Frammento perduto e ritrovato


Leonardo Bistolfi, La bellezza liberata dalla materia (1906)

                  

                            Io sono viva dicevi

                  sorella, nella luce

                  del mio sogno avvolto dalla neve

                  sono di nuovo viva –

                                                                   ma parevi

                  assonnata e distante, come

                  dopo un lento risveglio


                  E cos’è allora, dicevo

                  di chi è quella pallida spoglia

                  che abbiamo abbandonato

                  alle braccia oscure della terra

                  e del ghiaccio –

                                           chi sei 

                  tu che ora mi parli e sorridi

                  e a cui rispondo con quella dolcezza

                  che non fu mia nella luce amara dei giorni


I versi di Frammento perduto e ritrovato di Matteo Veronesi furono espunti dalla raccolta Il cordone d’argento – Frammenti per la sorella (2003) e successivamente antologizzati in Parco Poesia, Guaraldi, Rimini 2003. Forse fu una dimenticanza non casuale, come un’inconscia rimozione, da cui le accezioni, nel titolo, «perduto e ritrovato», quasi quel frammento fosse la traccia memoriale di una colpa indefinita che si tenta di cancellare e che invece riemerge dalle tensioni dell’inconscio, inesorabile e necessaria. All’apparenza, quindi, un caso di rimozione freudiana, dove l’autore, in un distillato di reticenze, confessa di non aver amato abbastanza la figura femminile, dapprima resa inconscia, poi per la flessione della censura fatta risalire oltre l’ombra del sogno (per altro, questa sorta di visiting nella trama onirica è già nei Frammenti per la sorella). 

Un sogno che esprima l’appagamento del desiderio non è un sogno. Al contrario, il sogno si caratterizza come luogo di addensamento del rimosso. E si traduce qui in desiderio di situare diversamente l’assente con cui l’autore cerca di corrispondere (la ripetizione «dicevi»-«dicevo», le asserzioni «mi parli» e «rispondo» rimandano a un mettersi in comunicazione) attraverso un «tu» perso nella diafania e nell’inverosimiglianza delle apparenze incoerenti dello straniamento che, nella dimensione fittiva dell’onirico, disinforma, dissocia, destabilizza nel sincronismo di logica e di irrealtà – in particolare nelle tre domande, prive tuttavia di quell’inflessione ascendente caratteristica dell’interrogazione diretta: «E cos’è allora» e «di chi è» e «chi sei / tu». Ci si aspetta un’attribuzione di senso da quel «tu» che nel sogno fende lo sbarramento della censura, ma il pronome né si epifanizza né è svilito al rango di fantasia elocutoria. Pur rispondendo a una strategia pseudorelazionale, è assunto a schiudere un canale di collegamento. E se tali parvenze allocutive non consentono al «tu» di oltrepassare il suo stato di inconcretezza e di estraneità alla condizione materiale e storica, trattengono comunque una causalità che rivela pur nell’abisso che passa tra le due persone testuali. Nella inverosimile contingenza locutoria, l’anima sorella ha dismesso i propri lineamenti mondani per interpretare il disgiungimento dalla vita e indicare la soglia del tempo. Ma l’autore non teme più il tempo, perché esso non può scalfire l’immagine dell’anima sorella, non ha la facoltà recisiva del rapinoso tempo montaliano quale origine dello svuotamento memoriale. Qui il volto è già cancellato, e insieme è incancellabile, perseverato dal desiderio come forma eminente di motivazione di fronte alla privazione del suo oggetto.

«Aliquot lineae desiderantur» è il celebre verso di Sanguineti (Laborintus, 1). Com’è noto, nell’etimo filologico la formula esprimeva la percezione della mancanza di alcune righe, quindi segnalava una lacuna testuale. E «desiderio» – dal latino «de», in accezione privativa, e «sidus», stella – indica una mancanza di stelle, un tempo unica fonte di luce, e pertanto di orientamento («desiderare» anche come di «cessare di contemplare le stelle a scopo augurale», quindi bramare, in DELI Zanichelli). Il desiderio, in Frammento perduto e ritrovato, comporta una lacunosità, che non è di testo ma rimanda a una lontananza siderale che innesca una ricerca febbrile di individuazione. Il tempo trasmuta in altro anche i segni del dolore, ma è incapace di rimuovere ciò che implica il senso di mancanza. E questo tendere irresistibilmente verso qualcosa che si sottrae ha una profonda attinenza con un rimemorare che, convergendo con il desideratum, non conosce dissoluzione. Avvertire la mancanza è soprattutto rimpiangere. Sacrosanto è l’apprezzamento intempestivo di un essere solo in seguito alla sua perdita, ed è altrettanto vero che condividere delle emozioni ci legherà indissolubilmente, anche senza poterne trattenere le fattezze, agli esseri cui ci unisce un vissuto empatico. Così, l’immagine dell’anima sorella – incorporea deità malinconicamente sospesa nel mistero – non si perde nella labilità dei residui mnestici come vaga formazione inconscia: persiste in altra forma, sfumata e svanente nella sua lieve densità semica, presenza intrusiva infigurabile: «chi sei / tu che ora mi parli e sorridi». L’incontro con l’assente può verificarsi solo nella sfera dell’inestinguibile desiderare dell’autore, ed è questo desiderarla che le strappa gli asserti «io sono viva», «sono di nuovo viva». E che compensa il silenzio con una spiritualizzazione dell’ombra o della penombra, non estrinseche al soggetto lirico che si percepisce come (inevitabilmente) memore e (nella prospettiva della rimozione della colpa) immemore dell’abbandono.

Sono diversi i livelli temporali che si incorporano pur nell’esiguità del testo: il tempo enunciativo, anzitutto; l’acronia, la condizione sospensiva priva di tempo dello spazio remoto dell’anima sorella; la temporalità onirica dell’autore consapevole di sognare, se pure ai margini del tempo; quella del tempo reale, benché passato e avvertito retrospettivamente, del gesto abbandonico «alle braccia oscure della terra», metafora eufemistica che prova ad indebolire l’idea della catabasi orfica. Cui infine si aggiunge il confronto con il tempo trasognato e crudele del non ancora consummatum est, cioè il tempo della vita anteriore alla separazione.

L’anima sorella visita nel sogno il soggetto dell’enunciazione: è alonata dalla luce, presenza viva nell’evanescenza, vicinanza assoluta nella lontananza. Ella appare a lui distante (il «ma» avversativo, al quinto verso, ne sottolinea lo iato incolmabile), e l’io lirico pare sognarsi nel sogno di lei come nelle tipiche sconnessioni dell’onirico: i versi rendono un sogno quasi lucido e coerente, un sogno cui è soggiacente la coscienza di sognare. Il vero protagonista del testo sembra quindi essere l’autore stesso, nella misura in cui ricrea, ridesta («risveglio», al settimo verso) l’eco dell’anima sorella nel proprio sogno, nel suo perso domandarsi, di fronte alle evidenze contrarie della presenza e della vacuità, quale fosse la vera misura dell’assente, inafferrabile eppure così intensamente presente e viva, figura onirica quasi oggettiva nel suo protendersi ora. E negli ultimi versi il dilatarsi dei margini della colpa connota come assente anche lo stesso autore. Nella retrospezione straniero a quella «dolcezza» che adesso accompagna il sentimento della perdita: «abbiamo abbandonato», egli dice, come se quell’atto estremo conseguisse da una scelta intenzionale. E l’inaccettabile autocondanna («Perdonami se avrò / la crudeltà di continuare a vivere», l’autore aveva scritto) è sintetizzata nel contatto sinestetico del verso conclusivo: nella «luce amara dei giorni», cioè l’irreversibile tempo della vita. 

La figura femminile è appena adombrata sia nel sogno – dove pare «assonnata», in un esplicito simbolico e simbiotico trasfondersi di sonno e morte –, sia nella dimensione del venir meno, nella dimensione di una «pallida spoglia». Ella è l’oggetto del desiderio precluso da una neve di morte, la quale, se nel primo verso invera l’idea della luce, di una luce che tuttavia raggela, nella zona centrale del Frammento concorre alla caratterizzazione del gelido luogo che riceve in sé i resti di un’esistenza mortale. E la luce del sogno e del desiderio dei primi versi diviene nell’explicit «luce amara dei giorni»: fuori dell’enunciazione, ciò che è stato non si rinnova, né era facoltà dell’umano presumerne la sorte.

Disperse in Frammento le coordinate spaziotemporali, l’orizzonte è interiore, e come tale sgombro degli elementi descrittivi. La rarefazione del verso, e più tecnicamente la sostanziale scarsità di segni interpuntivi (solo tre virgole) e grafici (due trattini), insieme alla quasi pervasività dell’enjambement, sembrano originarsi dalla propensione per un dire lirico incolore e inespressivo, per una creazione afona mediante un uso non sonoro dei fonemi. Il registro ritmico si assesta su un’intonazione essenzialmente elegiaca, che nella tessitura stilistica pare glossare, in una lingua come morta, l’elegia dell’esistenza. «Io parlo di una morta e a una morta – a maggior ragione non posso usare una lingua che non sia quella dei morti», Veronesi dichiarava nel prologo al Cordone d’argento. Così, il flusso testuale disegna un impallidimento senza fine, smorza il contesto tonale con un melodizzare lento e labilmente pausato – una volta spezzato il gruppo sintattico con lo scavalcamento dei due estremi del verso. Ovunque l’autore, già maestro dell’aura del silenzio, tende a proscrivere inerenze e ingerenze esterne, quindi omette, tace la parola interdetta, attenua, lascia intendere senza referenzializzare e ostruisce le pretese dell’elemento figurativo. Elude l’incisività dei toni e dei dati cromatici affinché anche la minima scoria di una versificazione espressionista non interferisca nella tenue e disparente stilizzazione di questa semiotica di amorosi sensi.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    Elisabetta Brizio (2010)