Fra il nido e l'Europa. Un'introduzione alla poesia di Giovanni Pascoli

(prefazione a Myricae, Rusconi, Santarcangelo 2018)


Il poeta del nido: così, secondo una felice indicazione critica di Giorgio Bàrberi Squarotti, Pascoli viene spesso designato, e questa è l'immagine che, attraverso la vulgata scolastica,  è rimasta impressa nella mente di generazioni di lettori. 

La definizione, pur con tutti i limiti insiti in ogni schematizzazione univoca, ha un suo fondamento. Pascoli, soprattutto nelle due raccolte che qui presentiamo, è poeta legato, indissolubilmente e vitalmente, ad un microcosmo familiare, domestico, naturalistico, ad un mondo di piccole cose, di affetti intimi e raccolti (si pensi al ben noto, morboso, quasi incestuoso, anche se platonicamente sublimato, rapporto con le sorelle Ida e Maria, tanto da vivere come un trauma immedicabile e un mortale tradimento la decisione, da parte di Ida, di sposarsi), avvolto dalla lontananza, dal silenzio, dalla nebbia (immagine ricorrente, quest'ultima, denso simbolo di una cortina di isolamento e di difesa), imperniato sul ricordo ossessivo dei poveri morti (basti pensare all'immagine allucinata, nel Gelsomino notturno, dell'erba che continua a crescere sopra le fosse, segno sia del colpevole oblio, dell'imperdonabile trascuratezza, sia di una perpetua ed inesauribile vita che perdura dopo la morte, e resta conficcata, come una sorta di proliferante cancro affettivo, nel cuore dei vivi).

Accanto all'immagine della cortina di nebbia, che nasconde le minacciose cose lontane, occultando e rimuovendo ogni sollecitazione alla partenza, all'abbandono, alla rottura del legame con le radici, compare, per delimitare e caratterizzare lo spazio del nido, quella della siepe: immagine di chiara origine virgiliana (basti pensare alla siepe della prima Bucolica) e leopardiana (la siepe dell'infinito), che denota, contrassegna e definisce lo spazio della piccola proprietà contadina, àmbito di affetti, cure, sollecitudini, legami, emblema di una vita frugale, modesta, orazianamente contenta del poco, segno di una dimensione esaltata anche per ragioni ideologiche (Pascoli non andò immune da un certo paternalistico socialismo umanitario, che prese gradatamente il posto di quello anarchico professato in gioventù). 

Ma in Pascoli, come in un idillio di Mosco (poeta greco di età ellenistica) riecheggiato già dal Leopardi dell'Infinito, proprio la siepe è brulicante, ronzante, sussurrante, accarezzata dal vento, abitata dagli insetti mobili e frementi, visitata dagli alati nel loro fervido moto: proprio il limite, il confine, la barriera che dovrebbero negare la vista delle lontananze minacciose e tentatrici sono, essi stessi, abitati o sfiorati da una vita sconosciuta, che in essi fluisce come un oscuro sangue. Il limite che nasconde l'ignoto finisce per celare in se stesso un'ignota dimensione, e per accennare alla possibilità, virtualmente illimitata, del proprio superamento.

Ed è possibile vedere, qui, un altro aspetto fondamentale della visione pascoliana, ossia lo straniamento. Proprio ciò che è vicino, familiare, apparentemente usuale, proprio quegli scenari naturalistici e agresti che parrebbero rinviare agli aspetti minori del suo maestro Carducci (e in particolare alla sua raccolta Rime nuove) rivelano un senso ulteriore, un significato nascosto, e spesso inquietante, spiazzante, “perturbante” avrebbe detto Freud. 


Bianca bianca nel tacito tumulto 

una casa apparì sparì d'un tratto; 

come un occhio, che, largo, esterrefatto, 

s'aprì si chiuse, nella notte nera.  


Un semplice lampo illumina repentinamente (in un istante splendidamente enfatizzato e scandito, nella sua discontinuità, dall'anomala, geniale, diffratta accentazione degli endecasillabi) una casa di campagna. Quel semplice fenomeno naturale, quell'attimo transitorio ed effimero nel divenire della natura, sono fermati e fissati per sempre dalla parola poetica, e in qualche modo distorti, con un effetto che oggi si definirebbe iperrealistico, nell'innaturale fissità di un duplice fotogramma. 

Questo straniamento, questa duplicità e questa dismisura fra esteriorità ed interiorità, tra i fatti e le cose in sé e per sé e i loro significati ulteriori e nascosti, sembrano connotare anche la vita del Pascoli (ora ricostruita criticamente, decenni dopo la narrazione documentata, ma in parte mistificante, della sorella Maria, da Alice Cencetti in un prezioso volume).

Esteriormente, Pascoli fu l'esatto contrario di D'Annunzio (sebbene fosse, proprio accanto a lui, il massimo esponente del simbolismo italiano). A quest'ultimo lo legò un rapporto ambivalente, segnato da momenti di distacco, freddezza, sospetto, gelosia e da altri di caloroso slancio, come quello che portò D'Annunzio a dedicare idealmente a Pascoli, «ultimo figlio di Vergilio», Alcyone nel componimento conclusivo, in cui si immagina che i due amici si incontrino sulla vetta del monte dopo averlo asceso per vie diverse, per poi celebrarlo splendidamente nella Contemplazione della morte. 

Da un lato, com'è noto, vi era il D'Annunzio superuomo, innamorato del lusso, della mondanità, dell'aristocrazia, del beau jeste, del gesto eroico da esibire e propagandare, attanagliato, come un signore del Rinascimento, da un inguaribile «bisogno del superfluo»; dall'altro Pascoli, campagnolo, rustico, selvatico, legato invece alle piccole cose, alla vita semplice (anche se con i Poemi Conviviali egli si avvicinò alla poetica dotta, preziosa e ricercata dell'estetismo parnassiano), dedito per tutta la vita (già subito dopo la laurea, conseguita a Bologna nel 1882) all'insegnamento, prima liceale, poi universitario, sballottato per tutta Italia (addirittura a Matera e a Messina) dagli incarichi ministeriali, prima di rilevare, nel 1905, la cattedra del maestro Carducci, così diverso da lui, più eroico e retorico che idillico in poesia, più filologico e rigoroso che evasivo e sognante nella critica, eppure non privo di influenza sul discepolo (basti pensare ai motivi naturalistici e alle suggestioni ritmiche e foniche che le Rime nuove, ma anche le Odi barbare, con la loro relativa libertà metrica rispetto agli schemi tradizionali della versificazione italiana, esercitarono sulla sua Musa).

Egli fu, quasi ovunque, accompagnato dalle sorelle Ida e Maria, e cercò ovunque di ricostruire l'originario nido familiare, che com'è noto era stato traumaticamente infranto, nell'infanzia, dall'assassinio, rimasto impunito, del padre (crimine, questo, rievocato nella fin troppo celebre, almeno un tempo, Cavallina storna). Sempre vagheggiò, poi, il ritorno alla vita agreste, compiuto infine nella casa di Castelvecchio di Barga, in cui si trasferì dal 1895. 

Come notò, da grande poeta, con una finezza, un garbo e una chiarezza che spesso fanno difetto agli specialisti di critica psicanalitica, Mario Luzi, «per il Pascoli si tratta di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto. Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all'infanzia».  

Pascoli, insomma, da un lato si identificherebbe, in modo quasi sacrificale e totemico, con la figura del padre, del capofamiglia, che nel suo caso era andata incontro ad una morte terribile ed oscura come viceversa sono, per Pascoli, la vita e l'amore adulto; dall'altro, egli vede nella sorella Maria una ideale ed impossibile compagna-sposa-amante, casta, pura, platonica, dal momento che, nell'universo pascoliano, la sessualità adulta, matura, genitale, è non già sublimata o evocata allusivamente, ma freneticamente, ossessivamente negata e rimossa, per poi riemergere, secondo lo schema freudiano, in immagini simboliche ed oniriche, in audaci, insospettabili traslati. 

Basti pensare al celebre esempio del Gelsomino notturno, che con immagini frante ed apparentemente irrelate, com'è proprio appunto della logica onirica, e con un procedimento tipicamente simbolista, tale cioè da associare le immagini e le sensazioni esteriori a idee e stati d'animo interiori, evoca l'iniziazione sessuale, la deflorazione, la fecondazione, il concepimento di una nuova vita, associandoli però, torbidamente, al ricordo ossessivo dei poveri morti, la cui pesante catena condanna il poeta alla solitudine, ad essere come un'ape ormai esclusa dall'alveare, che invano sussurra la propria angoscia.

Ho accennato alla poetica simbolista e al Pascoli eterno fanciullo, incapace di crescere, di affrontare una condizione adulta, di formare una nuova famiglia; ad un Pascoli condannato ad una sorta di eterna “coazione a ripetere”, di ossessivo legame con pensieri, relazioni e comportamenti propri dell'infanzia. 

Non si può allora non menzionare Il Fanciullino, il celebre e fin troppo citato scritto di poetica apparso sul «Marzocco» nel 1897, poi ripreso in volume nel 1903 e nel 1907. 

Solo in apparenza la poetica di Pascoli ha un carattere candido, ingenuo, irrazionalistico. Ad una lettura superficiale, il poeta-fanciullo sembra porsi davanti alla natura senza nessuna mediazione culturale, senza nessuna forma di riflessione intellettuale, e fungere semplicemente da impersonale specchio, da mero riverbero per le immagini e le voci della natura stessa. 

Eppure, la concezione del poeta come fanciullo ha, a sua volta, antecedenti culturali antichi, significativi, stratificati: da Vico (secondo il quale la poesia era espressione genuina e primigenia delle età giovani, dell'infanzia dell'umanità, capace ancora di vivere in armonia con la natura e tradurne i segreti e i messaggi in spontanee e potenti incarnazioni mitiche) ai romantici tedeschi (la poesia era, secondo i fratelli Schlegel, «simile al sospiro e al bacio emessi dal bambino poeta in un canto spontaneo», e Schiller teorizzava, in termini non dissimili, una antica poesia «ingenua», nella quale «il poeta è la natura», la recepisce, la vive e la esprime con immediatezza, per una sorta di armonia prestabilita, mentre il poeta moderno non può che essere «sentimentale», «cercare la natura», proiettando su di essa, non senza una inevitabile mediazione intellettuale, un elemento di intenzionalità, il proprio vissuto, il proprio pensiero, il proprio sentimento), da Leopardi ai simbolisti (basti pensare alle pagine di Baudelaire sul convalescente che, come in un'infanzia ritrovata e rinnovata, «voit tout en nouveauté», come la prima volta, in una luce albale, come attraverso il velo diafano e limpido di uno sguardo rinverginato). 

Proprio il referente simbolista appare, in tal senso, il più probante. Di fatto, al simbolismo francese Il fanciullino rinvia anche nello stile della prosa, ritmata, melodiosa, ricca di metafore e di effetti di suono: il «fanciullo musico», racchiuso in ognuno di noi, anche se perlopiù sopito dai ruoli, dalle maschere e dai problemi dell'età adulta, fa udire d'un tratto il suo «tinnulo squillo come di campanello» (ma, a conferma della sinistra ambiguità che avvolge la figura del fanciullino, il tintinnare di campanelle che accompagna a più riprese la Musa del Pascoli, costituendone una delle note caratteristiche, può ricordare «The undying voice of that dead time, / With its interminable chime», l'immortale voce del tempo morto con il suo incessante tintinno, di Tamerlane di Poe: la sensibilità, all'apparenza immacolata e candida, del poeta fanciullo è in realtà venata di un cupo, quasi morboso senso della morte e della sua persistenza, come acre invadente profumo, nel mondo dei vivi).  

Il fanciullino contribuì in modo decisivo ad introdurre in Italia la poetica simbolista delle correspondances, delle analogie ardite, repentine, improvvise, che collegano, sulla base di latenti, quasi alchemiche ed esoteriche affinità, immagini, sensazioni, concetti  di per sé remoti. 

Senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta. 

Ambiguità, polisemia, potere evocativo della parola poetica, che può racchiudere in sé, nella sua concisione, due pensieri, facoltà rimemorante, mnestica, rievocatrice, che associa il presente al passato, e fa risorgere il passato, per analogia e associazione, nel presente; infine, facoltà analogica, che collega il piccolo al grande, e spesso inverte le loro proporzioni (Pascoli, si è detto, spesso guarda il mondo come attraverso un cannocchiale rovesciato), e rinnova ad ogni nuova occasione, arricchendoli, le percezioni sensoriali e gli atti conoscitivi collocati nel passato. 

Pascoli era memore, in ciò, della filosofia e della psicologia positiviste (in particolare degli studi sull'infanzia di James Sully), come pure di certo spiritualismo francese (basti pensare agli studi sul genio come facoltà analogica, associativa e dunque creatrice di Gabriel Séailles). 

Ma alcune sue osservazioni parranno riaffiorare addirittura in certa novecentesca  fenomenologia della percezione, e ad ogni modo troveranno un sorprendente riscontro (come notava Francesca Moràbito in un libro del 1920, Il misticismo di Giovanni Pascoli, forse non abbastanza sfruttato) in certe pagine di Bergson, ad esempio quella dell'Évolution créatrice in cui si parla dello sguardo mistico, che, come osservava già Schopenhauer, si sprofonda e si identifica a tal punto nell'oggetto da far cadere ogni barriera e ogni distinzione rispetto ad esso, da penetrare «all'interno dell'oggetto per mezzo di una specie di simpatia, abbassando con uno sforzo d'intuizione la barriera che lo spazio frappone fra lui e l'oggetto». 

Non a caso, già Renato Serra parlava, a proposito di Pascoli, di “Positivismo trascendentale”. Ciò sta a significare che la poesia di Pascoli, tutt'altro che ingenua, sprovveduta, semplice, svagata, è, al contrario, a suo modo scientifica, aderente alla concretezza sensoriale dei fenomeni, fitta anzi di effetti cromatici, di fonosimbolismi, di onomatopee che ricalcano l'evidenza oggettuale e sensoriale. 

In pari tempo, però, tale poesia va oltre la superficie, la scorza esteriore dei fenomeni stessi, ne coglie e ne esprime il significato nascosto, ulteriore, simbolico, la risonanza interiore e psicologica, il senso e il messaggio in certo qual modo eterni, universali, e perciò superiori e ideali. 

Il ripetersi e il rinnovarsi, quasi leopardiani, se non proustiani ante litteram, della sensazione, della percezione, dell'idea passati nel momento presente, il reciproco riflettersi del presente nel passato e, su scala più ampia, il risorgere e il rivivere, nell'atto poetico, della vichiana metafisica immaginosa e fantastica che era propria delle età giovani, dell'infanzia dell'uomo, sembrano quasi profilare, pur se sempre all'interno di una visione aderente alla realtà, alla concretezza e all'evidenza dei fenomeni, quasi una sorta di reminiscenza in senso platonico, come se l'uomo-fanciullo-poeta avesse già contemplato ogni cosa in un'era anteriore, in un cielo più puro, in una baudelairiana vie antérieure, in un'infanzia universale, eterna, senza tempo, simile quasi alla sfera immutabile, intemporale, prenatale in cui sono depositati e fissati gli archetipi junghiani. Del resto, Pascoli fu influenzato, al pari di Renato Serra, suo raffinatissimo interprete, dal pensiero di Francesco Acri, un filosofo platonico che insegnava all'Università di Bologna.   

Come detto, quella di Pascoli non è un'infanzia ingenua e sprovveduta. Il poeta è semmai, per lui, puer senex e insieme puer aeternus: da un lato, fanciullo-adulto, fanciullo-uomo, nel quale la fanciullesca voce primigenia, pura, tintinnante (ché l'infanzia pascoliana è, fondamentalmente, una voce, un'incorporea lucidissima immemore sostanza musicale, come in Debussy e come in Mallarmé: «Il garrulo monello o la vergine vocale erano dentro lui, invisibilmente. Erano la sua medesima fanciullezza, conservata in cuore attraverso la vita, e risorta a ricordare e a cantare dopo il gran rumorio dei sensi...») riaffiora a tratti dalla scorza e dalle impurità del mondo e dell'età adulta con le sue responsabilità assillanti, i suoi compromessi, i suoi ruoli, le sue pirandelliane maschere; dall'altro, fanciullo eterno, che dà voce ad archetipi immutabili, risonanza a idee e visioni perenni.  

Fanciullezza ed età adulta nel poeta coesistono, trovando, in rari momenti di grazia ispirata, un precario, temporaneo, forse illusorio connubio. «L'uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l'armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d'un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora». Questa dialettica, questa interpenetrazione di infanzia ed età adulta sono simili, per certi aspetti, al rapporto pirandelliano fra Vita e Forma, tra il fluire dell'esperienza, del pensiero, del ricordo e la fissità del ruolo sociale (operai, contadini, professori, banchieri non riescono più a sentire la voce del fanciullo che è in loro, salvo poi riascoltarla nel momento, sacro e fuori dal tempo, della festa). 

In Pascoli, è vero, manca del tutto la corda dell'umorismo, la vena dell'ironia lucida, amara, disgregante. Eppure, non sono casuali l'interesse e il sostanziale favore (pur se non senza qualche riserva) con cui Pirandello guardò a Pascoli, sentendone vicina l'«angosciata sensibilità».  

Ma la poetica del fanciullino conduce fino al cuore di una grande ed eroica impresa pascoliana, quella dell'esegesi dantesca, a cui l'autore dedicò imponenti volumi (Minerva oscura, Sotto il velame, La mirabile visione, editi fra il 1898 e il 1902), ricercando sensi nascosti, e ripercorrendo le tracce di un articolato cammino di purificazione e di iniziazione. 

Il poeta-fanciullo è affine a Dante che giunge a Beatrice attraverso la mediazione di Matelda, l'enigmatica fanciulla che canta, danza e intreccia corone di fiori, e che per Pascoli incarna l'arte celata, in accordo con Hugo («au fonds de la nature, c'est l'art»), al fondo e nel cuore della natura, mentre non è la smemoratezza, l'ingenuità sprovveduta, il totale acritico abbandono, ma al contrario lo «studio», l'assidua rilettura dei poetae regulares che possono rappresentare validi modelli, a consentire al poeta di purificarsi da ogni scoria, ricongiungendosi così con la natura, la purezza, l'autenticità del vivere e dell'esprimere.  

La raccolta Myricae accompagnò il poeta per molti anni, dal 1892 al 1911, arco cronologico lungo cui si susseguirono sette edizioni, con costanti aggiunte e correzioni: non solo un libro, ma quasi un'ossessione, esistenziale e creativa, un diario in versi in cui le sensazioni e le visioni della vita di campagna si sovrappongono alle reminiscenze esistenziali, una profonda e sofferta, e proprio per questo sommessa, umile, silenziosamente sentita, testimonianza di vita e di creazione. 

Il titolo, che fa riferimento ad un umile, modesto e ruvido arbusto di campagna, rinvia però, in pari tempo, ad un verso virgiliano che accompagna, quasi come un'insegna, tutta la parabola creativa del poeta, e che riaffiora, variamente citato e frammentato, nelle epigrafi introduttive di diverse sue raccolte. 

Il verso è tratto dalla quarta Bucolica, quella in cui Dante vide un'oscura profezia del cristianesimo; ed è interessante notare che Pascoli (come poi farà, in una diversa ottica, Eliot) accosta anche in veste di critico, con la sua geniale e ardita facoltà associativa ed analogica, Virgilio e Dante, maestri di sapienza, compagni di strada, dolci consolatori dell'anima, luci che infiammano la mente.

D'Annunzio, recensendo la raccolta, ebbe a dire, riecheggiando Mallarmé, che in essa «manca il mistero». Pascoli sarebbe un poeta attento, come i Naturalisti e i Parnassiani francesi, solo alla superficie dei fenomeni, all'esteriorità delle cose, all'oggettività della natura, non ai sovrasensi nascosti, ai valori simbolici, alle risonanze mistiche. 

Un'incomprensione, certo, almeno in parte, quella dannunziana: giustificabile però anche con il fatto che l'edizione recensita non era quella definitiva, e ancora mancava di alcuni dei testi più celebri. Anche Serra, del resto, rifacendosi alla stessa poetica espressamente enunciata da Pascoli, diceva che la poesia pascoliana è «nelle cose» (il fanciullino, dice Pascoli, vede nelle cose «il loro sorriso e la loro lacrima», attribuisce anche alle cose inanimate, alla realtà fenomenica, sentimenti, sensazioni, emozioni, dolori, o almeno li vede in essa rispecchiati: sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt, le cose piangono, ferisce l'anima la mortalità di ogni cosa, aveva detto Virgilio in un verso in cui è già racchiuso tutto il senso di perdita, di lontananza, di tramonto, che pervaderà la poesia pascoliana). 

Ma, come detto, le cose, gli oggetti, i fenomeni divengono, in Pascoli (sempre più, bisogna precisarlo, con il passare degli anni e l'approfondirsi dell'esperienza intellettuale e della vicenda spirituale), segni del misero, soglie socchiuse dell'ignoto, risonanze remote di un altrove. Anche i positivisti, del resto (basti pensare all'Unknown, all'Ignoto, di Spencer), intuivano una dimensione oscura e notturna che andava al di là dell'immediatezza della percezione, e che trapelava a tratti, come un oscuro sangue, dalle crepe sottili del reale.

La voce poetica di Myricae è una voce defunta, «voce velata dalla sepoltura», che viene dall'oltretempo, dall'al di là del tempo, e insieme dal passato, dal tempo già trascorso, consunto e tramontato. «Dormite! Vi dicea soave e piana. / E ora, io tremo nella bara sola». «Soave e piana» è, si ricorderà, la voce di Beatrice che esorta Virgilio al soccorso di Dante. Una dolcezza intrisa di mestizia è il vincolo ideale, fatto di pura fragile ed incorporea voce, che unisce vivi e morti. 


Sale con l'ombra il suon d'una cascata

che grave nel silenzio sacro geme

con un sospiro eternamente uguale. 


Questa è la voce della poesia, la sonore, vaine et monotone ligne dei simbolisti francesi, che sorge avvolta da un «silenzio sacro», inviolabile, simile a quello dei riti e degli antichi misteri. 

Il sole, fissato intensamente, oscura ed annulla lo sguardo. Diviene «Un vòto / vortice, un niente» ‒ Gouffre, Vide, Néant, come in Mallarmé. La luce si confonde con la morte, con la tenebra, con la «costellazïone / lugubre che in un cielo nero brilla». 

«Di tra un silenzio candido di trine / parla il mistero in suono di vagito». Il mistero che fonde vita e morte parla nel pianto di un bambino la cui madre si è spenta dandolo alla luce. Il mistero supremo è quello dell'unità degli opposti, della quale la parola poetica è assoluta, quasi oracolare, rivelazione. 

Il ritorno dei morti nel regno dei vivi, e la discesa dei vivi, come Ulisse, Dante, Enea, nelle lande ombrose dei defunti si ritrovano nella poesia italiana del Novecento, da Montale a Sereni, da Luzi a Caproni. Anche e proprio questo tema, apparentemente legato al passato e alla tradizione classica (si pensi ad Enea che, sovvertendo l'ordine del tempo e relativizzandone e contaminandone le dimensioni, riceve dal padre Anchise, e dunque dal passato, la profezia, e anzi la diretta visione, dei futuri destini), fa di Pascoli un precursore della modernità, o almeno il mediatore di una tradizione che si perpetua, viva anche nella rappresentazione della morte, dell'assenza, della perdita.

La pervinca si alza, insieme ad una «confusa e morta salmodia», verso il «turchino / vuoto, infinito», ch'è del cielo come di un antico sguardo assorto. Come in Mallarmé, l'azzurro, pensiero ossessivo, vela la morte del cielo, il silenzio del mistero, l'abisso cavo di una trascendenza senza nome.

A conferma della modernità di Pascoli, della sua rivoluzione forse, ma non si sa fino a che punto, “inconsapevole”, come scriveva il grande critico Giacomo Debenedetti, eppure fondamentale, decisiva, già proiettata verso il Novecento, sta il fatto che nella sua opera già si profilano, fin da Myricae, quella progressiva nullificazione del senso, quella frammentazione e quello svuotamento della percezione e dei suoi significati, che trovano riscontro nella costellazione devastata ed esplosa dell'ultimo Mallarmé, quello, precursore delle avanguardie primonovecentesche, di Un coup de dès jamais n'abolira le hasard: «une constellation froide d'oubli et de désuetude», «une élévation ordinarie vers l'absence».

Anche dal punto di vista metrico, pur non usando mai il verso libero (e anzi rifiutandolo anche in sede teorica, con riferimento a Whitman), Pascoli preannuncia le disgregazioni e le radicali innovazioni novecentesche, alterando dall'interno, quasi impercettibilmente, sotterraneamente, eppure in modo decisivo, le strofe tradizionali, e usando abbondantemente un verso poco utilizzato nella tradizione metrica italiana come il novenario, la cui oscillante alternanza fra ritmo dattilico (ternario) e ritmo trocaico (binario) poteva ben rendere le assidue ed ossessive, libere eppure necessitate, intimamente vive benché invisibili, vibrazioni del pensiero, dell'interiorità e della reminiscenza. 

Come osservava Francesco Flora in uno studio fondamentale, che aprì la strada all'autentica riscoperta critica del poeta, il poeta-fanciullo pascoliano «diede il nome al senso e all'idea che sempre si riducono all'invenzione o discorso mentale: in tal modo l'uomo afferma la sua umanità che inizialmente è verbum». Pascoli, pur se meno provocatore, meno radicalmente rivoluzionario, non era in fondo lontanissimo dal «verbe poétique accessible à tous les sens» sognato da Rimbaud, dalla parola assoluta, capace di abbracciare in suprema sintesi la totalità del reale e del pensiero. 

Posandosi sulle cose, e tramutandole in simboli, in specchi o in sorgenti di uno stato interiore («È l'uso perfetto di questo mistero che costituisce il simbolo: evocare a poco a poco un oggetto per mostrare uno stato d'animo o inversamente, scegliere un oggetto e trarne uno stato d'animo, attraverso una serie di decifrazioni»: tale era, per Mallarmé, l'essenza del simbolismo), lo sguardo pascoliano le anima, le vivifica, le fa interiormente risonare.

Può valere per lui ciò che scriveva di Dante in un saggio del 1902: «Due idee per ogni parola e due rappresentazioni per ogni imagine ‒ una presso e avanti agli occhi, l'altra più lontana, come la ripetizione nera d'un disegno candido che abbiamo fissato a lungo». Ogni immagine, ogni oggetto, ogni fenomeno celano un significato ulteriore, e ad esso rinviano.  

Anche i possibili, suggestivi referenti pittorici della poesia pascoliana oscillano, in Myricae come nei Canti, fra la realtà tangibile e il senso ulteriore, nebuluso, sfumato, eppure a suo modo definito nella sua essenza e nei suoi contorni intellettuali; da un lato il verismo di Lega e di Fattori, popolato di zolle, aratri, covoni, ombre della sera e fulgori di meriggio; dall'altro il simbolismo chiaroscurale, pullulante, evocativo, ma nel contempo esatto e definito, di un Segantini o di un Pellizza da Volpedo o addirittura (ipotizza Garboli) quello inquietante, torbido e funerario di un Böcklin, la cui sensibilità ombrosa e sospesa pare davvero, sorprendentemente, vicinissima a quella del poeta (i cui oggetti talora sospesi, muti, abbandonati al loro vuoto d'assenza, enigmatici nella loro nuda e muta semplicità, paiono del resto, a tratti, quasi prefigurare Morandi o De Chirico o il Carrà più assorto e composto). 

La poesia, scriveva Vico nella Scienza nuova, consiste nel «dare alle cose insensate senso e passione», allo stesso modo che i fanciulli muovono e fanno parlare le bambole e i giocattoli. La genesi più remota della poesia è così legata ad una sorta di primigenio, arcano animismo. Il poeta visto (già in Alcmane, come poi in Aristofane, e fino al Wagner dei Maestri Cantori di Norimberga) come uomo che conosce e intende i linguaggi degli uccelli, e sa rendere ad essi eco e riposta nel canto proprio, è molto vicino alla figura dello sciamano, del sapiente oscuramente iniziato ai misteri della natura, o a quella, orfica, del mago-cantore che interagisce con la materia, muovendola e plasmandola, con la sola forza del suo canto. 

Eppure, il poeta moderno non può che cercare di riprodurre e ricomporre questa armonia e questa sintonia originarie attraverso la riflessione, la ricerca, lo studio. La “naturalezza del poeta” (su cui Luzi scriverà, nel Novecento, pagine importanti) è precisamente l'esito di questa ricerca di essenzialità, questa eliminazione di scorie, questo lavoro di lima, che fondono operatività e riflessione, attitudine spirituale ed intellettuale e azione creatrice. 

Se per Vico il linguaggio metaforico nasceva da un'originaria, ingenua improprietà d'espressione, che portava ad approssimazioni, traslati, denominazioni improprie, per il poeta simbolista l'analogia, la metafora, l'associazione di immagini e idee sono, al contrario, esito di una ricerca sottile ed appassionante.

Proprio in virtù di questa portata, direbbe ancora Vico, fantastica ed universale, di queste vastissime e potenti risonanze evocative e simboliche, la poesia di Myricae, sebbene fatta perlopiù di piccole cose concrete, spesso umili, ruvide, rustiche, assume un respiro ampio e un valore perenne. 

In una brevissima prosa giovanile, edita postuma, Pascoli scriveva: «Tutte le poesie hanno un legame tra loro. È l'enfant du siècle che si è perduto nella notte dei secoli. (...) Io astraggo dal mondo d'oggi, come astrae chi sogna, senza mancare alla verità: rintraccio in certo modo il vecchio uomo, le vecchie vestigia umane, per spiegarmi la natura umana». «La Musa ‒ chi sei? ‒ là perduta tra le rimembranze», si legge in un altro appunto giovanile.

La memoria individuale, esistenziale del singolo uomo si fonde con quella universale dell'umanità intera, con l'eco perdurante dell'origine dell'umanità, divenendone in certo modo specchio e figura. Il poeta che evoca la propria infanzia illumina e richiama, in eguale misura, l'infanzia dell'umanità, con il suo perduto tesoro di terrori e di estasi, d'angoscia e di dolcezza; l'epoca, cioè, in cui i grandi miti che fondano una civiltà, e che anzi forse connotano l'umanità stessa nel suo spirito e nella sua essenza, presero le loro prime forme. 

Il poeta, dicono ancora le annotazioni giovanili, raccoglie le ceneri del passato «nel luminoso alabastro dell'arte». Immagini non diverse si troveranno nel componimento Le gioie del poeta:


Io prendo un po’ di silice e di quarzo:

lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena:

ve’ la fiala come un dì di marzo,

azzurra e grigia, torbida e serena!

Un cielo io faccio con un po’ di rena

e un po’ di fiato. Ammira: io son l’artista. 


Si tratta, a ben vedere, di una poetica paradossalmente ed insospettabilmente parnassiana, ovvero ricercata, cesellata, preziosa, anche se rivolta a piccole ed umili cose. Vengono celebrati, qui, il sublime d'en bas, la nobiltà e la preziosità che anche piccole umili cose possono assumere se riflesse nello specchio nitido e cristallino di un sapiente stile poetico.

Il sacrificio, l'oblazione, l'abnegazione che stanno alla base della poesia di Pascoli (per il quale l'arte del poeta è rinuncia, rifiuto dei sentimenti fasulli e dei preziosismi stilistici fini a se stessi) consistono proprio in questo quasi minerale, quasi inorganico immergersi con tutto se stesso, con la mente e con l'anima, nelle cose, nei fenomeni, nella natura, nel mondo, nelle creature, per poi risorgere dal loro grembo vasto ed oscuro, che cela e cova il segreto della creazione, con i suoi versi ricercati, meditati e preziosi anche e proprio quando mostrano un'apparenza rustica e disadorna. 

Non siamo lontani dalla «sparizione vibratoria» del poeta nelle sfumate e mutevoli sonorità del linguaggio e nelle luminose ondulazioni della percezione, né dall'ungarettiano «porto sepolto» in cui il poeta discende per poi risalirne alla luce con i suoi canti, tratti da quelle profondità inaccessibili, e resi comunicabili, condivisibili, patrimonio comune degli uomini. 

La parola poetica accarezza ed avvolge l'oggetto, la realtà, il vissuto, il ricordo, con un tremante alone di suono, di colore, d'immagine, di pensiero, fin quasi a farlo svanire, o ad alterarlo e trasfigurarlo, pur serbandone la concretezza, la definitezza, la tangibilità, la precisa nominazione. L'oggetto non perde la sua concretezza; ma lo sfondo indistinto, nebuloso, spesso cupo, quasi leonardesco, su cui esso si staglia, e dal quale è esso stesso in certo modo avvolto, ambiguamente insidiato, quasi risucchiato a volte, finiscono per modificarne, indirettamente ed analogicamente, la connotazione e il significato. 


Capanne e stolli ed alberi alla luna 

sono, od un tempio dell'antico Anubi, 

fosca rovina? Stampano una bruna 

orma le nubi 


su la campagna, e più profonda e piena 

la notte preme le macerie strane, 

chiuse allo sguardo, dove alla catena 

uggiola un cane. 


Ecco la falce d'oro all'orizzonte: 

due nere guglie a man a man dipinge, 

indi non so che candido. Una fronte 

bianca di sfinge? 


Pochi oggetti rusticali, che paiono tratti dal quadro di un macchiaiolo o di un verista, immersi però in un'atmosfera che, anche attraverso i suoni cupi delle vocali, richiama i simboli ancestrali, egizi, della morte ‒ quasi come l'«idole Anubis» rievocato da Mallarmé nel Tombeau de Charles Baudelaire.   

Vi è una profonda continuità che lega le Myricae e i Canti di Castelvecchio, giustificando così una volta di più l'accostamento delle due raccolte in questo volume. 

Nella Prefazione al libro (il quale ebbe, dal 1903, lo stesso anno dell'Alcyone dannunziano, al 1914, sette edizioni), Pascoli definisce le poesie in esso raccolte come «myricae autunnali», cresciute sulla tomba prematura della giovane madre, morta di crepacuore dopo il misterioso assassinio del marito. Il poeta soffre per la morte dei genitori e di alcuni fratelli. «Io non voglio. Non voglio che sian morti». La poesia pascoliana, dunque, prende le mosse dal desiderio arcaico, originario, mitico, di vincere la morte, di guadagnare l'eternità, di sottrarre gli esseri amati dall'oblio e dall'ombra. 

Eppure, la morte è parte integrante della vita, componente ineliminabile, inscindibile, essa stessa paradossalmente vitale, dell'esistenza. «La vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico». Questa contaminazione, questa pietosa e insieme sinistra prossimità, di vita e morte, questo essere-per-la-morte (questa «angoscia titillante», come l'avrebbe chiamata Manganelli), questo assillante pensiero della morte e dei cari che essa ha strappato, uniti alla sofferta autocoscienza che li accompagna, tentando di attenuarli o di sublimarli facendone materia di poesia, sono forse la fonte essenziale del discorso pascoliano. 

La poesia è, come si legge nel testo che apre la raccolta, simile ad una lampada orlata di tenebre, cinta dall'oscurità, costantemente insidiata dalla notte che pare ad ogni istante sopraffarla: un po' come, nel limbo dantesco, il globo di fuoco della conoscenza, «ch'emisperio di tenebre vincìa», che un globo di tenebre avvolgeva e sembrava soverchiare. 

I Canti di Castelvecchio segnano un ritorno alle origini, una ricostituzione del nido infranto, un recupero della dimensione intima e domestica (una sezione di essi si intitola, non a caso, Ritorno a San Mauro, cioè al paese natale, e in tutta la raccolta assume fondamentale rilievo l'ossessivo tema familiare, quello del legame con le sorelle e del ricordo dei cari morti). 

In pari tempo, però, i Canti di Castelvecchio proseguono ed approfondiscono il latente, non ostentato, eppure vivido, sperimentalismo stilistico inaugurato da Myricae. Come osservava Contini in un saggio del 1955, Il linguaggio del Pascoli, Pascoli avrebbe fatto cadere la «frontiera fra pregrammaticalità e semanticità», cioè avrebbe mescolato, con esiti originalissimi, espressioni della tradizione aulica con voci dialettali (quelle in uso nella zona di Barga) ed espressioni onomatopeiche, caratteristiche del suo stile, prive di valore semantico, cioè di significato, e dal carattere esclusivamente mimetico, tali cioè da riprodurre suoni o versi della natura. 

Con tutto ciò, il libro risponde comunque ad un disegno unitario, ad una complessiva concezione strutturale di baudelariana nitidezza: «Un ordine latente: prima emozioni, sensazioni, affetti d'inverno, poi di primavera, poi d'estate, poi d'autunno, poi ancora un po' d'inverno mistico, poi un po' di primavera triste, e finis», come egli stesso scriveva in una lettera. L'intero volume, insomma, quasi come un poema sinfonico, scandito dal susseguirsi di stati d'animo, atmosfere, impressioni cromatiche, messaggi e significati.      

Sempre secondo Contini, cadrebbe, con Pascoli, anche il «confine tra melodicità ed icasticità, cioè tra fluido corrente, continuità del discorso, e immagini isolate autosufficienti». Le immagini, le visioni, le sensazioni, gli oggetti, pur conservando, e anzi accentuando, la loro evidenza e la loro concretezza, verrebbero in pari tempo immersi in una ininterrotta corrente (quasi un flusso di coscienza) di pensiero ed espressione, spesso dal carattere onirico ed allucinatorio. Emblematico, al riguardo, un testo celebre, Il gelsomino notturno, dominato dalla caratteristica “logica del sogno”, ovvero da un repentino, rapidissimo, e all'apparenza irrelato, susseguirsi di immagini, visioni, lampi, simboli, allusioni, denotanti, in particolare, l'affiorare di una sessualità repressa e rimossa, che nel testo in questione si traduce nel vagheggiamento, quasi voyeuristico, della vita coniugale e della procreazione. 

Rilevante, poi, anche se non sempre esplicito e palese, come ha notato Maurizio Perugi, il richiamo a Dante, al quale Pascoli dedicò imponenti ed ispirati, a tratti visionari, volumi di esegesi, e che pare, nel complesso, suggerirgli di tentare egli stesso, attraverso lo studio teso all'arte, alla fusione di natura e cultura, meditazione e creazione, un cammino di purificazione e di liberazione dalla prigionia angosciosa delle sue ossessioni e dei suoi rimpianti.

Nell'esegesi pascoliana, il Lete, fiume dell'oblio e della purificazione dai peccati, non è che una prosecuzione, e insieme una depurazione e un compimento, dell'Acheronte, la «trista riviera» della dannazione. La sofferenza accettata, infine quasi masochisticamente goduta, il dolce e tentacolare inferno dell'esistenza, del lutto, della solitudine, della nostalgia, sarebbero tesi verso l'oblio, la purificazione, la riconciliazione (emblematico di questa disposizione esistenziale è un testo come Foglie morte, tutto teso ad una possibile rinascita, ad una possibile purificazione da ogni scoria). «Fuori le aluccie pure, / tu che costì sei vivo!» ‒ mentre vivi-morti, espulsi dall'esistenza, rigettati da tutti i regni, erano gli ignavi danteschi. 

Non a caso, proprio e soprattutto nei Canti di Castelvecchio, e in particolare in testi come Il Ciocco (dal respiro quasi poematico) e Il bolide, la poesia pascoliana spazia dalle realtà minute e circoscritte del microcosmo rurale alle vastità cosmiche ed astrali. E, se mi si passa la metafora, è, analogamente, una vera e propria, sterminata e scintillante, costellazione di modelli letterari prossimi e remoti che Pascoli richiama e fa roteare intorno a sé, al perno della propria coscienza creatrice, per rappresentare la vastità di un cosmo pervaso tanto dall'inevitabile distruzione, quanto da una febbrile ansia di rinnovamento e di ciclica, inesauribile rinascita (affascinante, e modernissima, nel Ciocco, la profezia del «primo Selenita», del nuovo capostipite o eroe che, dopo la distruzione della terra, darà origine, sulla luna, a una nuova civiltà).

Si va dagli antecedenti latini (il Traina ha richiamato, ad esempio, il componimento delle Selve di Stazio in cui la statua colossale di Domiziano incarna l'axis mundi, la colonna celeste che congiunge la terra al cielo) a quelli, più prossimi, offerti dalla letteratura  francese, in primo luogo da Victor Hugo, al cui poemetto Magnitudo Parvi, nelle Contemplations, Pascoli deve forse l'analogia tra i fuochi terreni e quelli celesti, tra i fervidi focolari delle case, ricettacolo di quel tepore e di quegli affetti da cui il poeta si sentiva escluso, e il remoto tremolio delle galassie, come pure le immaginose analogie e sinestesie dell'«aia azzurra» per indicare il cielo e delle «voci di tenebra azzurra» («les tenèbres de l'azur») per evocare i bisbiglii sommessi del crepuscolo (ma non si deve dimenticare Sully Prudhomme, poeta astrale per eccellenza, che nella Voie lactée raffigura le lacrime di luce, il luminoso pianto degli astri persi nella loro dolorosa solitudine).

La conoscenza poetica trascende, compie e purifica quella scientifica, ancorata all'esteriorità e alla superficie dei fenomeni. La poesia, si legge nel discorso L'era nuova, «è ciò che della scienza fa coscienza». 

L’uomo non temé di contristare il suo simile, non temé di ucciderlo, non temé di uccidersi, perché non sentì più l’irreparabile. Io so il Peisithanatos, qual è. Io so chi persuade a violare, in sé e in altrui, la vita. È chi, nel nostro animo, prima violò la morte.   

La poesia, abbracciando la totalità, il cosmo, l'universo, immagini visibili e parziali, ombre luminescenti e tremolanti, dell'assoluto e della trascendenza, contribuisce a redimere l'uomo (che, in modo prometeico o faustiano, credendosi grazie alla scienza immortale e semidivino, presume di avere diritto di vita e di morte sui suoi simili) immergendolo in cicli e armonie eterne ed assolute, ed astraendolo dunque da se stesso, ponendolo su di un piano superiore e sereno.     

Il «pigolio di stelle», come dice il Gelsomino notturno, il canto silenzioso, il muto pianto intermittente degli astri è simile, per certi versi, al canto indecifrabile, arcano e sciamanico, delle voci naturali. Entrambi i canti, l'uno silenzioso, esclusivamente visivo, l'altro sonoro ma apparentemente indistinto, selvoso, indecifrabile, sono espressioni nebulose, enigmatici  affioramenti, di un inconscio remoto e primordiale. 

Il canto delle rondini è la «lingua che più non si sa». Nell'Agamennone di Eschilo, analogamente, la voce oscura, enigmatica e minacciosa di Cassandra, la profetessa di sventure condannata a non essere creduta, è aghnòs phonè bárbaros (v. 1052), «ignota barbara voce», indistinta ed informe, refrattaria al logos, al ragionamento articolato ed argomentato; tragedia, del resto, l'Agamennone, che si apre proprio con la grandiosa visione del cielo notturno, degli astri luminosi signori del tempo, che scandiscono l'avvicendarsi delle stagioni.   

Anche nelle luce melodiosa delle stelle, come nella voce della natura, Pascoli cercò, come Dante, la purezza, l'eterna pace, la lontananza dal mondo e dai suoi odi. Essenzialmente tragica è, in fondo, la sua ispirazione: poesia alimentata dal fuoco di quello stesso dolore che essa raccoglie e sublima, mutando le lacrime in gemme, e schiudendo laicamente, quasi in una sorta di cristianesimo senza Dio, tutto raccolto nel grembo della natura con la sua vitalità e i suoi cicli di nascita e disfacimento, una prospettiva di rinascita e di catarsi, un pianto che, come dice la prefazione di Myricae, si faccia, purificato, «rugiada di sereno». 

Attendo di vedere le loro foglie morte

rinverdire un poco nei miei occhi.

Attendo che la luna dalle celesti dita

socchiuda le porte nel silenzio. 

Così Maeterlinck, uno dei poeti simbolisti a lui più vicini. 

Simbolismo tragico è, in fondo, quello di Pascoli; agognata, sofferta e forse impossibile redenzione, nella poesia, di un'esistenza lacerata e infranta: ricomposizione, per citare Melanie Klein, nella forma artistica, del trauma primigenio, quello che devasta il nido dell'infanzia e getta l'individuo nei tormenti immedicabili e nelle pulsioni irrisolte dell'età adulta. 

Questo cammino di purificazione, certo, nella vita come nella poesia, rimase per Pascoli incompiuto. Ma in questa tensione incompiuta, in questo irrisolto contrasto sta forse l'essenza della sua perenne modernità. 

                                                                                                                  Matteo Veronesi