La tomba del poeta. Un'introduzione alle poesie di Poe

(prefazione a  E. A. Poe, Poesie, Barbera, Siena 2006)

«Tal che in se stesso infine l’eternità lo muta»: questa la condizione, questo il destino del poeta, secondo il verso d’apertura, giustamente celebre, della Tomba di Edgar Poe, il sonetto celebrativo con cui Mallarmé – artefice, fra le altre cose, di traduzioni, aderentissime e profondamente congeniali, del poeta americano, certo meno famose, ma non meno appassionate e pregnanti, di quelle cui Baudelaire consacrò la sua lunga, quasi religiosa devozione – salutava, nel 1875, la posa, a Baltimora, di un tardivo monumento. Quel «blocco di basalto», quel «calmo blocco quaggiù caduto da un oscuro disastro», dall’abisso o dal caos, foschi e ribollenti, della lucida follia, dell’incubo calcolato e limpido di cui si nutriva l’ispirazione poetica, che l’America, come Mallarmé scriveva nella nota che accompagnava il componimento, aveva deposto «sull’ombra leggera del poeta» per essere sicura che egli «non ne uscisse mai più», rappresentavano in certo modo il tardivo e insufficiente tributo che, quasi a voler sanare un oscuro senso di colpa, una società e una cultura accordavano al genio inquieto ed inquietante che da esse era sorto e che esse stesse avevano rigettato, messo ai margini, contribuito forse a stroncare.

Ed era quasi una tragica ironia che il cippo fosse innalzato proprio a Baltimora, la città in cui Poe era stato ghermito, un trentennio prima, da una morte certo lungamente e dolorosamente preparata, in lunghi decenni di entusiasmi e tormenti, illusioni e abbattimenti, idealità e avvilimento, dal martirio prolungato e autoinflitto del gioco, dell’alcool, degli eccitanti (strumenti e corollari, del resto, come ben vedrà il Baudelaire dei Paradisi artificiali, di un’attitudine tormentosamente artificiale e autoanalitica, di un sottile ed acuminato «sofisma della follia», di un raziocinio protratto, paradossalmente, fino alla sovreccitazione, all’allucinazione, all’accecamento, o, come scriverà il Williams di Nelle vene dell’America, segni e gesti di una «disperazione» che era «prova», o conseguenza estrema, «di una serietà e di una dedizione troppo perfetta»); ma che ebbe, come causa diretta e occasionale, lo sventurato incontro con una masnada di galoppini elettorali, incarnazione deteriore e biecamente grottesca di quella democrazia americana ai cui lati degeneri (l’ottuso ottimismo, il pragmatismo gretto, gli utilitaristici miti di progresso) il poeta aveva contrapposto fieramente la propria erudizione autentica, vasta, preziosa, quasi sdegnosa, al di là di ogni falsa apparenza di faciloneria e dilettantismo, la sua consumata maestria stilistica e formale, infine i suoi stessi atteggiamenti esistenziali, raffinati e sprezzanti, di Southern gentleman, che quasi prefigurano il baudelairiano dandy «disgustato, sradicato, disoccupato», superbamente inutile, ostentatamente reietto, o il rimbaudiano e mallarmeano poeta che, «in sciopero davanti alla società», contrappone all’utilitarismo alienante e al tecnocratico efficientismo della neonata civiltà industriale l’autonomia, la purezza, la gratuità, la polemicamente esibita e rivendicata inutilità, del suo misconosciuto mestiere, o meglio della propria vocazione vitale ed incoercibile, per quanto disperata e vana. 

Emblematico di questo atteggiamento di parte della cultura americana nei confronti della scomoda eredità del nostro autore appare il giudizio dato, in una pagina del ’49, da un poeta-critico raffinatissimo come Allen Tate: per gli americani, se non anche «per la maggior parte dei moderni», Poe è «come un cugino decaduto», che però (come confermano i riverberi della sua luce contrastata e torbida sulle pagine di molta della maggiore lirica moderna, da Baudelaire a Mallarmé a Pascoli, che non per nulla si cimenterà egli stesso, sedotto da certe ombre cangianti, da certi brividi di vento e di morte, da certe onomatopee profonde e vibranti, nella traduzione del Corvo) «non si può escludere dalla nostra tavola». Eppure, lo stesso Tate cerca, poche righe dopo, in modo ingeneroso, e quasi sorprendente in un lettore della sua sensibilità, precisamente di cacciare Poe da tavola, di allontanarlo dal banchetto dei sapienti, negandogli, contro ogni evidenza testuale, cultura, stile, coscienza critica, accusandolo di primitività, di provincialismo, di amoralità stolta e irriflessa, in una parola di quella «volgarità» che pochi anni prima gli attribuiva, pur dovendosi inchinare di fronte alla cristallina perfezione formale, quasi parnassiana ante litteram, di testi come To Helen (al cospetto, insomma, dell’adamantino equilibrio, dell’imperitura e sovrastorica compiutezza che affascineranno appunto Mallarmé e Valéry), lo Huxley di Volgarità in letteratura

E nondimeno (a riprova del fatto che non sempre, nel discorso sulla letteratura, è verificato il principio logico della non contraddizione, e che talora, nell’eternità delle riletture, un autore o un testo possono volta a volta essere se stessi, il contrario e altro ancora) sarà proprio Tate a evidenziare, nella poesia di Poe, l’emergere di una «immaginazione angelica», di una componente di idealizzazione e di sublimazione che, sancendo la divaricazione e il divorzio dell’intelletto umano, chiuso nella purezza e nell’assolutezza della sua autocoscienza sovrana ed autarchica, dal mondo della vita e della natura, controbilancia o trascende, senza annullarla, la sfera, pur presente alla base dell’ispirazione poesca, dell’orrido, dell’abiezione, dell’incubo. Sennonché, a parere di Tate, proprio da questa tipicamente romantica scissione della sensibilità e dell’immaginazione dalla realtà del vissuto, più che da quella totale autonomia del segno poetico rispetto al dato reale che sarebbe stata perseguita dalla poesia moderna a partire dai simbolisti, nascevano l’ambiguità, la «vaghezza», e la conseguente «oscurità», almeno relativa, dei versi più riusciti.

Ma, al di là di giudizi mutevoli, contingenti, soggetti inevitabilmente al succedersi delle mode, dei gusti, delle ideologie, dei contesti storici e sociali, noi dobbiamo appunto cercare, nel poeta, quell’eternità – per quanto essa stessa, a sua volta, sfaccettata, cangiante, a volte contraddittoria – che lo fa diventare se stesso, che conferisce alle sue parole, ai suoi versi, alle sue profondità, spessore, consistenza, ma anche una sorta di trasparenza iridata e insieme spettrale, una  lucentezza pura e tersa di cristallo o di gemma, una lontananza che non è vuoto incolmabile o definitiva perdita, ma piuttosto spazio da saturare, superficie da ricoprire, invito al viaggio, sfera librata e libera di attrazione e di moto. 

Abbiamo appreso dal Sartre di Che cos’è la letteratura e dal Blanchot dello Spazio letterario che la parola letteraria è, in definitiva, la morte – che il “possesso perenne” e il “monumento più duraturo del bronzo” di classica memoria sono, nella sostanza, il sepolcro. Certi versi di Emily Dickinson, i quali dicono che, contrariamente all’opinione di alcuni, la parola, una volta scritta sulla pagina, non muore, ma proprio allora comincia a vivere, suonano, fra le labbra  gelide e quiete di una poetessa che più volte vide e prefigurò, nello specchio oscuro della poesia,  la propria stessa morte, come disperata ribellione, faticosa rimozione, o estremo esorcismo. Nell’abbandonarsi e giacere sulla pagina, nello stesso affidarsi e raccomandarsi alla memoria dei posteri, la parola si avvolge in un perenne sonno, si cinge di un alone di impalpabilità, di assenza, di distanza dalle cose. La sua eternità è morte, essa deve (anche questo può essere uno dei tanti significati, profondissimi e inesauribili, del Verbo che si fa carne) morire per poter risorgere nella luce vivificante delle riletture e delle interpretazioni. 

Ciò varrà a maggior ragione per quella “poesia pura” che proprio in Poe trova uno dei suoi modelli e maestri dichiarati: una poesia che afferma la propria assoluta autonomia, che rivendica a sé una sorta di esilio dal mondo, dalla società, dalla storia, che vuole e sa parlare solo di se stessa, della propria natura artificiale, della propria bellezza conscia e studiata, o addirittura della propria stessa tragica impossibilità, e giunge dunque a farsi critica di se stessa, puro specchio della propria essenza assoluta e intangibile. 

Il poeta artefice di una poesia simile è, precisamente, come dirà Mallarmé nell’intervista rilasciata a Jules Huret, «colui che si isola per scolpire la propria tomba». Ma quella stessa tomba, si potrebbe chiosare con alcuni versi di Valéry, è semenza e culla di una «novella morte / più preziosa della vita»: la vita-morte della poesia, appunto, che attende, di là dal mare dei secoli, oltre le nubi della storia, l’avvento di una lettura e un’interpretazione disposte a scendere agli inferi (o meglio, nel nostro caso, ad immergersi nel maelström, nel gorgo intorto ed infinito che, proprio come la letteratura stessa, dilava e disperde i contorni e i confini dello spazio e del tempo ordinariamente concepiti), vincendo la resistenza sorda e buia dei segni, forzando le porte grevi e tenaci della lettera e del testo, per ridestarla, riportarla alla luce, ridarle anima e respiro. 

Come osserva, riferendosi alla propria esperienza, il Sartre dell’autobiografia Parole (forse ripensando, lui che a Mallarmé dedicò un erudito ed appassionato studio, La lucidità e il suo lato d’ombra, anche il verso da cui siamo partiti), lo scrittore sostituisce «la sua carne con uno stile, le molli spirali del tempo con l’eternità», ricava dalle parole il suo «corpo di gloria», e, «dall’alto della sua tomba», considera la nascita come «un male necessario», come «un’incarnazione del tutto provvisoria» che prepara  la «trasfigurazione» nel linguaggio (nell’intellettuale ateo, gli atti della creazione letteraria sostituiscono la religione, colmano il vuoto di Dio, divengono rituale, sacrificio, unione mistica). Agli occhi del poeta puer senex, fanciullo vecchio, o addirittura postumo al mondo e a se stesso, scrive il pensatore francese nel saggio su Mallarmé, «il mondo fluttua, immobile e cupo, nel lago oscuro del Nulla», l’essere-nel-mondo appare come un «esilio» e la vita si apre «su un’irrimediabile esperienza di scacco»; egli «contempla il mondo alla fredda luce della morte» (la morte, dirà, nel Tempo ritrovato, il Proust lettore di Baudelaire, «penetra nel cuore come fa un amore», in modo inesorabile e inamovibile, e fa sì – chioserà Benjamin – che proprio nella morte «ogni cosa abbia il suo sole»). 

Il «jamais plus», il «mai più», il fin troppo celebre, ossessivo e cupamente risonante nevermore del Corvo, che segnano e sanciscono l’irrimediabilità del lutto, l’incolmabilità dell’assenza, l’irrevocabilità inesorabile della perdita, stanno ad indicare, in quest’ottica, la posizione e la condizione stesse del poeta, la sua «sparizione vibratoria», l’eclissarsi della sua soggettività e della sua individualità esistenziali e storiche nell’assolutezza impersonale e nella gelida purezza di una parola poetica affidata all’illimite vastità, all’infinito deserto dell’eternità e della morte. Il mai più è «la strana sostantificazione del Non che chiamiamo il vuoto, calma trasparenza solubile che fonde sotto lo sguardo, (…) eternità fissa e vuota (…) che si estende attraverso l’immensa durata». 

Si può dire, citando il Mallarmé di Brindisi funebre, che la vocazione essenziale della poesia è di «cantare l’assenza del poeta», di celebrare, fin nell’ora del tramonto e dell’occultamento, la «gloria ardente del mestiere», immergendosi nel «gouffre», nel muto baratro delle parole mai dette, nel «Nulla» che avvolge e cancella cielo e terra nella sua bruma, ma non spaventa affatto quell’uomo «già da tempo abolito», già completamente risolto, dissolto e «abolito» nella sua letteratura, che è il poeta. «Il mio pensiero si è pensato, ed è arrivato a una Concezione Divina», scriveva Mallarmé a Cazalis nel 1867. «Sono perfettamente morto, e la regione più impura in cui il mio spirito possa avventurarsi è l’eternità». Come abbiamo già detto, secondo una dinamica che fu proprio Poe a prefigurare, l’autocoscienza del poeta, lo spirito autoriflessivo di una poesia pura, avulsa, ripiegata su se stessa, remota dal mondo e dal reale («non voglio nulla di umano», dice ancora Erodiade), predispongono una morte che dischiude la via dell’eternità – di un’eternità che può darsi, beninteso, non già come cristiana «pienezza dei tempi» segnata dalla discesa del Divino nella storia e nell’umano, ma al contrario come vuoto, assenza, privazione, «nulla eterno».  

Indubbiamente Poe, come un famoso personaggio di romanzo, «corteggiò la morte», tanto nella sua vita quanto nella sua poesia. Anche l’esperienza biografica (la visione allucinante della salma della madre, morta prematuramente ed atrocemente di emottisi nel 1811, quando il poeta non aveva che tre anni, poi, a distanza di tempo, quasi per una sorta di reduplicazione edipica mediata dalla morte oltre che dall’amore, la perdita, nel 1847, dopo un decennio di matrimonio, dell’amatissima, ancorché platonica, sposa bambina, la cugina Virginia Clemm) dovette concorrere, per quanto filtrata e trascesa nella razionalità appassionata e nel lucido entusiasmo della creazione artistica, a plasmare una forma mentis e un’attitudine psicologica che vedevano tutto «alla luce fredda della morte». 

Non c’è, si legge nella Genesi di una poesia (lo scritto, interpretato da alcuni come serio, da altri, tra cui in parte lo stesso Baudelaire, convinto però che al genio si debba concedere un pizzico di ciarlataneria, come ironico, mistificante, addirittura burlesco, in cui l’autore illustra il procedimento, calcolato, metodico, razionale, secondo cui sarebbe stato costruito Il Corvo), argomento più poetico della «morte di una bella donna»: un tema, questo, da cui si diparte tutta una vasta e sfumata rosa di motivi, potendo esso coniugare e fondere malinconia e bellezza, lutto e desiderio, meditazione esistenziale e fascinazione estetica. «Dipingere non la cosa, ma l’effetto che essa produce», scriverà, nell’ottica di una poetica che si vorrebbe definire post-impressionista (e si noti che proprio Gauguin trasse dal Corvo di Poe un’enigmatica, torbidamente simbolica tela), Mallarmé, avendo certo in mente la «totalità di effetto o di impressione», la coesa e coerente struttura finalizzata a destare nel lettore una data reazione, teorizzata da Poe nel Principio poetico; e Baudelaire, che proprio da Poe eredita l’idea di una poesia razionalmente controllata e criticamente consapevole, parlerà a ragione di «sobrietà crudele», di un rigoroso «sistema» che sottomette i soprassalti della romantica «ispirazione (…) alla più severa analisi». È interessante, ed inquietante, notare che, in entrambi in casi, questo “effetto” si risolve nella fusione e nella contaminazione della bellezza e del lutto, cade sotto il dominio, pur razionalmente mediato, per così dire negoziato alla luce della coscienza, della pulsione di morte, della dialettica di eros e thanatos. «Un bacio mi ucciderebbe», dirà Erodiade nel poemetto di Mallarmé, «se la bellezza non fosse la morte». Il fine della poesia coincide con la sua fine, con l’orizzonte ultimo, con l’ultima linea del suo spazio e della sua esistenza; la vita della poesia si pone e si dà in funzione e in vista della morte; la razionalità e la consapevolezza del fare letterario approdano, infine, alla sfera dell’ignoto e dell’inconoscibile, e in essa naufragano e si annullano, pur restando, o volendo restare, paradossalmente, se stesse, ben deste e vigili, come in una sorta di settecentesco «sogno fatto in presenza della ragione» passato attraverso una nebulosa e fiammante temperie tardoromantica e decadente. 

«Io non riuscivo ad amare», confessa, in una Romanza, un Poe non ancora ventenne, «che laddove la Morte / con quello della Bellezza confondeva il suo fiato». Questo motivo della bellezza medusea, cupa, ferale (che indusse Marie Bonaparte, freudiana irrequieta e ribelle, a parlare, peraltro con irrigidimenti e schematismi ancora sostanzialmente positivistici, di ossessione necrofila, in una voluminosa monografia del ’33 che destò le amabili e acute ironie di Mario Praz), affiora a più riprese nei versi del poeta. In Tamerlano, come in molte delle successive prove del poeta, la «fredda luce della morte» si trasfonde in quella, altrettanto inanimata e gelida, della luna: «Il suo sorriso è gelido – e il suo raggio / in quel desolato tempo m’apparirà / (…) come un ritratto eseguito dopo morte»; la Morte giunge «dalle lontane regioni dei beati», dove «lampeggiano attraverso l’Eternità» i «raggi del Vero» invisibili ai viventi. 

Da Platone e da Keats Poe sapeva che Bellezza ed Eternità sono una cosa sola, e insieme sono l’Uno e il Tutto. E ora sono avvolte, l’una e l’altra, dai velami della morte, di un’eternità che è morte, disperse in un «tempo di desolazione» («time of dreariness») che coinvolge e confonde perennità e annientamento, immortalità e nientificazione. E, secondo una simbologia che sarà cara ai decadenti, il ritratto, il portrait (si ricordi ancora, proprio di Poe, Il ritratto ovale) sono simulacro ferale, copia che, nel momento stesso in cui prolunga, nell’eternità dell’arte, la vita post mortem, annulla e consuma progressivamente quella umana e terrena, suggendone linfa e respiro. 

Nella Dama dormiente, poi, in modo ancor più sinistro, si immagina la defunta, ancora bambina, intenta a scagliare pietre contro la porta bronzea della cappella, del «sepolcro remoto, solitario», che la accoglieranno deceduta, immaginando che i cupi rimbombi del metallo siano gemiti di piacere dei morti. E la splendida, celeberrima Ulalume, tutta attraversata da una simbologia catartica ed iniziatica, può essere letta come una sorta di quasi kafkiano apologo (la mente va, in particolare, a Un Sogno, in cui, districandosi fra «viottoli tortuosi» sospesi «sopra un’acqua rapinosa», K. si imbatte infine in un tumulo su cui è scritto, con «eleganti» e «perfettamente incise» lettere auree, il suo nome, per essere infine inghiottito dall’«impenetrabile profondità» della terra) che conduce, in conclusione, in una strofa non contenuta nell’edizione ottocentesca del Griswold e desunta da una copia manoscritta, ad una rivelazione negativa, ad un’agghiacciante epifania del Nulla che ci attende: il poeta e Psiche (personificazione dell’anima di apuleiana memoria), che hanno seguito dubitosi la luce «tremula» e «vitrea» di un astro enigmatico ed algido, che poi si scoprirà evocato e sorto «dall’Inferno delle anime planetarie», giungono alla tomba di Ulalume, personificazione, certo, della moglie da poco morta, ma simbolo, più in generale, vuoi della luce (il latino lumen), vuoi della morte stessa (il turco ulu): insomma una luce, una rivelazione, una conoscenza che vengono non dal fulgore caldo e radioso dell’amore e della gioia, ma da quello cupo e ardente del dolore, dal rogo stridente e sospiroso dell’inferno, senza peraltro che nella tragica fusione dei due lumina sia possibile, forse, scindere l’amore dalla morte, la voluttà dal dolore, entrambi i lati dell’esperienza umana essendo attratti, congiunti e trasfigurati nell’athanor fagocitante e ribollente dell’officina poetica. Il lettore italiano sente di trovarsi, per così dire, fra il Leopardi di Amore e morte, di Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, di Sopra il ritratto di una bella donna (che, del resto, Poe non fosse affatto ignaro del nostro primo Ottocento è comprovato dalla tempestiva recensione dei Promessi sposi, che influenzeranno, per la descrizione della peste, alcune sue prove narrative, da Re peste alla Maschera della morte rossa, così come dalle nitide risonanze dell’Infinito leopardiano avvertibili, fin dall’attacco, nella poesia Il lago, ispirata ad un «oscuro lago» le cui «velenose acque», abitate dalla morte, avvolgono e nascondono una paradisiaca «tomba» che promette il ristoro da ogni male) e il Pascoli dei Due cugini, in cui il sentimento e la passione della morte assumono sottili venature incestuose, del Bacio del morto, della celebre Digitale purpurea

«Bellissima fanciulla / dolce a veder» è,  per Leopardi, la morte  –  che già allo sguardo platonizzante e sublimante di Petrarca era parsa «bella» sul «bel viso di Laura», «pallida no, ma più che neve bianca». Già per Leopardi, la morte rende eterno il tempo, lo converte e lo trasfigura in eternità, muta i «dì futuri» nei vertiginosi, inconoscibili «oscuri / silenzi della tomba». Dal labbro della morta, perennemente effigiata nel marmo, «alto / par, come d’urna piena, / traboccare il piacer», sprigionarsi l’ambigua voluttà della carne e del suo disfacimento, dell’amore e dell’annullamento, dell’eccitazione sensuale e dell’oblioso abbandono (non dissimile, come ben sa la lingua francese, da una petite mort, una “piccola morte”) che ne consegue. Si direbbe che, come Igitur, creatura astratta ed enigmatica, nell’omonimo poema in prosa di Mallarmé, Poe «giochi», nonostante il divieto della madre, o forse proprio incitato da quel divieto, «nelle tombe», entrando in contatto e in comunione con «l’esistenza del Nulla in sostanza», con il «silenzio», il «nulla», il «naufragio» che conduce al «castello» di una conoscenza negativa, di una disperazione lucida e quieta, nel profondo della quale si continua ad avvertire, per quanto sopito, il «rumore della follia», di una follia soffocata o rimossa nel perfetto e capzioso artificio della forma letteraria, ma persistente, inguaribile, in certo modo anzi vitale e vivificante. Nel suo cimento votato e promesso ad un’eternità sostanziata di silenzio e di morte, il poeta non «proferisce la parola» che per «rituffarla nella sua inanità». Il nulla, il vuoto, il silenzio si attestano, con tragico paradosso, come forme, essenze, sostanze, idee in senso platonico, o se vogliamo, nel senso di Nietzsche e di Heidegger, ”valori”:  entità, cioè, consistenti, presenti, dolorosamente vive nell’esistenza non meno che nel pensiero e nella creazione (né, del resto, per Poe e per i suoi futuri discepoli, la prima può darsi e consistere se non in funzione e ai fini di questi ultimi). Eppure, anche sull’abisso della morte e del nulla si libra lieve la sovrana, forse disperata, sapientemente folle, gaiezza schilleriana e nietzscheana della “danza” e del “gioco”, la quasi sovrumana leggerezza, la superiorità e la separatezza quasi divine, dell’arte.

Parlare, come ho già fatto più volte, di platonismo a proposito di quello che la coscienza comune tende considerare (in modo un po’ superficiale, ma non del tutto infondato) solo o prevalentemente come il diabolico maestro del terrore e dell’incubo può destare stupore. Eppure, a ben vedere, Poe, come il Faust goethiano, discende agli inferi solo per trovare – in essi, attraverso le loro tenebre, prima e più che nelle radiose rarefazioni del celeste iperuranio – le forme assolute, le essenze pure, le idee Madri, i modelli ideali, incorrotti e incorruttibili, di ogni transitoria, fragile e peritura esistenza o conoscenza terrena. «Nel più profondo abisso devi indagare», dice Mefistofele (Parte Seconda, Atto Primo, Galleria oscura); «fuggi da tutto ciò che già esiste verso i regni indefiniti delle immagini». Faust, che ha dovuto, seguendo la sua diabolica guida, «imparare il vuoto, insegnare il vuoto» («Das Leere lernen, Leeres lehren»), non teme certo l’impresa, l’”alto passo” di attraversare il vuoto, il nulla, l’abisso, la deserta eternità, per giungere ad una conoscenza purificata e rifondata, anche se alimentata e tenuta desta, a sua volta, dalla lucida e gelida coscienza della morte, del nulla, dell’insensatezza (e qui riaffiora l’eterno pathei mathos, la conoscenza attraverso la sofferenza, dei tragici). Solo calandosi «nel più profondo abisso», «ins Tiefste schürfen» (nel maelström di Poe), l’eroe potrà vedere il Tutto che è racchiuso nel Nulla, le forme pure, le immagini limpide, i cristallini emblemi, gli «Schemi» contemplati in eterno dalle imperturbabili Madri della vita, della morte, della conoscenza. Come dice il Góngora dei sonetti funebri, la «memoria» del poeta entra nei sepolcri, nelle «urne» e nei «tumuli», per «liberarsi da morte con la morte / e vincere l’inferno con l’inferno»: la vita eterna non si attinge se non passando attraverso il nero lavacro della morte, e può tendere alla purezza celeste solo chi si sia prima immerso nella palude dell’orrore e del dolore. 

Come, nella sua lucida e consapevole follia, il protagonista del Cuore rivelatore, Poe ha appunto accostato l’orecchio alle porte dell’inferno, e ne ha ascoltato, con il suo udito reso ancor più fine dalle allucinazioni e dalle sovreccitazioni della malattia interiore, gli arcani «del cielo e della terra». Emblematico, in tal senso, fra le poesie, un testo come Dream-Land: «Out of Space» e «Out of Time», fuori dallo spazio e fuori dal tempo, oltre l’«ultima oscura Thule», di là dai confini estremi della percezione e della conoscenza date all’uomo, «regna un Eidolon chiamato Notte»: un eidolon, cioè, in linguaggio platonico, un simulacro ingannevole, una falsa immagine, un fantasma percettivo, ma forse anche l’idolo, il venerato archetipo, di una conoscenza e di una rivelazione assolute, illimitate, per quanto di segno negativo e cupo. E la parola del poeta si affanna ossessivamente a popolare, a gremire di immagini vorticose e multiformi quella notte, quel nulla, quel vuoto, con ossessive ed ipnotiche iterazioni (scandite e rafforzate da quel tipicamente poesco, pressoché intraducibile ritmo trocaico e spondaico, binario, discendente, inesorabile, di una, scriveva Carlo Izzo, «monotonia martellante e ossessiva») che consegneranno forse un’importante lezione a Campana e ai surrealisti: «Laghi che senza fine distendono / Le loro acque deserte – deserte e morte, – / Le loro quiete acque – quiete e gelide / Per le nevi del giglio reclinato» (viene in mente, per mero ma significativo incrocio di analogie e di letture, il Petrarca del Triumphus Eternitatis, ultimus cantus teso sui confini estremi del tempo, dell’esistenza, dell’umano, e chiuso anch’esso dall’immagine del sepolcro, del «felice sasso che ‘l bel viso serra», peraltro immediatamente seguita dal radioso presagio della risurrezione dei corpi: «Quasi spianati dietro e innanzi i poggi, / ch’occupavan la vista, non fia in cui / vostro sperare e rimembrar s’appoggi», ove speranza e ricordo si confondono e si annullano nell’infinito mare di un’eternità che è nulla, vuoto, deserto, immobilità, per quanto radiosi, gloriosi, inondati di divina luce). 

Come il pittore Roderick Usher, il poeta cerca di tracciare, con il «compasso della parola scritta», la purezza e l’essenzialità ineffabili dell’«idea», dell’«astrazione» che traspaiono come in filigrana, nella loro sobria nettezza e nella loro studiosa semplicità, dai contorni torbidi e distorti del deforme, del folle, dell’orrido. Analogamente, il Baudelaire di Una carogna proprio alla prospettiva della putrefazione, del disfacimento del corpo amato reagirà con la certezza che nella sua mente permarranno, incorrotte, la platonica «forma» e l’«essenza divina» dei suoi «decomposti amori». In Rimorso postumo, poi, questa ambigua ed inquietante contaminazione di sensualità e morte, amore e disfacimento, si lega al tema, già ricordato, della postuma memoria poetica come eternità di morte e di sepolcro: la tomba è, nelle «notti vaste da cui è bandito il sonno», «confidente del mio sogno infinito», «poiché sempre la tomba comprenderà il poeta». Aveva ragione un lettore imbevuto di spirito decadente, Huysmans, ad accostare Baudelaire al «profondo e strano Edgar Poe», in grado di congiungere ad uno «stile incisivo» una «analisi penetrante e felina»: capaci l’uno e l’altro, Poe e Baudelaire, di affondare la lama della coscienza critica e dell’indagine razionale nell’abisso tenebroso di ciò che è malato ed anomalo. Ma, pur attratto dalla morte e sedotto dal sepolcro, pur tentato più volte, nella sua vicenda umana, dalla possibilità, del resto in ogni istante angosciosamente aperta all’uomo, del suicidio, Poe frappose fra sé e l’abisso, fra la luce ostinata della coscienza e il deserto infinito delle tenebre, il simulacro illusorio ma salvifico della pura bellezza. Come il Poliziano protagonista del suo omonimo dramma, postumo ed incompiuto (carattere amleticamente diviso fra l’amore e la guerra, la contemplazione e l’azione), così anche Poe «non poteva morire, chiudendo nel suo cuore / un senso di bellezza così acuto / come se in esso fosse stato acceso» – non poteva che continuare fino all’ultimo, fino a che la spietatezza della società e del tempo lo concesse, a «guardare quel viso velato, ad ascoltare / ancora una volta quella lingua silenziosa» (Scena III). 

Poe, «wanderer» e «passer-by», instancabile girovago, inesausto nomade della cultura e del pensiero, uomo e intellettuale dotato di una forse caotica, ma non certo ristretta, erudizione, poteva aver recepito qualcosa del grande platonismo rinascimentale; poteva, ad esempio, sapere, dal Libro sopra lo amore di Marsilio Ficino, che l’animo di chi ama è «nel proprio corpo morto, nel corpo d’altri vivo»; che, dunque, l’amore è una «morte volontaria», a un tempo «dolce e amara», poiché «qualunque ama, muore amando» (Capitolo VIII), muore misticamente a se stesso per rinascere e rivivere nel respiro e nell’anima (il greco anemos, il latino animus) della persona amata. La vita è morte, la morte vita; e l’amore è, in chiave quasi alchemica, il termine intermedio fra le due sostanze o i due stati. Nel contempo, questo amore meduseo, vampirizzato, oscuramente contaminato dalla pulsione di morte nel momento stesso in cui viene spiritualizzato, scorporato, sublimato, finisce per non differire, nella sostanza, dall’«ignuda natura, / lieta no, ma sicura / dall’antico dolor» delle leopardiane mummie di Federico Ruysh, che del resto hanno vissuto, sulla scorta del Fedone platonico, l’esperienza estrema e ultimativa della morte come liberazione dell’anima dai ceppi carnali e della cessazione del dolore come unico possibile, veritiero piacere.

Il richiamo a questo contesto culturale apparirà meno infondato a chi consideri un testo di Poe non fra i più noti, L’appuntamento. In questo racconto, immerso nella vaporosa bellezza di una Venezia funerea e silente, in un «deserto di bellezza» che rappresenta, e quasi visualizza e rende tangibile, la pura negazione di ogni ordinaria realtà, è ricordato un passo dell’Orfeo del Poliziano – passo, dice il  narratore, «che nessun uomo può leggere senza un brivido e nessuna fanciulla senza un sospiro». Poe ha in mente, con tutta probabilità, i versi 198 e seguenti dell’opera polizianea, che contengono lo struggente ed inconsolabile, ma nel contempo venato di estrema, oltreumana speranza, compianto di Orfeo: «Dunque piangiamo, o sconsolata lira, / Ché più non si convien l’usato canto. / (…) Andar conviemmi alle tartaree porte / E provar se là giù mercé s’impetra. / (…) Del misero amatore / pietà vi prenda, o spiriti infernali. / Qua giù m’ha scorto solamente Amore». Orfeo, mosso da amore, si cala negli inferi per riportarne indietro una vita che sarà, ciclicamente, di nuovo inghiottita dalla morte: anche qui, pur se in un contesto diverso, l’amore è una «docleamara morte». Direttamente ispirata dal lamento polizianeo è la poesia inclusa nel racconto, scritta nel 1834 e ripubblicata da Poe con il titolo A una in Paradiso: «Non più, ahimè, non più con me / è su di lei la luce della Vita! / Non più – non più – non più – / (questo è il discorso del maestoso mare / alla sabbia sul lido)». Diviso e combattuto fra un Passato di ricordo e di rimpianto e un Futuro di assenza e solitudine che si fondono, l’uno e l’altro, nel tutto e nel nulla, nella vita e nella morte, del dire poetico, il poeta pronuncia, con sillabe cupe e vibranti, la propria ossessione di lutto e di perdita, concentrata nel «No more», nel nevermore, nel jamais plus, di cui si è già detto. 

Vi sono certo, in questa espressione e in questo stato d’animo, chiare ascendenze romantiche: basti pensare, oltre che a certi versi del Tennyson, allo Shelley di Un lamento («Mai più, ahimè, mai più! / Lontano ormai dal giorno e dalla notte / la mia gioia è volata»), che già fa presagire il tema del dolore, della malinconia, del lutto, della perdita, che rappresenterà per Poe una vera e propria ossessione, o, se vogliamo usare le definizioni di Charles Mauron, un «mito personale». No more e nevermore definiscono, fra l’altro, un effetto di suono fortemente connotato in senso emotivo, che, secondo un registro che Pascoli farà proprio e impiegherà diffusamente, si estende e si ripercuote, come in un’angosciosa rete, in più luoghi dell’opera poetica di Poe, da A Zante (ove il no more è evocato come «magico e triste e suono che tutto trasmuta», che travolge e confonde ogni vicenda, ogni ricordo, ogni amore nella perpetua notte dell’oblio) a Silenzio (un testo certo suggestionato da Thomas Hood, assorto cantore, caro a Poe, e da lui menzionato nel Principio poetico, del silenzio «self-conscious and alone», «conscio e solitario», che abita le rovine decrepite, le dimenticate vestigia, oltre che dell’evasione dal mondo e dal reale, della fuga «anywhere out the world», «ovunque, purché fuori dal mondo», anche a prezzo della morte), in cui è illuminato il «duplice silenzio» della materia e dello spirito, delle realtà corporali e delle «incorporee essenze» (un Silenzio che, come emblema di distruzione e di oblio, «ha nome Mai più»), per giungere, ovviamente, al celebre, già ricordato nevermore ripetuto dal corvo, all’ossessivo ed insistito refrain che più di ogni altro elemento concorre, consapevolmente, a produrre la «totalità di effetto o di impressione» cui il poeta mirava, e che ribadisce e rimarca, a livello tematico, l’irrimediabilità e l’irrevocabilità, quanto mai dolorose e desolanti, del lutto. Non è forse esagerato dire che, nella tramatura fonica e nell’architettura tematica della poesia di Poe, le variazioni insistite, reiterate, ossessive su questo stesso nucleo fonico e insieme semantico sembrano quasi rivisitare l’inesauribile, indefinitamente variato, quasi feticistico indugiare del Petrarca sulla sostanza fonica, blandita e adorata quasi come una sorta di pagano simulacro, del nome di Laura (e non diverso valore, quasi religioso e sacrale, ha, nel poemetto di Poe, il nome, rimante con nevermore, della «perduta Lenore», di «colei che gli angeli chiamano Lenore, / e che nessuno, qui, chiamerà mai più»: sembra qui di sentir risuonare, come per una sorta di etimologia interiore, o per un sotterraneo labirinto di “parole sotto le parole”, la radice indoeuropea di mors e di bruma, legata alle idee della morte, della sparizione, e dunque dell’assente, dell’invisibile, dell’inconoscibile). 

Anche nelle rime petrarchesche in morte di Madonna Laura questa è assente, intangibile, inafferrabile, divisa fra la «poca terra» della sepoltura e l’alta immagine, la sublime e pura forma immateriale dell’anima ormai, platonicamente, corpore soluta, «dal corpo sciolta», libera dai vincoli della carne e del tempo. Amore e morte, presenza e assenza, passione e lutto si fondono, in entrambi i casi, nell’assolutezza opaca e impura di un segno poetico diviso fra esperienza e illusione, pensiero ed inganno, espressione e negazione, suono e silenzio. 

Non è casuale che, nella poesia Enigma, Poe parli, pur se in un contesto satirico e polemico per noi piuttosto enigmatico, della «stoffa petrarchesca», della «Petrarchan stuff», con cui è foggiato il suo dire. Lenore, Morella, Ulalume, Annabel Lee, Ligeia: la sonorità liquida e fluente, suadente e insieme amara, di questa commistione di ulu e lumen, di morte e luce, sembra avvolgere e pervadere tutti i fantasmi, tutti i simulacri diafani e inafferrabili sotto cui l’eterno femminino, autenticamente incarnatosi una sola volta, per una sorta di irripetibile immacolata concezione, nella cugina Virginia, riapparve, negli anni, agli occhi del poeta. Proprio Annabel Lee mostra come il regno d’amore e quello della morte vengano a coincidere, come la fuga dal reale, l’evasione nella pura sfera della bellezza e della pace possano essere ottenute solo attraverso l’annientamento e la dissoluzione: sull’onda delle consuete, ossessive iterazioni, il «regno in riva al mare» («the kingdom by the sea») sfuma e si risolve, quasi insensibilmente, sui passi inafferrabili della musica verbale, in un «sepolcro in riva al mare», in una «tomba in riva al risonante mare». L’angoscia della morte e del lutto è, in Poe, anche angoscia di ripetizione, ossessiva coazione a ripetere, tormentoso, irredimibile riaffiorare, ricorsivamente, di idee, simboli, icone tutti invariabilmente connessi alla sfera dell’assenza, della perdita e del disfacimento. Poe ha ripetuto, in fondo, sotto la molteplice maschera di segni e di significanti sempre variati, un solo Significato, che risiede e consiste in un nodo inestricabile e ambiguo di desiderio e lontananza, passione e angoscia, amore e morte.

Ma non si deve credere che questa idea e questa ossessione della morte abbiano assunto, in Poe, sempre e soltanto le parvenze lievi e sublimate della rappresentazione simbolica. In uno dei suoi testi più famosi e più riusciti, Il verme trionfante, esse emergono invece nelle forme ghignanti e distorte di una grandiosa, amaramente grottesca allegoria nichilistica (da Baudelaire e da Benjamin il lettore contemporaneo sa bene che l’allegoria ha spesso la funzione di frantumare, sezionare, distorcere il reale e il sentimento, di gettare impietosamente sotto la piena luce dell’intelletto le ferite, le lacerazioni, gli strappi dolorosi dell’esperienza, senza lo schermo dei pietosi balsami, delle illusorie ricomposizioni, delle armoniose conciliazioni a cui indulge invece, a volte, il pensiero analogico e simbolico). L’eterno tema del mondo e della vita come teatro, rappresentazione, finzione, farsa, si colora, qui, di tinte che, se da un lato fanno pensare a certe fosche, purulente, cupamente compiaciute allegorie della caducità e della pochezza umane, tra Shakespeare (basti pensare alla simbologia di transitorietà e di decomposizione che attraversa, unitamente alla visione amara della vita come farsa o commedia dal cupo finale, l’Amleto, o ai vermi soli «eredi» del vano fasto esteriore nel sonetto 146) e il barocco (ho in mente certe pagine dell’Huomo al punto di Daniello Bartoli, o il John Donne dei Sonetti sacri e soprattutto del Duello della morte, in cui all’«ultima scena» della commedia umana subentrano la «dissoluzione», la «putrefazione», la «vermificazione»), dall’altro lasciano presagire toni e atmosfere di certo Baudelaire o di certa Scapigliatura lombarda (penso a un Tarchetti, un Praga, un Boito, non per nulla lettori appassionati di Poe). 

Lo spettatore, attonito e straniato, assiste al dramma variegato e vacuo della vita solo per apprendere che il titolo del dramma è L’Uomo, e «l’eroe è il Verme Trionfante», il simbolo perentorio di una morte vista, stavolta, non come sublimazione, trasfigurazione, abbandono della soma corporea e volo verso le pure regioni dello spirito e della bellezza eterna, ma, al contrario, come accade in molti dei più riusciti e più celebri racconti dell’autore, nel suo aspetto di disfacimento fisico, orrida putredine, logoramento impietoso – sebbene qui, in poesia, all’orrore e all’oscenità, estremi e ineluttabili, della putrefazione, alla «fosforescenza della putredine» come dirà Baudelaire, si alluda indirettamente, per così dire per metonimia di causa per l’effetto, attraverso il simbolo, pur angosciante, del Verme. Ma, si noti, anche nel Verme trionfante il dramma della vita, fatto «di speranze e timori», è accompagnato da un’orchestra che «sospira / la musica delle sfere», cioè la musica mundana, la «silenziosa musica» del cosmo udita dal Platone del Timeo come dal Dante paradisiaco o, ancora, dallo Shakespeare del Mercante di Venezia. Anche in questo quadro fosco e sanguigno, l’orrore è contrastato dalla sublimazione, pur se qui destinata ad arrendersi e soccombere allo scempio. 

Questa idea di una musica celeste, di un’ineffabile musica delle sfere che traduce gli accordi del cosmo, i sublimi equilibri aritmetici che governano l’universo, le leggi arcane della harmonia mundi,  risuona e si riverbera anch’essa in tutta l’opera in versi di Poe. Nel vasto poemetto Al-Aaraaf, certo la più vasta e complessa fra le prove poetiche dell’autore, densa di riferimenti culturali e di stratificazioni simboliche, la neoplatonica musica silenziosa dell’universo si scioglie e si disperde nel pascaliano o leopardiano “eterno silenzio” degli “spazi infiniti”.  Al-Aaraaf, sorta di purgatorio islamico (Corano, Sura settima), di limbo intermedio fra essere e non essere, santità e dannazione, viene a coincidere con l’immenso silenzio dell’annientamento, dell’oblio, della morte, silenzio in cui anche la voce del poeta anela, come suo estremo compimento, ad annullarsi. «Nessuna eternità oltre quella morte – / Se non un meditabondo sonno che non è essere – / E là possa giacere il mio spirito stanco – / Lontano dall’Eternità del Paradiso – ma pur quanto lontano dall’Inferno». Ancora una volta, l’eternità del poeta è quella del vuoto, del Nulla, della morte. «Un suono di silenzio nell’aria stellata / Che i poeti sognanti chiamano musica delle sfere. / Il nostro è un mondo di parole: la Quiete chiamiamo / Silenzio, il più vano dei nomi». Con una coscienza linguistica lucidissima, il poeta riconosce che il silenzio stesso è, paradossalmente, ineffabile, indicibile, e segna così il limite estremo, l’ultima Thule del linguaggio e dell’espressione: vana è, dunque, la parola stessa che lo designa. Il sentimento, e quasi l’ossessione, dell’ineffabile, dell’indicibile, dell’impotenza espressiva, del muro di silenzio di fronte a cui la parola e il canto devono arrestarsi o infrangersi, riaffiorano nell’enigmatica A —, in cui il poeta, fermo davanti all’«aurea soglia dei sogni», non può che guardare il simulacro inafferrabile della donna involarsi e disperdersi verso il punto di fuga di prospettive fascinose e illusorie. Allo stesso modo, all’inizio dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis, il «fiore azzurro», simbolo del «sempre desiderato e mai raggiunto», svanisce, avvolto da musiche e colori inesprimibili, divenuto ormai pura visione e suono disincarnato, quando la mano tenta di afferrarlo; e il Leopardi di Alla sua donna non può che venerare da lontano, appagandosi della pura contemplazione, l’immateriale e irraggiungibile «alta imago» dell’amata.

A rappresentare la sublimazione e l’evasione nel canto e nella musica è, nel poemetto, la figura eterea ed impalpabile di Ligeia, uno dei tanti fantasmi o simulacri femminei, già ricordati, che popolano le pagine di Poe. Nel racconto a lei intitolato, la donna personificherà, o almeno suggerirà, con il suo «parlare profondo e musicale», con la «musica della sua dolce voce profonda», un sapere remoto, recondito, primevo, situato oltre il «limite del ricordo», una verità nascosta che è dato intravedere o sfiorare, non pienamente portare alla luce e possedere. Le tenebre e il silenzio che avvolgono il mistero parrebbero, infine, sopraffare e vincere il globo di luce della coscienza e della consapevolezza. 

Eppure, con un’impennata dialettica in cui risiedono, forse, il nucleo e il fulcro essenziali della personalità dell’autore, la fiamma della coscienza, dell’autocoscienza, della consapevolezza abbraccia e illumina, infine, vita e morte, parola e silenzio, luce e tenebre, essere e nulla. Proprio questa poesia che pensa, ragiona, si interroga sulla propria natura, i propri limiti, i propri modi, questo pensiero che pensa e ripensa, assiduamente, se stesso, sono l’eredità più cospicua che Poe, maestro di una delle linee principali della poesia moderna, lascerà ai suoi discepoli più devoti e pazienti. 

L’ossessione della morte, di cui abbiamo parlato più volte, è strettamente, e sorprendentemente, legata a questa stessa autocoscienza. Una poesia che si ripiega su se stessa, che rifiuta e nega il reale e l’umano, che si isola e si trincera nella scrittura e nella pagina per farsi monumento, tomba, lapide di se medesima, una poesia che non può e non sa parlare, in definitiva, implicitamente o esplicitamente, che di se stessa, non può che assumere l’algida compostezza, l’eburnea impassibilità, la chiusura e la distanza inamovibili, che sono proprie della salma, della spoglia, della «muta cenere» cantata così dai poeti classici (e proprio in Catullo, visitatore devoto e dolente, nel celebre carme CI, del silenzioso sepolcro del fratello, alcuni interpreti identificano il «wanderer bore», il «pellegrino stanco», di A Elena) come, più tardi, dalla poesia sepolcrale del Gray e del Foscolo. Più sottilmente, come osservava, nella veste d’eccezione di agilissimo e spregiudicato critico artista, il Lawrence degli Studi sulla letteratura classica americana, Poe, «più scienziato che artista», «uccide» – e qui Lawrence il Wilde della Ballata del carcere di Reading – «la cosa che ama», la «vampirizza», la fa, cioè, morire per rinascere in una forma alienata, impura, dannata, sospesa fra vita e morte, nel momento stesso in cui la fa cadere sotto la lama acutissima del suo intelletto, sotto la lente gelida della sua strenua volontà di conoscenza. 

La poesia, veleno sublime e squisito per quanto esiziale, uccide l’altro da sé nel momento in cui lo tocca ed entra in contatto con esso; di conseguenza, conoscendosi, facendo anche di se stessa oggetto di studio, di indagine, di consapevolezza, conoscendo se stessa come altro da sé, si uccide, fa cadere anche se medesima nel regno gelido e silenzioso della morte. L’oggetto della conoscenza, poi, sia esso esterno o interno alla poesia, sia esso il “mondo della vita” o la poesia medesima, nel momento stesso in cui viene conosciuto, in cui si dà come oggetto all’osservazione, alla coscienza, all’indagine, tende a sparire e disperdersi come oggetto in sé, a non esistere più che come specchio e nutrimento del soggetto, come confine, limite, non-io che non serve se non a definire e rafforzare ulteriormente lo spazio e l’identità dell’io, che è il soggetto lirico. Ancora una volta, il movimento di essere con cui Lady Ligeia rivive in Lady Rowena è, a ben vedere, lo stesso che porta la parola del poeta, affidata alla morte mistica del verso, alla sepoltura rituale della pagina, a risorgere e a rivivere nell’eternità, nella virtuale infinità, delle riletture e delle interpretazioni. 

L’immagine allucinante ed ossessiva del corvo posato per l’eterno «sul busto di Pallade» visualizza a dovere questa simbiosi, questa stretta compresenza di lucidità apollinea, razionale, classica, e percezione assidua e sovreccitata del diabolico e dell’orrido. Come osservava, prestando credito alla Filosofia della composizione, Mallarmé nella nota che accompagnava la sua traduzione del poemetto, «nero errante nelle notti selvagge, questo Corvo (…) abiura i tenebrosi vagabondaggi, per approdare alfine a una camera piena di bellezza, sontuosamente e giudiziosamente ordinata, e installarvisi per sempre». Spunta qui il valore simbolico, legato a un ideale estetico di «ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà» già nitidamente enunciato dal Poe di A--- («all is beautiful and still»: «tutto è bellezza e calma»), di certi interni baudelairiani, dall’Invito al viaggio, con i suoi «mobili rilucenti» e i suoi «specchi profondi», alla Camera doppia; già nella Filosofia dell’arredamento dello stesso Poe, del resto, il dandysmo inteso come senso estetico squisito e disdegnoso trovava proprio nella preziosità ricercata e sobria dell’intérieur la propria dimensione e il proprio correlativo. Poe ha, insomma, sembra dire Mallarmé, razionalizzato criticamente e lucidamente ordinato i tenebrosi orrori del romanticismo gotico, fosco, barbaro, “malato”, sostituendovi (o, meglio, sovrapponendovi con effetti, a volte, di spaesante e stridente straniamento) un classico principio di chiarezza, ordine, consapevolezza artistica, controllo formale.

Questa autocoscienza, questo “pensiero del pensiero” proiettati, come saranno in Mallarmé, verso una Morte, un Nulla, un Non essere riscattati, in modo forse illusorio, solo dalla sublimazione e dall’idealizzazione verbali della parola poetica e della forma artistica, si dispiegano in tutta la loro profondità e la loro estensione in Eureka, vasto “poema in prosa” di carattere cosmologico. Appare evidente, qui, quanto Poe resti in parte legato al panteismo romantico, come abbia appreso da Fichte che la realtà non è se non proiezione esterna attraverso cui l’Io perviene all’autocoscienza confrontandosi con l’altro da sé, da Schelling che l’Assoluto si immerge, si “aliena” nella Natura restandovi presente, manifestandosi in essa attraverso le analogie e le attrazioni che pervadono il creato e lo tengono unito. Ancora dal panteismo romantico l’autore derivava l’idea di un magnetismo universale, di un’immensa catena di alchemiche “nozze mistiche” fra gli elementi, di una cosmica attrazione mesmerica che, nella loro declinazione, o riduzione, esoterica ed occultistica, potevano congiungere e confondere il regno dei vivi e quello dei morti, le regioni della luce e quelle della notte, mettendo in comunicazione questi due lati dell’essere (la coscienza e l’incubo, la realtà e l’ignoto) tramite un labirinto imprevedibile di pertugi, spiragli, maglie rotte, annidati nelle pieghe segrete del reale. Sottesa ad Eureka è l’idea, anch’essa di origine romantica, che Dio, grande demiurgo, agisca e crei, come il poeta, conoscendo se stesso, chiarendo a sé il proprio pensiero, e traducendolo in forma, in materia sapientemente ordinata e plasmata. 

Ma anche in Eureka il pensiero che pensa se stesso perviene, seguendo le linee profonde della struttura del reale, alla concezione del nulla, al lucido riconoscimento della Nothingness, del vuoto, della forza di annichilimento e di nientificazione in cui si annidano principio e fine del tutto. Attraverso lo Schelling delle Ricerche filosofiche Poe aveva forse visto, come questi attraverso Böhme, la profonda e dolorosa frattura che esiste tra “fondamento” e “principio”, fra l’essere e il non essere della Divinità, il lato oscuro e tenebroso di una Arché, di un’origine che può accogliere e nutrire in sé, accanto alla sostanza dell’essere, anche il Vuoto, il Nulla, il Male. Il mare tenebrarum, il maelström paiono richiudersi, infine, su se stessi, avvolgersi nell’oscurità impenetrabile delle loro volute ritorte, delle loro interminabili spire. Ma dobbiamo essere grati a Poe per avere affondato eroicamente, fino al sacrificio di sé, lasciando proprio in ciò un’eredità strenua e severa alla modernità letteraria, la lucidità della ragione poetica, dell’autocoscienza artistica nell’abisso terrifico e desolante di questo vuoto fondamentale, di questo nulla quintessenziale e purissimo. 


                                                                                                                     Matteo Veronesi