Antinomie della Natura. Sul rapporto fra uomo e natura negli scrittori latini e greci

[prefazione a Ierofanie naturali. Sacro e natura nell'antica Roma, a cura di L. Picchi, Medusa, Milano 2008, pp. 7-23]

Immergersi nel rapporto fra uomo e natura, a partire dai modi in cui esso prende corpo nell'antichità classica, comporta il rischio di perdersi in un labirinto, in un groviglio inestricabile e vertiginoso di contraddizioni e paradossi. 

Da un lato, Uomo e Natura sembrano distinguersi e relazionarsi l'uno con l'altra in un rapporto di soggetto-oggetto, pensiero e materia (res cogitans e res extensa, natura naturans e natura naturata, microcosmo e macrocosmo, per rifarsi alle cristallizzate diadi con cui secoli di pensiero filosofico hanno cercato di illuminare, o in qualche caso di schematizzare ed irrigidire, un fascio di sfumature, gradazioni,  riflessi reciproci, che tende a fondersi e risolversi nell'infinito, nell'incognito, nell'indistinto). 

Un rapporto, quello fra uomo e natura, dialettico, conflittuale, talora distruttivo, in un duplice senso: da un lato il dramma dell'inquinamento e il depauperamento delle risorse, già lamentato da Plinio il Vecchio, da Seneca, da Giovenale, in pagine tristemente, e quasi profeticamente, attuali, dall'altro la forza devastante, impersonale, indifferente, cieca, delle catastrofi naturali, che suggerirono, da Lucrezio fino a Montaigne, a Voltaire, a Leopardi, amari pensieri circa la precarietà della condizione umana e l'immedicabile fragilità e fallacia di ogni umano destino, alle quali la coscienza e la riflessione non sanno opporre che il superiore, composto, a tratti quasi sadico – si pensi al motivo del “naufragio con spettatore” – distacco della quieta e disinteressata contemplazione teoretica. 

L'uomo da un lato percepisce, pensa, rappresenta, in varia misura soggioga e piega a sé (si pensi già alla figura biblica, e poi umanistica, di Adamo signore del creato, o alla laica e razionalistica illusione protagorea dell'uomo pánton chremáton métron, «misura di tutte le cose», per arrivare fino all'idea rinascimentale dell'uomo «naturae minister et interpres» enunciata da Bacone nel Novum Organum) il mondo della natura nel momento stesso che lo purifica e lo corregge elevandolo, o irrigidendolo, nelle forme dell'arte, o calandone le vivide impressioni, la vitalità mobile e fluida, nelle “categorie” o nelle “forme a priori” della conoscenza sensibile e razionale. 

E, come su ogni oggetto di conoscenza, d'indagine, di rappresentazione, così anche sulla Natura grava l'insidia di essere scomposta, frantumata, relativizzata dallo sguardo stesso che può sia estaticamente contemplarla, sia insinuarsi nel suo grembo, scrutarla, violarne il mistero, come l'occhio di Atteone che si posa ed indugia sulle sacre nudità della dea vergine; il rischio di dissolversi, infine, in visione, di divenire essa stessa pura visione e puro sguardo, luce effusa ed indistinta che sostiene e fascia l'atto sensorio ed intellettuale del vedere (atto che può, a sua volta, come mostra il mito di Atteone, investire, fino a pietrificarlo, incenerirlo, dilaniarlo, il soggetto stesso che ha il sacrilego ardire di compierlo: «nessuno può vedermi e restare vivo», ammonisce già il Dio dell'Antico Testamento).  

Ma dall'altro lato, in pari tempo, l'uomo stesso è, a sua volta, fibra del creato, parte della natura, egli stesso è, in certo modo, natura, in quanto animale – sociale, rationale, religiosum, symbolicum, ridens, come lo si è via via definito, ma pur sempre animal. Ed esiste, non diversamente, una natura umana, la quale prepara, suggerisce, ispira, orienta, in certa misura predetermina, l'agire umano, limitandone in vario modo la libertà e sancendone la fatale finitudine, l'inesorabile limitatezza, l'irredimibile Essere-per-la-morte, che si dispiega nel fluire della temporalità. 

Naturae satisfacere, naturae cedere è per antonomasia, in Cicerone e in Sallustio, il morire. «Vita et mors iura naturae sunt», dice Cotta in Sallustio (Historiae, II, 50, 5): dove pare risuonare, pur se calata nel divenire storico della società e nell'immanenza del momento, l'arcana sapienza dei presocratici, per la quale ghénesis e phthorá, nascita e rovina avvengono, «secondo la sequenza del tempo», sulla base dell'inderogabile decreto di un Principio, di una Arché la quale impone a ciascuna creatura di espiare con la morte la colpa tragica, la fatale hýbris di avere alterato e scomposto, con la propria nascita individuale, l'unità, la pienezza, l'eterna quiete del tutto primigenio (Anassimandro in Simplicio, Commento alla Fisica, 24, 18). 

L'essere, dirà Valéry, «non è che un difetto» – un “défaut”, precisamente la dantesca “difalta”, quasi l'oltraggio del peccato originale – «nella purezza del non essere». Sembra che nel grembo originario dell'antiqua Mater nascita e morte, essere e nulla, luce e tenebre (si pensi anche al lógos di Eraclito, che racchiude ed unisce in sé gli opposti) vengano ad intrecciarsi, a confondersi, ad allacciare come  una danza nebulosa e cangiante, un circolo mobile, oscillante, che torna oscuramente su se stesso, fino a far smarrire nel vortice delle sue spire lo sguardo che l'indaga, e che ne rincorre vanamente il principio. 

Come ricorda Mircea Eliade, l'uomo si sente più prossimo e fedele alla sacertà della Natura proprio nel momento della festa, del ciclico e rituale ripetersi e rinnovarsi del tempus illud, del tempo originario, vivido, fondante della seminagione, della fecondità, della fioritura. 

L'immaginario cristiano, paolino del granum synapis, del seme che deve morire per poter dare frutto, del fedele-iniziato che deve essere «sepolto con Cristo» attraverso la lustratio, la purificazione del battesimo, per poi rinascere “corpo spirituale”, pare sorprendentemente vicino a questa ritualità pagana (orfica, pitagorica, dionisiaca). 

«Zefiro torna e 'l bel tempo rimena»: sembra, in quell'attimo, ricomporsi e pacificarsi l'ossessiva, ritornante dicotomia di vita e morte, tempo ed eternità, finito ed infinito, creatura e natura. La dea Natura (che nella aetas ovidiana sarà invocata anche dal grande, pre-dantesco epos teologico della scuola di Chartres) scandisce, misura, “comparte” sapientemente i tempi e le stagioni della dissoluzione e della rinascita: «Sic regit imperium mundi, sic tempora sancit», dicono gli Hymni naturales

Come la Fenice (che agli occhi del cristiano Lattanzio diverrà allegoria della risurrezione), così la Persefone di Claudiano  (De raptu Proserpinae, II, 84) anela a ricercare «optato exordia saeclo», «nuova nascita in desiderata morte». Il saeclum è, sì, Aión, “grande anno”, “immagine mobile dell'eternità” (e il Virgilio dell'egloga quarta potrà sognare, con l'avvento del salvifico “puer”, un «novus saeclorum ordo»), ma anche limite, termine, confine ultimo, exitus, qualcosa di simile al dantesco «correre alla morte», fosse pure per conoscere una perenne ed inalterabile rinascita. 

Ma, dice Virgilio (non lontano qui dal carpe diem oraziano, dal malinconico, e insieme vitalistico, senso della fugacità di ogni kairós, di ogni felicità, di ogni piacere), «cum rapidus Sol / nondum hiemem contingit equis, iam praeterit aestas» (Georgiche, II, 321-322): «con i cavalli il rapido Sole non ha ancora / toccato l'inverno che già l'estate muore». 

Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Per quanto l'animazione e la vitalità universali che permeano e muovono la natura paiano (proprio come al principio del viaggio dantesco) rinnovare il tempo originario ed incorrotto della creazione, il fluire incessante del tempo è destinato, appunto per inesorabile legge di natura, a travolgere e dissipare anche il momento sacrale della festa, che sembrava averlo fermato e fissato nell'”eternità d'istante” della ierofania, della teofania, della rivelazione rituale, del contatto e del dialogo fra l'umano e il divino, fra il tempo e l'eterno, fra la parola del poeta e del vate e la sapienza muta e segreta della natura sacra. 

Ma l'uomo, il poeta insidiano e profanano, paradossalmente, la sacralità misterica della natura nel momento stesso in cui vogliono rivelarla e celebrarla. Vero è che – per citare il Cicerone della Pro Archia –  «poeta nascitur», «poeta ipsa natura valet, et quasi quodam divino spiritu inflatur»: «il poeta vale per la sua stessa natura, ed è animato da una sorta di soffio divino». Ma, poi, nel dire del poeta, alla natura, all'ingegno è unita l'ars, sulla physis si innesta, per disciplinarla, guidarla, darle forma e ordine, addirittura correggerla, perfezionarla, compierla appieno, la misura della téchne: quello che Dante chiamerà il “fren de l'arte”, cioè la consapevolezza tecnica, critica, intellettuale e insieme operativa, nobilmente “artigianale”, che accompagna e sostiene il poiein, il dire, il fare, l'operare del poeta.

Anche e proprio in virtù di questa forza potente, cosciente e vigile, la parola del Vate può ammansire le belve, muovere le rocce, guidare il corso dei fiumi, addirittura violare le soglie d'Averno – insomma dominare, di riflesso e di ritorno, quella stessa natura, quella stessa physis da cui pure sorge e trae l'indispensabile nutrimento.  

Anche Pindaro, sostenitore quant'altri mai della physis, della dote naturale, innata, predestinata, senza la quale non può sorgere il vero poeta, ha, poi, precisa autocoscienza e consapevolezza dei modi, delle forme e degli strumenti del proprio  fare. Il vate che pure – quasi prefigurando la goethiana calata nel regno delle Madri, o quella ungarettiana nel “porto sepolto” – era disceso, «simile ad un fanciullo che ubbidisce alla nobile Madre», al «sacro bosco di Apollo / che nutre riti e ghirlande» (Peana VI, vv. 13-15, fr. 52F Snell), è poi ben conscio che la poesia è un fatto umano, consapevole, anche storico e sociale. Ognuno deve seguire la natura, «combattere sulle rette vie», per quanto le arti (téchnai) varino da uomo a uomo, multiformi e cangianti; «sulla strada maestra delle virtù» il poeta – come poi Callimaco ed Orazio – osa, con piena coscienza tecnica e formale, un «discorso ardito», «guidato da fulgenti virtù» (Nemee, I, 25-26; VII, 51-53), ed intreccia con i versi raffinate, preziose, artefatte, quasi parnassiane corone, in cui l'oro e l'avorio si uniscono al corallo, «fiore del giglio rubato alla rugiada del mare» (Nemee, VII, 78-79), e che compiranno e completeranno i doni fatali della natura (quella del poeta non meno che quella dell'eroe vincitore), sottraendone il ricordo alle tenebre invidiose e voraci dell'oblio. 

Ben prima, del resto, che Socrate, immerso nella natura pacificata, mite, a misura d'uomo, della riva d'Illisso, rifiutasse l'indagine degli enigmatici miti fossilizzati dalla tradizione, per abbracciare piuttosto l'imperativo delfico del “conoscere se stessi”, e scoprirsi, magari, «per natura partecipe», nel profondo dell'anima, «di un destino divino e limpido», mentre sembra che «tà mèn choría kài tà déndra», «la terra e gli alberi», non abbiano proprio nulla da insegnargli (Platone, Fedro e-230a), e ben prima che la levigata ed aggraziata poesia idillica e bucolica di Teocrito, di Mosco, di Bione consegnasse all'immaginario virgiliano una campagna stilizzata e idealizzata, e selve pronte a risuonare della tenuis avena, della sottile ed elaborata Môusa leptálee ellenistica, già l'eroe dell'epos mesopotamico e greco aveva incarnato il passaggio dallo stato di natura alla civiltà urbana, dal cieco strapotere delle forze indomabili ad un dominio e ad una consapevolezza che investono tanto l'esperienza conoscitiva, quanto la creazione poetica. 

Ulisse che ha ragione del Ciclope levigando, modellando ed appuntendo, dopo averlo lucidamente ponderato e misurato, il tronco informe, nodoso, ribelle dell'ulivo incarna (ben lo notava Adorno) in modo emblematico la vittoria dell'eroe razionale, astuto, bramoso di conoscenza sulla negazione dell'umano, sulla natura bruta ed insocievole, sull'animalità primitiva, cieca, preomerica e preolimpica, rappresentata da Polifemo. Ed Ermes che – fra magia, alchimia e medicina – svela all'eroe la proprietà, la physis, del phàrmakon (Odissea, X, 302-303) distillato dalla prodigiosa herba moly (rimedio che gli permetterà di sottrarsi alle insidie di Circe, potenza oscura, arcaica, matriarcale) è mediatore di un'arte la quale proprio dalla natura stessa trae – in forza di una téchne divisa fra sapienza e mistero, cosciente maestria e richiamo a radici imperscrutabili – gli strumenti e gli artifici per sostenere e proteggere la fragilità dell'uomo, stornando o ritardando un corso di fenomeni a lui ostile. Il Prometeo eschileo, non per nulla, potrà vantarsi di aver rivelato agli umani i phármaka e le benefiche kráseis, le sagaci misture, con i quali potessero differire la morte, temporaneamente eluderla, concedersi un'illusione di perennità (Prometeo incatenato, vv. 480-482). 

Con Ippocrate, con la sua lucida disamina della fenomenologia del “morbo sacro”, la grecità classica perveniva alla consapevolezza che «tutto è divino e tutto è umano» (De morbo sacro, I, 5), che il procedere della natura rispecchia un ordine cosmico – naturale e soprannaturale ad un tempo – il quale stringe l'uomo e i fenomeni in un solo vasto nodo. 

 L'arte letteraria, dirà Platone rifacendosi proprio ad Ippocrate, si lega in modo assai stretto  alla conoscenza della natura: come l'una agisce sull'anima, così l'altra sul corpo, ed entrambe attraverso un'arte (téchne) che si avvarrà nel primo caso di parole, nel secondo di phármaka (Fedro, 270 b-c). Né la conoscenza del corpo, poi, né tantomeno quella dell'anima potranno darsi  áneu toù hólou physeos, al di fuori di una piena comprensione della «natura del tutto». 

Ma le lucide diagnosi e prognosi della scuola ippocratica non sono, poi, nello spirito e nella sostanza, così lontane dai miracolosi esorcismi con cui Cristo e gli apostoli liberavano gli ossessi. In entrambi i casi, ad essere restaurata e rinnovata è la divina, predestinata armonia che unisce l'uomo al cosmo e l'uomo a se stesso, sotto il segno di una genitura celeste, di una matrice sovrumana in virtù delle quali (come dicevano, citati poi da san Paolo di fronte all'Areopago, il Cleante dell'Inno a Zeus e l'Arato dei Fenomeni) egli è ghénos e mímema, “genitura” ed “immagine”, del Divino, scomposti, deformati, bruttati dal disordine del Male.  

Anche nelle Metamorfosi di Ovidio (in cui la fusione, e direi la dialettica, di Natura ed Arte, l'una emula e rivale dell'altra, non potrebbero essere più evidenti) il Dio artista,  «opifex rerum», plasma l'uomo da una semenza divina, «divinum semen» e «semina caeli» (I, 76 sgg.). Ancora da questo seme, da questo germe  divino derivano la sacralità e la forza epifanica dell'ispirazione poetica: «C'è un dio dentro di noi, il suo tumulto ci infiamma: / questo slancio racchiude semi di mente divina» (Fasti, VI, 5-6). 

A Feuerbach, che, in anticipo su Nietzsche, rimproverava al cristianesimo di aver rinnegato la religione naturale, la spontanea sacralità della natura, imponendo il mito di un Dio distante e trascendente, Rudolf Haym poteva controbattere che proprio l'Evangelo aveva nobilitato e consacrato la natura, rendendola degna di accogliere nel proprio grembo l'eterno e il divino, e facendo sì che, nel Verbo incarnato, Dio divenisse uomo, il creatore creatura.  

E Apollo, fra gli altri suoi attributi, è, come Prometeo, conoscitore delle forze e dei segreti, dominatore della potentia herbarum, della dýnamis insita nella materia, maestro dei fenomeni non meno che della parola e della musica (Metamorfosi, I, 516 sgg.); Dafne è condannata, per il suo rifiuto, a regredire ad uno stadio vegetale, preumano, ad una naturalità cieca ed inconscia, benché poi avvolta, di riflesso, da un alone di sacralità (I, 557 sgg.). 

Già nell'epos mesopotamico, la transizione dell'uomo da natura a cultura, da istinto a raziocinio, dal grido inarticolato alla misurata armonia che governa la musica e il verso, è simboleggiata tanto dall'iniziazione sessuale del selvaggio Enkidu e dal suo ingresso nella civiltà urbana, quanto dall'uccisione, per mano dello stesso Enkidu e del suo amato re ed amico Gilgamesch, dell'immane mostro Humbaba, cinto e celato dalla sacra ed ardente foresta di cedri: un'allegoria, questa del sacrilego “taglio del bosco”, del deciso e devastante intervento compiuto dalla mano dell'uomo sul grembo della Madre inviolabile, che dagli archetipi indoeuropei sembra riversarsi nell'epica greca (Iliade, XXIII, 117 sgg.) e latina, da Virgilio (Eneide, VI, 179: ove, chioserà Servio, la foresta, l'«antica selva, profonda dimora di belve», rappresenterebbe «le tenebre in cui dominano la bestialità e la lussuria») fino a Lucano, dove (Farsaglia, III, 399 sgg.) la natura selvaggia e cieca, la hyle (“selva” e nello stesso tempo “materia”) oscura ed informe sembra avere essa stessa ignorato e sommerso ogni segno di reverenza e di culto a lei innalzato dall'uomo, e la vegetazione germina inesorabile e noncurante sugli altari in rovina, sui templi squallidi elevati a dei ignoti, sui simulacri contorti, deformi, nudi d'ogni arte («simulacraque maesta deorum / arte carent caesisque extant informia truncis»). 

Eppure, in Lucano, è ancora una volta la natura (stavolta quella umana, interiore, infusa nel profondo) a spingere Catone a ribellarsi a Cesare, e a segnare così il suo destino esemplare ed infelice, la sua «victa causa», eroica e tragica nel senso più alto e più pieno: la missione, il credo di Catone risiedettero, stoicamente, proprio nel “seguire la natura”, come ammoniva Zenone di Cizio, «sacrificare la vita alla patria, / e non per sé solo, ma per il cosmo intero credersi nato» (II, 382-383). Patria, Natura, mundus, ghénesis: questi gli emblemi e i cardini di un destino intellettuale ed umano che porta al sacrificio di sé in nome del sogno di una universale armonia, di una libertà suprema ed irrinunciabile, e che è, ancora una volta, la natura (quella dell'uomo come quella dell'universo) ad ispirare, e quasi ad imporre, prefigurando, parrebbe, quello che sarà l'angoscioso paradosso esistenzialista dell'uomo “condannato ad essere libero”, a prendere da sé le decisioni cruciali, fra cui quella, essenziale, se vivere o non vivere, se aggrapparsi ostinatamente all'assurdità dell'essere o abbandonarsi all'abisso originario, insieme materno e paterno, del Nulla. 

Ma, se da un lato l'uomo è per natura libero, cittadino del mondo, insofferente di gioghi e tirannie, e può trovare proprio nel grembo della natura pace e ristoro (sebbene, da Properzio a Petrarca, la sua angoscia, i suoi fantasmi, il suo “pensiero dominante” lo seguano ovunque, e anzi spesso si proiettino proprio sul paesaggio naturale), dall'altro la Natura, con la sua ferrea legge di causa ed effetto, con la sua infrangibile catena di “potenza” ed “atto”, assume la veste della Necessità, del Destino, di una forza cieca ed inconsapevole, che trascende e soggioga la coscienza e la volontà dell'uomo (Aristotele, Fisica, II, 1, 192-193; VIII, 199, b 32). 

«Natura di cose  – si legge nelle Degnità vichiane –   altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose. Le propietà inseparabili da' subbietti devon essere produtte dalla modificazione o guisa con che le cose son nate; per lo che esse ci posson avverare tale e non altra essere la natura o nascimento di esse cose». 

I miti, gli «universali fantastici», la «teologia poetica» in cui si è cristallizzata e trasmessa, in modo primigenio e fondante, la sapienza originaria dell'umanità, si fanno però, fin dal principio, essi stessi istituzione, sapere costituito e condiviso, enciclopedia, cultura.   

Come ci ha insegnato l'ermeneutica contemporanea, da Severino a Colli, Physis è, stando alle basi etimologiche indoeuropee, sia bhu che bha: insieme essere e luce, sbocciare, sorgere ma anche apparire, rivelarsi. E la filosofia (che nella sua origine, come dovrà riconoscere anche Aristotele accennando ai “poeti teologi”, non si distingue ancora nettamente dalla poesia e dal mito) è, propriamente, “cura per il luminoso”, “cura per l'essere nel suo illuminarsi, nel suo venire alla luce”.

Eppure, il dire stesso, lo stesso discorso, poetici non meno che filosofici, sono di per sé pensiero, operazione riflessa, tradizione, storia, cultura. Il fatto che, da Filodemo di Gadara (maestro di Orazio e di Virgilio) a Plutarco, la parola technologhía venga a designare quell'arte retorica, quella perizia stilistica di cui la poesia non può, né ha mai potuto, fare a meno, è significativo, e anche sottilmente inquietante, per l'ombrosa luce che getta su tutto un nodo di oscillazioni e di paradossi. 

Per la sua stessa natura di discorso che si svolge nel mondo, nella storia, nel tempo (pur protendendosi verso un contatto con verità che si celano al di sopra di essi, al di là delle loro superfici e delle loro apparenze), nemmeno la “Casa dell'Essere” è, almeno in potenza, del tutto immune e sicura dal pericolo di irrigidimenti e strumentalizzazioni alienanti e reificanti. E sono, ancora una volta, la sapienza e la perizia ostinate ed assorte della téchne, dell'ars poetica che, garantendo l'autonomia e l'autosufficienza del fare letterario (ma delimitandone e segnandone, in pari tempo, l'aurea solitudine), devono tutelare la parola da quelle insidie.   

La Natura stessa, dal canto suo, opera a volte come arte, secondo equilibri, regole interne, leggi sue proprie. La Natura – dirà Dante, discepolo di Aristotele e di Tommaso – è «ars Dei»,  prende il suo corso «dal divino intelletto e da sua arte»; l'arte umana, che discende da quella divina e la rispecchia, è dunque nipote di Dio (Inferno, XI, 97 sgg.). La natura, la physis è, diceva Aristotele nel De anima, essa stessa “arte”, téchne, rispetto alla materia bruta, che attraverso quell'arte viene plasmata, modellata, condotta all'ordine, al compimento, alla forma. 

L'anima e l'intelletto dell'uomo sono, insieme, natura e arte. Il fuoco che pervade, muove e vivifica l'universo – un fuoco di cui l'anima individuale dell'uomo è riflesso o favilla – si configura (secondo la concezione stoica riferita da Cicerone nel De natura deorum) come pyr technikós, «ignis artificiosus» (II, 22, 57), “fuoco artista” ed “artefice”, che permea ed avviva gli esseri. 

Natura e Arte – la natura che è nell'arte e l'arte che è nella natura – si fondono eminentemente, trovandovi la rivelazione e la conferma della loro sacralità, nella purezza, nella ritrovata verginità, del dire poetico. Come scrive l'Anonimo del Sublime (opera spesso fraintesa in senso patetico ed irrazionalistico, e in realtà tutt'altro che inconciliabile con la poetica ellenistica della raffinatezza formale e dell'elaborazione stilistica), la physis, anche nei momenti di più intenso pathos, di più forte slancio ispirativo, «non ama essere una potenza caotica e priva di metodo». Il metodo e la disciplina, l'esercizio, l'autodominio (áskesis) devono educare, dominare, disciplinare la natura; è, paradossalmente, nient'altro che la téchne (intesa stavolta come «arte critica», come discernimento e consapevolezza teorica) ad accertare che alcuni caratteri ed alcuni pregi insiti nella opere letterarie derivano proprio dalla natura (Sul sublime, I, 2, 3). 

In Arato (Fenomeni, vv. 909 sgg.) e in Virgilio, che a lui si ispira (Georgiche, I, vv. 378 sgg.), la natura stessa diviene (come sarà poi nella dottrina medievale e rinascimentale della signatura rerum) pagina, testo, Libro da interpretare, labirinto o foresta di segni (signa, sémata spesso ákrita tekmérasthai, «ardui da determinare»). E, nel leggere il libro della natura, la previsione scientifica (fondata sul rapporto di causa ed effetto, prodromo e conseguenza, indizio e fenomeno, prima e poi) può coesistere ed intrecciarsi con una divinazione e un'intuizione filosofico-religiose, che avvengono fato e divinitus, per una soprannaturale infusione o per un'armonia prestabilita tra la sfera del vivente e il Lógos, l'universale ordine che governa il cosmo.    

«Natura e arte sono un dio bifronte», dirà D'Annunzio, chiosando forse i versi ovidiani (Fasti, I, 95 sgg.) dedicati a Giano «ancipiti mirandus imagine», «mirabile nel duplice aspetto», vivente personificazione del passaggio e della transizione dall'informe alla forma, dal caos all'ordine, e insieme dell'ambigua, fluente, metamorfica continuità vitale fra l'una e l'altra condizione, nell'incessante mutamento che pervade e muove la natura e la materia. 

Già in Tasso, il giardino di Armida (modellato molto da vicino su quello omerico  della reggia di Alcinoo, ove «sovra il nascente fico invecchia il fico», quasi a simboleggiare, ancora una volta, il perpetuo e ciclico rinnovarsi della natura) «di natura arte par, che per diletto / l'imitatrice sua scherzando imiti». E Montale si rammaricherà di non saper restituire, entro i rigidi limiti del linguaggio umano, una degna eco alle «salmastre parole» dell'antico Mediterraneo, nelle quali «natura e arte si confondono». 

Certo è che alla radice di queste antitesi, di queste sottigliezze, di questi conflitti, stanno quel nodo e quell'intreccio dialettici di physis e téchne che già agitavano e turbavano in profondità la poesia e la poetica classiche.   

L'idea, dura a morire, della “spontaneità”, della “genuinità”, dell'”autenticità” del poeta nascono dalla banalizzazione di un mito preromantico. 

Dal “mirabile” e dall'”immaginazione” di Foscolo e di Leopardi fino alla poetica pascoliana e alla “naturalezza del poeta” inseguita da Luzi, la poesia non si è potuta avvicinare alla purezza, all'autenticità, alla limpidezza traslucida del “discorso naturale” se non passando – paradossalmente – attraverso il filtro ed il vaglio della coscienza critica, dello studio, del labor limae. «Il fine dell'arte», scriveva il giovane Leopardi, «non è l'arte, è la naturalezza e il nasconder l'arte» (Zibaldone, 46). 

Può stupire che Foscolo, commentando la Chioma di Berenice, additasse nella «ragione poetica» di Callimaco – poeta doctus per eccellenza, autore quant'altri mai elaborato ed artificioso – un esempio dell'antica poesia «teologica e legislatrice », arcanamente sorta dalla spontanea divinizzazione di forze e principî naturali, e contrapposta alla moderna «poesia ragionatrice». Ma, anche per Foscolo, «l'artista imitando la natura la corregge in guisa da fermare e perpetuare le sue più belle creazioni in quel punto quasi impercettibile di perfezione». La “naturalezza”, il “mirabile”, l'”ingenuo” risiedono più che altro nella scelta dell'argomento e nelle immagini, nelle figurazioni, nelle prosopopee destinate a rivestirlo; ma il processo creatore è e resta culturalmente consapevole, meditato, riflesso. Come dirà D'Annunzio lettore di Bacone, l'artista –  «homo additus naturae» – non deve  «imitare», ma «continuare» la natura, sublimandola e depurandola.  

Le odi di Orazio (che, scriveva Schiller nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale, incarna, da «poeta di un'epoca raffinata e corrotta», l'esempio di una poesia non più ingenua, ma già modernamente «sentimentale», cioè capace di riappropriarsi della natura solo attraverso il voluto ed intenzionale sforzo concorde dell'intelletto, dell'immaginazione, della fantasia) fondono, come già avveniva in Pindaro, la physis con la téchne, la vivezza del dato naturale con la sua trasfigurazione nella forma  poetica, l'entusiasmo dionisiaco dell'ispirazione con una callimachea autocoscienza dell'arte letteraria (Odi, III, 25). 

E nella celebre ode alla fonte di Bandusia, la sacralità della natura non può – in modo forse non lontanissimo dal rito cristiano – che essere celebrata con un sacrificio, con l'immolazione di una vittima, di un'hostia. Paradossalmente, la natura è sacralizzata, venerata, celebrata, con l'usarle violenza; e la cultura assume la forma del culto, del rituale dettato dalla tradizione ed eternato dalla poesia. L'uomo sembra discostarsi dalla natura, e quasi divenirle  nemico, proprio nel momento in cui – attraverso la “violenza sacra”, direbbe Girard, del rito – le si inchina e la venera. Questo circolare paradosso sembra segnare una distanza incolmabile, un'irriducibile estraneità.

E ostinata, risentita, sdegnosa, la natura tace. «Vivi tu, vivi, o santa / natura? Vivi e il dissueto orecchio / della materna voce il suono accoglie?», chiederà Leopardi. 

Il corteo della dea Hertha scompare nelle tenebre del bosco sacro, inghiottito dal mistero che avvolge l'essenza del divino, quell'enigmatico ed innominabile quid «quod tantum morituri vident» (Tacito, Germania, XL), che può essere visto solo da chi è destinato a morire, che condanna al fatale annullamento chiunque osi contemplarlo facie ad faciem

Non per nulla, nei testi raccolti in questo prezioso florilegio ricorre – da Properzio a Seneca a Lucano – l'immagine impenetrabile del nemus e del lucus, del bosco sacro all'interno del quale si dischiude, inaccesso e non visto, un “punto di luce”, uno spazio remoto ed inviolabile che si apre ad accogliere il fulgido effluvio, la radiosa emanazione, della divinità. È questa, direbbe Heidegger, la «radura dell'Essere», la «Casa dell'Essere» in cui «poeticamente abita l'uomo». 

Ma il lucus è avvolto e velato, ancora, dalle tenebre del silenzio. La selva sacra dà «tacitis animo responsa quieto noctibus», «responsi all'animo assorto nelle notti silenti» (Ovidio, Fasti, IV, 651-652). E tanto la silenziosa voce del cosmo nel Timeo di Platone, quanto la mundi ratio, l'universale lógos a cui si intonano i versi di Manilio restano, nella loro essenza, nel loro messaggio più profondo, inudibili all'orecchio umano. L'uomo, dice Seneca, è, di fronte alla natura, come un iniziato sulle soglie del tempio, nella cui cella più remota, nel cui più nascosto sacrarium sono custoditi segreti che è dato solo intuire, immaginare, inseguire od intravedere con la meditazione, con gli «occhi della mente» (Naturales quaestiones, VII, 30), non vedere e conoscere appieno. 

Anche nella sapienza ebraico-ellenistica (come nella tradizione platonica e neoplatonica, dal Timeo fino al Dante paradisiaco) i cieli illustrano la gloria del Divino parlando un linguaggio muto, intonando accordi silenziosi: «Il giorno al giorno ne affida il messaggio / e la notte alla notte ne trasmette notizia. / Non è linguaggio e non sono parole / di cui si oda il suono» (Salmi, XVIII, 3-4). 

Ma anche e proprio nell'”era della Tecnica”, per quanto la scienza possa accertare la natura esteriore, meccanica, quantitativa dei fenomeni, la loro essenza profonda, la loro radice sostanziale, il loro scopo ultimo restano inconoscibili, oscuri, nebulosi – forse addirittura gratuiti, insensati, assurdi. 

Siamo – scrive Ralph Waldo Emerson in Nature – «stranieri nella natura, nella stessa misura in cui siamo lontani da Dio. Non comprendiamo il canto degli uccelli». Tramontata è l'era in cui Alcmane (framm. 13-14 Page) ed Aristofane potevano ancora illudersi di intendere ed emulare il canto degli uccelli, la voce vivida e melodiosa della natura, la lingua – scriverà Pascoli memore di Eschilo –  «che più non si sa». 

La Natura, scriverà Emily Dickinson, «è ancora un'estranea. / Quelli che più la invocano / non hanno violato la sua casa stregata, / né illimpidito il suo spettro». Essi «tanto meno la conoscono / quanto più le si appressano» (J 1400 / F 1433). 

Arrestatasi ed arresasi davanti a quella soglia fatata ed inviolabile, è proprio una poesia affinata, consunta, quasi annullata dal ripiegamento autoriflessivo a poter far risuonare, nel suo silenzio, la muta parola della Natura. 

«Allineare versi», rivela il pensiero di Antonio Prete, da Chirografie a Prosodia della natura all'Imperfezione della luna, «è guardare l'abisso».  «La Natura è poesia», linguaggio depurato, redento, rifatto vergine e sincero; ma, poi, la poesia è il nulla, il vuoto, l'abisso, il silenzio, il Libro assoluto e totale (il grande «Libro della Natura», appunto), e dunque irrealizzabile, se non fin dal principio inconcepibile: un Nulla quieto e limpido, un vuoto sereno, un'assenza pacificata ed inerte.

E allora scoprire, svelare poeticamente, la natura – umana e fenomenica, interiore ed empirica – significherà forse, infine, illuminare, rendendolo vivo e presente, il nulla assoluto che su di essa grava, e in cui essa è destinata a risolversi e dissolversi. «Ah stirpi dei mortali, / al nulla io eguaglio il vostro vivere», dice Sofocle in versi (Edipo re, 1186-1188) su cui Heidegger mediterà lungamente. 

La “trasformazione” e il “disfacimento”, la metabolè e la diálysis, non devono, dice Marco Aurelio, essere fonte di angoscia, poiché dettati, appunto, dalla legge universale della natura, che proprio nella perpetua metamorfosi mostra ciò che di più “meraviglioso” (thaumastòn) sia insito nella sua “arte”, nella sua téchne (A se stesso, II, 17; VIII, 50). 

Eppure, insinuava Luciano nei Dialoghi dei morti, forse anche oltre la soglia dell'Ade sono destinati a ripetersi, ossessivamente, angosciosamente, la stessa plesmoné, lo stesso proskorés, lo stesso “eterno ritorno dell'uguale”, lo stesso taedium vitae che opprimevano il tempo terreno, senza che sia nemmeno più possibile una “seconda morte”, un'altra evasione verso una dimensione ulteriore (Dialoghi dei morti, 26). 

Ma, come scriverà, memore di un linguaggio e di un pensiero neoplatonici, Massimo il Confessore negli Opuscoli teologici, «il Verbo nella sua totalità rese sostanza (ousiothéntos) la totalità della natura, e con questa sostanza tutta la divinizzò». L'incarnazione del Verbo purifica, essenzializza e consacra la Natura, così come la parola e la forma del discorso poetico la perfezionano e la portano a compimento, per poterla più degnamente celebrare.        

Sarà, non a caso, in un cristiano, Gregorio di Nazianzo, che il nulla dell'uomo e quello della natura si fonderanno in una sola coscienza e in un'unica parola: nel «bosco ombroso», «parlando solo con il proprio cuore», il poeta bizantino sentirà, sulle orme di Euripide (Polyidos, fr. 638 Nauck), che egli è nulla, e che forse la vita è morte, la morte vita (La natura umana, vv. 1-62). 

Riaffiora qui, e giunge forse a compimento – pur se polarizzata in senso negativo, per essere infine sciolta ed aperta verso la trascendenza –, quella circolarità di morte e vita, dissoluzione e rinascita, in cui risiede, probabilmente, l'essenza del senso classico della sacralità della natura.

                                                  

                                                                                                                                   Matteo Veronesi