("Poesia", ottobre 2013, p. 62)
Con Figlio (Nottetempo, Roma 2013), Daniele Mencarelli prosegue ora, in continuità di vissuto e di stile, di sostanza umana come di tensione espressiva, il discorso avviato con Bambino Gesù tre anni prima.
Se in quella raccolta il poeta ritraeva, tra folgorante lirismo e realismo acre e lacerante, l'ospedale pediatrico come luogo del dolore più iniquo, assurdo, disarmato, ma anche dell'umanità ostinata, della disperata speranza, ora invece egli riflette sulla pagina l'esperienza della paternità, anch'essa intrisa e filigranata di gioia e di pena: la nascita di un figlio con disturbi dello sviluppo, un calvario di nascite mancate, infine lo schiudersi di un nuova vita, giunta come un dono.
Si resta indecisi, quasi intimoriti, di fronte ad una testimonianza ‒ umana prima che poetica, anzi poetica proprio in quanto umana ‒ di questa autenticità assoluta, di questa chiarezza bruciante. E sembra quasi immorale, di fronte alla verità acuminata e dolorosa della vita e della morte, parlare di letteratura.
Eppure, nei versi di Mencarelli alla forza del vissuto si affianca, sovrapponendovisi senza falsarla, oscurarla o mistificarla, la forza dello stile: che è, di primo acchito, “stile di cose”, narrativo e descrittivo, quasi da romanzo in versi, o forse da spaccato minimalista; ma pure, in pari tempo, avvolge cose ambienti volti situazioni gesti di un alone quasi metafisico, di una luce simbolica che pare irradiarsi da sé, dalla stessa nudità accecante delle superfici e dei rilievi.
Nulla è più tragicamente risonante del silenzio ostinato ed inconsapevole del figlio, che la malattia isola dal mondo, e il cui mutismo, la cui parola negata e annullata sono quasi una rivelazione negativa, un tragico rovesciamento dell'incarnazione (finché una semplice parola finalmente sgorgata diviene «verbo fatto figlio» che «parla di un nuovo tempo»); nessuna presenza più intensa dell'assenza dei figli mai nati, eserciti di ectoplasmi che una misteriosa, indefinita «sterminata terra» forse «tiene in grembo» (grembo di nascita-morte, utero-sepolcro, secondo un archetipo antichissimo).
Nessuno, infine, a parte Giuseppe Pontiggia, è forse riuscito a raffigurare con la stessa desolata lucidità la freddezza disumana della medicina che trasforma, con feroce compiacimento, quasi con sadica gioia, un bambino in mero “paziente”, da incasellare in una diagnosi troncando ogni speranza. A tale ulteriore annientamento, che va ad aggiungersi beffardo a quello del male, risponde la calda luce di questa poesia che è vita.
Matteo Veronesi