Scienza e morale

                                                               («Il Nuovo Diario Messaggero», 11 dicembre 1993)


Fin da quando, lungo tutto il corso del XVI secolo e per buon parte del secolo successivo, prima la cosiddetta "Rivoluzione Copernicana", poi l'illuminante percorso teorico-sperimentale del pensiero galileiano abbatterono il già fatiscente edificio dogmatico della tradizione aristotelica e gettarono le basi dell'imperioso sviluppo della scienza moderna, la caratteristica fondamentale del pensiero scientifico consistette, di fatto, nel proposito di interpretare la realtà alla luce delle sue intrinseche ed immanenti leggi, in completa autonomia, come scrive l'epistemologo statunitense Ernest Nagel, da certi "dogmi religiosi e morali" immotivatamente imposti dall'alto e da certe "antiche superstizioni". 

In questa lucida e disincantata visione della realtà, immune da pregiudizi ma anche priva di punti di riferimento assoluti e indubitabili, stanno tanto la forza e l'efficacia della scienza quanto i rischi e i problemi che comportano il suo esercizio e, soprattutto, l'applicazione pratica dei suoi ritrovati. 

Un risultato positivo della ricerca scientifica è certamente, come già accennato, l'abbattimento di superstizioni e pregiudizi che, per dirla con Kant, avevano gettato l'uomo in una sorta di "sonno dogmatico" e di "stato di minorità". In questo senso l'autore, prima citato, della Logica senza metafisica ha ragione, sul piano teorico, ad affermare che la scienza ha creato le premesse per "una forma più liberale di civiltà", in cui la ricerca e, più in generale, il pensiero, fondandosi su dati oggettivi e su verifiche esperienziali, possano manifestarsi liberamente, senza le costrizioni imposte da un astratto ed arbitrario sistema di norme e convenzioni. 

Ed è superfluo sottolineare gli enormi vantaggi che la ricerca scientifica in tutte le sue varie branche, unitamente allo sviluppo tecnologico, ha apportato od apporterà in futuro ai più vari campi delle attività umane, dal settore dell'agricoltura e dell'allevamento, in cui i ritrovati della genetica consentono di selezionare ed assortire le specie animali e vegetali in base a criteri eugenetici, cioè migliorandone la qualità e la resa, all'industria, in cui lo sviluppo tecnologico, indissolubilmente legato a quello scientifico, può migliorare qualitativamente e quantitativamente la produzione, alla medicina, in cui potrà giocare un ruolo fondamentale la genetica, che, in virtù delle scoperte di questi ultimi anni, consentirà di isolare, prelevare e sostituire i geni che si rendono responsabili della trasmissione delle malattie ereditarie, alla ricerca ed all'eventuale sfruttamento di nuove forme energetiche.

Il maggior rischio che, in concreto, i ritrovati della scienza, se male utilizzati, possono comportare è che i mezzi operativi forniti dalla ricerca sfuggano al controllo dell'uomo, alterando gli equilibri naturali in modo imprevedibile e irrazionale, e dunque controproducente. 

Lo sviluppo scientifico di questi ultimi anni pone poi, specie nel settore della genetica, angosciosi interrogativi in campo etico. Basti pensare agli esperimenti di "scissione embrionale", impropriamente e frettolosamente definiti di "clonazione degli embrioni umani", in virtù dei quali sarebbe possibile ottenere artificialmente, partendo da un solo embrione, due embrioni gemelli, peraltro diversi da quello di partenza. 

Al di là delle numerose ed agghiaccianti ipotesi pseudofantascientifiche che sono state avanzate riguardo alle possibili conseguenze di una simile operazione – si è pensato addirittura all'utopistica formazione, attraverso successive selezioni eugenetiche, di una "razza superiore" capace di dominare il mondo, o alla creazione di "replicanti" che possano fornire "pezzi di ricambio" per eventuali trapianti, eliminando così i rischi di rigetto –, bisogna sottolineare le riserve avanzate, su di un piano etico generale, da scienziati come il premio Nobel per la medicina Renato Dulbecco, secondo cui, anche in campo scientifico, "non è lecito tutto ciò che è possibile". La scienza, nel caso specifico della genetica, non può arrogarsi il diritto di "sostituirsi a Dio", arrivando a condizionare in modo determinante ed irreversibile la vita di un uomo ancor prima della sua nascita. 

Si può scomodare, intendendolo ovviamente in senso molto lato, un aforisma scaturito dalla mente di un antico "scienziato" come Ippocrate di Cos: "Tutto è divino e tutto è umano". 

È vero che la Natura, nella sua dimensione concreta, fenomenica, immanente, insomma "umana", è regolata da leggi la cui validità, entro certi limiti costante e costantemente verificabile, ha in se stessa la propria ragione, cioè, non contemplando, almeno in apparenza, variazioni improvvise o mutamenti irrazionali, non dipende direttamente da alcuna volontà positiva e determinata e, dunque, potenzialmente mutevole, il che, come si è già accennato, consente alla ricerca di operare in totale autonomia da qualsiasi immotivata ed irrazionale forma di pregiudizio o di superstizione. 

È altrettanto vero, però, che l'uomo, pur riuscendo ad individuare e a definire in qualche modo le regole e le modalità di svolgimento dei fenomeni naturali, non può comprenderne l'origine intima e remota, che evidentemente risiede in un ordine superiore ed assoluto – impersonale, immutabile, latente quanto si voglia, ma comunque "divino"  –, che per la ricerca scientifica rappresenta, o dovrebbe rappresentare, un limite invalicabile


                                                                                              Matteo Veronesi