"Le battane di bronzo" di Gian Ruggero Manzoni

("Il Nuovo Diario Messaggero", 5 novembre 1994)

Molte delle maggori esperienze poetiche moderne (basti pensare al culto del poème en prose che accomuna, tra Ottocento e Novecento, autori francesi di ascendenza simbolista, come Baudelaire e Lautréamont, e surrealista, come Henri Michaux, René Char e il recentemente scomparso Edmond Jabès, o anche soltanto alla sperimentazione e alla pratica della "prosa d'arte", carica di impennate immaginifiche e di venature liriche, condotte nell'àmbito di riviste italiane primonovecentesche come "La Voce" e "La Ronda") hanno abbattuto il confine, netto e rigido, che alcuni avevano preteso di tracciare tra prosa e poesia, limitando a quest'ultima la prerogativa di sfruttare le intime valenze foniche ed allusive della materia verbale, e attribuendo alla prima la mera funzione di riprodurre e descrivere, in modo imparziale ed oggettivo, la realtà concreta.  

Sulla scia tracciata dagli autori cui abbiamo appena sommariamente accennato si colloca Le battane di bronzo (Stamperia dell'Arancio, Grottammare 1994) di Gian Ruggero Manzoni, che lo stesso autore sottotitola come "racconto in poesia". Infatti, per quanto il testo si configuri, di fatto, come una catena di sessantatre brevi prose - per giunta legate, come sottolinea l'autorevole prefatore, il poeta e latinista Mario Ramous, da un evidente e solido "cordone narrativo" -, la parola, il "segno" linguistico, come osserva lo stesso Ramous, è decisamente "poetico", rappresentando spesso "il segnale di un non-detto che si presuppone alle spalle, indicibile ma reale, anche se per noi inconoscibile, tanto da poterlo indicare non più che con termini astratti e come tali di vaghezza estrema", di quella vaghezza, eterea e fuggevole, che rappresenta, a un tempo, il fascino e l'insidia della poesia d'oggi, e che nel caso di Manzoni diviene sfogo dell'"aspirazione a un impossibile assoluto, sentito come necessità demiurgica di dare ordine e senso all'imprevedibile e continuo mutare della realtà che ci circonda".  

Le scelte formali e stilistiche operate dall'autore sono, infatti, il naturale e necessario corrispettivo della sua visione del mondo. Quest'ultima, a mio parere, si può vedere riassunta nella splendida citazione del filosofo idealista tedesco Schelling posta come epigrafe all'inizio dell'opera: "nella scienza, nella religione e nell'arte non vi è rivelazione più alta di quella della Divinità del Tutto; è infatti solo da questa rivelazione che esse hanno inizio, ricevendo il loro significato soltanto grazie ad essa". La vera forza della poesia di Manzoni risiede, a mio parere, nella capacità di esprimere la profonda, segreta, essenziale Unità che consente di scorgere in persone e luoghi concreti e tangibili, legati all'individuale esperienza biografica del poeta e alla sua terra, la pianura Padana - il cuoco cinese dell'Iride, Guazzina, la strega di Cocomàro, un anonimo amico d'infanzia, interlocutore di segreti e fantasiosi colloqui... -, un riflesso della contemplazione, poderosa, cosmica, inquietante, poeticamente felicissima, del "Tutto", dell'"Altrove", di quell'"alterità" che il poeta definisce come "paradosso dell'individuale" - il quale in essa si specchia, si identifica e, nel contempo, si dissolve -, che diviene oggetto e meta di un giovanile, istintintivo slancio vitale - "cavalca il giuramento, l'imprecazione, e la voglia di diventare in fretta grandi" -, che assume la forma di "quell'ovunque dove si semina, si macina, si cuoce, e poi si divora il pane della storia", che cioè, imponendosi come "misura assoluta", trascendente e metafisica, degli eventi storici e delle passioni umane, finisce nel contempo per trasfigurarli ed annullarli. 

Una volta riconosciuto che, per l'appunto, "puntare sulle faccende umane è ridicolo, al pari di colui che sostiene l'immortalità dell'anima, o della scrittura", poiché tanto l'energia vitale e conoscitiva dell'uomo (l'"anima") quanto il suo spasmodico sforzo di fissare ed oggettivare in modo stabile e definitivo l'affettività e la conoscenza attraverso le parole (la "scrittura") risultano labili, fragili, incommensurabilmente inadeguati in rapporto a quell'Assoluto da cui provengono e in cui nondimeno si annullano, all'uomo non resta che coltivare una sua laica ed ostinata "religione, votata all'essenza, o alla più feroce risposta", cioè a cogliere, nel magico attimo dell'intuizione e dello slancio vitale, le radici intime e profonde del Reale, e a tentare con esso un ostinato e forse vano dialogo, di cui la poesia è, a un tempo, strumento e testimonianza. 


                                                                                                                           Matteo Veronesi