(pubblicato in "Atelier", VIII, 2003, n. 31)
C’è, nella raccolta d’esordio di Govoni Le fiale, un testo che mi pare possa, in chiave metapoetica, sintetizzare emblematicamente un certo aspetto della posizione dell’autore nella sua prima stagione creativa. Alludo a Villa chiusa, sonetto dedicato ad una villa “secreta / e chiusa come il cuore di un poeta / che viva in solitudine forzata”. Nella villa “pare che ogni cosa / sia veduta a traverso d’una lente”, e solo segno di vita è “una ventarola arrugginita” che “in alto, su la torre silenziosa”, “gira, gira interminatamente” (e che, sia detto per inciso, pare prefigurare la montaliana “banderuola”, simbolo dell’assiduo mutamento, dell’irrimediabile perdita, della perpetua e irrevocabile fuga degli eventi, che “affumicata gira senza pietà” nello scenario spoglio ed immoto della casa dei doganieri che attende, “desolata”, il ritorno della donna lontana).
È già stato segnalato, a proposito di questa “villa chiusa”, l’ovvio e lampante antecedente costituito dall’”hortus conclusus” del dannunziano Poema paradisiaco; ma essa, come dimensione poetica, come luogo affine al “cuore d’un poeta”, e dunque come spazializzazione simbolica di una condizione creativa, potrebbe a mio avviso essere fondatamente accostata anche a certi scenari gozzaniani, emblematicamente indicativi della Weltanschauung propria di quello che Giuliano Ladolfi ha definito come “secondo decadentismo”, ormai privo di idealità e speranze – la “villa triste” in cui Totò Merùmeni “esprime a poco a poco / una fiorita d’esili versi consolatori”, le solitarie “celle” in cui il poeta di L’ultima rinunzia “parla con le Stelle”, ignorando le sofferenze e la morte della madre -, o magari alle “serres chaudes”, agli spazi cristallini, inerti, asfittici, dalle “portes à jamais closes”, simbolo anch’essi della condizione poetica, cui Maeterlinck, autore amato da Govoni e dai crepuscolari, dedicò il componimento che dà il titolo ad una sua raccolta. Si tratta, ad ogni modo, di uno spazio letterario per così dire adiabatico, ermetico, in sé concluso – di una sorta di alchemico athanor in cui impressioni, sensazioni, esperienze, ricordi, immagini confluiscono non si dirà quali meri pretesti, ma comunque quale materia prima destinata a fornire alimento alla creazione poetica, ad essere da essa plasmata e trasfigurata, in un’ottica che, nella sostanza, è ancora abbastanza vicina a quella dell’artifex parnassiano e decadente (e non a caso sarà proprio D’Annunzio ad offrire al poeta di Tamara alcuni degli strumenti retorici, come l’anafora, il parallelismo, l’accumulazione, attraverso cui si costituiscono e si articolano i suoi proverbiali “rosari di immagini”). Non è forse forzato o eccessivamente sottile vedere, nel secondo sonetto del dittico Giardini chiusi, ancora nelle Fiale, con la sua tessitura stilistica così fitta di rime interne, omoioteleuti, iterazioni, bisticci (“Orti, dove i convolvoli contorti / più non stendono i fragili festoni; / vasi forti che più ne gli orti morti / non salgono i paoni da padroni”), tutti artifici che vanno ad accentuare l’indole già di per sé tendenzialmente autoreferenziale ed autopropulsiva della forma chiusa, quasi un riflesso, sul piano verbale ed espressivo, del carattere non già esornativo o sterile o compiaciuto, ma comunque – al di là dell’apparente naïveté e di una formazione culturale forse più vasta di quanto non si sia sospettato, ma indubbiamente irregolare, caotica, per larga parte fortuita - artificioso, studiato, intrinsecamente letterario, che contrassegna alcune manifestazioni della vena govoniana. Non è casuale – per restare nello stesso àmbito simbolico che si è fin qui delineato – che la poesia dell’autore viva e si muova spesso, specie nella prima stagione creativa, in spazi chiusi, statici, asfittici, correlativo di un’analoga condizione esistenziale e letteraria: basti pensare, sempre nelle Fiale, alla “stanza sensitiva” di Musica per camera, che “esala tutto il suo cuore vecchio”, o all’anima paragonata ad un “orto senza chiave” in Sommario, o infine alla surreale allegoria del Palazzo dell’anima, “triste dimora” gremita di “aborti nelle fiale”, di “sofferenti / in vasi d’ambra fior di digitale”, di “malinconie impagliate” – e in cui nondimeno, quasi come baudelairiano spiraglio di “Idéal”, “da una finestra si scorge il mare”.
Anche quando, specie dopo l’avvicinamento – compiuto peraltro secondo una prospettiva del tutto autonoma – a temi e modi espressivi propri del futurismo, la poesia di Govoni si aprirà ad una più libera e vasta visione del reale, ad una gamma cromatica più vivace e variegata, la sua almeno implicita posizione nei riguardi del poetare, e in particolare del rapporto tra parola e realtà, scrittura ed Erlebnis, non subirà, a mio avviso, sostanziali mutamenti: come scriveva Boine nel ’15, recensendo sulla Riviera ligure L’inaugurazione della primavera, la sua parola “succhia il mondo come se fosse fatto di successive allineate corolle”, e, per così dire, lo trascrive e lo traduce, per via analogica, in “infilate di immagini legate coll’invisibile filo della contigua amicizia” (e può essere interessante notare, a livello di “critica della critica”, che Montale, quando, nel citatissimo articolo su Govoni del ’53, parlerà di “rosari”, “litanie”, “girandole”, “martellanti grandinate di metafore”, avrà forse in mente e riecheggerà proprio le osservazioni di Boine); la realtà e l’esperienza non sono che movente, incentivo, nutrimento, se non proprio esteriore pretesto e mera “occasione”, da cui muovere verso la sintesi e la “rarefazione” dell’atto poetico – verso il “continuo fascino” celebrato nelle Poesie elettriche, l’inesauribile sortilegio della sensazione che si fa parola, una parola che sa abbracciare tutta una vita dannunzianamente “molteplice e moltanime”, in cui la “cornucopia di fiori” della primavera coesiste con le “orribili catacombe”, la “libidine d’azzurro” con un cupo senso di “dolore” e “mistero”. Come osservava Glauco Viazzi, con quella sua straordinaria densità - informata proprio all’orfismo simbolista – di pensiero e di stile, nell’introduzione alla scelta govoniana inclusa nella sua fondamentale antologia di poeti simbolisti e déco, “lo scrivere del Govoni è una ricerca continua, prolungata, ininterrotta, di una realtà referenziale da raggiungere e fissare ma che, nondimeno, rimane inattingibile. (….) Si tratta pur sempre di raccontare l’ineffabile, l’impronunciabile, l’ignoto (…), il Mistero”; “ogni cosa scritta in quanto percepita è allora se stessa e subito un altro-da-sé, l’analogon che si presenta metamorfosato”. Sarà, del resto, lo stesso poeta (tanto a conclusione della Confessione davanti allo specchio edita da Morcelliana nel ’43, quanto nella dichiarazione di poetica resa nel ’55 per la vallecchiana Antologia popolare) a riconoscere e a sottolineare il carattere artificioso ed edonistico della sua vocazione poetica: vivendo a suo modo il dissidio novecentesco tra vita e forma, esistenza e letteratura, egli aveva optato per la “via” di “soffrire” la “poesia della vita e del mondo …. attraverso la sua rappresentazione artistica”, non di “goderla …. in natura”, e si era votato al “puro solitario godimento della creazione poetica”, al “passeggio nel regno delle Chimere” – già in una lettera del ’21 ad Eleonora Duse, del resto, l’autore affermava che “il più bel premio (…) per un artista, per un poeta è sempre l’atto creativo che è un atto solitario e indisturbato di amore”, mostrando così di aderire, nella sostanza, al culto decadente dell’art pour l’art. Emblematico al riguardo un testo dell’Inaugurazione intitolato, significativamente, Poesia e realtà: l’anima del poeta è “come l’usignuolo / che canta canta sopra il biancospino / fiorito inebbriandosi al suo canto / come preso in un vortice di sogno” (possibile, qui, un richiamo alla celeberrima pagina dell’Innocente sul canto dell’usignolo, “cantore” che appunto ”s’inebriava del suo canto”, forse simboleggiando la condizione di una poesia “lode e ode di sé medesima”); “canto” e “sogno” che, peraltro, “presto avran fine”.
Si potrebbe dire (e mi si passi la prosopopea un po’ enfatica) che con la raccolta Aladino, dedicata al figlio trucidato alle Fosse Ardeatine (nella “fossa carnaia ardeatina”, come la chiama, con crudo realismo, il poeta), edita da Mondadori (peraltro in una collana minore) nel ’45, il nulla e la morte fanno irruzione nella “serra calda”, nell’hortus conclusus dell’artificio stilistico e del virtuosismo immaginifico, forzando la parola a misurarsi facie ad faciem con l’individuale tragedia degli affetti e, in pari tempo, con le fratture e i traumi della storia collettiva.
Come ha scritto Giacinto Spagnoletti, in una pagina di critica altissima, introducendo un’importante antologia govoniana, in Aladino la poesia dell’autore, abbandonata la precedente “gloria di astrazioni e di analogie”, “entra nell’ispirazione domestica come in un Ade oscuro e velato”, e superata “l’estatica distillazione della fantasia” ingaggia un “violento, crudele (…) confronto con il dolore vivo”. “Anche con la mia bocca arsa e sbarrata / rinnegherò il tuo essere Dio; / anche con gli occhi ciechi griderò il tuo niente”. Un’invettiva violentissima, che fa pensare a certe inflessioni – qui esasperate – del Libro di Giobbe, o magari a certe canzoni “disperate” della rimeria medievale e rinascimentale. Ma quel che più importa sottolineare, nei versi citati, è l’affiorare di quella “poesia del nulla” che attraversa tutta la raccolta, e che, per così dire, getta il suo denso e nero velo sui colori e le sensazioni, vividi e variegati, che animavano la precedente produzione govoniana. Il principio primo del creato, dopo la tragedia, è ricondotto ad un “Nullaeternità” che rinvia da un lato all’”Infini-Rien” di Pascal e al “nihil aeternum” della mistica apofatica, dall’altro al sensistico “nulla eterno” di Foscolo, o magari al “brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera”, all’”infinita vanità del tutto” di cui parla il Leopardi di A se stesso (nel “brutto cieco errore”, scrive tra l’altro Govoni in versi di sapore scopertamente leopardiano, e insieme montaliano, l’uomo può scorgere “solo il mal del vivere: funesto / agli animali agli uomini alle cose”). Eppure è solo nel nulla – nel “cieco nulla”, nel “liscio oceano infinito / di pace”, nell’”immobile notte” che offre “dolce marmoreo sonno, e ancor più dolce / d’ignorati silenzi nuova musica” – che il poeta può trovare un’illusoria e vacua felicità, un artificiale e precario “paradiso” d’immaginazione fatto di “giardini inesistenti” e “mari di vuoto scolorito”. Ed è, infine, al silenzio e al nulla che il poeta offre, come in sacrificio, la propria voce: “niente ritorni al niente; e così sia”. D’altra parte, la condizione poetica e quella esistenziale appaiono, in Aladino, quanto mai strettamente intrecciate, e convergono nel segno di una “poesia del lutto” che assegna alla scrittura la funzione di filtrare ed elaborare lo schianto della perdita, il fuoco lacerante della tragedia. “Io scontai, con la tragica tua fine / la mia crudele povertà di padre; / e scontai nell’Italia analfabeta / la mia grandezza oscura di poeta”. Versi in cui il parallelismo stilistico rende con nitida efficacia il legame – segnato dall’amarezza e dal dolore – di esistenza e poesia. “Croci d’amore e croci di poesia” sono quelle che – con un probabile richiamo, supportato anche dal comune sfondo bellico, alle ungarettiane “croci” del cuore “paese straziato” – che il poeta ha penosamente sostenuto, e a cui si è aggiunta ora, “inchiodata con chiodi incandescenti”, “la croce della povera tua bara”.
Di fronte a questa professione, sollecitata e intimamente segnata dal dolore, di “letteratura come vita”, a questa poesia intrisa di lontananza, vuoto, nulla, morte, si sarebbe tentati di rievocare una certa linea simbolista ed ermetica di poesia del Néant e dell’Absence, dal Mallarmé dei Tombeaux e del Toast funèbre all’Ungaretti di Variazioni su nulla e di Memoria d’Ofelia D’Alba al Luzi di Avorio e di Cimitero delle fanciulle. E vi sono effettivamente, in Aladino, versi in cui affiorano parole chiave di risonanza ermetica: alla “vita” e all’”amore” che i genitori affranti seguitano a dargli, il figlio morto non sa rispondere che con il “silenzio”, con l’”assenza”, “con un distacco che ha la crudeltà / dell’infinito” (e si noti che, in modi non lontani dall’essenzialità densa e profonda della pronuncia ermetica, e su tonalità assai prossime alla poesia del silenzio e del lutto di cui si sono visti finora alcuni esemplari, già il Govoni delle Canzoni a bocca chiusa vedeva “sul suo capo di naufrago / luce di fuori mondo / o vertigine / degli abissi incantevoli del nulla”, in una prospettiva non dissimile da quella, pressoché coeva, dell’Ungaretti di Porto sepolto o del Quasimodo di Oboe sommerso).
Lo stesso lavoro variantistico che sta dietro ad Aladino (almeno stando a quanto è possibile ricostruirne dagli sparsi abbozzi conservati nel Fondo Govoni della Biblioteca Ariostea) sembrerebbe, almeno per certi aspetti, tendere ad una purificazione del dettato, al conseguimento di una lirica essenzialità d’espressione, pur senza indulgere all’obscurisme e all’arduo analogismo suggeriti dalla lezione simbolista. Basti considerare il componimento LVIII, Colsi un fiore sbocciato sulle Fosse, tra i più intensi del libro, incentrato sul simbolo inquietante del fiore che, “inzuppato” del sangue del figlio ed associato analogicamente al canto di un’allodola, sembra riecheggiare “l’orrore del suo grido”. In una prima stesura, l’”orrore” di quel “grido” era, in un modo espressivo più disteso ma anche più greve, “il grido d’odio e di dolore / che non riuscì a coprir l’infame mina”, e che “vibrava (…) nel canto dell’allodola divina”. “Vibra nel canto l’eco del tuo grido”, dice la seconda versione, costringendo in un solo verso la cellula analogica, il denso nucleo lirico che il testo a stampa dispiegherà, infine, in due (e si noti che, in questa seconda stesura, quello che sarà “l’alto grido / della carneficina” del testo a stampa è “l’alto grido / dell’ucciso mio figlio”, più soggettivo, più raccolto, meno universale e potente, e che, dall’altra parte, l’immagine realistica e icastica della mina permane nel componimento IV, fra i più noti e più frequentemente antologizzati, che parla di un “rombo di zampillante mina / di nera terra”). È proprio attraverso il lavorio variantistico, il travaglio elaborativo e correttorio da cui trae alimento la creazione poetica, che la scrittura esplica e rivela la propria efficacia di strumento con cui elaborare e sublimare, e insieme, per così dire, filtrare, decantare, rendere limpidi e chiari agli occhi della mente e del cuore, il dolore ed il lutto.
Né si deve pensare che, come spesso accade nella tradizione ermetica, Govoni eluda o aggiri il referente storico, che qui è anzi presente nella sua concretezza più risentita e cruda. Mussolini (a cui pure, negli anni Trenta, Govoni aveva rivolto un Poema e un Saluto in cui l’opportunismo dell’encomio non è facilmente scindibile dall’ingenuità dell’errore ideologico) appare come “spergiuro”, “vigliacco”, “dissanguatore cinico e mai sazio”, che la “maledizione” del poeta seguirà “finché duri tra gli uomini memoria” della sua parola, “come suono / e come senso” (e si noti la valenza anche metaletteraria di queste invettive). Roma è – secondo l’iconografia, giovannea e poi dantesca, della “magna meretrix” che si vende ai potenti della terra – la “gran puttana dell’Apocalisse / dalle sette mammelle insanguinate”, che nulla fece “pei suoi martiri”. In tal modo, con questa indignazione intrisa di letterarietà, Govoni sembra sfiorare quella “politicità metafisica”, com’è stata felicemente definita, che da Dante arriva al Montale della Bufera.
E la morte, che nella stagione simbolista e liberty ricorreva come pura occasione letteraria, quasi come fosco motivo ornamentale, ora è còlta nella sua fisicità nuda e desolata, attraverso l’immagine di un cumulo di “carne ed ossa (…) nella macabra scatola di zinco” (e qui tornano alla memoria le immagini, raggelanti e impietose, uscite alcuni anni or sono dagli archivi dell’Istituto Luce - quella inerte sequela di corpi senza volto e senza nome, di ossa e di membra coperte di cenci, abbandonate e perse nella cecità della materia senza vita – ed è questa, in fondo, si potrebbe dire, la condizione stessa di una poesia abbandonata alla propria solitudine e alla propria inanità, condannata a gridare, come in un deserto di tenebre e silenzio, la propria condanna e il proprio dolore senza eco e risposta).
Per una via del tutto autonoma, questo Govoni perviene ad uno stato poetico non troppo distante da quello del Mallarmé, postumo e sorprendente, di Pour un Tombeau d’Anatole, che dopo le astrazioni e le rarefatte idealità della “poesia della poesia” si confrontava, proprio in séguito alla morte del figlio, con “les brutalités de la mise en bière”, con la ritualità impassibile e spietata della ricomposizione e dell’inumazione, e si stupiva del fatto di cantare qualcosa di “vero”, qualcosa che non fosse, secondo la lezione simbolista, “seulement musique”. E nondimeno, con una di quelle apparenti incongruenze che solo la profonda e spesso alogica coerenza della poesia sa ricomporre in sé e mediare, il Dialogo dell’angelo e del giovane morto che chiude il libro recupera proprio la lezione del grande théâtre du silence simbolista di un Ibsen e di un Maeterlinck, con le sue atmosfere sfumate, rarefatte, gravide d’attesa, i suoi personaggi quasi incorporei, sospesi ed esitanti tra il carattere e il simbolo. “Se la vita non fu che un imparare / faticoso e accanito sulla terra: / imparar fiore albero, sole, mamma; / sarà solo quassù un dimenticare / facile e rapidissimo”, dice l’Angelo – che, peraltro, si rivelerà infine un “indifferente angelo di vuoto”, coerentemente con quella che Hugo Friedrich ha definito la “vuota trascendenza” della lirica moderna. “Conoscerai ben presto / che dolce fatica è imparare / l’analfabeta lingua del silenzio” – quella lingua di fronte a cui la stessa parola poetica è costretta ad ammutolire, e che nondimeno ispirò al Govoni dei frammenti postumi i versi forse più alti che la poétique du silence abbia suggerito ad un poeta italiano: “ch’io mi senta bagnato di silenzio / un silenzio che faccia meno rumore / del più segreto pensiero avuto in sogno / in cui la vita sia per sempre ferma / non più vita non più morte / (…) solo luce silenzio e eternità / come il fiore gualcito della luna”.
Matteo Veronesi
Nota bibliografica
In questa breve postilla, che non ha alcuna pretesa di completezza, mi limito ad indicare i testi che mi sono stati maggiormente utili per la stesura di questo contributo.
Di grande aiuto per orientarsi nella vastissima e disuguale produzione poetica govoniana sono alcune ampie scelte antologiche, da quella dello Spagnoletti (Sansoni, Firenze 1953) a quella del Ravegnani (Mondadori, Milano 1961), fino al recente florilegio curato da Gino Tellini per Mondadori (Milano 2000).
Parte dei frammenti inediti (perlopiù di non grandissimo valore) conservati a Ferrara, nel Fondo Govoni della Biblioteca Ariostea, è pubblicata nel volumetto (purtroppo a tiratura limitata, e ormai introvabile) Govonilampi, a cura di P. Cimatti (Edizioni della Cometa, Roma 1981).
Il carteggio con la Duse, a cui si è fatto riferimento, è accuratamente edito da Anna Folli in appendice al volume Teatro, a cura di Mario Verdone, Bulzoni, Roma 1984 (in cui sarà da vedere, con riferimento alla prospettiva del mio studio, soprattutto la commedia Il pane degli angeli, assai vicina, specie nel prologo, ad ambientazioni e atmosfere maeterlinckiane). Della stessa Folli si è tenuto presente lo studio, rigorosamente fondato sull’esame dei segni di lettura lasciati dall’autore in margine ai volumi della sua biblioteca, Il laboratorio poetico di Corrado Govoni. 1902-1908, in “La Rassegna della letteratura italiana”, 3, 1974, pp. 437-455.
La migliore monografia complessiva sul poeta resta, a tutt’oggi, quella di Fausto Curi, attenta sia alle consonanze e ai richiami letterari, sia all’interna ed intrinseca evoluzione della personalità dell’autore, e da vedere anche per la ricca bibliografia (Mursia, Milano 1964, poi 1973).
Fondamentale Corrado Govoni. Atti delle giornate di studio, Ferrara, 5-7 maggio 1983, a cura di A. Folli, Cappelli, Bologna 1984 (in cui spiccano gli interventi di Sanguineti e Livi per ciò che concerne i rapporti con il simbolismo francese e belga e con il crepuscolarismo italiano, quelli di Mengaldo e Beccaria per l’analisi metrica, linguistica e stilistica).
Fra i contributi più recenti, pare opportuno segnalare almeno il volume di Antonio Pietropaoli Poesie in libertà : Govoni, Palazzeschi, Soffici (Guida, Napoli 2003), che tocca sia gli anni della formazione e dell’apprendistato, sia la vexata quaestio – che non mi sembra peraltro essenziale - dell’evoluzione poetica e delle “fasi” creative. Sempre al primo Govoni è dedicato lo studio di Fornaretto Vieri Intorno alle Fiale: incunaboli del protonovecento govoniano (Le lettere, Firenze 2001).
A parte l’illuminante ma isolata pagina di Spagnoletti nell’introduzione all’antologia citata (che si legge anche, accanto alla riproposizione dell’articolo di Montale e a scritti di Ettore Mazzali e Claudio Varese, in Letteratura italiana. Novecento, vol. III, a cura di G. Grana, Marzorati, Milano 1980), non numerosi gli studi specifici su Aladino (di cui si segnala peraltro la recente, e purtroppo già introvabile, ristampa compiuta nel ’97 da Maurizio Editore di Roma). Per una contestualizzazione di massima del libro nel quadro della poesia italiana d’ispirazione resistenziale, si può comunque vedere il documentato saggio, tra critica letteraria e storiografia, di Anna Dolfi, in EAD., Le parole dell’assenza. Diacronie sul Novecento, Bulzoni, Roma 1996, pp. 87-121.
Per quanto concerne i fondi archivistici cui si è fatto riferimento, la collocazione dei materiali che attestano della genesi e della gestazione di Aladino è la seguente: busta 2, fascicolo 40; b. 4, f. 4; b. 5, f. 48; b. 8, f. 48; b. 8, f. 85 a); b. 9, f. 23; b. 12, ff. 92 a) e b) e 97; b. 14, f. 20 a) e b); b. 16, f. 30; b. 24, ff. 5 e 53; b. 29 ff. 7, 34-44, 46; b. 35, ff. 82-84.