INTORNO AD UN SONETTO DI FAUSTINA MARATTI ZAPPI

[“Università Aperta”, V, 1995, n. 11, pp. 4-5]

"Attendete alla famigliola sbigottita che resterà". Con queste parole, in una lettera del tre luglio 1570, un filosofo e verseggiatore petrarchista, Aonio Paleario (nome latinizzato di Antonio della Paglia), prendeva l'estremo commiato dalla moglie, il giorno prima di essere giustiziato dalla Santa Inquisizione per avere aderito alla Riforma. Anche a poche ore dall'estremo supplizio, al momento di accomiatarsi per sempre dai propri cari, questo oscuro rimatore tiene ancora impressi nella mente e nel cuore i versi del Petrarca, tanto da citare a memoria un'espressione («famigliuola sbigottita») che si legge tale e quale nel terzo verso del sedicesimo componimento del Canzoniere, il famoso sonetto Movesi il vecchierel canuto et bianco. Per lui, come per molti altri rimatori, "la parola del Petrarca è carne e sangue, e non mera letteratura" (1), a dispetto di quanti ritengono che l'autenticità e l'intensità dell'espressione dei sentimenti siano sempre e comunque inconciliabili con il rigore formale e la disciplina stilistica imposti dalle norme del petrarchismo fissate dalla codificazione bembiana.

Se ci spostiamo dal petrarchismo cinquecentesco a quello settecentesco, la cui eleganza e limpidezza espressiva dovevano, come è noto, contrapporsi al tortuoso e tumido concettismo proprio di certa lirica barocca - "abbattere gl'idoli non ancor ben atterrati del gusto cattivo" e ripristinare "la vera e purgata arte del ben dire e del ben poetare", secondo le esortazioni dei muratoriani Primi disegni della repubblica letteraria d'Italia -, potremo ancora incontrare poeti per i quali l'adesione al petrarchismo arcadico non coincise di necessità con la rinuncia ad esprimere, attraverso la poesia, i tormenti dell'animo.

Ma l'urgenza dell'autobiografismo e l'ardore dei sentimenti sono costantemente filtrati, sublimati, per così dire "disciplinati", e in qualche modo attenuati, attraverso il fluido melodismo e il limpido e sereno equilibrio formale propri del modello petrarchistico, che dunque arriva ad assolutizzare - in qualche caso, se vogliamo, a stilizzare, nel che risiede anche il limite di questa poesia - l'espressione degli affetti, ma non certo a reprimerla o ad annullarla.

Nel filone dell'autobiografismo patetico e "melodrammatico" della lirica italiana primosettecentesca si inserisce anche il sonetto scritto dalla poetessa imolese Faustina Maratti Zappi, di cui ricorre quest'anno il duecentocinquantesimo anniversario della morte, in ricordo del figlioletto terzogenito Rinaldo, scomparso nel 1711, a soli due anni. Il componimento è sicuramente anteriore al 1716, anno in cui fu incluso nel secondo tomo delle Rime degli Arcadi. Lo riporto nella lezione dell'editio princeps delle Rime della Maratti e del marito, Giambattista Felice Zappi. Il sonetto reca, nell'esiguo canzoniere - trentanove componimenti in tutto - lasciatoci da Aglauro Cidonia - questo lo pseudonimo della rimatrice in Arcadia -, il numero trenta.

Ovunque il passo volgo, o il guardo io giro,

Parmi pur sempre riveder l'amato

Dolce mio figlio, non col guardo usato

Ma con quel, per cui sol piango, e sospiro.

5 E tuttavia mi sembra, assisa in giro

Del piccol letticciuolo al destro lato,

Udir le voci, e scorger l'affannato

Fianco, ond'a forza egli traea respiro.

Poco aspro è forse il duol, che diemmi morte,

10 Togliendo al caro figlio i bei primi Anni,

Che vieni o rimembranza, e il fai più forte.

Ma tutti almen non rinnovarmi i danni:

Ti basti il rammentar l'ore sue corte,

E ad uno ad un non mi contar gli affanni. (2)

Un esame attento di questo sonetto potrà dimostrare che l'autobiografismo della Maratti è ben lungi dal ridurre la sua poesia a mero "ragguaglio e commentario biografico" (3), "diario versificato della sua vita", "lirica da journal intime" (4): proprio l'adesione ai canoni del petrarchismo offre ad Aglauro uno strumento per filtrare, sublimare ed assolutizzare, alla luce di una superiore e quasi metafisica Armonia, la propria dolorosa esperienza di vita, riuscendo a conciliare la fluida, melodiosa, "melodrammatica" cantabilità del dettato poetico - che culminerà nella poesia metastasiana - con l'espressione intensa e tormentata del travaglio interiore.

Il sonetto, se esaminato nel suo complesso, presenta tutte le caratteristiche prescritte dai canoni della poetica arcadica, fissati, in particolare, nel trattato Della bellezza della volgar poesia di Giovanni Mario Crescimbeni, primo custode dell'Arcadia e amico e corrispondente dei coniugi Zappi, che indica proprio nel sonetto, chiaro, elegante e razionalmente equilibrato, la forma più adatta all'abbattimento degli "idoli del gusto cattivo".

I caratteri che sùbito balzano agli occhi sono la quasi perfetta coincidenza di metro e sintassi (solo tre enjambement in quattordici versi, di cui per giunta solo due, "amato / Dolce mio figlio" e "affannato / Fianco", su cui torneremo, particolarmente netti e rilevati, e perfetta corrispondenza tra strofe e periodi sintattici), l'abbondanza di strutture binarie e correlative perfettamente bilanciate, specie ai vv. 1, 3-4, 7, 12-13-14 ("rinnovarmi .. rammentar .. contar", seguiti ciascuno, in parallelismo, dai rispettivi complementi oggetto), e, infine, il ricorso, confermato dalla consultazione delle concordanze petrarchesche (5), a vocaboli e talora interi sintagmi utilizzati dal Petrarca e dai petrarchisti cinquecenteschi, attraverso il cui filtro i lirici arcadici recepiscono il grande modello.

Si consideri - un esempio per tutti - la dittologia complementare "piango e sospiro" (v. 4), per cui rimando, tra gli altri, ai componimenti del Canzoniere n. 138 ("Babilonia falsa e ria / per cui tanto si piange e si sospira") e 224 ("sospirare e lagrimar mai sempre"); le stesse concordanze rivelano inoltre che il verbo piangere è spessissimo usato in dittologia e in fine di verso (es. "Amor paventoso fugge al core, / lasciando ogni sua impresa, e piange, e trema", nel componimento n. 140, e "In dubbio di mio stato, or piango or canto", nel n. 252).

La stessa situazione dell'apparizione e del colloquio onirico - anche se in questo caso si tratta di un sogno ad occhi aperti, o se vogliamo di un precoce esempio del "sogno fatto in presenza della ragione" che teorizzerà il Ceva - è tipicamente petrarchesca, e si ritrova in alcuni splendidi componimenti della seconda parte del Canzoniere, come, ad esempio, la canzone n. 359 e il sonetto n. 282, in cui si assiste ad un sommesso e confidenziale colloquio - impensabile nella prima parte, quando Laura era viva ma irraggiungibile - tra il poeta e l'ombra dell'amata.

Per cogliere alcune lievi, latenti, quasi timorose "trasgressioni" del codice bembiano cui l'autrice viene indotta, forse per via inconscia, dall'urgenza del sentimento e dal pungolo della sofferenza interiore, dobbiamo spostarci dalla macrostruttura - che, come detto, si presenta, secondo i canoni, solida, armoniosa e bilanciata - alla microstruttura, cioè alle pieghe e ai risvolti nascosti e reconditi che si celano all'interno dei singoli versi e, come vedremo, addirittura delle singole sillabe.

Il primo elemento che emerge è la ripetizione, a breve distanza (tra il primo verso e il terzo), della parola "guardo". La ripetizione, interdetta dalle norme della retorica antica, è ancor più decisamente aborrita dai canoni della poesia petrarchesca e petrarchistica (il ben noto horror repetitionis). La parola guardo di un forte valore emotivo e patetico, anche a costo di forzare le norme del codice arcadico, evidenziando inoltre, proprio attraverso la vicinanza tra il termine e la sua ripetizione, la differenza esistente tra i due distinti referenti a cui l'uno e l'altra rimandano, vale a dire, rispettivamente, gli occhi della madre (il guardo del verso uno), che ci immaginiamo afflitti e consumati dal pianto, e quelli del figlio (il guardo del verso tre), còlti e ritratti nell'allucinato smarrimento dell'ora estrema, al cui ricordo Aglauro "piange e sospira".

Un'altra peculiarità di questo componimento è data dalla fortissima allitterazione, tra il settimo e l'ottavo verso, della consonante fricativa - "l'affannato / Fianco, ond'a forza ..." -, con cui si crea un ponte di richiami fonosimbolici che, attraverso il "fai più forte" del verso 11, si salda all'"affanni", greve e tetro, su cui si chiude il sonetto, con una sorta di larga e dilatata annominazione ("affannato ... affanni").

Non è certo anacronistico parlare di fonosimbolismo - cioè di ricerca, programmatica e consapevole, di un legame tra suono e significato -, se è vero che le potenzialità fonoespressive delle consonanti e delle vocali vennero analizzate e classificate per la prima volta - forse con la sola fugace e parziale anticipazione del De vulgari eloquentia di Dante - proprio nell'àmbito delle teorizzazioni bembiane che stanno alla base del codice petrarchistico (6) (con le quali, beninteso, siamo ancora assai lontani dalle rimbaudiane voyelles, come da certe esperienze della poesia contemporanea).

L'effetto di suono, tutt'altro che fine a se stesso - si può parlare di "allitterazione funzionale", non puramente formale -, sottolinea, con la nutrita sequela di suggestioni semantiche e sensoriali che si porta dietro - i termini dell'antico provenzale afan e afanar, da cui i nostri affanno e affannare, ebbero probabilmente origine onomatopeica -, il grande realismo della rievocazione: "il realistico particolare del respiro" - a cui si affianca la sintetica e quasi intimistica determinazione, data dal sesto verso, dell'angusto spazio della cameretta del bimbo, in cui si consuma il dramma - "ci fa sentire la trepida sollecitudine della madre (e di ogni madre), che segue con ansia tutti i movimenti e gli atti del proprio figlio malato" (7).

Proprio la tramatura fonosimbolica tessuta dall'allitterazione della fricativa f contribuisce a definire il grande spessore connotativo assunto dalla parola "affanno", che arriva in tal modo ad acquisire il rilievo di una vera e propria "parola-chiave" o "parola-tema". Essa esula, se vogliamo, dal ristretto àmbito di parole-chiave e indicatori tematici rigidamente definito dal modello petrarchesco, poiché "affanno" e derivati, che peraltro compaiono con una certa frequenza nel Canzoniere, non vi assumono mai grande rilievo. La parola "affanno", unitamente al campo etimologico e semantico da essa circoscritto, assumerà frequenza d'impiego, densità di connotazione e pregnanza espressiva solo nel lessico della nostra poesia romantica. Senza che per questo si possa parlare, a proposito del sentimentalismo e del patetismo della Maratti, di "intuizioni alfieriane" (8) o di "romantica intimità d'accento" (9), è comunque interessante notare come, nel pur esiguo canzoniere della poetessa imolese, la parola "affanno" occorra - accanto ai due esempi che troviamo nel nostro sonetto - altre due volte, sempre in fine di verso, e dunque posta in grande rilievo dalla rima, e immediatamente seguita da una fortissima pausa sintattica segnata dal punto fermo: alludo al sonetto sesto e al sonetto diciottesimo (10).

Proprio in quest'ultimo, nella prima quartina, si legge:

Se mai degli anni in un sol corso andranno

Al guardo de' Nipoti i versi miei,

Meravigliando essi diran: costei

Come sciogliea tai carmi in tanto affanno!

L'apparente inconciliabilità ("tai carmi in tanto affanno!") della dolcezza, della compostezza e della limpida cantabilità proprie del modello arcadico con la travagliata esperienza biografica della poetessa viene còlta lucidamente dalla stessa autrice, ma proprio ad essa ella attribuisce la funzione di garantire la sopravvivenza dei suoi versi andando a costituirne, "al guardo de' Nipoti", la nota distintiva.

Come scriveva Gilberta Galli in un saggio che oggi si rivela assai prezioso sul piano storico, ma fatalmente inservibile, in massima parte, su quello critico, "la Maratti fu petrarchista nella forma; ma la sostanza che essa vestì è viva, vera, sentita, perché partecipe della sua natura e della sua vita". (11) Laddove, come nel nostro sonetto, questa contraddizione si trasforma in conciliazione, la poesia di Faustina Maratti Zappi raggiunge i suoi esiti più felici.

Per scomodare Johann Joachim Winckelmann: "come la profondità del mare, che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l'espressione (...), per quanto agitata da passioni, mostra sempre un'anima grande e posata", una "nobile semplicità" e una "tranquilla grandezza". In questo sta, forse, l'essenza del Classicismo - o, meglio, dei Classicismi, o, meglio ancora, della Classicità - di tutte le epoche.

Matteo Veronesi

NOTE

1) B. MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Milano, Bompiani, 1994, p. 305.

2) Rime dell'Avvocato Giovan Battista Felice Zappi, e di Faustina Maratti sua consorte, Venezia, Appresso Giovanni Gabriello Hertz, 1723, p.142. Questa edizione è seguita, per i testi della Maratti e del marito, anche da W. BINNI nel saggio sullo Sviluppo della poetica arcadica nella lirica del primo Settecento, in Storia della Letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1968, vol. VI, pp. 382-408. Nell'attesa di un'edizione critica delle Rime dei due coniugi, che a tutt'oggi manca, mi limito a segnalare le due varianti più considerevoli. Alcune edizioni - tra cui quella, sempre veneziana, impressa nel 1790 presso Gaspare Storti, seguita per i testi da B. MAIER nello studio monografico Faustina Maratti Zappi donna e rimatrice d'Arcadia, Roma, L'Orlando, 1954 - al verso otto riportano, in luogo dell'imperfetto traea, il presente trae, che si potrebbe giustificare ipotizzando che Aglauro abbia qui inteso fare ricorso alla figura retorica dell'ipotiposi - in virtù della quale un evento passato, vividamente impresso nella memoria, può venire rievocato e dipinto davanti agli occhi del lettore come se si stesse svolgendo nel momento stesso in cui ha luogo l'atto comunicativo -, o più semplicemente interpretando quel trae come presente storico. La versione vulgata, che comunemente si legge nelle antologie, riporta poi un punto interrogativo - non indispensabile ai fini del senso - al termine del verso undici: in base a questa lezione l'intera prima terzina andrebbe interpretata come un'interrogativa retorica.

3) B. MAIER, Faustina Maratti ..., cit., p. 69

4) ibidem, p.112.

5) Cfr. Concordanza delle Rime di Francesco Petrarca, a cura di K. Mckenzie, Oxford, 1912.

6) P. BEMBO, Prose della volgar lingua, a cura di M. Marti, Padova, Liviana, 1967, pp. 64-66. Per la geniale intuizione dantesca, si veda De vulgari eloquentia, II, 7.

7) B. MAIER, Faustina Maratti Zappi, cit., p. 85.

8) L. MORANDI, Lucrezia Romana in Arcadia, "Nuova Antologia", XXIII (1888), fasc. IV, pp. 585-604.

9) B. MAIER, Faustina Maratti Zappi, cit., p.113.

10) Rime dell'Avvocato, cit., pp. 130 e 136.

11) G. GALLI, Nel Settecento. I poeti Gian Battista Felice Zappi e Faustina Maratti, Bologna, Cappelli, 1925, p. 101.