant, nel 1884, ed arrivavano ai marzocchiani anche attraverso la mediazione del saggio On Style che chiudeva le Appreciations di Walter Pater, e in cui veniva accreditata l'immagine, perfettamente consona ad un estetismo inteso come culto della pura forma, di un Flaubert "martyr of literary style".

41) A. CONTI, La beata riva, cit., p. 35, corsivo mio.

42) E. NENCIONI, Rassegna delle letterature straniere (inglese), in Nuova Antologia, a. XXV (1980), fasc. IV, 6 febbraio 1890, pp. 792-803, corsivi nel testo.

43) W. PATER, On Style, in Appreciations, with an Essay on Style, Macmillan, London 1911, pp. 5-38.

44) Cfr. G. ZANETTI, Estetismo, cit., pp. 371-372.

45) Questa categoria si trova già, anche se appena accennata, e riferita a teorici e scrittori d'arte quali Maurice Denis, H. Fleury ed A. Mellerio, nel prezioso volume di M. T. MARABINI MOEVS, D'Annunzio e le estetiche della fine del secolo, Japadre, L'Aquila 1976, pp. 101-2.