Lo specchio della nostra angoscia. Un'introduzione alle novelle di Pirandello

(prefazione a Luigi Pirandello, Le migliori novelle, Barbera, Siena 2008)

Luigi Pirandello, nato nel 1867 ad Agrigento da una famiglia altoborghese di tradizioni patriottiche e garibaldine (tradizioni il cui tramonto e il cui disfacimento saranno malinconicamente rappresentati dall’autore nel romanzo I vecchi e i giovani), visse ed incarnò nel modo più profondo e sofferto la crisi dei valori ideologici e sociali ottocenteschi, dalla quale sorsero le inquietudini e le ansie destinate ad animare la visione del mondo e dell’uomo propria del nuovo secolo. 

Dopo una solida formazione filologica avvenuta prima a Roma, poi in Germania, Pirandello si diede dapprima alla poesia, poi – su esortazione di Luigi Capuana, maestro del verismo – alla narrativa e al teatro, peraltro affiancando sempre all’attività creativa un’acuta e vigile riflessione critica e teorica, affidata ai saggi. 

I trionfi internazionali ottenuti – dopo gli iniziali insuccessi – dalla sua opera narrativa e soprattutto drammaturgica nei primi decenni del Novecento, culminati nel 1929 con la nomina all’Accademia d’Italia (che peraltro gli apparirà come una tetra e gelida «parata di scheletri»), nel 1934 con il conferimento del Premio Nobel, non attenueranno minimamente le ansie, i tormenti e le ossessioni di un uomo la cui esistenza era stata perennemente segnata nel 1903 dalla follia della moglie e da un pesante dissesto finanziario, negli ultimi anni dall’ombroso e contrastato sodalizio con Marta Abba, prima attrice della compagnia del Teatro d’Arte, fondata nel 1925 dallo stesso Pirandello.

Un connubio, quello con la Abba (gelida, distante, inafferrabile Musa ispiratrice), reso problematico, se non impossibile, non solo dalla differenza d’età, ma soprattutto dalle esitazioni, dai dubbi, dai tormenti introspettivi, dagli intellettualistici rovelli dello scrittore, che forse, nell’enigmatica  «atroce notte passata a Como» di cui parla l’epistolario intercorso fra i due, ebbe modo di sfiorare, ma non di compiere fino in fondo, quella totale e completa unione degli spiriti e dei corpi che bramava e nel contempo temeva, da cui era irresistibilmente attratto e nello stesso tempo segretamente, e forse inconsciamente, atterrito. 

Pirandello si spense nel 1936, dopo aver chiesto (lui che amava etimologizzare alla greca il suo cognome come “messaggero del fuoco”) che le sue ceneri fossero riposte in un’antica urna ellenica, da collocarsi infine, per l’estrema quiete, sotto una pietra ai piedi di un albero secolare, nel podere natio, denominato “il Caos”. 

«Figlio del Caos», appunto, si definiva, non senza un certo compiacimento, Pirandello. 

In effetti, la sua opera mostra, come abbiamo accennato, tutte le ansie e le incertezze, tutto lo smarrimento esistenziale, tuta la perdita di valori e di stabili punti di riferimento, che attraversano e  contrassegnano il clima e il panorama della cultura europea fra la dissoluzione del Positivismo (un movimento ottocentesco fondato sulla fiducia quasi assoluta nei processi, nelle conquiste e nelle previsioni del sapere scientifico) e il profilarsi di quelle irrequiete e multiformi correnti spiritualistiche ed irrazionalistiche che avrebbero contraddistinto, con i più diversi esiti culturali e storici, gli albori del Novecento. 

Conviene, qui, cedere la parola al Pirandello saggista, la cui riflessione, come detto, corre parallela al discorso creativo, ed è tanto strettamente legata ad esso che alcune pagine saggistiche si trovano a volte riportate, quasi alla lettera, nella scrittura narrativa o in quella teatrale. 

Nel saggio Arte e coscienza d’oggi, nato da una conferenza pronunciata a Napoli nel 1892, Pirandello afferma: «A me la coscienza moderna dà l’imagine d’un sogno angoscioso attraversato da rapide larve or tristi or minacciose, d’una battaglia notturna, d’una mischia disperata. (…) Mi par che tutto in lei tremi e tentenni. Alla calma fiduciosa di certa gente serena non credo». Si avvertono, qui, quasi lo stesso scetticismo e la stessa diffidenza di Montale nei riguardi degli «uomini che non si voltano», dell’uomo «che se ne va sicuro, / agli altri ed a se stesso amico, / e l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro»: il rifiuto, in altre parole, di ogni falsa, per quanto rassicurante, certezza, di ogni costruzione ideologica che cerchi di anestetizzare o di tamponare l’angoscia del vivere fissando, in modo dogmatico, punti di riferimento e “centri di gravità permanente” a prima vista saldi e indiscutibili, ma in realtà fallaci. 

Come ha notato Franca Angelini, le «rapide larve» di cui parla il passaggio appena citato sono, poi, molto simili ai “personaggi in cerca d’autore” che – secondo una metafora e una simbologia care a Pirandello, e che emergono in particolare da novelle come Colloqui coi personaggi e La tragedia d’un personaggio –  si affacciano allo studio dello scrittore e invadono il suo tavolo, chiedendo insistentemente e disperatamente di essere trasformati in creature d’arte, in figure che assumano consistenza, identità e capacità di agire sulla scena reale del teatro o su quella virtuale e mentale della pagina novellistica. 

Queste «larve» (non diverse, del resto, dai “lemuri”, dalle “spoglie fluidiche”, dalle entità oscure, incorporee, inafferrabili, di cui parlavano le dottrine spiritistiche, di cui Pirandello era cultore) non sono, poi, molto diverse dai Brownies, dai bizzosi ed enigmatici elfi che visitavano ed ispiravano Robert Louis Stevenson, il cui Strano caso del dottor Jekill e Mr. Hide presenta, in particolare per i temi (presenti del resto anche nella prosa dell’ultimo D’Annunzio) dello specchio, dello sdoppiamento, della dissociazione psichica, della perdita d’identità, parecchie affinità con l’universo pirandelliano (emblematica una novella come Stefano Giogli, uno e due, in cui, come poi in Uno, nessuno e centomila, il legame coniugale diviene una fonte di smarrimento, di sdoppiamento, di perdita di identità, di incapacità di riconoscere se stessi). 

D’altra parte, molte novelle  vengono, nel periodo di più intensa produttività del Pirandello drammaturgo (vale a dire, all’incirca, nel secondo e nel terzo decennio del Novecento), riadattate  per il palcoscenico e trasformate in testi teatrali, perlopiù atti unici. 

Basti qui citare, al riguardo,  Lumie di Sicilia, di ambientazione tipicamente isolana e veristica, L’uomo dal fiore in bocca,  più densa di implicazioni esistenziali e psicologiche e di scandagli e chiaroscuri introspettivi, La signora Frola e il signor Ponza suo genero, che, fondata sull’impossibilità, tipicamente pirandelliana, di distinguere la realtà dall’illusione, la verità dal sogno, diverrà, sulle scene, Così è (se vi pare), e La patente, di accesa e insieme amara evidenza rappresentativa e caratterizzante; ma l’elenco potrebbe dilatarsi a dismisura.

Vi era forse, in questa strategia e in questa prassi, anche una finalità commerciale, una risposta all’esigenza di sfornare costantemente nuovi testi tanto per i giornali (primo fra tutti il Corriere della sera), quanto per le scene. Ma, più in profondità, si può affermare che, in Pirandello, la stessa pagina novellistica nasca già, fin dall’inizio, con un’impronta, e per così dire con una vocazione, di natura teatrale, cioè drammatica, dialettica, incline all’animato e serrato confronto di visioni del mondo, percezioni del reale, identità spirituali e psicologiche diverse, contrastanti, difficili da conciliare e da ridurre ad unità.    

Del resto, in Pirandello la novella è, al pari del teatro, una forma atta ad esprimere la natura e le problematiche di una visione in senso lato tragica della realtà. Tragica non solo perché agitata e lacerata, come si è detto, da conflitti e contrasti logoranti e insanabili, che dividono e contrappongono i personaggi fra di loro e anche rispetto a se stessi, alle proprie ansie, alle proprie crisi d’identità, ai loro dubbi, al loro male di vivere, al loro speculare e schizofrenico sdoppiamento;  ma tragica anche perché gli eventi, la realtà e le esistenze appaiono talora (emblematiche, al riguardo, novelle come La mosca o la già citata L’uomo dal fiore in bocca) dominati e sovrastati da una necessità e da un destino superiori, insondabili, ineluttabili, crudeli, a cui l’uomo, del tutto impossibilitato a controllarli o a mutarli, non può opporre altro che la propria capacità di comprensione, la propria tormentosa autocoscienza, la propria consapevolezza dolente e travagliata, ma nel contempo venata d’ironia.  

Tipicamente pirandelliano è il personaggio-filosofo, portatore di una visione del mondo dolorosa, amara, disincantata, cupamente ironica, che egli subisce e soffre nel momento stesso in cui la mette fuoco e la enuncia. Si legga, ad esempio, Quando si è capito il giuoco: «L’Accadere, poiché l’Essere è eterno, sarà eterno anch’esso. Ora un accadere eterno, cioè senza fine, vuol dire anche senza un fine, capisci?, un accadere che non conclude, dunque, che non può concludere, che non concluderà mai nulla. (…) Tutti i dolori, tutte le fatiche, tutte le lotte, le scoperte, le imprese, le invenzioni…».  

Pirandello insiste più volte, nella sua opera di drammaturgo non meno che di saggista e di narratore, sul fatto che la vita «non conclude», che la vita non può, nella sua mobilità inarrestabile e nella sua incessante mutevolezza, fermarsi, fissarsi, consistere in una forma stabile, determinata, perenne. Concludere significa morire. Riflessioni simili a quelle sviluppate da Memmo nella novella appena citata si trovano, quasi con le stesse parole, in bocca al Padre dei Sei personaggi

Ma una vita che «non conclude», che non accetta limiti e freni, che si estende e si espande fino ad abbracciare i confini dilatati e sterminati della propria totalità e della propria infinità, deve, paradossalmente, risolversi e dissolversi nell’assoluto Nulla. 

Come diranno, da Heidegger a Sartre, i filosofi esistenzialisti (che Pirandello sembra, qui come altrove, anticipare), l’Essere, privato di confini, di contorni, di forme definite, di determinazioni particolari, di precise identità, viene totalmente annullato ed azzerato, e coincide, in ultima analisi, con il niente e il vuoto. In pari tempo, e per le stesse ragioni, l’Essere e la vita paiono anche privi di scopo, di finalità, di senso, e votati al nulla, all’annientamento, all’abisso.  

Solo creando ci si trova, solo attraverso la creazione artistica, solo attraverso il forgiare e il modellare forme palpitanti e plastiche di esistenza e di esperienza è possibile definire la propria identità, affermare e perpetuare la propria individualità in modo perentorio. 

Eppure, una breve novella dimenticata, I muricciuoli, un fico, un uccellino, apparsa sul Corriere della sera il 18 ottobre 1931, e che è merito di Sarah Zappulla Muscarà aver riportato alla luce, evidenzia proprio il dramma esistenziale del creatore, la cui «divina solitudine», come la definisce il Pirandello saggista riferendosi a Dante, è da un lato spazio quasi magico di libertà intellettuale e di sublime emancipazione dai vincoli del tempo e della storia, dall’altro «stanza della tortura», teatro di un individualistico tormento, di un vano supplizio, misconosciuto e silenzioso. «Uno che ha dovuto creare: ore che passavano per tutti, vita che si sarebbe dovuta vivere, sciogliere, spendere, consumare, e invece no: gli servivano per fermarla, quelle ore: e ore, ore, per tutta la vita. (…) Dover definire. (…) Definitivo. Questo è creare. E questo è vivere? La vita: creare, sì. Ma creare è far consistere: fermare: la morte». Creare significa definire, fermare, fissare, far consistere le forme e le parvenze mutevoli e fluide della vita e dell’esperienza. Ma finire significa morire e far morire. La creazione, che dovrebbe essere affermazione ed espressione di vita, è in realtà la tomba dell’essere, la paralisi e la stasi dell’esistere e del percepire, dunque la morte. 

Solo creando ci si trova, diceva la protagonista del testo teatrale Trovarsi, un’attrice che, a forza di incarnare donne diverse, di assumere diversi ruoli, di dare volto e voce alle più disparate e dissimili maschere, aveva finito per perdere la propria stessa identità, per non sapere più chi era. Ma, con tragico paradosso, quella stessa creazione che può essere fonte di autocoscienza, di conoscenza, di identificazione, diviene poi, in pari tempo, fonte di stasi e di deperimento, sepolcro di ogni manifestazione vitale, urna funeraria in cui giacciono ogni aspirazione e ogni anelito. 

Da un lato, l’arte è «l’unica possibilità di vivere tante vite. (…) Perché finzione? No. È tutta vita in noi. Vita che si rivela a noi stessi. Vita che ha trovato la sua espressione». «Vero è soltanto che bisogna crearsi, creare! E allora soltanto ci si trova». Dall’altro lato, però, la forma artistica, la fissità e la perennità della rappresentazione, sono anche immobilità, soffocamento, morte. Tragicamente, vita e morte, esistenza e annullamento, espressione e nullificazione sono presi entro un vincolo e un circolo eterni ed insolubili. Il primo polo si converte nell’altro, con inscindibile e indecidibile ambiguità. 

D’altro canto, nel fondamentale saggio L’umorismo, Pirandello, chiarendo i punti essenziali della sua poetica, spiegava come l’umorismo (non molto diverso, in fondo, dall’”ironia tragica” dei romantici tedeschi), caratteristica fondamentale della sua arte, nascesse dal «sentimento del contrario», cioè dalla profonda e meditata riflessione, amaramente e tragicamente ironica, dettata dagli aspetti più dolorosamente contradittori e paradossali (l’esempio riportato era quello della vecchia che si trucca e si agghinda goffamente per tentare di piacere ancora ad un marito più giovane) del mondo e dell’esistenza. Un «sentimento del contrario», quello appena ricordato, che – a riprova della natura di “scrittore nordico”, cioè riflessivo, meditabondo, filosofico, che contraddistingue Pirandello – appare assai prossimo all’ironia teorizzata da Friedrich Schlegel, celebre pensatore romantico tedesco del primo Ottocento, e concepita come «assoluta sintesi di assolute antitesi», come «continuo scambio, che sempre crea se stesso, di due pensieri che lottano l’uno con l’altro».   

Tanto l’esistenza priva di barriere, di confini, di limiti, margini, freni, quanto, all’opposto, la vita fermata e fatta consistere perpetuamente nelle forme perenni ed immutabili dell’arte (si legga al riguardo una novella come La vita nuda), si risolvono e sfociano nel nulla eterno e nella morte irrevocabile, senza speranza di risurrezione della carne, di reingresso nel tempo, nel mondo, nella storia. 

Chi giudicasse queste riflessioni pirandelliane incomprensibili, inafferrabili, troppo sottili, si troverà d’accordo con l’accusa di intellettualismo e di oscurità tanto spesso rivolta, in passato, all’autore. 

Analogamente tragica e pre-esistenzialistica appare la visione della realtà e dell’umano che anima la signora Leuca nella novella Pena di vivere così. La donna, che per uno spirito di carità un po’ artificiale e forzato ha nuovamente accolto in casa il marito che l’aveva ripetutamente tradita e le bambine che questi ha avuto da un altro matrimonio, viene, infine, nuovamente e definitivamente abbandonata. Ella avverte «questa pena che non passa, non già per lei soltanto, che forse soffre meno di tant’altri, ma per tutte le cose e tutte le creature della terra, com’ella le vede nell’infinita angoscia del suo sentimento che è d’amore e di pietà; questa pena che non passa, anche se qualche gioja di tanto in tanto la consoli, anche se un po’ di pace dia qualche sollievo e qualche ristoro: pena di vivere così…». 

Qui la sofferenza individuale non è vissuta egoisticamente, con un’autocommiserazione  compiaciuta e quasi narcisistica; secondo uno spirito che può far pensare, se ci si perdona l’ardito accostamento, a San Francesco (la cui visione del mondo è spesso evocata, pur se indirettamente, da Pirandello, ad esempio nei Quaderni di Serafino Gubbio o in Uno, nessuno e centomila) non meno che a Schopenhauer o all’ultimo Leopardi, il dolore del singolo è immerso in una visione universale, che accomuna la pena dell’individuo al vasto, immenso travaglio, alla sofferenza per così dire corale, che pervadono il creato intero. 

La novella, ancora una volta (proprio nell’epoca che vede, con la «tragedia moderna» di D’Annunzio e di Maeterlinck, il tramonto e la morte di questo genere teatrale propriamente inteso), assume la funzione di divenire la forma del tragico moderno, l’espressione della consapevolezza, della comprensione e della presa di coscienza della sofferenza e dell’angoscia insite nella condizione umana. 

Per citare il titolo, assai efficace, della monografia di un autore anglosassone, Pirandello è The Mirror of our Anguish, lo specchio della nostra angoscia. Egli può offrire all’uomo contemporaneo un efficace e privilegiato strumento conoscitivo che gli permetta di assumere consapevolezza del proprio smarrimento, di leggere il proprio vuoto, di illuminare – e dunque, per quanto debolmente e tristemente, rischiarare – l’assenza di valori e di certezze che abita la sua anima inaridita e alienata da una società oppressiva e disumanizzante.

Nel saggio Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa, Pirandello, se da un lato  attenuava e sfumava le distinzioni formali fra romanzo, romanzo breve e novella, considerando tutti questi generi, in pari misura, possibili veicoli di una visione del mondo e di una situazione esistenziale, dall’altro, in modo apparentemente sorprendente, avvicinava, riprendendo una suggestione di Niccolò Tommaseo, la novella alla tragedia greca. 

Tanto l’una quanto l’altra, a suo dire, «condensano in piccolo spazio i fatti, i sentimenti che la natura presenta dilatati o dispersi». Entrambe sono «intese a dipingerci non le origini, non i gradi delle passioni, non le relazioni di quella con i molti oggetti che circondano l’uomo e servono a sospingerla, a ripercuoterla, ad informarla in mille modi diversi, ma solo gli ultimi passi, l’eccesso insomma». 

Nella novella, dunque, come nella tragedia, gli eventi e i sentimenti sembrano precipitare, ciechi e furiosi, verso l’ineluttabile catastrofe finale, verso il cieco approdo, la definitiva rovina che li attende, a cui essi sono immutabilmente destinati e tesi. 

In Il treno ha fischiato, ad esempio, il protagonista, oppresso da una ripetitiva e alienante esistenza di impiegato, ridotto da uomo a «macchinetta di computisteria» (allo stesso modo che Serafino Gubbio, protagonista del romanzo citato, è ridotto a vivente «appendice» della macchina,  a creatura che non vive se non per girare ossessivamente la manovella della cinepresa), reagisce alla propria condizione scivolando improvvisamente in uno stato di follia generato, non si sa come, dal fischio del treno, che sembra evocare e spalancare agli occhi dell’immaginazione spazi sterminati, infinite possibilità di viaggio e di esperienza. 

E, a proposito della follia di Belluca (la quale lascia sconcertato il capoufficio, incarnazione di un ordine e di un potere alienanti e spersonalizzanti), si potrebbe quasi parlare, citando Félix Guattari, di una «pazzia liberata dall’infermità mentale», di una follia intesa non come malattia da curare ma piuttosto come creatività incoercibile, irrefrenabile estro, fantasia ribelle ad ogni vincolo, «potenza del senza-senso» posta come difesa e barriera di fronte al dolore. Follia, insomma, come fuga creativa ed immaginosa dagli ostacoli e dai vincoli, rigidi e grevi, della realtà, come solo rifugio dal male di vivere che incombe sulle vicende umane, dunque come sola possibile, paradossale “salute”.  

In Fuga, il protagonista sale d’un tratto, senza alcun motivo plausibile, sul carro di un lattaio, e inizia su di esso una folle corsa, destinata, con tutta probabilità, alla morte. Anche in quel caso (come, del resto, anche se in modo diverso e con un diverso esito, nell’Enrico IV), la follia, improvvisa o lungamente covata, appare l’unica possibile via di fuga da un’esistenza opprimente, assurda, priva di gioia e di senso. 

In altri racconti, come Cinci, Il chiodo, In silenzio, E due!, Adolescenza, la follia, la catastrofe, l’«accecamento» tragici si manifestano nella forma dell’omicidio o del suicidio, spesso immotivati o comunque sproporzionati alle cause che li generano, e perlopiù commessi da adolescenti, che in Pirandello appaiono non già come creature innocenti e candide, ma piuttosto, secondo la definizione freudiana, come «perversi polimorfi», come esseri in cui Eros e Thanatos, la pulsione erotica e quella di morte, la tensione e l’attrazione verso il piacere e quelli, opposti, verso l’annullamento e l’autodistruzione si manifestano nel modo più ambiguo, contaminato, inquietante, e spesso  coesistono e si confondono gli uni con gli altri. 

Infine, in una splendida novella come Il viaggio (in cui sembra di avvertire, per certe ambientazioni notturne, autunnali, tenebrose, l’eco del Boito di Senso) l’unica possibile evasione da un’esistenza segnata e dominata dall’angoscia e dal lutto pare essere essere offerta da un sognante e rapito abbandono al gorgo cupo e silenzioso della regressione, della morte, dell’annullamento, della goethiana «discesa al regno delle Madri», del resto già sanciti e prefigurati dal male incurabile che mina la protagonista, e il cui esito fatale lei stessa, con il suicidio, non farà che anticipare.

«Come se un lume d’altri cieli le si accendesse improvviso in quel vuoto incommensurabile, ella sentì d’attingere in quel punto quasi l’eternità, d’acquistare una lucida, sconfinata coscienza di tutto, dell’infinito che si nasconde nella profondità dell’anima misteriosa». L’unica possibile via di fuga dall’angoscia opprimente, dalla percezione e dal pensiero, tragici ed ossessivi, della morte, del cono d’ombra che incombe sull’esistenza umana, dell’ineluttabile e sostanziale “essere per la morte” a cui è fatalmente vincolata la condizione terrena, sembra essere offerta – come in Leopardi e come in Schopenhauer – dalla serena contemplazione, dal naufragio dell’anima nell’infinito, nell’eterno, nella perenne ed immutabile quiete.

Per riprendere il parallelo con la tragedia greca, si può dire che, come nell’Agamennone di Eschilo, il messaggio di fondo della visione pirandelliana sembra essere il pathei mathos, la «comprensione nella sofferenza» e attraverso la sofferenza; la capacità di scrutare il fondo dell’abisso, di “capire il gioco”, per quanto questa comprensione sia fonte di amarezza e di disincanto, di cogliere le recondite regole di un Fato – o forse di un cieco Caso, di una Volontà senza leggi, imprevedibile, cieca ed assurda – che pure non si possono mutare. 

Ma forse, più che ad Eschilo, si dovrebbe guardare ad Euripide, di cui Pirandello tradusse in dialetto siciliano il dramma satiresco Il Ciclope, restituendone con toni accesi e iridati tutta la vitalità e la solarità mediterranee. Euripide, il poeta rimproverato, come lui, di avere introdotto nel dramma un eccesso di raziocinio e di intellettualismo, e di avere accreditato una visione negativa e pessimistica del rapporto fra l’uomo e il suo destino inafferrabile e cupo.  

Nell’Avvertenza  generale al grandioso progetto delle Novelle per un anno, varato nel 1922 dall’editore Bemporad (progetto poi rimasto incompiuto: delle trecentosessanta novelle previste, ne videro la luce, in vari volumi, poco più di duecento, a cui si deve aggiungere un’altra ventina di novelle ripudiate), Pirandello si rifaceva esplicitamente alla tradizione classica (dapprima boccacciana, poi cinque-seicentesca) delle raccolte di novelle articolate in Notti o in Giornate, e comunque inserite entro una “cornice”, una struttura e un impianto narrativi articolati, organici, omogeneamente scanditi. 

Tuttavia, lo stesso autore si affrettava a precisare che, nella sua opera, le novelle si sarebbero susseguite, giorno dopo giorno, «senza che dai giorni, dai mesi o dalle stagioni nessuna abbia tratta la sua qualità». Le novelle erano paragonabili a «tanti piccoli specchi» che ritraevano e illuminavano aspetti particolari della vita, ma che, presi nel loro insieme, «la riflettevano intera». 

Ora, nell’universo pirandelliano, lo specchio e l’immagine riflessa sono, per antonomasia, luogo e spazio non del riconoscimento o della conoscenza certa, ma piuttosto dell’alienazione da sé, della crisi di identità, dell’estraneità a se stessi, dell’impossibilità e dell’incapacità di riconoscersi. Dunque, il fatto che le novelle siano paragonate a piccoli specchi testimonia che il disegno e l’ingranaggio complessivi della vasta raccolta progettata, e solo in parte compiuta, non rappresentano l’ordine, ma il caos, non comunicano e trasmettono una lettura organica e gerarchica della realtà e dell’umano ma, piuttosto, la consapevolezza rassegnata, per quanto lucida e vigile, della loro finale insensatezza, della loro essenziale indecifrabilità, della loro sostanziale mancanza di fondamento e di significato. 

La conflittualità tragica che attraversa il mondo e la concezione pirandelliani si riflette e si ripercuote anche sul piano strutturale. Si assiste, sotto questo punto di vista, ad un altro dei paradossi cui l’autore ci ha abituato. Da un lato, il Pirandello novelliere aspira e tende all’organicità e alla compiutezza di un disegno generale (quale doveva appunto essere, se fosse stato completato, quello delle Novelle per un anno), ad un macrocosmo vasto, disciplinato, completo e coerente in ogni suo elemento. Dall’altro, egli deve sperimentare – forse  non soltanto per meri limiti temporali ed operativi, ma per una ragione profonda e sostanziale – l’impossibilità stessa di quel disegno e di quell’organicità. 

L’incompletezza e l’incompiutezza finali e ultime del disegno complessivo delle Novelle per un anno confermano una volta di più che l’universo pirandelliano – davvero simile, in questo, a quello della relatività einsteiniana o delle geometrie non euclidee – è privo di quel centro, di quell’equilibrio, di quei confini e di quelle proporzioni fissi e certi a cui pure sembra aspirare. Come l’universo della fisica quantistica, così il mondo esistenziale e testuale pirandelliano, finito ma illimitato, si dilata verso una curva estrema e inesauribile, e sembra espandersi interminabilmente, lungo la direttrice di un raggio che costantemente si accresce. 

Il cosmo novellistico pirandelliano, con la sua estrema incompiutezza, sembra voler negare – per riprendere e variare i termini su cui prima ci siamo soffermati – la possibilità stessa di una fine, di una conclusione, di una forma definita e definitiva, che equivarrebbero, come abbiamo visto, alla stasi e alla morte, mentre la novella, nel suo costante oscillare fra microcosmo e macrocosmo, fra il singolo testo e l’insieme dell’opera, fra la vicenda o la situazione particolari e la visione generale, per quanto frammentata e problematica, del mondo e dell’uomo, deve comunque cercare di rappresentare o di rispecchiare la vita – sia pure una vita su cui aleggiano costantemente  l’insidia e lo spettro della nullificazione e dell’insensatezza. 

Senza bisogno di scomodare Einstein (che pure, stando ad una testimonianza dello stesso Pirandello, durante una tournée americana dello scrittore italiano gli avrebbe detto: «Noi siamo fratelli»), già Pier Maria Rosso di San Secondo, figlio spirituale del drammaturgo e, con le sue “farse trascendentali” divise fra realtà e simbolo, grottesco e metafisica, deformazione e sublimazione, suo ideale continuatore, sulla «Nuova Antologia» del febbraio 1916 notava, nelle novelle pirandelliane, «una curiosa inframmettenza prepotente dello stato d’animo dell’autore nell’atmosfera della novella che rivela la sua impazienza dinanzi al modo d’essere delle sue stesse persone nella trama delle narrazioni: si direbbe ch’egli le inciti, le incalzi, le soverchi, voglia distruggerle nell’atto stesso della creazione». La prosa pirandelliana era attraversata da una sorta di diabolico «respiro sulfureo che crea e distrugge», e come dal «desiderio di una liberazione completa delle stesse forze in cui il sentimento s’esprime, per una comunicazione più diretta, più lirica». 

Si tratta di un processo particolarmente evidente in quelle novelle (l’esempio più caratteristico è forse dato dalla Signora Frola, ma si potrebbe evocare anche l’atmosfera surreale, onirica, allucinata, sospesa, inesplicabile, di Una giornata o C’è qualcuno che ride, di Soffio o Di sera, un geranio) il cui finale resta, in vari gradi e modi, aperto, vago, incerto, e il cui scioglimento, tutt’altro che chiaro ed univoco, è in varia misura lasciato al lettore, che dovrà decidere – o viceversa, e sarà  forse proprio questo l’atteggiamento più opportuno, più proficuo, più rispettoso dell’enigma che il testo racchiude, rinunciare a decidere – fra la «verità» e l’«ombra», la «realtà» e il «sogno», la conoscenza e l’illusione, la soluzione certa e l’affabulazione ingannevole.  

Sembra – osservava Rosso di San Secondo con notevole sensibilità di lettore – che il discorso pirandelliano cerchi costantemente e spasmodicamente di deformare o di oltrepassare i confini canonici del genere novellistico, le consuetudini, i ritmi, le strutture del racconto breve. 

Ai primi dell’Ottocento Edgar Allan Poe, nella Filosofia della composizione, aveva teorizzato, riferendosi al genere della short story (racconto breve), quella «unity of effect or impression» («unità di effetto o di impressione»), quella solida e coerente coesione di premesse, intreccio e sapientemente ritardato e dosato scioglimento, di cui egli stesso fu maestro nei suoi Racconti del mistero. 

Pirandello, invece, tende, violando almeno in parte le convenzioni del genere, a lasciare – specie nelle ultime novelle,  più allucinate, magiche, surreali – il finale in dubbio e in sospeso, o quantomeno ad affidare alla pagina un messaggio esistenziale e filosofico che non si esaurisce nella vicenda, che continua, per così dire, ad aleggiare nel silenzio che segue la fine della lettura, a lievitare e a germinare pazientemente nell’anima e nella coscienza dell’interprete.  

In coerenza con  questi presupposti, si dovrà ritoccare lo stereotipo di un Pirandello poco attento allo stile, preoccupato – da “scrittore filosofico” – più dei concetti che della forma e della lingua, le quali sarebbero, in lui, troppo spesso piatte, indifferenti, incolori. In realtà, la pagina pirandelliana – basti qui ricordare certe novelle di ispirazione siciliana e verista, prima fra tutte La Giara –  è spesso ravvivata e animata da caratterizzazioni grottesche, contorte, atipiche, tese fino ai limiti della deformazione espressionistica, che non mancano di ripercuotersi sullo stile e sulla lingua, i quali tendono, per così dire, ad assumere, attraverso un lessico e una sintassi mossi, frammentati, secchi, angolosi, le stesse stentate posture, gli stessi sogghigni, le stesse contorsioni, dei personaggi e delle situazioni che vogliono rappresentare. 

Ma queste intense e significative caratterizzazioni stilistiche non si incontrano solo nelle novelle di carattere realistico o grottesco; esse si trovano, forse ancora di più, in quelle di carattere psicologico ed introspettivo, o in quelle dominate da un registro simbolico, surreale, enigmatico. Varrà ancor oggi ciò che Giacomo Debenedetti osservava, nei Saggi critici, a proposito della raccolta Una giornata: il «recitativo pirandelliano», il fluire sommesso ed ininterrotto dell’introspezione psicologica e dello scandaglio esistenziale, è «un recitativo che narra fuori della durata. (…) L’incalzare sintattico di Pirandello, il galoppo delle notazioni di continuo rinnovate e riperdute, segna la corsa di quell’eterno, implacabile presente». 

La percezione pirandelliana del tempo, così interpretata, appare prossima al continuum spazio-temporale della relatività einsteiniana non meno che alla «durata reale» di Bergson e di Proust, al tempo vissuto nell’intimità e nella soggettività della coscienza, non matematicamente e piattamente scandito, in modo esterno ed oggettivo, dagli orologi e dai calendari. Il tempo di Pirandello appare costantemente teso a bruciare, a consumare, a trascendere ed oltrepassare i propri confini per toccare una dimensione superiore, posta oltre la vita e oltre la morte, in cui non vigano più le partizioni e i confini del tempo umano e terreno. Il protagonista di Una giornata, che ha inesplicabilmente bruciato d’improvviso, in poche ore, lo spazio di un’intera vita, trovandosi vecchio d’un colpo, è preso e catturato in questo immobile, intemporale continuum, ed è forse destinato a non morire mai, a ripetere eternamente quella giornata estrema, ultima e prima. 

Lo specchio è, come sempre in Pirandello, spazio non del riconoscimento e della conferma, ma dello smarrimento, dello sgomento, della crisi d’identità. «Da quale remota lontananza i miei occhi, quelli che mi par d’avere avuti da bambino, guardano ora sbarrati dal terrore, senza potersene persuadere, questo viso di vecchio?». 

La tensione sintattica della prosa di Pirandello – spesso spezzettata e balbettante, tramata di ripetizioni, di sospensioni e di indugi che sembrano non portare da nessuna parte, e che fanno tornare e ripiegare assiduamente le parole su se stesse – aderisce in modo fedele a questo tempo che tende costantemente a superare e a trascendere se stesso per attingere la sfera dell’eterno, il «perenne presente» delle entità metafisiche.

Questo perenne presente non è, poi, molto diverso dal «Tempo assoluto» a cui Bergson, in Durata e simultaneità, riconduceva – fondendoli e pacificandoli in una superiore, profonda unità – gli sdoppiamenti, le discontinuità, le lacerazioni dell’universo einsteiniano, le «contrazioni di estensione», le «dilatazioni di Tempo», le «rotture di simultaneità», i «Tempi multipli», le reciproche e speculari alterazioni spazio-temporali, a cui la nuova visione del mondo apriva la strada.  

Si può forse, in quest’ottica, considerare superata e annullata ogni opposizione, in Pirandello, fra realtà e simbolo, fra rappresentazione concreta e recondito, celato messaggio esistenziale. 

Innegabilmente, come già si è accennato, le origini della narrativa pirandelliana sono da ricondurre al verismo, vale a dire a quella corrente letteraria della seconda metà dell’Ottocento, viva soprattutto nel Mezzogiorno, che, facendo propri e rivisitando in modo originale alcuni aspetti del naturalismo francese (dai fratelli Goncourt a Zola), aspirava ad una rappresentazione della realtà, degli ambienti, delle situazioni sociali il più possibile oggettiva, priva di moralismo e di sentimentalismo, quasi “sperimentale” e “scientifica”. 

Ai canoni del verismo si rifaceva decisamente la novella d’esordio di un Pirandello appena diciassettenne, Capannetta- Bozzetto siciliano, apparsa nel 1884 sulla «Gazzetta del popolo della Domenica».  

Nel corso degli anni e dei decenni, la vena narrativa di Pirandello divenne via via  – senza che si possano agevolmente e nettamente individuare e scandire le tappe precise di questo processo – meno vincolata alla materialità, alla concretezza, al realismo dei caratteri, degli scenari, delle rappresentazioni, e si avviò sempre più verso il prevalere della caratterizzazione psicologica, dello scavo introspettivo, della meditazione esistenziale, fino alla rarefazione surreale e alle stratificazioni simboliche che caratterizzano, come si è detto, le novelle dell’ultimo periodo.

Peraltro, come dimostra il celebre Discorso di Catania, il Pirandello teorico e saggista non rinnegò mai la grande lezione del Verga, il cui netto e potente realismo descrittivo e la cui concretezza ed evidenza rappresentative sono contrapposte all’estetismo dannunziano, di cui Pirandello subiva in certa misura il fascino (basti, per averne conferma, accostare certi scorci veneziani della novella pirandelliana Il viaggio ad analoghi spunti lirici del Fuoco di D’Annunzio), ma che per certi aspetti gli appariva vacuo, esteriore, superficialmente ornamentale, sterilmente decorativo.

Tuttavia, anche una novella come La mosca, di tipica ambientazione siciliana, e contrassegnata, in alcuni aspetti della caratterizzazione dei personaggi e degli scenari, da una certa impronta verista, si apre, poi, a significati simbolici, e a meditazioni esistenziali di natura tragica, incentrate sulla precarietà e sulla drammatica assurdità della condizione umana. Il piccolo ed insignificante insetto (di cui, si noti, proprio un antico rétore siciliano, Gorgia di Lentini, si divertiva ad intessere un capzioso e paradossale Elogio) diviene, con tragica ironia, con un controsenso devastante, l’occasione e la fonte della catastrofe e dell’annientamento. 

Ma ancora più significativo sarà il confronto, canonico, fra il Verga di Rosso Malpelo e il Pirandello di Ciaula scopre la luna. Si tratta di due testi del tutto simili nell’ambientazione (la miniera, con  tutte le sue ingiustizie e la sua disumanità) e nei personaggi (due adolescenti condannati a lavorare in quell’ambiente opprimente e claustrofobico). 

Tuttavia, in Verga agisce pienamente la suggestione del naturalismo francese e del determinismo positivista, l’idea, enunciata da Balzac, che «umanità» ed «animalità» siano «assimilabili», perché entrambe soggette a leggi impersonali, ferree, sancite dalla natura e dalla specie in modo ineluttabile: Rosso Malpelo (al pari della Lupa di un’altra celebre novella, o di Diodata in Mastro don Gesualdo) non può in nessun modo sottrarsi ad un destino che è segnato e scritto nel suo aspetto fisico, nella sua condizione, nel suo stesso nome o soprannome. 

In Pirandello, invece, resta aperta la possibilità che l’uomo trovi pace e ristoro nella contemplazione della natura, nella quiete immensa e limpida del paesaggio notturno. «S’era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove il brulichio infinito delle stelle, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce. (…) Non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento….. Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la luna». Qui gli ovvi echi leopardiani, dall’Infinito ad Alla luna, sembrano quasi sovrapporsi al sollievo dantesco del pellegrino che esce dall’«aura morta» infernale «a riveder le stelle». Ma, su tutto, riaffiora l’idea schopenhaueriana del silenzio, del nulla, del «vuoto» (la «sterminata vacuità», appena illuminata da qualche astro fioco e smarrito) come soli rimedi e sola cura al dolore insensato. 

Si può riaprire, in quest’ottica, una pagina particolarmente suggestiva dell’Umorismo. «In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, (…) la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo». Proprio in questo vasto e cupo lago di silenzio, che riflette angosciosamente il vuoto e l’insensatezza della condizione umana, precipita il giovane protagonista della novella In silenzio, che annulla nell’estrema follia di un omicidio-suicidio l’inaccettabile imposizione di una paternità spuria e rinnegata, solo giuridica e formale, priva di valore e di significato affettivi.          

La morte immerge e scaglia l’uomo nelle regioni oscure dell’ignoto. Quell’ignoto che viene indagato, da un ostinato ed etereo isolamento, dal professor Maraventano, tipico esempio di personaggio-filosofo pirandelliano, avulso dal mondo e rinchiuso – come poi sarà il Montale di Notizie dall’Amiata, con tutta probabilità influenzato proprio da quella novella – nella «cellula di miele / di una sfera lanciata nello spazio», tutto preso dalle sue ineffabili e trascendentali speculazioni.  

L’approdo è, anche in questo caso, nichilistico, basato cioè su una visione radicalmente pessimistica dell’uomo, la cui esistenza appare priva di senso, di scopo e di valore. «Sul serio», si chiede Maraventano, «potete credere, pretendere che un’idea o un sentimento nati in questo niente pieno di paura che si chiama uomo debba essere il Dio, debba essere quello che ha formato l’universo infinito?». Gli uomini, scrive Pirandello in una pagina saggistica, danno il nome di Dio a «quel che in fondo è buio pesto». 

Non si tratta, come potrebbe apparire, di una proclamazione di ateismo. Pirandello è un autore non certo privo di inquietudini spiritualistiche e di simbologie cristiane (basti pensare alla figura di Mattia Pascal, che nel cognome alluderebbe alla Pasqua, nel nome alla «mattezza», alla «divina follia» del santo, del profeta e del veggente). Semmai, vi è qui l’idea che Dio sia, nella sua essenza,  inconoscibile per l’uomo, inaccessibile alle sue limitate capacità di comprensione, e venga dunque infine a coincidere, nella sostanza, con qualcosa di molto simile al «nulla eterno» di cui parlavano i mistici tedeschi.  

In  una luce non diversa andrà visto l’interesse, cui già si è accennato, che Pirandello nutrì sempre (come, del resto, il suo maestro Capuana) per le dottrine antroposofiche e spiritistiche. In alcune novelle (ad esempio La casa del Granella e Dal naso al cielo), così come nell’episodio della seduta spiritica nel Fu Mattia Pascal, l’occultismo sembra dischiudere uno spiraglio sull’oltre, sull’ignoto, sull’oscuro, insomma su quel fondo insondabile ed inconoscibile che la luce diurna dell’esperienza ordinaria e della conoscenza razionale non è in grado di raggiungere e rivelare. Ma questo oltre, questo ignoto, questo rimbaudiano Inconnu coincidono poi, ancora una volta, con il nulla ed il vuoto, con l’abisso di una fine e di un annientamento a cui non è possibile sottrarsi, e su cui il pensiero e la scrittura pirandelliani sembrano tornare ossessivamente, lungo le volute di una sorta di moto spiraliforme e concentrico.

In questo senso, non sarà casuale se, a livello intratestuale (sul piano, cioè, degli echi, delle corrispondenze, delle linee di continuità e di affinità che tramano e attraversano, pur nella sua varietà e nella sua incompiutezza, l’insieme delle Novelle per un anno), l’abbandono estatico e lo smarrimento di Ciaula alla vista della luna siano del tutto affini a quelli della protagonista, ormai irrimediabilmente destinata alla morte, di Il viaggio.

Come a dire che l’immensa pace della natura e quella, cupa e gelida, della morte (o dell’amore) sono in fondo simili, e possono dare entrambe, in eguale misura, la quiete dell’annullamento, il sollievo della dissoluzione, e sono, infine, le due maschere, uguali e distinte, di uno stesso nulla quintessenziale ed assoluto.  

Come scriveva Schopenhauer nelle ultime pagine del Mondo come volontà e rappresentazione, «quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora sono pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è dissolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è esso – il nulla». Ad uno stesso, purissimo nulla  approdano, infine, tanto l’esistenza, quanto la sua negazione. 

La scoperta della luna è scoperta del vuoto, del nulla, e della pace estrema ed incolmabile che può derivarne. E la realtà è via via oltrepassata, trascesa, quasi dissolta dalla parola letteraria, nel momento stesso in cui essa la afferra e la rappresenta.    

L’immagine del brulichio disperso ed insensato si trova anche – riferita al vano ed assurdo agitarsi delle masse sospinte sul teatro della storia dalla forza cieca e roboante della macchina bellica – nella novella Berecche e la guerra (la quale, come è stato notato, presenta, proprio sotto questo punto di vista, significative affinità con l’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra). 

Il «perenne presente» della letteratura supera il tempo della storia, e (in virtù di un processo concettuale e retorico non molto diverso dall”ironia romantica” degli idealisti tedeschi) fa apparire indifferenti e insensati gli eventi che lo segnano e lo scandiscono. 

Sotto questo profilo, l’amaro ed ironico distacco con cui Pirandello guarda agli eventi della prima guerra mondiale non è troppo diverso dall’atteggiamento ambivalente che egli ebbe nei confronti del fascismo, accettandolo, in ultima analisi, come un momento inevitabile, come una sorta di necessaria farsa sui palcoscenici della storia, senza aderirvi mai (al di là dell’assenso formale, e forse per certi aspetti opportunistico) in modo profondo e convinto. 

Emblematica, al riguardo, C’è qualcuno che ride, novella allucinata, surreale, kafkiana, letta il più delle volte come una velata e larvata parodia del clima plumbeo e cupo dell’Italia fascista, ma che andrà forse interpretata, in un’ottica più ampia, come reazione ironica, beffarda, paradossale, umoristica insomma, a qualunque situazione storica e a qualunque struttura di potere che vogliano opprimere od imbrigliare l’unicità e l’individualità esistenziali dell’uomo, con la sua libertà e la sua angoscia, le sue meditazioni e i suoi dubbi, la sua fluidità vitale e il suo intimo dramma. 

Il riso – beffardo o forse isterico e sardonico, espressione di una festosa, carnevalesca derisione o, più probabilmente, di un tormento, di un disagio, di una tensione e di una sofferenza contratte, represse, e divenute infine insostenibili – è l’unica possibile risposta all’assurda ed ossessiva seriosità di una vita in realtà intimamente priva di significato, di valore, di scopo, e che è tutta, in definitiva, come Pirandello stesso amaramente affermava in un’intervista, una «ben triste buffoneria». E infine, a ben vedere, il terrore e lo smarrimento dell’innocente famigliola che rideva in una stanza lontana altro non sono se non lo specchio concavo e deformante di quelli che attanagliano, per contro, i cupi cerimonieri di un’adunata senza scopo e senza valore, di un rituale inerte e svuotato di significato.  

Alcuni hanno voluto sottolineare l’aspetto mistificante, e per certi aspetti reazionario, della visione pirandelliana, che tenderebbe a presentare l’alienazione e l’angoscia della condizione umana come un dato sostanziale, eterno, immutabile, fatalmente legato a quella stessa condizione in quanto tale, e non riconducibile ad un determinato contesto storico e sociale, suscettibile di mutamento e di miglioramento. Presentando il disagio dell’uomo nella società contemporanea come un fattore essenziale, fatale, inevitabile, Pirandello finirebbe per giustificare, o almeno per accettare con rassegnazione, l’ordine borghese e capitalistico vigente, che provoca ed alimenta quello stesso disagio e quella stessa angoscia. 

In realtà, la perenne attualità, e il profondo, sentito umanesimo, del nichilista Pirandello consistono nel suo porci, senza veli, senza false consolazioni, senza fallaci certezze o promesse ideologiche, davanti all’abisso del nostro vuoto, al problema essenziale della nostra esistenza nella sua gratuità e nella sua insensatezza, insomma all’enigma ultimo, e forse insolubile, del nostro tormentoso essere nel mondo.  


                                                                                                                                  Matteo Veronesi