Annalisa Cima, ambigua Musa fra Montale e Palazzeschi 

(apparso a stampa in écritures, n. 12, 2021)

Andandosene rapita da una polmonite appena un po’ più violenta di quelle che l’avevano tormentata per tutta la vita, in séguito ad una malattia infantile – lasciandosi avvolgere dalle tenebre con il rifiuto di un ultimo ricovero, forse perché, oltre a voler evitare sofferenze inutili, sentiva di aver compiuto ed esaurito la propria così ombrosa e controversa missione terrena di contestata, forse in parte illegittima, vestale della memoria –, Annalisa Cima ha portato con sé gli enigmi che ancora avvolgono la genesi, la costituzione e l’affiorare, a frammenti e stazioni successivi e parziali, del montaliano Diario postumo.

Non credo necessario ripercorrere nei dettagli la vexata quaestio dell’autenticità dell’opera. Essa è ricostruita in modo fin troppo minuzioso, e risolta in modo forse fin troppo drastico per l’apocrifia, da Federico Condello in un ponderoso, fittissimo e un po’ capzioso volume, a cui ha fatto séguito un convegno bolognese comunque innegabilmente rilevante, se non altro, per l’interazione interdisciplinare tra filologia, grafologia, critica stilistica, stilometria computazionale basata su dati statistici e condotta con strumenti informatici e modelli matematici complessi, ma che forse mal si adattano all’irriducibile individualità, alla mutevolezza insondabile, alla natura eminentemente e intimamente qualitativa ben più che quantitativa e quantificabile, del discorso poetico1

Può darsi che, nei prossimi decenni, la communis opinio sia destinata ad attestarsi su di una posizione intermedia, riconoscendo l’esistenza (che parrebbe del resto innegabile anche alla luce degli stessi più consumati e collaudati metodi della stilometria computazionale, concentrati addirittura sulla frequenza degli engrammi di due lettere, sui costituenti minimi, presemantici, divisi tra valori fonosimbolici, del resto non separabili dal significato che li fa emergere e li enfatizza, e  funzione logico-sintattica delle terminazioni2) di un originale nucleo montaliano, formatosi in un contesto colloquiale, dialogico, conviviale, non scindibile dalla diretta frequentazione e dal fitto dialogo intellettuale (una sorta di moderno symphilosophein) fra il poeta e la sua Musa, ma inevitabilmente, forse, alterato, o addirittura interpolato (ma questo è forse un destino difficilmente evitabile di tutte le opere postume), da una prassi filologica perlomeno disinvolta, che a volte anteponeva al feticcio dell’esattezza e del “rigore scientifico” il ricordo personale, l’enfasi evocativa, la volontà di rafforzare o portare compimento un monumentum aere perennius (ed è qui che, effettivamente, la Museificazione, come suggerisce il titolo di questo numero monografico, si lega alla Musificazione)3.  

Come ricordava Oreste Macrì entro il fuoco della più fervente polemica, in una delle sue articolate risposte ad Isella4  che, curiosamente, il Corriere rifiutò di pubblicare, condannandole, fino ad ora, ad una sostanziale marginalità, « la filologia, fondata sulla tradizione testuale, molto di rado oltrepassa l’archetipo verso l’originale. I grafologi non c’entrano proprio»5

Esiste, nell’opera postuma, un nucleo insondabile, un «nocciolo duro» che precede, trascendendola, la più o meno accertabile materialità delle testimonianze. Il contenuto di verità, si potrebbe dire con Benjamin lettore di Goethe, può andare oltre il contenuto fattuale, fino ad oscurarne con la sua luce la fattuale consistenza – e resistenza.  

Interessante, e poco o punto studiato, è il rapporto fra il Diario postumo e La Casa di Olgiate (edita anch’essa postuma, sempre presso Mondadori, per le cure di Renzo Cremante e Giancafranca Lavezzi, nel 2006). 

Opera, quest’ultima, sicuramente autentica e autografa, eppure paradossalmente apocrifa, perché costituita (a parte il bellissimo testo eponimo) da briciole e frustuli e aborti che, c’è da credere, in nessun caso Montale avrebbe voluto veder pubblicati ; eppure non priva di contatti, sul piano tematico e stilistico, e specialmente metrico, con il Diario postumo. Anche nei taglienti e insieme amari epigrammi della Casa di Olgiate, ancora privi del labor limae, dell’ultima mano, abbandonati con noncuranza o con amara ironia, o forse con tragica rassegnazione, con una disperazione lucida e distante, alle mani della governante, si trova la stessa metrica irregolare, franta, brevilinea, ansimante, che già a partire da un intervento di Giovanni Raboni (il quale parlò sùbito, in ciò, in fondo, non lontano dal vero, di un Montale che, tentando di far rivivere il sé stesso di un tempo, l’immaginario lirico della sua prima stagione, poi offuscato da un diarismo amaro, corrosivo, prosastico, aveva finito col dare l’impressione di un pianista dalle « dita intorpidite o anchilosate dall’artrosi » che cercasse di ridestare le armonie di un tempo da « un pianoforte invaso dai topi e dalla muffa6»), e poi negli studi più recenti, è parsa indizio di falsità del Diario postumo.

Invero, però, simili anomalie, lacerazioni e disarmonie sottolineavano a volte, già nel primo Montale, le alterazioni percettive di uno spazio-tempo bergsonianamente e einsteinianamente distorto, ora contratto ora dilatato, lampeggiante, puntiforme.

Così si spiega l’anomalia, o la rarità, metrica dell’accento in quinta sede, su cui qualcuno ha insistito7. Nel primo Montale, tale accentazione (« più chiaro si ascolta il sussurro », « che non sa staccarsi da terra », « per miracolo tace la guerra », « qualche disturbata divinità », « la dubbia dimane non t’impaura », « ma trapunge le ore vuote », o, in Corno inglese, un’intera sequenza: « e il mare che scaglia a scaglia, […] / il vento che nasce e muore / nell’ora che lenta s’annera / suonasse te pure stasera / scordato strumento ») sottolineava, perlopiù, uno stato di transizione, di metamorfosi percettiva, di nuance, di limbica incertezza; e così l’accentazione ricorre nel Diario postumo, pur essendo così rara nella pronuncia più netta, scandita e tagliente delle raccolte coeve (da Satura ad Altri versi) certamente autentiche.

In questa luce, come ho già fatto notare altrove8, si potrebbero forse spiegare alcune movenze e alcuni ritmemi del Montale postumo: « [...] se decidessi d’essere / padre all’improvviso » (Se la Mosca ti avesse vista) ; « in un tempo che vola / come i tuoi trent’anni » (Gennaio o trent'anni): due casi, questi ultimi, ove la cadenza settenario-senario sottolinea l’eccezionalità del momento o la fuga degli istanti; « Mi sorprende la vita stessa / in quest’ora, amica / l’ala del destino ignora se tra / gli assenti noi saremo insieme » (Quando sarai imperatrice: ove la sospensione, la fluttuazione del metro sono, precisamente, espressione di una temporalità analogamente sospesa, indecisa, trascesa dall’incertezza del destino, dal vuoto dell’assenza) ; « È il saperti uguale / in un tempo diverso che forse / m’addolora » (Ex abrupto), dove l’irregolarità metrica – cadenza senario-decasillabo – enfatizza lo straniamento temporale) ; « d’essere un eone decaduto o un uomo / che per paura è diventato muto » (Ed ecco, nel tentativo maldestro), dove l’atipico accento di quinta cade esattamente su « eone », l’Aiòn degli gnostici, l’eternità decaduta e alienata nel tempo e nell’immanenza : ed è interessante notare che a questo concetto gnostico di eone Montale alludeva in un articolo del 1950, mettendo in dubbio che le individualità dei poeti potessero, fra le sollecitazioni, le emergenze e le pressioni dell’età contemporanea che comprimeva « il punto di tangenza fra l’artista e il tempo », essere cristallizzate in « eoni [...] del tutto indipendenti dalla cronaca dei fatti umani9»); « un altro antro, nel quale affonderemo / per poi emergere con contorni sfumati » (Siamo burattini mossi da mani ostili), dove il ritmo verbale riflette la dilatazione del tempo nell’eterno dell’oltrevita.

Difficile, spesso, nelle opere postume, dire dove finisca la volontà dell’autore e dove inizino l’intervento, e a volte la manipolazione, o addirittura la mistificazione, del curatore. A maggior ragione a proposito di testi, come quelli del Diario postumo, nati spesso da dialoghi, incontri, conversazioni (perfino Isella, il più risoluto nel negare l’autenticità dell’opera, riconosceva, sul “Corriere” del 20 luglio 1997, che in quei versi potessero essere rimaste incastonate « frasi colte al volo nella conversazione orale col poeta »), occasioni mondane e salottiere (a queste ultime andranno forse ricondotti i testi più scadenti). La curatela post mortem, anche se forse troppo invasiva, non faceva che prolungare, oltre la morte, quel dialogo. 

È stato un poeta dalla sensibilità di Alberto Bertoni ad annoverare, fra le diverse ipotesi, quella di una genesi del Diario da un gioco letterario che consisteva nel comporre testi a quattro mani, un verso a testa, come in un intreccio di voci, in una sorta di dialogo cantato in cui la Musa era coautrice oltre, e forse più, che ispiratrice : gioco che i protagonisti avrebbero compiuto « trasferendone gli esiti spuri, sovrapposti e artisticamente debolissimi all’autenticazione di un notaio10».

Ad ogni modo, Montale e Cima erano, senz’ombra di dubbio, avvezzi a questo gioco, fra il poetico, il mondano e l’amicale, o, se si vuole, a questa elegante e delicata mistificazione. 

Così nacque la traduzione a quattro mani di un testo di Emily Dickinson, inclusa nel volume Eugenio Montale – profilo di un autore, apparso da Rizzoli nel 1977 per le cure della stessa Annalisa Cima in collaborazione con Cesare Segre :


« To see her is a picture –

To hear her is a tune –

To know her an Intemperance

As innocent as June –

To know her not – Affliction –

To own her for a Friend

A warmth as near as if the Sun

Were shining in your Hand. »


« Vederla è un quadro −

Ascoltarla è una musica 

Conoscerla un eccesso

Così innocente come giugno −

Non conoscerla − afflizione −

Averla come amica

È come se nella tua mano

Ardesse un calore simile al sole. »


« I have no Life but this –

To lead it here –

Nor any Death – but lest

Dispelled from there –

Nor tie to Earths to come –

Nor Action new –

Except through this extent –

The Realm of you – »


« Non ho altra vita che questa –

Da condurre qui –

Né altra morte – per tema

Che mi scacciasse da lì –

Non ho vincoli con universi futuri –

Né azioni nuove –

Se non entro quest’orbita  –

In tuo potere.»11

Sarebbe interessante (come Pierre Louÿs nei suoi scritti, da poco tornati in auge, sulla presunta collaborazione fra Molière e Corneille, curiosa questione a cui il Montale giornalista dedicò, significativamente, un articolo, in cui fra l’altro ammoniva, in un modo che può apparire oscuramente profetico, che « certe misteriose collaborazioni […] spiegano troppo per spiegare qualcosa e volendo risolvere evidenti incongruenze creano inverosimiglianze ancora maggiori12») cercare di decostruire, di decomporre il testo scindendo l’apporto della Musa da quello del Poeta. Certo è, però, che quell’« eccesso » (quasi l’excessus mentis dei Mistici) che rende « Intemperance » non è lontano dal senso di alterità e di trascendenza che spesso connota le epifanie femminili nella poesia di Montale. « È il segno d’un’altra orbita : tu seguilo », dice un lapidario verso di Arsenio, celebre testo di Ossi di seppia. 

La consonanza profonda, anche fonico-ritmica, ai limiti del subliminale, di questo excessus (come del « quest’orbita » che nella seconda traduzione rende « this extent ») con l’« altro antro nel quale affonderemo » del Diario postumo può dischiudere una spia significativa. L’opaca immanenza del testo si apre ad una luce più alta.

In quest’ottica dialogica si colloca anche, nel Diario postumo, il componimento (intitolato L'investitura) dedicato a Zanzotto, il Serenissimo:


« Lo rileggevamo.

E le parole rimbalzavan tra noi

aligere faville sfuggite dal profondo

bruno color della pietra focaia.

Come limpida finì quella giornata

nel ricordo è ancora viva.

Quando varcherò il confine designato

il vostro hochetus alla memoria

eluderà gli abissi di silenzio ? » 


Qui anche la duplice autocitazione, anzi la singolare contaminatio di se stesso (« le parole fra noi leggere » di Due nel crepuscolo sovrapposte all’« aligero folletto » di Upupa, ilare uccello calunniato) confluiscono in una dimensione dialogica che è, però, un hochetus, ossia singhiozzante e franta pur nell’intreccio e nel contrappunto. 

Stefano Agosti, nel notare13 che il testo conteneva, nell’espressione « faville sfuggite dal profondo / bruno color della pietra focaia », « una delle più acute formulazioni critiche avanzate su questo autore » (formulazione, peraltro, in sottile accordo con ciò che Montale scrive, su Zanzotto, in veste di critico, accennando ad « un fluido », ad « un’acqua che scaturisce dal sottofondo della coscienza e dalla natura stessa », ad una musica scandita, o meglio franta, come l’hochetus, da « balbettamenti », « iterazioni », dal « metronomo » del « batticuore»14) qualificava la Musa ispiratrice come Androgino, « messaggero » e « guerriero », incarnazione dell’unità degli opposti, circolare veicolo di una fusione e di una sovversione di passato e futuro, morte e generazione (« io sarò alvo per chi non mi smemora », si legge in Come madre, il ventiquattresimo testo del Diario postumo – verso che richiama l’« altro antro » a cui si accennava, il primigenio grembo, sepolcro e utero, da cui scaturisce, emblematicamente, questa distorta e singhiozzante voce d’Oltretomba). 

Ma si verifica, addirittura, un’inversione di ruoli (resa ancora più radicale e stridente dal contrasto – enfatizzato dallo stesso incespicare del ritmo dei versi – tra l’affinità spirituale e la distanza anagrafica, con una vertiginosa e straniante sfasatura esistenziale) fra Poeta e Musa : « È il saperti uguale / in un tempo diverso che forse / m’addolora. Una lieve brezza / tra barbagli di luce solleva / nugoli di sabbia e spume. E / ciò che viene a galla ex abrupto / è ch’io sono la musa e tu il cantore » (Ex abrupto). 

Figura androgina, oltre che guerriero e messaggero la dedicataria è anche cantore. Tre ruoli primordiali, arcaici, legati alla sfera maschile, ora attribuiti ad una figura la cui identità è diluita e trascesa dall’assoluto del simbolo.

Sarà lo stesso Zanzotto, in chiave squisitamente metaletteraria, a dare di questi versi la migliore, o se non altro la più simpatetica, interpretazione : « Il lontano e criptico hochetus (che è canto funebre per un amico scomparso) richiama, in una figura rarissima, del tutto imprevedibile, il sentimento primordiale della continuità della memoria, sulla quale si fonda ogni possibilità di poesia ed ogni atto di cultura, ci riporta al foscoliano onore di pianti15

In ciò la figura della Musa sprigiona tutta la sua originaria potenzialità. Memoria, Mnemosyne, era, per i Greci, la madre delle Muse. L’epifania della donna angelo (nel Diario postumo, letteralmente ed etimologicamente, « messaggero », « agile messaggero », portatore-portatrice di « messaggi cifrati ») fa irrompere l’eternità nel tempo, e, al pari della reminiscenza, eleva gli istanti transeunti all’aura dell’assoluto.

Proprio a questo riguardo si può notare un ulteriore punto di contatto fra il Diario postumo e La casa di Olgiate

Si legge nel testo eponimo, intitolato appunto La casa di Olgiate:


« Così i destini s’annodano, mia tigre, e intanto tu 

dietro lenti affumicate spii 

nugoli pigri e sull’Olona putrido 

l’efflorescenza dei disinfestanti. 

Si snodano i destini. Mai da me intraveduta, 

la tua casa friulana ora s’allarga 

nel desiderio, l’aia dove incontro al futuro 

irruppe la tua infanzia, e già volava. »


Emergono sottili consonanze con il Diario postumo, e segnatamente con la poesia La foce:


« No non t’allontanare

mio guerriero.

Lungo il percorso

che conduce alla foce

il vento furioso

scuote i vecchi rami.

E a ogni soffio di gelo

tremano i fogliami.

A volte, pavento nel silenzio

che arrivi la mannara

e tronchi ogni esitare. »


La giovinezza (là l’enigmatica Tigre diciottenne, qui l’androgino « guerriero » che riscuote e richiama il vecchio vate alla vita e alla creazione) si condensa nell’immediatezza del vocativo. 

Indirettamente, poi, il filo del tempo e delle Parche che là si annoda (come il filo che « s’addipana » in un’altra emblematica casa montaliana, La casa dei doganieri16) s’intreccia con l’implicita metafora eraclitea, presente nel secondo testo, del fiume temporale che potrebbe troncarsi, della mannaia (anzi della mannara, variante aspra, popolaresca ed arcaica, attestata ad esempio in Giacomino da Verona e nell’Anonimo Romano, tratto espressionistico che pare cadere precisamente per turbare la silente ed elegiaca sospensione della meditazione lirica) che potrebbe spezzare l’indugio della memoria e del vivere (allo stesso modo che, nelle Occasioni, e per l'esattezza in Non recidere, forbice, quel volto, la « forbice » recide impietosa un volto amato, ne fa cadere dal tempo il fotogramma della visione precipitandolo nell’abisso del buio : « Un freddo cala… Duro il colpo svetta. / E l’acacia ferita da sé scrolla / il guscio di cicale / nella prima belletta di Novembre »).

Il richiamo dell’incipit ad un celebre testo degli Ossi, Incontro (« Tu non m’abbandonare mia tristezza »), che a prima vista potrebbe apparire autocitazione maldestra e troppo esibita, può rivelare in quest’ottica, fra autoesegesi e sottile autoparodia, la propria giustificazione. 

La citata poesia Incontro così si conclude: « Prega per me / allora ch’io discenda altro cammino / che una via di città, / nell’aria persa, innanzi al brulichio / dei vivi ; ch’io ti senta accanto ; ch’io / scenda senza viltà. » Il senso e il presentimento dell’eterno, la luce tiepida del forte e femmineo messaggero oltretombale, possono rischiarare anche il dantesco « aere perso » dell’ormai sempre più prossimo descensus ad Inferos

Più che ad una posterità da beffare, o ad una gloria da irridere, o a una museificazione da esorcizzare in uno spirito quasi palazzeschiano di burla e di autodissacrazione, con questi estremi, fra ilarotragici ed elegiaci, accenti il vecchio poeta pensava forse al presente, ad un presente che goccia a goccia si avvicinava (nella sua individuale vicenda di uomo come in un intero panorama culturale) all’ultima sillaba; guardava, forse, alle incombenti tenebre da diradare un poco, quasi foscolianamente, con una luce amica.

Ma la luce memoriale e sovratemporale della Musa sembra irradiarsi anche sulle altre diafane, quasi indefinibili epifanie femminili della raccolta postuma. 

Anche nel Diario postumo compare, indirettamente, come destinataria di una missiva, Adelaide Bellingardi, contraddistinta dal senhal di Adelheit, la stessa giovane a cui è dedicata, sotto il nome di Chantal, una poesia del Diario del ‘71 e del ‘72, Il trionfo della spazzatura : 


« Si procede assai bene tra la lordura

se una Chantal piovuta qui dal nord

vi accoglierà con una sua forbita

grazia più chiara e nitida dei suoi cristalli.

[...]

Lei stessa, la ragazza, difende meglio

la sua identità se per raggiungerla

ha circumnavigato isole e laghi

di vomiticcio e di materie plastiche. »


Difficile non sentire, in questa metrica volutamente zoppicante, fra ipermetrie e movenze prosastiche, in questo lessico dimesso pur nell’evocare una cristallina, foscoliana charis, lo stesso tono fra galante e straniato, lirico e dimesso, affettuoso e sfiduciato, del Diario postumo

Ad essere « difesa » dalla volgarità del mondo è qui l’«identità» della giovane, mentre nel testo prima citato era l’«alone di mistero» dell’intellettuale. Di un mondo «immerso in un pattume» parla un altro testo del Diario postumo, Ma c’è chi. E, come fa notare Vincenzo Di Benedetto17, alla «lordura» del Trionfo della spazzatura corrispondeva, nella prima stesura, proprio « pattume », termine quanto mai quotidiano, realistico, antisublime, consono al diarismo e al prosaismo dell’ultimo Montale.

Questo sottile reticolo concettuale e intertestuale, questo rizomatico labirinto di rispondenze e di echi, addirittura sepolto, in parte, sotto la laboriosa stratificazione delle varianti, avrebbe preteso da un falsario notevoli doti rabdomantiche. 

E viene in mente anche, in Altri versi, quella che è forse in assoluto l’ultima poesia di Montale,  dedicata ad una Musa in cui la figura di Clizia si sovrappone a quella di Cima, tanto che l’identificazione, nella critica, ha oscillato fra le due: «Quello che importa è che dal bulicame / s’affacci qualche cosa che dica / non mi conosci, non ti conosco; eppure / abbiamo avuto in sorte la divina follia / di essere qui e non là, vivi o sedicenti / tali, bambina mia » (Alunna delle Muse); dove la fulgida epifania della Musa preserverà forse, attraverso la sacralità della memoria, e pur se entro quel tremulo ma salvifico alone d’incertezza, di mutevolezza e di aleatorietà che sempre avvolge la fortuna postuma, la parola del poeta dal dantesco, flegetonteo « bulicame » (dall’ « Olona putrido », dalle « materie plastiche », dal « vomiticcio »), dal magma impuro e ribollente della materia e del tempo.   

Le « lenti affumicate » della Tigre della Casa di Olgiate sono, poi, le stesse di Cesare Segre nel ritratto, certo affettuosamente ironico, affidato al Diario postumo: « E se la luce tende a sfuocare / quel suo alone di mistero, egli / lo difende con lenti affumicate » ; e riscontro nel Diario postumo trovano anche la dilatazione spaziale operata dall’immaginario soggettivo e memoriale, l’idea della giovinezza, e della pura disinteressata amicizia (Cima possedeva proprio il « genio dell’amicizia », secondo un vivido ritratto di Claudio Magris18), in nome della poesia, come dimora e occasione di un tempo aurorale e palingenetico che dischiude nuovi, indefiniti orizzonti di possibilità imponderabili . 

Così si legge in Vivremo mai nella nostra, nel Diario postumo:


« Dall’alto potremo guardare

L’immenso parco, le siepi

Fiorite d’azalee, i pruni,

i mandorli, gli alberi bianchi rosa.

Al sorgere della luce veleggeremo

Tra cuspidi e cristalli illuminati

Della città ove risuonano sirene

E lo sguardo spazierà lontano. »


Una einsteiniana e bergsoniana dilatazione spazio-temporale, un’amplificazione dello spazio e del tempo, e dunque di luoghi e momenti nelle indefinite distese della memoria specchio dell’eterno, che già prendevano forma, con contorni ben più definiti, lirismo più alto e dizione più sicura, nel Montale delle Occasioni, e in particolare della poesia Il balcone. 

In quest'ultimo testo, all’indefinita apertura che parrebbe dilatare i limiti dello spazio fino a dissolverlo in un puro nulla, che è assoluta libertà ma anche assoluto annientamento (« Pareva facile giuoco / mutare in nulla lo spazio / che m’era aperto »), fa da salvifico contrappeso proprio l’epifania della Musa : « La vita che dà barlumi / è quella che sola tu scorgi ». 

Forse proprio al limite estremo della vita, sul confine fra vita ed oltrevita, fra una vita vissuta « al cinque per cento » e l’opaca e disillusa prospettiva di una sopravvivenza postuma, l’ « ansia di attenderti vivo » si è infine placata e composta in una consuetudine mite di colloqui sorridenti e sommessi – e proprio da quel colloquiale lirismo, che a qualcuno ha fatto pensare al Verlaine delle Fêtes galantes o al Mallarmé dei Vers de circonstance o dei lievi e mondani Éventails, nasce il Montale postumo.  

Ed è qui che Cima si pone, come Musa ambigua e sfuggente, quasi al crocevia tra Montale e Palazzeschi ; Cima che, in un’intervista rilasciata ad Elio Pecora (« Winbledon », febbraio 1991), vedeva in Montale « un uomo sospeso, uno che stava fra l’Ungaretti amatore instancabile e il Palazzeschi incline a ben altro »; un uomo sospeso ed irrisolto, dunque, fra eros e sublimazione, e che aveva dedicato versi di una eburnea emblematicità a donne (da Esterina a Dora Markus) venerate da lontano o appena intraviste, addirittura solo in foto. 

Emblematica la giustapposizione ad Ungaretti, alcuni tardi testi del quale, ad esempio Il lampo della bocca, denotano un eros senile intensissimo, fatto di fuoco e ferita, tutt’altro che risolto in pura agape, in affetto tra fraterno e paterno, o in quasi stordita contemplazione, come invece nel Diario postumo. 

E si potrebbe proprio giustapporre il Diario postumo alla plaquette ungarettiana del 1968 Dialogo, in cui la voce poetica di Ungaretti si intreccia a quella della giovane amata Bruna Bianco, magari ponendo l’una accanto all’altra due folgoranti epifanie incipitarie, dell’uno « Sulla porta si profila / un’aerea figura. Eccoti col girasole / delle tue aureole » (Mattinata), dell’altro « Sei comparsa al portone / In un vestito rosso / Per dirmi che sei fuoco / che consuma e riaccende » (Sei comparsa al portone) – tanto eterea e ieratica la prima quanto quasi dolorosamente intensa e vitale la seconda.    

A Cima Palazzeschi avrebbe dedicato, fra le altre, una poesia ancora poco nota, ma di un certo interesse (raccolta in Palazzeschi l’imprevedibile, plaquette edita a Lugano, nel 2010, dalla Fondazione Schlesinger), e della quale, peraltro, come per il Diario postumo, è stata messa in dubbio l’autenticità19:


Fanciulla mia, fanciulla dal passo lieve

leggero flessuoso, elegante, danzante,

passi fluttuante, fletti ondeggi

tra quadri e bicchieri trasparenti

come la tua pelle di peonia. 

Valoroso fiore sbocciato, rigoglioso

schiudi petali per dire versi angelici

e iracondi, effondi nettare al tuo

passare, nascondi inflorescenze

nuove, lungi da sibili, stridii, 

sorvoli la terra dolcemente –

ti lascio andare, suoli passare come

passano i sogni, torna presto20.


Certo è che non mancano le consonanze, specie a livello fonosemantico e fonosimbolico (in particolare per il ricorrere degli engrammi /nte/ e /ond/, per il danzante ritmo dattilico, per il lieve susseguirsi e trascolorare di evanescenti parvenze, per il lieve manto di figurazioni floreali) con l’opera palazzeschiana. 

Alcuni esempi, tutti da Lanterna, del 1907 (quasi che il vecchio poeta, puer senex, ringiovanito da una fresca fascinazione, recuperasse, come del resto il Montale postumo, una imagery della verde stagione, pur se velata, e a volte distorta, dall'accento ormai mutato): « La gente à la chiave del Tempio, la gente che è fuori aspettando, / rivolta impaziente a la luce / che ancora leggera traspare » (Tempio serrato) ; « In sera di festa, la veglia era piena, / smagliante di luci e di gemme, / fiorita da petali rossi e scarlatti / di dolci sorrisi lunghissimi, / fra muover di passi leggeri, / di piccoli passi dorati» (Palazzo Mirena) ; «Dormire nel lento romore grondante / di piccola fonte / vorrei, di lentissima fonte costante » (Rosario) ; « Talvolta vi passan leggeri dei manti fioriti ; / vi passano lenti cangianti splendenti » (Gioco proibito) ; « Un’onda più lenta si posa, / si segue un inchino profondo » (La Gavotta di Kirò). 

Né mancano riscontri anche nella prosa del Codice di Perelà : « E le coppie lentamente si muovono in un dolce ondeggiamento di culla, sembra ora che i pioppi si sieno avvicinati fra loro e si bacino, e anche gl’ippocastani nel fondo camminano due a due torno torno al viale abbracciati, lentamente come in un dolce sopore di vertigine tutto si muove ad un tratto, soave ondeggiamento di culla, in oscillazioni uguali, la lunga asta del viale e il disco del prato là in fondo.... il pendolo! L’immenso pendolo alto sul mondo che segna agli uomini gl’istanti… » (Il prato dell’amore)21. Il falsario, anche in questo caso, sarebbe dovuto essere così abile da ricalcare finemente, del dettato palazzeschiano, alcune delle fibre più riposte e più fini.  

Altre due sottili spie, nel Montale postumo, rinviano a Palazzeschi, e costituiscono, del pari, altrettanti interessanti nessi intertestuali fra il Montale poeta e il Montale critico. « Ad ogni apparizione / fai rifiorire vegetazioni nuove. / Non hai un cliché : / emergi singolare », si legge in Mattinata, sempre nel Diario postumo, di cui si è già citato, confrontandolo con Ungaretti, l’epifanico incipit. 

Espressione simile è riferita, dal Montale critico, proprio a Palazzeschi, che nella figura dell’uomo di fumo « parve fissare per sempre il cliché di se stesso22». In séguito, smentendo questa immagine cristallizzata, egli sarebbe giunto al « traguardo della poesia-pezzo-di-giornale, della poesia in maniche di camicia23». Difficile non vedere, qui, un riferimento di Montale alla propria stessa ultima stagione, quella in cui aveva dato, per citare un noto colloquio con Giorgio Zampa (« Il Giornale nuovo », 27 giugno 1975), il verso, più dimesso e colloquiale, del Libro di cui aveva precedentemente dato il recto.

E ancora intorno a Palazzeschi s’intreccia un nesso intratestuale all’interno dell’opera del Montale critico (nesso che peraltro coinvolge un altro testo controverso, la postfazione di Montale a Terzo modo di Cima, edita postuma nella riedizione del libro presso Il Nuovo Melangolo, nel 2006 24). 

« Auguro ad Annalisa Cima di continuare la sua fuga, lontano dall’incolore opacità delle scuole contemporanee, di restare ancorata al suo modo-mondo nel quale la poesia non si fabbrica, nasce dentro ; è una grazia che si manifesta all’improvviso, in Annalisa s’è manifestata25.»  Analogamente, Palazzeschi « ci insegna che la poesia ha bisogno di mestiere ma non è il mestiere ; che lo scrittore non dura a lungo se non affonda le sue radici in quell’amor vitae che è di pochissimi perché pochissimi sono gli spiriti liberi. Egli ci mostra che l’arte non è un terno al lotto, un regalo che può toccare a tutti, ma il risultato di una eroica predestinazione, di una grazia, se volete, che bisogna saper meritare e che non a caso sceglie i suoi eletti26. »

Espressioni analoghe in un articolo che si riferiva all’humus culturale lombardo, quello stesso da cui la poesia dell’autrice era sorta : « Ricordiamo però che la cultura non si fabbrica, nasce da sé quando è giunto il momento propizio. E il momento stesso è una grazia che bisogna meritare27.» 

La visione secondo cui « la poesia non si fabbrica, nasce dentro ; è una grazia che si manifesta all’improvviso » pare tutt’altro che banale e posticcia. Oltre che ad una concezione classica dell’ispirazione (lo « spiritus intus alit » virgiliano, l’ « est deus in nobis » di Ovidio), questo sentire rinvia ad immagini del Montale poeta: la Donna è « quella che scorporò l’interno fuoco » (La bufera e altro, Voce giunta con le folaghe), facendo del proprio vissuto e della propria sofferenza un lascito universale. 

E, in fondo, l’idea bergsoniana e pirandelliana del cliché da esorcizzare in nome di un tempo fluido e cangiante, nell’attesa della subitanea imprevedibilità propria della grazia e del miracolo – la visione di una Forma (insieme essenziale ed esiziale) verso cui pure la Vita, e la Poesia stessa, tendono, sempre insidiate dall’impulso e dalla tentazione di irrigidirsi in schemi, di rapprendersi in artefatte effigi –  attraversano e pervadono tutta l’esperienza del Montale critico e poeta. 


                                                                                                                                                    (Matteo Veronesi)


Note

1 Alludo, rispettivamente, a Condello Federico, I filologi e gli angeli: è di Eugenio Montale il Diario postumo?, Bologna, Bononia University Press, 2014, e agli atti di convegno Montale e pseudo-Montale. Autopsia del Diario postumo, a cura di Federico Condello, Valentina Garulli, Francesca Tomasi, Bologna, Bononia University Press, 2016.

2 Canettieri Paolo e Italia Paola, « Un caso di attribuzionismo novecentesco : il Diario postumo di Eugenio Montale », in Cognitive Philology, n° 6, 2013, p. 1-23. 

3 Questa mi pare, in definitiva, la posizione che emerge dalla compiuta e minuziosa disamina di Scartozzi Sergio, « Il “Fu Eugenio Montale”. Derubare il tempo tra memoria e delitto », in Ticontre. Teoria Testo Traduzione, n° 7, 2017, p. 225-248. 

4 Poi riunite in Cima Annalisa, Repliche mai pubblicate dal “Corriere della sera”, Milano, Scheiwiller, 1999. 

5 L'intero volumetto appena citato è ora consultabile all'indirizzo http://www.annalisacima.com/it/repliche-mai-pubblicate-dal-corriere-della-sera.html

6 Raboni Giovanni, La poesia che si fa, Milano, Garzanti, 2005, p. 69.

7 Zuliani, Luca, La metrica del Diario postumo, in Montale e pseudo-Montale, op. cit., p. 105 e seguenti.

8 Veronesi Matteo, « Le cifre e il senso. Ancora sull’autenticità del Diario postumo di Eugenio Montale », in Cenobio, a. LXV, n° 1, 2016, p. 5-18. 

9 Montale Eugenio, Il secondo mestiere : arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 1283-1284.

10 Bertoni Alberto, Postille laterali e postume, in Montale e pseudo-Montale, op. cit., p. 76. 

11 Le due traduzioni sono poi state accolte da Marisa Bulgheroni (dedicataria di una delle poesie del Diario postumo,  L'inafferrabile tua amica scrive, dalla barocca, mondana grazia, il cui gioco onomastico ricorda un testo del Montale minore, Ventaglio per S. F., in Altri versi) fra le versioni d'autore in appendice a Dickinson, Emily, Tutte le poesie,  Milano, Mondadori, 1997, p. 1647 (della stessa Bulgheroni andrà ricordato, a riprova di un fitto intreccio di scambi intellettuali che ruotavano proprio intorno alla Dickinson, un contributo confluito nel profilo montaliano curato da Cima stessa e da Cesare Segre: Dickinson/Montale: il passo sull'erba, in Profilo di un autore. Eugenio Montale, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 91-114).

12 Montale Eugenio, Il secondo mestiere: arte, musica, società, op. cit., p. 1216.

13 Agosti Stefano, Poesia italiana contemporanea: saggi e interventi, Milano, Bompiani, 1995, p. 107 e seguenti. 

14 Montale Eugenio, Il secondo mestiere: arte, musica, società, op. cit., p. 2892-2893.  

15 Zanzotto Andrea, Testimonianza, in Atti del Seminario sul Diario postumo di Eugenio Montale, Lugano, 24-26 ottobre 1997, Milano, Scheiwiller, 1999, p. 159.

16 Si può vedere al riguardo uno studio di Lavezzi Gianfranca, « Rammendo postumo alla rete a strascico : una poesia “dimenticata” di Eugenio Montale », in Studi di filologia italiana, n° 64, 2006, p. 431-443.

17 Di Benedetto Vincenzo, Sperimentazioni formali nel 'Diario postumo', in Atti del Seminario sul Diario postumo di Eugenio Montale, op. cit., p. 69.

18 Magris Claudio, « Poesia, magnifica ossessione a metà fra Mozart e Chopin », in Corriere della Sera, 13 marzo 2012.

19 Con la consueta, caustica decisione, e con la solita acribia un po' capziosa, da Condello, Federico, Postilla pseudo-palazzeschiana, in Montale e pseudo-Montale, op. cit., pp. 124-125. Fra le «desolanti banalità» che accomunerebbero il testo palazzeschiano al Diario postumo, e che indurrebbero ad attribuire alla mano della presunta dedicataria, in realtà spudorata falsaria, sia l'uno che l'altro, vi sarebbe l'immagine della donna che «passa come passano i sogni». «Banalità» (per la quale peraltro sarebbe fin troppo facile, quasi scolastico, citare antecedenti illustri, da Sofocle a Shakespeare) non ignota al Palazzeschi certamente autentico: « Più lento, più lungo, più piano / diviene il frammisto romore, / più radi si mischiano i piccoli passi, / più cheto il frusciare, / frusciare silente, / passare di veli che cadono a poco a la terra. / Si perde, si perde confuso ne l'ombra il romore, / la danza pian piano svanisce, si perde »  (La Gavotta, ancora da Lanterna – poesia fra l'altro tutta attraversata dalla stessa danzante onda ternaria, dattilica, di Fanciulla mia); mentre la consonanza fra le « inflorescenze nuove » del testo attribuito a Palazzeschi e le « vegetazioni nuove » di Mattinata, nel Diario postumo (topos letterario più che banalità – benché le due cose possano a volte coincidere) trova chiaramente e facilmente nella non banale chiusa del Purgatorio dantesco («Io ritornai da la santissima onda / rifatto sì come piante novelle / rinnovellate di novella fronda»), più che nel presunto estro falsificatore di Cima, l'antecedente comune (ma si potrebbe citare, per Montale, banale o meno che sia, un'altra chiusa emblematica, quella di Riviere, l'ultimo testo degli Ossi: «sentire / noi pur domani tra i profumi e i venti / un riaffluir di sogni, un urger folle / di voci verso un esito; e nel sole / che v'investe, riviere, / rifiorire!»).  

20 Cima, Annalisa, Palazzeschi l'imprevedbile, Milano-Lugano, Fondazione Schlesinger, 2010, p. 35.

21 Palazzeschi, Aldo, Il Codice di Perelà, Firenze, Vallecchi, 1920, p. 137.

22 Montale Eugenio, Il secondo mestiere: arte, musica, società, op. cit., p. 733. 

23 Ibidem

24 Si veda la velenosa e un po’ prevenuta analisi di Condello Federico, «Un’inverosimile prosa “di Montale” proveniente, come al solito, da Lugano », in http://www.leparoleelecose.it/?p=19893. Come sempre, la presenza di parole, espressioni o giri di frase rintracciabili in altri scritti di Montale (scritti, peraltro, cronologicamente vicinissimi a questa postfazione) può essere vista, a seconda dell’atteggiamento o del pregiudizio dell’interprete, come indizio di un maldestro e apocrifo centone o come conferma dell’autenticità del testo. I toni enfatici e celebrativi, così come alcune trascuratezze redazionali, si potranno forse spiegare con l’originaria natura del testo, ossia (a quanto mi confermò personalmente Cima) quella di appunti per l’intervento di Montale alla presentazione della prima edizione del libro, nel 1969, alla Galleria Cavour di Milano ; donde, forse, quell’« accumulo caotico di enunciazioni in paratassi, mediate da un asindeto affatto colloquiale » (la stessa colloquialità, in fondo, del Diario postumo), che induce Condello allo scetticismo. 

25 Il testo, prima di confluire nella citata edizione del Melangolo, fu anticipato dal «Corriere della Sera» del 27 gennaio 2006 e dalla Nuova Antologia, 607, 2011, pp. 133-139, senza che nessuno ne mettesse in dubbio l'autenticità.

26 Montale Eugenio, Il secondo mestiere: arte, musica, società, op. cit., p. 3054. 

27 Ibidem, p. 2943.