La tentazione del simbolismo. Nota su Alvaro Valentini poeta-critico

(«Alla bottega», XXXVII, 1999, n. 1, pp. 1-14)


Benedico la dolce viltà di chi soccombe

e annega nel colore, nel suono e nel profumo.

Ma, torcia in cui confina la fiamma con il fumo,

io non vedrò mai altro che la via delle tombe? 


"Tous les grands poètes deviennent inévitablement, fatalement, critiques. (...) Il est impossible qu'un poète ne contienne pas un critique.  Le lecteur ne sera donc étonné que je considère le poète comme le meilleur de tous les critiques" (1). In questo noto passo di Baudelaire, tratto dall'articolo Richard Wagner et Tannhäuser à Paris, troviamo mirabilmente sintetizzato uno dei basilari princìpi teorici che animarono e sostennero, in seno alla grande tradizione simbolista, il momento della creazione poetica e quello della riflessione critica, strettamente legati l'uno all'altro, e "scanditi" da un "atto duplice e unitario" (2). Mallarmé avrebbe ripreso e approfondito, di lì a pochi anni, questi concetti: "la Critique (...)" addirittura "égale presque la Poésie (...), à qui apporter une noble opération complémentaire"; nella Bibliographie che chiude il volume delle Divagations, il legame, strettissimo, tra poesia e critica, si sustanzierà infine nella nozione - oggi tanto cara ai decostruzionisti - di "poème critique", di scrittura poetico-critica frammentaria e desultoria, ai confini del "poème en prose" (3)... Ci si dovrebbe addentrare, a questo punto, nei meandri, ancora tutt'altro che compiutamente esplorati e scandagliati,  della genesi e dell'evoluzione di quella critica "creativa" o "autonoma" - "critique amusante et poétique", "independent criticism", "critique d'analogie"... - che fu tipica della décadence, e che fu il naturale corrispettivo di una poesia incline a farsi a sua volta specchio di se stessa, ad accentuare la propria componente autoriflessiva e metaletteraria (4)

Questa visione della poesia, e insieme della critica, lascerà una profonda traccia nella riflessione metaletteraria novecentesca: Valéry, in Situation de Baudelaire, tratteggerà la figura di un poeta - modernamente "classico" - che ha "un critique en lui-même", e lo fa attivamente collaborare alle proprie opere; e in Italia De Robertis - che non a caso annoverava tra i suoi "testi", accanto a Foscolo e Leopardi, anche Poe, Baudelaire, Mallarmé, Valéry... -, in Saper leggere, parlerà di una critica che "viene insieme con la poesia" e "partecipa della natura della poesia", e di un critico che si fa "collaboratore dei poeti contemporanei più vicini e vivi", per mezzo di un'"adesione piena" e di una "partecipazione congeniale"... 

In anni recenti, Marco Forti ha in qualche modo individuato - pur non senza le dovute distinzioni - proprio negli "eponimi francesi baudelairiani e mallarmeani del poeta-critico" la radice più remota di tutta un'illustre "famiglia novecentesca" di poeti-critici: dai critici ermetici alla Neoavanguardia, a Zanzotto... (5). Si potrebbe, forse, ritagliare, all'interno di questa fitta genìa, anche un gruppo di "poeti-professori", in qualche modo indiretti eredi della tradizione ottocentesca dei Carducci, dei Pascoli, dei Graf; si potrebbero, al riguardo, menzionare autori come Silvio Ramat, degno prosecutore della linea del grande ermetismo fiorentino; Bàrberi Squarotti, coerente ed inflessibile teorico e cultore dell'autonomia e dell'autogenesi di una letteratura "specchio di se stessa"; o Fernando Bandini, con la sua pronuncia tesa, asciutta, raziocinante; o, ancora, Antonio La Penna, rivelatosi come poeta nel 1984, con La città moribonda, in cui l'aemulatio dei poeti latini si fonde con un impegno civile di ascendenza pasoliniana, e - quasi a voler abbozzare una linea secondonovecentesca di "poeti latinisti" - Luca Canali, con la sua poesia fecondamente nutrita di reminiscenze classiche, e, insieme, di cupe ossessioni e drammi esistenziali; a questa linea di poeti-latinisti si potrebbe ascrivere anche Enzio Cetrangolo, con i suoi Inni e notturni, improntati ad una classicità sepolcrale, fosca, inquieta, e ad uno stile studiatamente artefatto, congelato, "da traduzione"... La critica sembra, anche nelle sue manifestazioni apparentemente più tecniche, specialistiche, accademiche, essere in grado di farsi - per parafrasare una definizione leopardiana - "nutrice del verso". 

Certo è che uno spazio, in questa genìa di poeti-critici, o poeti-professori, spetta anche ad Alvaro Valentini, recentemente scomparso, noto soprattutto per la sua lunga e feconda attività di critico e di docente all'Università di Macerata, e del cui più che trentennale itinerario poetico - da Una storia d'amore, del '61, a Notizie del figlio, del '64, per arrivare fino a Perlocuzioni, dell''83, senza tralasciare le traduzioni da poeti antichi e moderni - reca ora testimonianza una pregevole edizione integrale, rigorosamente conservativa, e rispettosa dell'ordine cronologico dei testi (6)

Non è casuale che l'attenzione del Valentini traduttore si sia concentrata anche e proprio sulla grande tradizione simbolista, da Mallarmé - L'Après-midi d'un Faune -, a Valéry - Le Cimetière marin -, senza tralasciare Le bateau ivre e Les chercheuses de poux di Rimbaud, anch'egli, nelle due Lettres du Voyant, teorico e critico, pur se in modo baluginante e frammentario. Tutto ciò sembrerebbe confermare come sia proprio in tale tradizione che possono essere rintracciate le più profonde radici della linea novecentesca dei poeti-critici. E' poi interessante notare, per arricchire ulteriormente il quadro, che negli anni '40, all'Università di Roma, Valentini fosse stato discepolo di Ungaretti, dell'Ungaretti poeta-critico, "critico scrittore", simpatetico ed orfico lettore di Petrarca e di Leopardi, e, in questo, quasi anello intermedio tra il "saper leggere" vociano e la critica ermetica... 

La poesia di Valentini - pur se non certo aliena, in testi come la pièce La morte del muratore, da un vigoroso e risentito impegno civile e da un'aspra polemica sociale - è tutta sensibilmente attraversata e animata  da quella che si potrebbe definire come la "tentazione del simbolismo": "benedico" - scrive il poeta in L'estate, uno dei primi testi - "la dolce viltà di chi soccombe / e annega nel colore, nel suono e nel profumo. / Ma, torcia in cui confina la fiamma con il fumo, / io non vedrò nient'altro che la via delle tombe?". Vi è, qui, la tentazione di abbandonarsi alla "ténébreuse et profonde unité" delle baudelairiane Correspondances, in cui "les parfums, les couleurs et les sons" - espressioni che il testo di Valentini riprende alla lettera -  "se répondent"; ma sopraggiunge immediatamente il cupo simbolo della "via delle tombe", che ricorda la pascoliana Nebbia, con l'immagine di "quel bianco / di strada, / che un giorno ho da fare tra stanco / don don di campane", riecheggiata poi da Serra nell'Esame di coscienza di un letterato, in cui l'autore sente "la stanchezza delle vecchie strade bianche e consumate giacere in mezzo alla pianura fosca", e presagisce, nel contempo, il momento in cui "i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l'erba sopra sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso" - e viene in mente ancora un verso pascoliano, "nasce l'erba sopra le fosse", contaminato forse con un fioco riverbero del baudelairiano "luxe, calme et volupté"... L'immagine, ossessivamente ricorrente in Pascoli, di questa assidua presenza e vicinanza dei morti, si incontra anche in altri luoghi del testo serriano, cui si dovrà fare ancora riferimento tra breve: gli uomini sono "creature innumerevoli e tenaci" che "seguitano (...) a far dei figli sulla zolla che ricopre i morti"; e, ancor più icasticamente, "file e file di uomini (...) calcano la stessa terra, cara terra, dura, solida, eterna; ferma sotto i nostri piedi, buona per i nostri corpi". Realtà e simbolo, impegno e disimpegno, vita e letteratura sembrano così, nell'ultimo Serra, venire tragicamente a collidere, e insieme annullarsi a vicenda. 

Vi è dunque, in Valentini, il richiamo ad un grande tema, o addirittura mito, otto-novecentesco, quello del "ritorno dei morti" (7), che, come si vedrà meglio più oltre, attraversa, ossessivamente ricorrente, tanto il percorso poetico quanto l'esperienza esistenziale dell'autore; due elementi, questi ultimi, che nella sua opera finiscono, del resto, per convergere. E la splendida quartina citata in esergo consente anche di cogliere un altro aspetto tipico della poesia di Valentini, cioè la funzione logica, espressiva, concettuale, analogica, che è assegnata alla rima, che qui - profumo:fumo, rafforzata anche da un probabile riverbero etimologico - ha una valenza oppositiva, giustapponendo due elementi che - tanto sul piano fenomenico quanto su quello simbolico - si annullano e si escludono vicendevolmente. 

Alla "vecchia rima", tra l'altro, il Valentini di Perlocuzioni dedicherà, con il  registro sottilmente ironico ed autoparodico che è proprio dei suoi versi più tardi, una Ballata crepuscolare: "è proprio come un fedele tamburo / per i miei giochi d'improvvisazione. / Do il primo colpo; e la percussione / sveglia l'analogo suono futuro". Potrebbe venire in mente, ferma restando la differenza di tono, Rimbaud: "j'assiste à l'écloison de ma pensée: je la regarde, je l'écoute: je lance un coup d'archet: la symphonie fait son remuement dans les profondeurs, ou vient d'un bord sur la scène" (8)

Anche il Valentini teorico della letteratura aveva, del resto, avuto modo di elogiare le virtù della rima: "le rime sono la spia delle associazioni che emergono dal profondo" (dalle "profondeurs" rimbaudiane?), "che segnano il filo della confessione liberatrice, della connessione creativa. (...) Le rime (...) conducono il lettore da fantasia a fantasia, da visione a visione, da concetto a concetto". La rima consente al poeta e al suo lettore di "scoprire, entro i limiti rigorosi di una costruzione, l'infinito che sotto forma di musica, di colore, di immagine, di relazione, da quella costruzione si sprigiona" (9). Sono evidenti, anche in questa nozione della poesia come "musica", "colore" e "relazione", nonché come "costruzione" - concetto, quest'ultimo, che l'autore mutua esplicitamente da Poe -, l'ascendenza simbolista e la dimensione pienamente moderna. Come ha notato Giuseppe Bonaviri in alcune preziose pagine, nella poesia di Valentini la tramatura delle rime delinea una rete di "melodie intrinseche nella stessa corrente del pensiero poetico" (10)

Dall'opera poetica dell'autore emergono, a più riprese, le tracce di un tormentoso vissuto: i traumi della guerra, la precoce perdita del padre, il moto di ribellione, cui è sottesa anche una sorta di tormentata e risentita "teodicea negativa", di fronte ai drammi umani e alle ingiustizie sociali: "E' strano quello che predichi!" - grida il poeta nella Morte del muratore. "Dio premierebbe i nemici / dandogli ricchezze e riposo, / e gli stenti e i pericoli / li lascia a chi segue il suo verbo". Ma questo vissuto si traduce in espressione letteraria, si cristallizza e si risolve nella pagina scritta, dopo essere stato filtrato, e come purificato e reso più nitido, attraverso un fitto reticolo di reminiscenze letterarie. E' per questa via che, come scrive Sandro Baldoncini, nel nostro poeta una sorta di laica "religione delle lettere", di stampo quasi derobertisiano e serriano, "si traduce (...) in una poesia che si fa cultura e in una cultura che si fa poesia", e ricompone le lacerazioni dell'esperienza entro il dominio di una sorta di "armonia del dolore" (11), di una cognizione del dolore raddolcita e come sublimata nell'acronia, serena e imperturbabile, della letteratura. Come ha notato ancora Bonaviri, nei versi del nostro autore si sente vibrare un "dolore etico che nasce da un uomo di cultura profondamente sofferta e amata; e un uomo di cultura in fondo è il vero poeta" (12). Del resto il teorico era convinto che la letteratura fosse un "sistema" autonomo e autosufficiente, ancorché non totalmente chiuso; "un mondo nel nostro mondo e non la sua descrizione". 

Nel mobile e spregiudicato eclettismo che anima, al di là dell'intento divulgativo, il volume Leggete così, Valentini arriva quasi ad accostarsi, occasionalmente, a forme di esplicito e dichiarato estetismo, citando il Wilde di The Critic as Artist: "la vita imita l'arte molto più di quanto l'arte non imiti la vita" (13). E di Wilde l'autore avrebbe forse condiviso anche un'altra provocatoria formulazione, contenuta nella prefazione al Ritratto di Dorian Gray, secondo la quale ogni forma di critica è "a mode of autobiography": se la vita si risolve o si sublima in letteratura, allora anche l'atto della lettura e dell'operazione ermeneutica può talora divenire - secondo un'ottica, ancora una volta, anche serriana e derobertisiana - una forma di espressione individuale, reazione soggettiva, "storia di un'anima", senza nulla perdere della sua lucidità, della sua chiaroveggenza, della sua valenza di penetrazione esegetica. Fatto essenziale è che la poesia, "in superficie e in profondità" - un po' quella che qualcuno ha chiamato "la profondeur de la surface" -, "produca onde, reazioni numerose, coinvolga significati e sogni, memorie e analogie" (14) - il "demone dell'analogia" di mallarmeana, e già in parte leopardiana, memoria. Altrove, dopo aver proposto, per via di analogia e di "suggestione", alcuni arditi accostamenti tra differenti autori e testi, Valentini sottolinea che "un poeta, anche se usato come chiave per leggere un altro poeta, è sempre il segno che con lui il mondo è cresciuto" - che la sua opera è, come scrive Rilke nel saggio su Rodin, una "cosa che vive ormai sola", che "può stare a sé", una "cosa in più", "aggiunta al mondo", chiusa "nel cerchio di solitudine in cui trascorre i suoi giorni" -; "il lettore si è fatto più ricco e le parole di un tempo" - filtrate attraverso l'individualità del lettore, il suo sguardo, il suo vissuto - "si fanno leggere con toni nuovi che non contraddicono i vecchi ma li dilatano" (15).  Come insegnano i decostruzionisti, "spesso è proprio attraverso giustapposizoni abrupte che si arriva a meglio cogliere", scandagliando profondamente l'abisso, quanto mai stratificato, di una tradizione millenaria, "certe essenze del fenomeno poetico" (16)

Si è accennato ad un'idea di scrittura poetica come sublimazione letteraria del vissuto. E gli strumenti di questa sublimazione sono essenzialmente formali, legati - sempre secondo la lezione della scuola simbolista e postsimbolista, da Mallarmé a Valéry e oltre - al concreto operare del poeta sulla materia verbale. Anche a questo riguardo, la voce del critico e del teorico fiancheggia quella del poeta: "il problema è, come sempre accade in poesia, un problema di linguaggio nella misura in cui questo rappresenta il mezzo per indicare, delimitare, possedere, esprimere il mondo che si vuol rappresentare, nel tono in cui lo si vuole rappresentare" (17)

Una poesia, dunque, come microcosmo o sistema autonomo che si rapporta alla vita non già come copia o mimesis, ma come organismo autosufficiente ed incondizionato, dotato di leggi proprie, e tale da sublimare il reale senza per questo occultarlo o eluderlo. Il reale infatti continua ad imporsi, doloroso e opprimente, all'orizzonte degli eventi umani, come storia, esperienza, vita, memoria fitta di traumi e di lutti, e ad esso si oppone, entro la gamma delle possibilità dischiuse all'agire umano, la dolce tentazione di una fuga nelle serene regioni della religione estetica, ove, come dicono i versi baudelairiani prima richiamati per Serra, "tout n'est qu'ordre et beauté, / Luxe, calme et volupté" - la "dolce viltà" di chi si lascia irretire dalla magia dei suoni, dei colori, dei profumi. Il vissuto, peraltro, emerge, nello stesso emblematico testo prima citato, L'Estate, con incoercibile violenza: "la mia infanzia d'orfano nel gelo si scalzava"; "ascolta!" - l'apostrofe è rivolta a Dio - "sono stanco di creare me stesso. / Mio padre di cui sono a un tempo orfano e figlio / mostrami dentro un sogno e mi doni un consiglio / o un comando". E' ancora la rima - figlio:consiglio, potente e solenne, di ascendenza dantesca e addirittura jacoponica, corroborata dall'ampio incedere del doppio settenario -, unitamente al riferimento, anch'esso denso di riscontri letterari, ad un incontro ultraterreno con l'ombra del padre, a conferire dignità metafisica e perenne, inviolabile assolutezza alle brucianti ferite della vita. La suggestione di Jacopone da Todi - poeta già caro ad Ungaretti - è ancor più marcata nel Lamento di Eva, proprio per quanto concerne la struttura strofica e la disposizione delle rime, che ricalcano quelle della famosa lauda drammatica che inscena il pianto della Vergine ai piedi della croce. Al dolore di un figlio per la morte del padre si giustappone ora, come per una sorta di assoluta ed universale reciprocità, quello di una madre per la morte del figlio; e alla Madre di Dio si sostituisce la prima peccatrice, quasi a significare che - per citare Saba - "il dolore è eterno, / ha una voce e non varia", e arriva a trascendere anche l'inflessibile giustizia divina. Dice l'Angelo, araldo di un'implacabile destino di morte: "il fiore ch'è strappato, tristemente marcisce, / l'uccello ch'è caduto, per destino perisce, / l'uomo che non si desta, è morto, imputridisce, / e la madre che piange non lo può risvegliare". E la madre grida a Dio - proprio come lo stesso poeta aveva fatto nella citata lirica L'estate - tutto il suo dolore, invocando nel contempo per Caino un impossibile perdono: "m'hai condannato i figli con doglia a partorire / e m'hai fatto la fronte di dolore fiorire. / Ma compie il tuo destino questo eterno dormire / che l'anima di madre, ecco, m'ha lacerato?". E il dolore è sublimato, trasceso, reso eterno, per mezzo dell'allusione letteraria, tanto al modello jacoponico quanto alla Genesi biblica. 

Gli strumenti attraverso cui si effettua questa sublimazione del vissuto sono, come si è detto, essenzialmente formali e testuali. La sottile, e insieme amara, "ironia formale" di Perlocuzioni si rivela, anche a questo proposito, lucido e prezioso strumento espressivo e conoscitivo. "Come la Serpentina o l'Alambicco / che ogni sostanza sanno sublimare, / lo strumento del Verso riesce a mutare / ogni cosa in alcunché di strano e ricco. // Aggiungi che il poeta è fortunato: / il suo dolore può essere incatenato / nel Verso, con la Rima e la Prosodia. - // Ma se un dolore effimero nel verso è incatenato, / si fa eterno quando viene stampato. / Poeta è quei che scrive per obliarsi". Ma la sublimazione si sconta con l'aridità, l'astrattezza, lo stallo disperante di un'esperienza vitale che resta, per così dire, imprigionata nel verso: "le regioni dell'anima di un poeta / sembrano quelle di una carta stradale / in cui non si scende e non si sale, / non sporge masso, non brilla creta. // Nei suoi segni, più o meno decifrabili, / son luoghi astratti quelli che vedete. / Per una sosta non c'è ombra d'alberi, / non ci sono dolci acque per la sete". "La mappa non è il territorio", scrive il poeta in esergo, citando Alfred Korzybski. Il segno della poesia può rivelarsi astratto, fallace ed arbitrario  non meno di quello della rappresentazione cartografica (18); e il paesaggio della poesia può essere arido, prosciugato, ridotto a scheletrici e disincarnati contorni, come quello dell'Iperuranio descritto nelle pagine conclusive della Politeia platonica, in cui le fronde non rendono ombra, le acque non dissetano, e dai rami degli alberi pendono frutti impalpabili... 

Tutto intessuto di reminiscenze letterarie, soprattutto montaliane, è anche il tema amoroso, che domina, com'è evidente fin dal titolo, il libro Una storia d'amore. E non è un caso che proprio a Montale il nostro autore abbia dedicato quella che è forse la sua più nota e fortunata fatica di critico: l'esegesi sistematica - apparsa tra il '71 e il '77 -, testo per testo, verso per verso, delle prime tre raccolte montaliane, che si affianca ad altri studi che Valentini condusse sull'autore. Ed è interessante notare come il Valentini poeta avesse evidentemente cominciato a prestare attenzione a Montale più di un decennio prima del Valentini critico, e come, dunque, lo sguardo di quest'ultimo si sia posato sui testi del'autore degli Ossi dopo essere già stato acuito e reso più limpido dalla fruizione estetica e dalla libera ed immaginosa aemulatio poetica. Sotto questo profilo il caso di Valentini dovrebbe forse essere letto nel più ampio contesto della corposa presenza montaliana nella poesia del secondo Novecento, da Sereni a Luzi a Orelli e oltre. 

"Un viale era il mondo; / la musica, un batticuore. (...) // E l'ora era quella partenza / del tuo tram, con i pochi / cenni d'addio. Tra i fuochi / d'amore, che lunga assenza!". Vi è, qui - a rafforzare la straniata e desolante percezione del distacco, del triste commiato -, un fioco riecheggiamento - forse una corrispondenza casuale, ma comunque interessante - di un folgorante "mottetto" delle Occasioni: "Addii, fischi nel buio, cenni, tosse / e sportelli abbassati. E' l'ora...". E l'"orrida / e fedele cadenza di carioca" del treno montaliano diventa, in Valentini, un meno fragoroso, ma ugualmente angosciato, "batticuore". 

Un contesto simile si ritroverà in un'altra lirica, improntata ad una misura versale più ampia, mossa, articolata: "mi staccano / i tuoi sguardi e le tue dita che premono, dalla / vita di tutti che pure pareva chiudermi dentro / il tranvai colmo, dividermi con gli squilli del telefono!". La sabiana "calda vita di tutti gli uomini di tutti i giorni" diventa, ora, come una grande morsa opprimente e alienante, a cui l'apparizione luminosa e salvifica della donna riesce a sottrarre il poeta. 

Più evidente è la presenza montaliana in altri testi. I versi chiedono, anche qui, che il lettore presti attenzione alla fine cesellatura e al sottile arabesco delle rime, e al gioco delle assonanze e delle consonanze che si rincorrono, per così dire, nei meandri e nei sotterranei del testo - nelle "profondeurs" rimbaudiane. "La lamiera schiodata che oscilla al vento / ha battiti regolari anche stasera. / Suonerà la notte intera / questo fragoroso strumento. // Il tempo non è più il mio cane fedele / che mi riporta i giorni che lontano ho scagliato. / E' un cielo nero, di vetro...". E' qui piuttosto marcato - sebbene, per così dire, "addomesticato", ammortizzato, prosaicizzato - il riferimento al Montale più dannunziano, al "protomontale" di Corno inglese: "il vento che stasera suona attento / - ricorda un forte scotere di lame - / gli strumenti dei fitti alberi e spazza / l'orizzonte di rame; / (...) il vento che nasce e muore / nell'ora che lenta s'annera / suonasse te pure stasera / scordato strumento, / cuore". Il testo di Valentini riprende nella chiusa - secondo una perfetta struttura ad anello - l'immagine dell'ossessivo sbattere della lamiera, con cui il testo si era aperto; una lamiera vista come oggetto che diventa, secondo la lezione eliotiana fatta propria dallo stesso Montale, correlato oggettivo di uno stato interiore: "ai colpi (o al tuo pensiero?) trasale il mio cuore / come questa lamiera sbattuta dal vento". E la lamiera è anche, per certi versi, un "simbolo", da intendersi nella pregnante accezione mallarmeana: il "mystère du symbole" - si legge nell'intervista ad Huret - risiede proprio nell'"évoquer petit à petit un objet pour montrer un état d'âme, ou, inversement, choisir un objet et en dégager un état d'âme, par une série de déchiffrements". E il "cielo (...) di vetro" può forse ricordare una delle tante allucinate epifanie negative che affiorano dalla poesia montaliana: l'"aria di vetro", "arida", in cui il poeta potrà forse, "rivolgendosi", vedere "compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me". E il motivo del "voltarsi", del volgersi indietro a guardare, si ritrova anche in un'altra lirica di Valentini: "Amore. Di spume fiorisce / ogni onda sotto il sole. / Tu che mi restituisci, / com'eco, le mie parole, // vòltati indietro. Ora puoi". Oltre che nell'episodio veterotestamentario della moglie di Lot tramutata in una statua di sale per esservi vòlta a guardare il rogo di Sodoma, l'immagine del gesto - per certi versi carico di una valenza archetipica - di chi si volge indietro per vedere la persona amata si trovava, densa di un tragico pathos, anche in Virgilio, autore assai caro a Valentini, anch'egli per certi aspetti "poeta-latinista"; e si trovava, per la precisione, nell'episodio di Orfeo ed Euridice, in un passo del quarto libro delle Georgiche tradotto, non a caso, dall'autore proprio nel '61, lo stesso anno in cui esce Una storia d'amore: "vinto d'amore si fermò; si volse, / già vicino alla luce, a riguardare / la sua Euridice, immemore. Perduta / andò l'impresa e fu rotta la legge / del nume inesorabile" (vv. 390-4 nel testo latino). Orfeo, giunto ormai "luce sub ipsa", "restitit" e "respexit", si volse a guardare, e - come avviene per Caino nel Lamento di Eva - l'implacabile e inesplicabile giustizia degli dei - che, dice il poeta latino,  "non sanno perdonare" - sancì la sua rovina. Si può notare che, in Virgilio come in Montale - e mi si passi, dato il contesto, l'inusitato accostamento, che forse non sarebbe dispiaciuto del tutto nemmeno a Valentini - il "rivolgersi" e il "vedere", condensati nel virgiliano "respicere", mettono capo ad una rivelazione negativa, ad una tragica catastrofe: l'ira divina nel poeta delle Georgiche, un "terrore di ubriaco" - forse, comunque, preferibile all'"inganno consueto" - nell'autore degli Ossi. Ma l'immagine del voltarsi ci induce a richiamare, ancora una volta, l'Esame serriano, le cui risonanze emergono a più riprese, con una presenza discreta ma sensibile, nell'universo culturale del nostro autore, ed erano già avvertibili - come segnalato da Mario Petrucciani (19) - anche nel testo montaliano: "questi pensieri (...) mi avevano fatto compagnia quando l'inverno giaceva sui colli duri, imminenti nell'aria di vetro; (...) finché uno (...) si volta indietro, e si meraviglia di aver durato tanto, nella ripetizione senza motivo: ed è finita".  

Nel nostro poeta, tuttavia, ciò che appare allo sguardo di chi si volge non è una rivelazione negativa, il dischiudersi di un abisso, un'epifania del nulla; prende corpo, invece, un'immagine di gioioso amore, di tenera complicità, quasi come se, nel libero gioco dell'emulazione poetica, Orfeo ed Euridice riuscissero ad uscire insieme, indenni, dall'Averno: "vòltati indietro. Ora puoi. / Ma stretta tra le mie braccia. / Quella lunga doppia traccia / di passi concordi... Siamo noi!". 

Al motivo amoroso s'intreccia, con molte affasciananti variazioni, quello del rapporto, difficile e ambiguo, tra le parole e le cose, tra il segno poetico e l'essenza del reale. E', anche questo, un tema caro alla riflessione metaletteraria sottesa alla poetica del simbolismo: Rimbaud sognava una "lingua universale" tale da rendere inutili i dizionari, e da configurare un "verbe poétique accessible à tous les sens"; e Mallarmé, persuaso che "nommer un objet, c'est supprimer les trois quarts de la jouissance du poème", definisce il "fiore" nominato dal poeta come, per antonomasia, l'"absent de tous bouquets", l'assente da ogni mazzo, una pura astrazione, una suggestione, un emblema verbale disincarnato, ed elevato di per se stesso a sostanza o ad eone. 

Intorno a questo tema il Valentini poeta costruisce uno dei suoi testi più felici, Memoria, che vale la pena di riportare per intero. 


Di te ricordo azzurri fiori che ti donavo.

Senza quei fiori, ti avrei dimenticata.

In quei petali brevi, così resti eternata.

Senza di te non avrei quella corolla amata.

L'esistenza, il profumo e il nome ne ignoravo.

L'amo, dunque, in onore di te che, allora, amavo.

Tu dài nome alle cose ed esse hanno il tuo nome 

dolce. S'intesse tutto in questo giro, come

l'amore e un fiore azzurro per te che, allora, amavo.


E' una sorta di limpido e delicato madrigale, o di ballata aerea e variopinta, di una levità quasi polizianea. La scansione ternaria della struttura strofica, con il suo fitto intrecciarsi di rime, e con l'arioso gioco d'eco tra il sesto e il nono verso, sembra quasi mimare - con straordinario vigore iconico - l'intrecciarsi delle corolle; gli enjambement dei due versi conclusivi - gli unici in un testo che, per il resto, presenta un'assoluta linearità sintattica e una perfetta corrispondenza tra versi e frasi - isolano ed evidenziano in rejet due parole - "amore" e "dolce" - che brillano come gemme nella studiata naturalezza dell'artificio. La donna amata, con la sua presenza calda, luminosa, salfifica, quasi incarna - per riprendere suggestioni del pensiero greco - la mitica figura dell''onomastikos, del themenos ta onomata, del sapiente che mette i nomi alle cose. Viene in mente anche il fanciullino pascoliano, che, come Adamo, "mette il nome a tutto ciò che vede e sente"; ma si potrebbe richiamare, con un altro ardito passaggio analogico, il Rilke dei Sonetti a Orfeo, che così si rivolge alla "rosa regale", "inesausta corolla": "La tua fragranza, a noi, grida da secoli / i suoi nomi più dolci, e sta, nell'aure, / in una eterna fissità di gloria. // Ma nominarla, non sappiamo: essenza, / che in sé concentra tutte le memorie / dell'ore irrevocabili trascorse" (20)

Sembra quasi che, nel testo del poeta firmano, la parola poetica, vivificata e fecondata dall'ineffabile gioia di un amore corrisposto, tenti di rompere la cortina dell'ineffabile, per cogliere quell'"essenza" e recuperare, insieme con essa, la memoria di quelle "ore irrevocabili". Sono, paradossalmente, proprio l'assenza e la lontananza della donna a rendere possibile il processo mnestico, il recupero memoriale del passato, attraverso un processo di simbolizzazione.  E', questo, uno dei momenti di "poesia essenziale" che incontriamo nel nostro autore, che del resto offre anche (basti pensare a La morte del muratore) anche duri e scabri squarci di "poesia esistenziale". "Della cosa l'uomo non possiede (...) che la memoria, la 'reminiscenza'" in senso platonico, "in quanto la cosa è già 'assente'. La poesia muove quindi da questa 'assenza' della cosa, muove da un distacco, dalla coscienza di aver perduto la cosa; ed alla cosa assente e perduta ridà vita piena ed eterna nella memoria" (21). La parola poetica riesce, con la sua purezza e la sua assolutezza - e, insieme con la sua fragilità, la sua precaria levità, la sua, direbbe Luzi, "disabitata trasparenza" - a riportare alla luce della memoria un oggetto già purificato, rastremato, reso "puro" e "innocente" dalla vertigine della lontananza e dall'abisso dell'assenza. 

Anche qui Valentini pare riprendere, rovesciandole, situazioni montaliane: il legame con la donna sembra per un attimo ricondurre il soggetto lirico al cuore di quell'"infanzia" in cui "si vestivano di nomi / le cose, il nostro mondo aveva un centro": proprio quell'infanzia di cui il poeta degli Ossi aveva cantato la "fine". La montaliana "memoria che si sfolla" - la memoria "frastornata" dal tempo nella Casa dei doganieri - viene colmata di un nome e di un volto - il volto invece "reciso" nel testo di Montale -, di un ricordo luminoso e gioioso, che squarcia la "nebbia di sempre". I "petali brevi" divengono, ancora una volta, un simbolo o un "correlato oggettivo" che consente al poeta di ricondurre alla memoria la figura della donna amata: "in quei petali brevi, così, resti eternata"; l'amore per la donna si trasferisce all'oggetto, che diviene "corolla amata". Anche il Valentini teorico è del resto consapevole della peculiare valenza espressiva e conoscitiva dei processi di simbolizzazione e metaforizzazione: "questo uscire da sé, questo cercare nel mondo esterno i correlativi della propria vita interiore è nel fitto interscambio che fa del reale il geroglifico" - di baudelairiana e proustiana memoria - "che tocca all'uomo decifrare quasi per giustificare la sua presenza nel flusso del mondo, per riconquistare, d'attimo in attimo, il senso del proprio esistere" (22)

Sembra esservi, in questa ritualità del nominare, dell'evocare, e quasi risuscitare attraverso la parola poetica i fantasmi e le ombre delle cose passate, per fissarle nella fittizia e fragile perennità della pagina scritta, qualcosa dell'arcaica e ancestrale concezione della poesia come magia, come carmen incantatorio o apotropaico; una concezione che la modernità letteraria riscopre attraverso la mediazione, lucida e demistificante, della riflessione critica, a partire dalla poesia coma "sorcellerie évocatoire" di cui parla Baudelaire nel saggio su Gautier e dalla concezione mallarmeana - esposta nello scritto intitolato per l'appunto Magie - del poeta come "enchanteur de lettres" che opera per mezzo del verso, "trait incantatoire" che definisce e delimita un suo "cerchio magico", "cercle que perpétuellement ferme, ouvre la rhyme" (e si noti la funzione evocativa e gnoseologica che già Mallarmé accorda alla rima). Il Valentini critico era ben consapevole che "elevare un oggetto a simbolo" - i fiori, "assenti da ogni mazzo", che evocano, e quasi surrogano, la presenza della donna - "non è solo un'operazione estetica. E' (...) un atto volontario che testimonia proprio una volontà di possesso. E' una rivalsa. E' una riduzione, in scala, del mondo. E la reductio è il primo atto di magia!" (23)

"Le mie notti fa triste, e i giorni oscuri, / quella che n'ha portato i penser miei, / né di sé m'ha lasciato altro che il nome", suona mestamente la chiusa di un sonetto del Petrarca, tra le rime in lode di Laura morta. Un nome-senhal che, com'è noto, Petrarca venera quasi - mi si passi l'espressione - feticisticamente, sottoponendolo ad ogni sorta di elaborazioni, variazioni, giochi di significanti (Laura l'aura l'aureo lauro...). 

In Valentini il "nome dolce" della donna è tramite e strumento del processo anamnestico in virtù del quale ella è ancora viva, anzi addirittura dantescamente "eternata", nella memoria del poeta, grazie alla sublimazione letteraria, all'artificio formale, a quello che Yeats chiamò "the artifice of eternity". 

Il tema del rapporto fra nome e realtà ricorre più volte in Una storia d'amore. La donna è detta "l'unica che mi sapesse / chiamare come io volevo: / quella che meglio dicesse / il nome in cui mi chiudevo". Ma ora la donna è lontana, e le tre sillabe del nome, con splendida metafora, "ora non riscintillano più / nella tua voce"... Analogo motivo a proposito della morte del padre: il poeta non proverà mai "lo stupore sognato (...) / di sospendermi al bronzo del suo braccio / chiamandolo col nome così a lungo negato". 

Affascinante è anche la Piccola leggenda del poeta deluso, che - un po' come l'Alexandros pascoliano - "quando fu giunto al limite dei paesi / non vide che un cielo ripido percorso da nubi". "Altro da sé nel cuore del grande progetto / ogni cosa aspettava di diventare. Ora do / forma con gli occhi a queste nuvole e scrivo / su di esse il nome di quanto si è perduto". Sembra quasi che qui Valentini, giunto al termine del suo ormai trentennale percorso poetico, abdichi alle funzioni e alle aspirazioni del poeta, e deponga definitivamente le istanze e le tensioni mitopoietiche a cui prima pareva tendere - rafforzato e vivificato dall'amore - il rito arcano della nominazione. 

La poesia è la "forma che accoglie / ciò che va alla deriva dei nostri giorni umani", cioè, come si è già detto, sublima l'esperienza attraverso l'artificio, l'elaborazione letteraria, la forma. Ora, però - sancita l'arbitrarietà "cartografica" della rappresentazione poetica -, non resta al poeta che scrivere sulle nuvole - di per sé, diceva Saba, "cose leggere e vaganti", di per sé simbolo della precarietà e della transitorietà - "il nome di quento si è perduto". Dice l'"eremita tentato" nella poesia omonima: "ma tutto si trae dietro il proprio nome / e mi inseguono a sciami le parole / che ripudio. Da questo vuoto emergono, / coi loro squilli, i luoghi ove le appresi. // Ripòpolo di nomi il mio silenzio. / (...) Le farfalle in amore sono sillabe. / Memoria, cane mio troppo fedele!". Si può notare, per "spiegare Valentini con Valentini", come quest'ultimo verso riprenda e rovesci una metafora già presente nell'incipit di un testo di Una storia d'amore: "Il tempo non è più il mio cane fedele"... La memoria, dunque, come sorta di erma bifronte che può assommare in sé tanto la reminiscenza dolce e pura, ma purtroppo labile e precaria, di un momento d'amore, quanto l'ombra inquietante e molesta del turbamento dei sensi. 

Nell'Eremita tentato la tentazione del simbolismo assume la forma del motivo baudelairiano delle sensazioni che si fanno parole, si tratti delle "confuses paroles" emesse dai "vivants piliers" del "tempio" di Correspondances o dell'oblioso paradiso artificiale dell'Invitation au voyage, ove tutto parla "à l'âme en secret / Sa douce langue natale"; essa si identifica anche con il tema flaubertiano dell'eremita tentato, avvolto in una fascinosa nube di intense percezioni sensoriali: "vibra di voci, nuove a me, il silenzio, / né mi raggiunge quella umana. Sento / coleotteri in volo, fiori in fremito" - con, in più, la possibile reminiscenza dannunziana delle parole non più umane, ma pronunciate, "sulle soglie del bosco", da una Natura personificata. 

Sensazioni e percezioni che il poeta, chiuso nella sua solitudine quasi ascetica, non può che sciogliere in sillabe, versi, aerea ed impalpabile musica verbale. 

L'eremita tentato si trova in Perlocuzioni, il libro in cui più si accentua l'aspetto della riflessione metaletteraria, e in cui il poeta, guardando con più lucida consapevolezza al proprio fare, accenna in modo più spiccato a farsi critico di se stesso. Sempre in Perlocuzioni troviamo, non a caso, un testo come Parole, che è quasi una dichiarazione di poetica, e insieme la testimonianza di un denso percorso di riflessione metaletteraria: "fu in principio / il Verbo. Ora ne restano parole / per trascriverne l'eco, tramandarne / schegge. (...) / In mezzo a questo / labirinto si aggirano, come ombra / d'un sogno, fragilissimi gli umani". La Parola divina - il Verbo, il logos giovanneo - si è ora frantumato in una selva di parole, cui il poeta tenta, con la forma e nella forma, di ridare ordine, pienezza, profondità conoscitiva. Ed è interessante notare, nei versi appena citati, anche la movenza leopardiana ("così tra questa / immensità si annega  il pensier mio"; "in mezzo a questo / labirinto si aggirano"...), riecheggiata forse in modo inconsapevole, che evidenzia da un lato, in fine di verso, il pronome dimostrativo, dall'altro, in rejet, da potente "segnale dell'infinito", l'"immensità" - o, nel testo di Valentini, il "labirinto" degli stili e dei linguaggi - in cui il Soggetto intensifica la propria identità, si "espande" e, nel contempo, si smarrisce e si aliena. 

Dopo l'amore, la morte. Non per riprendere l'ormai vieto e logoro binomio romantico e tardoromantico, ma semplicemente per giustapporre quelli che sono forse i due motivi dominanti, e ossessivamente ricorrenti, della poesia di Valentini. 

Si è già accennato alla linea otto-novecentesca del tema del "ritorno dei morti". Prima ancora che a Pascoli, per il quale si può pensare a testi come i menzionati Nebbia e Il gelsomino notturno, ma anche e soprattutto a La tovaglia ("Lascia che vengano i morti, / i buoni, i poveri morti", morti che, si noti, riscoprono il mondo dei vivi proprio ricordando il nome del pane), si deve risalire, ancora una volta, a Baudelaire: "les morts, les pauvres morts, ont de grandes douleurs", si legge nel componimento numero cento delle Fleurs, lirica in cui è notevole anche la metafora, ripresa poi da Montale, del "tempo fatto acqua": i morti "sentent s'égoutter", con una vaga risonanza villoniana, "les neiges de l'hiver, / Et le siècle couler". Pascoli aveva poi alle spalle anche Carducci, il Carducci delle Odi barbare, e precisamente dell'ultimo distico di Nevicata, in cui, peraltro, la via è non già quella di un ritorno dei morti, ma piuttosto quella di un ritorno ai morti: "In breve, o cari, in breve - tu càlmati, indomito cuore - / giù al silenzio verrò, nell'ombra riposerò". 

Il tema del ritorno dei morti si ritrova, più volte articolato e variato, proprio in Montale, autore che, per ovvie ragioni, il nostro poeta aveva ben presente alla memoria. Uno degli ultimi "ossi" è intitolato, per l'appunto, I morti: ai trapassati "è tolto ogni riposo", una "forza (...) spietata più del vivere" li agita e li tormenta, "larve rimorse dai ricordi umani" - ove si nota, tra l'altro, un'allitterazione assai prossima a quella di Cigola la carrucola del pozzo: " trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un'immagine ride". Non a caso, nel commento di Valentini agli Ossi, arrivati a questo testo l'anima del critico vibra insieme a quella del poeta, tanto che - avrebbe detto Mario Fubini - nella pagina dell'esegeta "sembra di sentir battere due cuori", e l'autore dà libero sfogo alla sua inclinazione verso quella che un teorico del primo Novecento definiva "critique d'analogie", accostando, sotto la spinta del proprio vissuto più intimo e sofferto,  autori in sé storicamente e culturalmente assai lontani: "erranti (come gli spiriti foscoliani 'tra il compianto dei templi acherontei') i morti tornano dove il ricordo della vita vissuta li chiama, fantasmi in pena, dolenti esistenze... Una forza spietata (e quindi crudele come la vita stessa) li trae al paesaggio che fu loro (Curae non ipsa in morte relinquont, Aen., VI, 444)" (24)

Il motivo torna in Notizie dall'Amiata, proprio insieme alla metafora, già menzionata, del tempo che cola: "oh il gocciolio che scende a rilento / dalle casipole buie, il tempo fatto acqua, / il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere, il vento, / il vento che tarda, la morte, la morte che vive!". E l'idea - già dantesca, e cara, come si è visto, anche al nostro poeta - di un colloquio e di un incontro post mortem con l'ombra del progenitore si trova in A mia madre, così come in Voce giunta con le folaghe, il cui "sentiero di capre" che conduce al luogo "dove ci scioglieremo come cera", memore a sua volta della "strada" pascoliana, anticipa anche la tetra "via delle tombe" di cui parla Valentini. Questi, che nel '52 diede una pregevole traduzione isometrica del Cimetière marin di Valéry, potrà avere avuto in mente anche i morti - "Pères profonds, têtes inhabitées", che giacciono "nel sopore delle bare" - invocati, con un'icona parentale ("Padri profondi") in cui il nostro autore poteva facilmente vedere riflessa la propria tormentata esperienza biografica, dal poeta francese: "Les morts cachés sont bien dans cette terre / Qui les réchauffe et sèche leur mystère". 

Un motivo, questo del rapporto con i defunti, che ha avuto una sua copiosa ed illustre eredità secondonovecentesca. Si pensi, ad esempio, al giovane Sereni, che in Strada di Creva, poesia inclusa in Frontiera,  parla delle ansie e dello sgomento insiti in "questo trepido vivere nei morti", per poi spegnere il suo canto in un fioco riecheggiamento, cupamente straniato, del Gelsomino notturno ("salvaci allora dai notturni orrori / dei lumi nelle case silenziose"); tema, questo del ritorno dei morti, del rapporto tra i vivi e i trapassati, tipicamente sereniano, e che ritroviamo ancora in Frontiera ("Voi morti non ci date mai quiete. / E forse è vostro / il gemito che va tra le foglie"), e, successivamente tanto in Diario d'Algeria ("Non sanno d'essere morti / i morti come noi, / non hanno pace", versi in cui si aggirano ancora i montaliani "nati-morti"), quanto in una lirica degli Strumenti umani, La spiaggia: "i morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d'inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce" - versi, questi ultimi, immediatamente preceduti, significativamente, dall'inquietante, archetipica immagine del "voltarsi": "e zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse". 

Ma si potrebbe citare anche il Luzi di Las animas, in Onore del vero ("Requie dai morti per i vivi, requie / di vivi e morti in una fiamma. Attizzala: / la notte è qui, la notte si propaga..."), in cui vi è, peraltro, una sorta di mistico accecamento ("presto l'occhio non serve più, rimane / la conoscenza per ardore o il buio"...), prossimo all'hyperphotos gnophos, alla "luminosissima tenebra" di cui parla Dionigi l'Aeropagita, che non trova riscontro nel dolore vigile, lucido e fermo, di Valentini; o magari - cogliendo l'occasione per chiamare in causa una voce umbratile, fievole, defilata, apparentemente "ingenua", ma luminosa e pura - Umberto Bellintani, in cui la scoperta suggestione pascoliana si vena di una nota di cupa inquietudine, di eterno dolore: "i poveri morti sono i miei fratelli, / passeggio con loro per il cimitero, / non v'è nessuno che abbia il cuore felice" (Fratelli, in E tu che m'ascolti)... 

Un motivo, comunque, che in Valentini diventa - per citare Charles Mauron - un vero e proprio "mito personale", profondamente e dolorosamente radicato nel profondo di una tormentosa esperienza di vita. Emerge, così, al di là di possibili echi e rimandi, la perentoria originalità dell'autore, che fonde e trasfigura motivi e suggestioni affatto eterogenei nel fecondo crogiolo della sua officina poetica, in cui vita e letteratura convergono e si allacciano in un nodo inscindibile, scambiandosi dimensioni e funzioni; alla luce delle significative parentele luziane e sereniane che ho appena segnalato, risulta poi chiaro quanto profondamente l'autore partecipi di una dimensione secondonovecentesca. "Negli occhi in cui ti specchiasti / di mia madre, io ti cerco, e dietro le brune pupille // s'aprono abissi e i giorni passati sono fragili / come sepolti che tornano all'aria e si stringono in cenere". / (...) Certo è più facile / scrollarsi giù dai vertici della speranza, che esistere / senza i morti. E s'impiega più a morire che a vivere". Scriveva Michelstaedter nel Canto delle crisalidi: "Vita, morte, / la vita nella morte; / morte, vita, / la morte nella vita"... 

Il motivo si insinua anche nei Carmina docta, in cui il poeta-latinista, memore forse dell'Ungaretti di testi come il Recitativo di Palinuro o i Cori descrittivi di stati d'animo di Didone, cala il proprio tormentoso vissuto in un fitto e filtratissimo reticolo di reminiscenze classiche. In Niobe, ad esempio, ritroviamo innanzitutto la "teodicea negativa" di cui si è parlato, riferita qui al terribile castigo che Latona infligge alla figlia di Tantalo per la sua superbia. "O fanciulle, bellezza invidiata, / come nera dal seno che vi splende /" - possibile reminiscenza del mallarmeano "clair (...) incarnat léger" delle ninfe - "si rompe il filo di sangue che scende / sulla candida carne abbandonata. // Latona, ch'io non veda quei ginocchi / dissolversi e la coscia e il dolce petto"; e si noti, en passant, anche il forte ipèrbato, tipico di questo classico, raggelato "stile da traduzione". "Un baiser me tûrait, / si la beauté n'était pas la mort", dice l'Erodiade di Mallarmé. La Bellezza è vista, anche in Niobe, sub specie mortis, ma senza più l'altéra, gelida, verginale purezza di una fanciulla - personificazione allegorica della poesia stessa - che "ne veut rien d'humain", o che, come la "falsa morta" cui Valéry consacrerà uno dei suoi testi più alti, "strappa" al poeta "una novella morte / più preziosa della vita". La bellezza, confusa con la morte, è ora un "carnaio" di "volti lividi", "ventri freddi", non più riscaldati dalla sensualità e dal desiderio, "poveri corpi che si confondono"... Sempre nei Carmina docta, è improntato allo stesso cupo tenore anche il Delirio d'Orfeo, certo legato alla già citata traduzione dalle Georgiche. "Ho gli occhi" - grida Orfeo - " / pieni di morti, i mille morti che ho visitato. / (...) Morti, pietà! sgombratemi un attimo la vista, / ch'io contempli Euridice, come lei mi seguiva". E si può citare per intero, a conclusione di questo non certo completo excursus, uno dei Cinque spirituals di un bianco, che, presente già in Una storia d'amore, venne poi assorbito in Perlocuzioni, e che è forse, accanto a Memoria, l'esito più alto di tutta la poesia di Valentini. 


I giovani uccelli che emigrano sanno le strade

senza averle mai percorse. I viaggi della stirpe 

li guidano e il ricordo è ereditato

con le penne e col sangue, con le ali e lo sterno a carena.


I bambini messicani vanno sopra le tombe

e nei giorni di festa mangiano teschi di zucchero.

Con la bocca impastata di dolcezza essi scuotono

l'erba folta e si appoggiano ai filari di croci.


Spiccano  soprattutto - accanto alla ripresa, alla rielaborazione, direi quasi all'icastica materializzazione e "fisicizzazione" del tema pascoliano, presente nella Digitale purpurea, della "dolcezza della morte" - la folgorante giustapposizione, abrupta e repentina, delle due quartine, le sapienti variazioni e modulazioni ritmiche, l'allucinata, straniante illuminazione finale. Come gli uccelli conoscono la traiettoria del loro viaggi per una sorta di ancestrale, atavica, inconsapevole sapienza, così i bambini, con la loro innocenza e la loro candida, profondissima saggezza, si abbandonano senza paura al "trepido vivere nei morti", e non temono la vicinanza, la dimestichezza, quasi la promiscuità con i defunti. Come si legge ancora nei Cinque spirituals, "nel loro regno invaso i morti continuano ad essere / ospiti clandestini dentro la stiva del mondo". 

Ma a ritornare è infine - più che i morti, o insieme a loro - la Letteratura; ed è curioso notare quanto profondamente l'esperienza biografica e il dramma esistenziale possano caratterizzare i contenuti e i caratteri di una poetica.

"'Cigola la carrucola del pozzo'. / E' il solito verso famoso / che affiora come un osso dal cimitero / e non sai mai se suona falso o vero", si legge nel Cantico degli orologi, in Perlocuzioni. Valentini cita un  celebre verso montaliano, che aveva già scopertamente riecheggiato ("una donna discioglie la carrucola, / segue il tempo coi gesti misurati / di chi sa qual è il punto e non trasale") in un testo degli anni '60, Passaggio a livello, che per il resto è una sorta di riscrittura, o quasi una chiosa versificata, di un'altra lirica montaliana, La Casa dei doganieri, o almeno una specie di sintesi del montaliano senso della fuga degli eventi e della deriva della memoria: "il tuo giorno si sgretola in queste attese / (...) ma tutto è uguale. Non c'è fiabesco ritorno, / o donna della casa cantoniera, / con quell'ultimo treno della sera". A più di vent'anni di distanza, forte di una lucidissima, ma insieme amara ironia, tra "formale" e "tragica", il poeta può, con limpida e potente autocoscienza, rileggere, rivisitare, quasi parodiare se stesso. Il verso, riemerso dal cimitero di una memoria letteraria che può talora apparire insondabile e inerte, viene "intessuto" dall'autore come oggetto "banale o straordinario, / purché accogliente come un buon sudario". Il poeta "infila nell'imbuto / dell'eternullità / la sua futilità"; "il punto fermo è un tutto / nientificato", aveva detto, pochi anni prima, il Montale di Satura. Non può sfuggire la profondità vertiginosa  del cupo e tragico abisso - quasi mallarmeano "échec" o "désastre obscur" - che si cela dietro questa "leggerezza apparente", questa studiata sprezzatura stilistica, questa speciosa facilità o giocosità compositiva; il teorico, memore della definizione kantiana e schilleriana dell'arte come gioco, aveva già provveduto a precisare, chiamando in causa le "danze sacre" tribali, cariche di un "significato apotropaico o propiziatorio", che "quando diciamo 'giuoco' in sede (...) di poesia (...), non intendiamo significare nulla di frivolo, di ozioso, di disimpegnato". 

Il processo della citazione, del pastiche, della reminiscenza letteraria, viene anzi addirittura ad identificarsi con la fosca simbologia funeraria legata alla riesumazione (il "verso famoso" che riemerge alla memoria del poeta come l'osso dal cimitero). Può venire in mente, per questa idea della reminiscenza letteraria come "riesumazione", l'Ungaretti del Secondo discorso su Leopardi, con l'idea della parola poetica intesa, per antonomasia, come lingua morta, "una lingua riesumata nelle pulsazioni ingenue d'una lingua nuova", carica "di migliaia d'anni umani d'esperienza", "d'una luce antica" - una luce nutrita, paradossalmente, di tenebra. "L'infinito era un'illusione, originata dalla potenza evocativa (...) della parola. L'infinito era dunque un'illusione, e il sentimento dell'infinito, era sentimento della morte, sentimento del nulla". Non è casuale che Ungaretti citi la canzone Ad Angelo Mai, per antonomasia "canzone della durata", di una perennità e di un'eternità  recuperate o precariamente ricomposte solo in un'"illusione d'infinito", in un insondabile abisso di lontananza e di morte. L'unico moto che attraversa la canzone è una grave ed austera sequela di "sepolti che tornano all'aria e si stringono in cenere", come dice Valentini,  un "clamor dei sepolti" cui fa riscontro, paradossalmente, la plumbea stasi di uno stagnante "secol morto". "Questo, dunque, il tempo della storia sul quale il giovane poeta deve edificare il tempo della poesia; tempo di morte l'uno, tempo di morte l'altro" (25)

E' ancora una riesumazione - connessa anche ad un altro "mito personale" di Valentini, quello del ritorno al Padre - ad essere rappresentata, con toni di crudo realismo, di quasi poesca o scapigliata esasperazione del macabro, nella Ballata delle bare - titolo, tra l'altro, di stampo villoniano -, in Notizie del figlio: "Mio padre! mia origine muta!  / C'è mia madre che ti saluta  / senza rivolgere il ciglio, / Scheletro. E qua c'è tuo figlio / che spia tra le vertebre e il lezzo". E', questo, uno dei momenti di più intensa partecipazione emotiva, e, insieme, di più crudo realismo, reso ancor più profondo e più cupo da quella parola "lezzo", già presente nel Foscolo sepolcrale ("né agl'incensi avvolto / de' cadaveri il lezzo i supplicanti / contaminò"), che si incontrano in tutta la poesia del nostro autore. "Abbracciarlo non ho potuto, / lo sostengo e non l'ho conosciuto. / Lo cullo per l'ultimo sonno / posandolo qui accanto al nonno, / accanto a chi era e a chi fui" - e si noti, inoltre, l'andamento ondeggiante e cantilenante, quasi da straniante e allucinata berceuse. 

"Accanto a chi era e a chi fui": una sorta di epigrafe o di monito che cala su questa mesta e cadenzata catàbasi agli inferi, e, insieme, su questa identificazione tra i vivi e i trapassati che sfocia in  una paradossale, straniante, tragicamente grottesca sovversione di ruoli e figure: è il figlio che "culla", come una madre amorevole, i poveri resti del padre. 

Siamo di fronte ad uno dei più rilevanti fra i temi che circolano e si rincorrono in Perlocuzioni. Ogni libro - si tratti di poesia o di critica, di letteratura o di metaletteratura - è "epigrafe funeraria / dell'autore". Dice una poesia di Paul Celan: "Una parola / lo sai, un cadavere, / dobbiamo lavarla, dobbiamo pettinarla, / dobbiamo disporre / verso il cielo i suoi occhi"... La parola poetica si assume il compito - per riprendere le parole di Stefano Agosti interprete di Blanchot - di "mantenere in vita la morte".

L'idea della tradizione letteraria e artistica vista come stasi, cancrena, morte del pensiero, era già presente, tanto per fare un esempio, nei futuristi: secondo Marinetti, i musei sono simili ai cimiteri "per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono", "ammirare un quadro antico equivale a versare la nostra sensibilità in un'urna funeraria", e le biblioteche non sono che "cimiteri di sforzi vani"; ad Ardengo Soffici, nella poesia Atelier, "Queste centinaia di libri in fila / Ripugnano come cadaveri di vecchi amici". Ma quella che nei futuristi era una ribelle, e un poco superficiale e generica, iconoclastia, in Valentini diviene lucida e amara consapevolezza dell'intima, perenne dinamica che attraversa e scandisce, nel segno dell'autotelìa e dell'autogenesi, tutta la secolare evoluzione del sistema letterario, e imprime ad essa un'assidua e talora disperante cadenza di continue riscritture, palinsesti, superfetazioni. 

Si può far riferimento ancora a Parole. Si trattasse di Ulisse, che ode narrare, nella thespis aoide dell'aedo Demodoco, le proprie stesse vicissitudini, o di Don Chisciotte, che legge incredulo il racconto delle proprie gesta, o di Amleto, che confida a Polonio di non riuscire a scorgere, sulle pagine che scorrono sotto il suo sguardo indolente,  altro che vacue e mendaci "parole, parole, parole" - in ogni caso "l'Eroe serviva a leggere se stesso". La Letteratura non nasce che da se stessa, con un'ossessiva ciclicità autogenetica che infine, nella fase più lucida e disincantata dell'opera poetica di Valentini, sembra non essere più in grado di esorcizzare la morte e la dissoluzione se non in modo artefatto e illusorio. Nel fulmineo riferimento all'Amleto ("Parole! o Amleto"), Valentini avrà con ogni probabilità avuto in mente un luogo critico di Petrucciani, in cui veniva còlto in modo assai pregnante l'"échec" a cui erano condannate una parola poetica che volesse porsi come entità assoluta e pura e una poesia che - carica di aspirazioni ed esasperazioni postsimboliste - agognasse alla "tirannide delle parole", all'assoluto, autarchico, quasi dannunziano dominio della materia verbale (e si può ricordare, qui, anche l'idea, propria del Baudelaire critico di Poe, di un poeta maestro della forma, padrone di sentimenti ed emozioni, "souverain des mots"): "la parola-tutto sembra diventare un nulla, qualcosa (...) da cui il cuore (...) rifugge sentendo prorompere le sue istanze, che le parole, lungi dall'eternare nell'assolutezza esemplare, vanificano e disperdono. 'Words, words!' di Amleto" (26). Anche sulle sparse reminiscenze shakespeariane presenti nella poesia di Valentini sarebbe interessante spendere qualche parola; ad ogni modo, è da sottolineare la peculiare dinamica intertestuale attraverso cui il testo del drammaturgo elisabettiano arriva alla pagina del poeta, e in essa rivive, veicolato dall'immaginosa e pregnante contestualizzazione e attualizzazione operata dal critico. 

All'inizio degli anni ottanta, dopo le esitazioni e i ripensamenti dell'ermetismo, le generose istanze del Neorealismo, le profanazioni della Neoavanguardia, l'anelito al recupero di una dimensione di effabilità e comunicabilità entro il dominio, limpido e austero, di una "parola innamorata", il poeta deve registrare la crisi delle "poetiche della parola", e insieme, forse, l'estremo, critico vacillare della sua "religione delle lettere". 

"Una cultura che si fa poesia", è stato scritto giustamente; ma anche - soprattutto in Perlocuzioni - una poesia che contamina, àltera, profana e demistifica i propri folti e variegati referenti culturali, presenti e operanti fin dagli esordi, ma via via più scoperti e denunciati; una poesia che non vuole liberarsi dalla tentazione del simbolismo,  e che resta pregna e densa di cultura fino quasi alle soglie del soffocamento, dell'implosione, di quella "distruzione critica" che Sartre paventava per Mallarmé. 

Ci si potrebbe allora chiedere, giunti al termine di questo non certo esauriente percorso di lettura, che cosa resti da fare ai poeti. Ben difficilmente la risposta potrà ancora essere, nella nostra realtà massmediale e postmoderna, quella data a suo tempo da Saba: "ai poeti resta da fare la poesia onesta". Di fronte all'angosciosa e irresolubile aporia tra la tentazione del simbolismo, dell'evasione nel supremo ed inviolato - ma quanto fragile - iperuranio della "poésie pure", e l'abisso dell'"eternullità", in cui paradossalmente perennità ed annichilimento vengono a coincidere, l'unica risposta - per quanto precaria e indecisa - può forse essere, ancora una volta, quella offerta da un'"armonia del dolore", da un'ostinata, ascetica, quasi eroica "religione delle lettere", che sia in grado - o dia, almeno, la vitale illusione - di ricomporre e sublimare, nell'artificio dell'eternità, le ferite della vita e della storia. 

Viene da citare, ancora una volta, il Serra dell'Esame di coscienza. "La letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell'ordine temporale: ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intime, essa resta al punto in cui l'aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni; e, qualunque parte ne sopravviva, di lì soltanto riprenderà". La memoria assume anche questa forma, quella dell'assiduo, ciclico, autogenetico recupero della tradizione - reminiscenza, ritorno, riesumazione. L'abbandono a questa memoria, per quanto fiducioso, non potrà certo esorcizzare del tutto lo spettro dell'"eternullità"; "un libro, la domenica mattina", non potrà, da solo, liberare completamente il letterato dalla "stanchezza" delle sue "ore mortali", dalle "mezze illusioni" e dalle "mezze viltà" di una "malinconia retorica", dalle immateriali catene del suo "carcere dell'inchiostro"... 

Eppure - avrebbe, forse, potuto rispondere Valentini lettore di Montale - ciò che resta da fare ai poeti è proprio - eredi e  custodi di un culto millenario ed umbràtile - tenere vivo il fioco lume ostinato della loro sterile fede: "traccia madreperlacea di lumaca", "smeriglio di vetro calpestato", ma, forse, anche, e pur se solamente per fulminei, intermittenti istanti di grazia,  nitida,  salvifica "iride"... Tutto ciò accettando, o forse rassegnandosi all'idea che, infine, i poeti, come scrisse Sbarbaro, non hanno né possono avere, almeno dalla e nella poesia, "altra felicità che di parole". 


1) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, vol. II, Gallimard, Paris 1976, p. 793. 

2) F. CURI, "L'umorismo" di Pirandello nel sistema della modernità letteraria, in Studi sulla modernità, Clueb, Bologna 1989, p. 11.

3) S. MALLARMÉ, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1945, pp. 294-5; ID., Divagations, Charpentier, Paris 1953, pp. 367-372. 

4) Per un primo tentativo di ricognizione globale su questo vasto terreno, rinvio alla mia tesi di laurea, Artifex additus artifici. Creazione poetica e riflessione critica tra Simbolismo ed Estetismo, discussa all'Università di Bologna nella seconda sessione dell'A. a. 1997-98, relatore prof. F. Curi. 

5) M. FORTI, Bàrberi Squarotti: un novecentesco anomalo, prefazione a G. BARBERI SQUAROTTI, La scena del mondo, Genesi, Torino 1994, p. 9.

6) A. VALENTINI, Poesie, a cura di S. Baldoncini, Fondazione Cassa di Risparmio di Fermo - Andrea Livi Editore, Fermo 1996. Da questa edizione sono tratte tutte le citazioni dai testi poetici dell'autore contenute in questo studio. 

7) Cfr. P. BONFIGLIOLI, Il "ritorno dei morti" da Pascoli a Montale, in Pascoli. Atti del Convegno Nazionale di studi pascoliani, STEM, Santarcangelo di Romagna 1965. 

8) A. RIMBAUD, Opere complete, a cura di A. Adam, Einaudi-Gallimard, Torino-Parigi 1992, p. 134. 

9) A. VALENTINI, La Rima, la forma, la struttura, Bulzoni, Roma 1971, pp. 47-49 e 65. 

10) G. BONAVIRI, nota introduttiva ad A. VALENTINI, Perlocuzioni, Edizioni della Cometa, Roma 1983, p. 10.

11) S. BALDONCINI, Invito alla lettura, in A. VALENTINI, Poesie, cit., pp. 16 e 20.

12) G. BONAVIRI, nota introduttiva, cit., p. 9. 

13) A. VALENTINI, Leggete così. Un invito alla poesia, Andrea Livi Editore, Fermo 1991, pp. 5 e 20.

14) Ibidem, p. 42.

15) A. VALENTINI, Leopardi: l'io poetante, Bulzoni, Roma 1983, p. 214. 

16) La critica salvata dalla poesia - intervista con Geoffrey Hartman, a cura di R. BONADEI, in "Poesia", V (1992), n. 49, pp. 19-23.

17) A. VALENTINI, Le ragioni espressive, Bulzoni, Roma 1972, p. 143.

18) Per le interessanti analogie tra il segno poetico e quello cartografico, credo possa offrire qualche spunto un mio breve studio: Il Luogo della poesia, in "Università aperta", anno VI (1996), n. 5. pp. 8-9. 

19) Cfr. M. PETRUCCIANI, Segnali e archetipi della poesia. Studi di letteratura contemporanea, Mursia, Milano 1974, pp. 60-62. 

20) R. M. RILKE, Liriche e prose, trad. di V. Errante, Sansoni, Firenze 1951, p. 451.

21) A. VALENTINI, in Atti della IX Biennale della Marca e dello Studio Firmano, Fermo 9-11 maggio 1975. 

22) M. PETRUCCIANI, Poesia pura e poesia esistenziale, Loescher, Torino 1957, p. 139.  

23) A. VALENTINI, Le ragioni espressive, Bulzoni, Roma 1972, p. 254. 

24) ID., Lettura di Montale. "Ossi di seppia", Bulzoni, Roma 1971, p. 191.

25) S. BALDONCINI, Invito alla lettura, cit., p. 17.

26) M. PETRUCCIANI, La poetica dell'ermetismo italiano, Loescher, Torino 1955, p. 189.