("Il lettore di provincia", XLVIII, 149, 2, 2017)
Ad un primo sguardo, parrebbe improprio accostare alla dimensione aforistica il nome di Leopardi; la cui scrittura vasta, articolata, dalle ampie campiture, dalle ariose arcate (improntata, in ciò, ad una sorta di metatemporale classicità, fra atticismo e purismo, ascesa alle sorgenti elleniche e latine e ripensamento della grande tradizione italiana, non senza, però, qualche eco dell’opulenza, e dell’inquietante estro, barocchi – basti pensare, a tacer d’altro, alla sua venerazione del Bartoli, alle risonanze che l’ombroso e tortuoso senso di mortalità e caducità che pervade, ad esempio, le fosche meditazioni di un’opera come l’Huomo al Punto imprime al suo assiduo sfiorare, quasi per insieme esorcizzarli, il bordo dell’abisso e del nulla), nonostante il carattere a volte frammentario, compendioso, appena accennato e abbozzato, di certe pagine (fra appunto erudito, rievocazione autobiografica, annotazione intimistica, fascinazione sensoriale e analogica) dello Zibaldone, e nonostante la meravigliosa, cogitabonda concisione, fra Guicciardini e Pascal, dei centoundici Pensieri che ne trasse, con l’idea di una pubblicazione, negli ultimi anni – la cui scrittura, dicevo, parrebbe, nonostante tutto ciò, lontana, nel complesso, dalla rapidità acuminata, dalla repentina e tagliente incisività, che dell’aforisma sogliono essere proprie.
Eppure, a parte della critica più avveduta non è sfuggita la possibilità di un aspetto, di un’indole e di un’intonazione, aforistici in Leopardi: da Fausto Curi (che nota come in Leopardi manchi, sì, perlopiù, la «brevitas folgorante dell’aforisma», ma non gli sia ignoto il «carattere paradossale» che è sovente ad esso connaturato, tanto che, citando Baldacci, il suo pensiero spesso esiste e si pone e trova espressione per superare se stesso, per mettere se stesso alla prova della negazione, fino a ricordare la celebre concezione di Karl Kraus, secondo la quale l’aforisma è una mezza verità, oppure una verità e mezzo) per arrivare a una lettrice minuziosa e sistematica come Fabiana Cacciapuoti, la quale ha notato come, pur nella vasta ambizione ad una sorta di non programmatica, non rigida, ossia aperta e polifonica, sistematicità che sorregge il disegno dello Zibaldone, la condensazione concettuale, l’intonazione necessaria, la concentrazione essenziale, la pronuncia scolpita, quasi oracolare o fatale, dell’aforisma ricorrano più volte, quasi con una sorta di coazione o di perpetuo ritorno, in Leopardi, a volte anche annidandosi fra le righe di un discorso più ampio, talora lambente, quasi, il piccolo trattato1.
Notava Giuseppe Pontiggia, introducendo la più vasta raccolta di aforisti italiani, comprendente non per nulla anche Leopardi2, che aforisma deriva da una parola greca indicante il limite, il confine, la linea dell’orizzonte, e dunque la definizione, la delimitazione, la focalizzazione di un principium individuationis, la fissazione del significato e dell’essenza.
Sarebbe troppo facile evocare l’”ultimo orizzonte”, e il limite che ne impedisce la piena visione. Ma la “condizione aforistica”, per così dire, con quel suo oscillare perpetuo e quasi fatale fra la mezza verità e la verità e mezza, fra la piena saturazione, il completo soddisfacimento di una misura e di una possibilità conoscitive e, dall’altro, l’accenno ad un suo superamento, ma non al pieno e ultimo raggiungimento di una verità ulteriore e compiuta, ben si sposa ad un’idea di vago, d’indefinito, di potenzialità suggerita, postulata o inseguita, di “gran mar de l’essere”, di vasta Sostanza dell’esistente e del conoscibile, che è possibile e necessario inseguire, ma impossibile afferrare appieno – anche se, forse, proprio in questa misura dilatata e incolmabile, spalancata, evocata e mai del tutto attinta, vivono e si muovono lo spazio, il respiro e l’ala del pensiero e della creazione.
Del resto, come osservava, con ironia un poco aspra, Umberto Eco a conclusione di un importante ciclo di seminari3, benché certi “filosofi creduloni” (il riferimento è ovviamente a quella – a volte effettivamente un poco nebulosa – ontologia del linguaggio poetico di matrice heideggeriana che è stata variamente applicata, a torto o a ragione, anche a Leopardi) considerino la poesia come rivelazione di verità assolute, lampo più fulgido del linguaggio che è “casa dell’Essere”, la poesia stessa assume spesso (specie nella modernità simbolista e poi ermetica – ma a tratti già nel Manzoni degli Inni sacri, quegli inni che a certi contemporanei parvero troppo densi di concetti, morale, dottrina, e dunque null’altro che “oscura prosa rimata”) una forma aforistica, ossia sintetica, emblematica, tagliente, concettosa, o, viceversa, oscura, oracolare, enigmatica (si ricordi il brevis esse laboro, obscurus fio, esso stesso un aforisma, nell’Ars poetica oraziana – ma non sarebbe certo privo d’interesse il ripercorrere, magari nelle sue consonanze sorprendenti con la lirica classica orientale, la genealogia aforistica di molta poesia moderna, in cui brevità, frammentismo, moto repentino d’analogie e accostamenti si sposano al carattere arduo e spesso criptico che ne è la nota dominante).
Anche il celebre endecasillabo del naufragio nel mare dell’infinito è, in fondo, un aforisma: un verso che, forse, riconduce, come si è più volte notato, alla sua matrice sentenziosa, compendiosa, aforistica appunto, cioè ad un passo del secentesco Quaresimale di Paolo Segneri («Resterà subito il mio spirito assorbito in quel vasto Oceano di una grandezza infinita, ed ivi ... amerò di andare eternamente annegandomi in un giocondo naufragio di contentezza») il quale sviluppa ed articola, a sua volta, con barocca sovrabbondanza, o forse con lo stesso lirismo disteso e pausato che dominerà la chiusa del leopardiano Cantico del Gallo Silvestre, l’originario nucleo aforistico di una ghnome, di una massima sapienziale, quella – reiterata e meditata più e più volte, insistitamente, dalla riflessione teologica – della Divinità come pelagus Substantiae infinitum, grande mare dell’Essere.
In modo inverso, un altro celeberrimo aforisma, una ghnome di Eraclito, quella che fa del tempo, o meglio della temporalità assoluta, dell’Aiòn, un pais paizon, un fanciullo che gioca, «il regno di un fanciullo», è, nella Palinodia, dilatato fino a farne un articolato passo di filosofia in versi, fra lirismo e argomentazione, illuminazione dell’immagine concreta e indugio meditativo, nell’amara e lucidissima, quasi profetica consapevolezza del persistere dell’umana tragedia sotto variopinte parvenze di palingenesi: «Quale un fanciullo, con assidua cura, / (...) cosí natura ogni opra sua, quantunque / d’alto artificio a contemplar, non prima / vede perfetta, ch’a disfarla imprende, / le parti sciolte dispensando altrove».
Ma c’è, forse, in Leopardi come in Nietzsche, un nesso più profondo tra la forma, quasi necessitata, quasi fatale, del frammento, dell’aforisma, del pensiero tagliente e acuminato, della tavola ferita ed infranta, e la percezione, o l’intuizione, dell’eterno ritorno dell’uguale. Ogni istante, per la sua stessa finitezza, per la sua limitatezza irredimibile a fronte dell’eternità del tempo – del «tacito, infinito andar del tempo» –, dovrà eternamente ripetersi. E, allo stesso modo, il frammento è lo specchio, lo spiraglio parziale a rivelatore, esiguo eppure numinoso, di un discorso più vasto, teso, invano, ad aderire all’assolutezza sconfinata in cui naufraga – constatando i propri stessi stretti limiti – la coscienza infelice. Il frammento è come respinto, e insieme redento, dalla totalità da cui proviene, o di cui lascia trapelare, fra aride distese d’insensatezza, un barlume.
«Non enim excidunt sed fluunt; perpetua et inter se contexta sunt. (…) Facilius singula insidunt circumscripta et carminis modo inclusa», insegnava Seneca (Ad Lucilium, XXXIII). Le sententiae, le ghnomai, le enunciazioni dense ed incisive che di tanto in tanto affiorano nel fluire del discorso, e si impongono con la loro tagliente e luminosa evidenza, sorgono, nondimeno, dal continuum di un discorso solidale, virtualmente inesauribile (e lo stesso eclettismo, professato da Seneca come, in modo più esplicito, da Cicerone, non è lontano, nello spirito e nelle interne dinamiche, dalla multiforme cultura di Leopardi, nella quale il materialismo settecentesco può liberamente e fecondamente fondersi, nella trasfigurazione lirica, con elementi platonici e neoplatonici e reminiscenze bibliche).
L’aforisma, la ghnome, è, per Aristotele (tanto nella Retorica quanto nel Peri Hermeneias), con un involontario e inevitabile gioco pseudoetimologico che forse non sarebbe dispiaciuto a un Lacan o a un Derrida, apophansis, definizione, sentenza, enunciato, che nel contempo può, paradossalmente, prendere la forma e il tono di una apophasis, di una negazione, un silenzio, una reticenza, un nascondimento, una dichiarazione d’indicibilità: un’affermazione che nega, una parola che tace, sospese fra il dire e il non dire, l’enunciazione e l’ineffabile, come il responso – emblema dell’aforisma, e insieme del linguaggio divino – dell’oracolo che, ancora in Eraclito, non dice né nega, ma semainei, allude, suggerisce, accenna, “dà segni” (e come non citare, qui, i «vetusti divini, a cui natura / parlò senza svelarsi», per via silente, esoterica, quasi misterica, della canzone Ad Angelo Mai).
Gli aforismi, le sententiae, insegnava ancora la retorica antica (Quintiliano, Institutio oratoria, VIII, 5), sono lumina, lampi di luce che rischiarano il periodo e il pensiero, e insieme illuminano una verità spesso celata.
Ma, dice ancora Quintiliano, sono davvero sententiae nel senso più pieno, più rivelatore, solo quelle antiquissimae, quelle che sorgono e risuonano da una lontananza primigenia, quasi ancestrale (come il «dolore antico» di Ecuba – che a terra si getta e grida e freme come Giacomo – cantato dai Tragici greci, di cui parla lo Zibaldone, 4156), da interminati spazi e sovrumani silenzi, e che perciò assurgono a vox universalis, a risonanza perenne, metatemporale; lumina, luci del pensiero, come il phos tou nou, la luce della mente, da cui, secondo lo Pseudo-Longino (30, 1), nasce il Sublime – ma si potrebbero citare anche i lumina ingenii che Cicerone riconosceva, accanto alla multa ars, a Lucrezio, e fra i quali andrà annoverato, celebre, lo sguardo di Epicuro vòlto senza schermi né timori alle profondità ignote e minacciose del cielo e dell’universo («primum Graius homo mortalis tollere contra / est oculos...»), antecedente, se non modello, forse (l’accostamento è del resto notissimo), di uno splendido aforisma incastonato nelle strofe, intessute di lirismo e pensiero, della Ginestra («nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato»).
Come ha osservato Antonio Prete, è proprio per la «permamente disposizione al saggio e al frammento» che la scrittura dello Zibaldone «scompiglia i confini sorvegliati di letteratura e filosofia». Il “pensiero poetante”, che fonde i due dominî del lirismo e della riflessione, da un lato tende a condensarsi, e ad acuminarsi e ad emergere con adamantina nettezza, nella forma dell’aforisma, della parola concisa, precisa, concettualmente densa, e nello stesso tempo evocativa, suggestiva di aloni sfumati, ulteriori e più vasti; dall’altro, tale pensiero poetante fonde, nel testo poetico, la memoria culturale e l’illuminazione lirica, e per ciò stesso conferisce all’”immagine antica”, alla concrezione della Memoria, all’archetipo letterario o mitico (sia esso deposto, vichianamente, nella memoria ancestrale di un popolo, e insieme nello spirito, nell’anima universale dell’umanità, o cristallizzato negli intrecci e negli echi delle espressioni letterarie) un valore espressivo e insieme intellettuale, intuitivamente analogico e insieme riflesso e consapevole. Si configura e si traccia, scrive Prete, un vero e proprio leopardiano «romanzo delle fonti», siano esse palesi o solo evocate in modo remoto e velato, certe o soltanto possibili, dirette o indirette, distintamente indicate o indicabili o sovrapposte a molte altre in una sorta di stratificato e risonante palinsesto4: e quando queste fonti, o meglio queste reminiscenze (anche nel senso platonico, più profondamente concettuale e intellettuale, quasi fenomenologico), si presentano nella forma del frammento, della scheggia, del semplice accenno, del disiectum membrum cui viene infusa nuova vita in una sorta di transustanziazione rituale, allora la “fonte” prende essa stessa la forma dell’aforisma, alla maniera delle antiche ghnomai, delle sentenze o massime che venivano estrapolate dai tragici, e in particolare da Euripide (e di cui l’autore del Christus patiens fece materia per una trasfigurazione tragica del sacrificio di Cristo), così come dei loghia, dei “detti”, ma anche profezie, oracoli, che analogamente, attribuiti a Cristo nelle scritture canoniche e più ancora apocrife, venivano estratte, e tramandate in raccolte autonome.
Proprio questo gorgo di frammenti, questo vorticante gioco d’echi, di suggestioni, sollecitazioni richiami, apparenta lo sguardo di Leopardi a quello di molta cultura settecentesca – con la sua «mathesis come scienza dell’ordine», con le sue figure formatesi «a partire dalla dissociazione del segno e dell’idea di somiglianza, come la probabilità, l’analisi, la combinatoria, il sistema e la lingua nella sua espansione»5.
Una triplice tradizione gnomica e sapienziale confluisce nell’universo leopardiano: quella ebraico-cristiana (forse mediata dallo Gnosticismo), quella tragica e quella della filosofia ellenistica, che Leopardi elogiava (Zibaldone, 599) precisamente per l’epigrafica concisione, oltre che per gli insegnamenti preziosi, fra cui quell’immagine della morte come passaggio quasi impercettibile, alieno da dolore, anzi dolce come il dormiveglia che sfuma e sprofonda nel sonno, tratteggiata da Cicerone (Tusculanae, I, 82, sull’«animi discessus a corpore» che avviene «sine sensu», e a volte «etiam cum voluptate»6) e ripresa, insieme a molte altre eterogenee suggestioni, nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, con un altro folgorante, tragicamente ironico e paradossale, aforisma («la morte è piuttosto piacere che altro»).
Dalla sapienza tragica, Leopardi deriva per parte sostanziale (e forse più di quanto non si sia finora notato) il suo sentimento della fugacità, della mortalità e del nulla7.
«Mai non veder la luce / era, credo, il miglior», si legge in Sopra un bassorilievo antico sepolcrale. È l’antico motivo del me phynai pheriston, «la cosa migliore di tutte è non essere mai venuti alla luce», che nell’Edipo a Colono di Sofocle (vv. 1224-1227), citato, accanto a Bacchilide, nello Zibaldone alla data del 10 febbraio 1823, compare in un dettato e in uno spirito molto vicini a quelli leopardiani: me phynai ton apanta nika logon, non essere mai nato vince, supera, eccede ogni umano logos, ogni pensiero e ogni parola, ogni facoltà intellettuale ed espressiva – della quale il Nulla, nella sua purezza e nel suo assoluto, è incolmabilmente più alto.
Sofocleo, e condensato nella quintessenziale, pur se discontinua e frammentaria, densità delle ghnomai, è anche il senso del nulla che accompagna, insidia e insieme intride, quasi plasma, di sé le esistenze mortali («a noi presso la culla / immoto siede, e su la tomba, il nulla», con accostamenti semantici, e rima, essenziali e ultimativi, quasi un suggello inesorato): un Nulla è il vivere di generazioni intere di mortali, gheneai broton (Edipo re, vv. 1186-1188); il «tacito, infinito andar del tempo», il pankrates choronos, il myrios chronos, il «tempo onnipossente», il «tempo infinito» (Edipo a Colono, vv. 610 e seguenti) sovrastano e dominano il mutevole succedersi delle vicende umane nei loro avvicendamenti e nelle loro imprevedibili sovversioni.
Lo stesso in Seneca, nel primo coro delle Troades: chi muore, chi esce dal gioco luminoso e ingannevole della vita, finirà «quo non nata iacent», dove giacciono gli esseri mai nati; «ipsaque mors nihil», anche la morte è nulla. «Tutto è nulla», «solido nulla», anche il dolore, si legge in pagine celebri, dove la scheggia aforistica si fa tormento ed assillo della coscienza, dello Zibaldone.
Non è casuale che a lasciare più marcate tracce intertestuali nella scrittura leopardiana siano i cori. Nello Zibaldone (2999), si sottolinea la funzione espressiva dei cori, che hanno la facoltà di «lasciar l’animo dello spettatore rivolto alla meditazione e a considerare in grande quelle cose e quei successi che gli attori e il resto del dramma non può e non dee rappresentare se non come particolari e individue, senza sentenze espresse e senza quella filosofia che molti scioccamente pongono in bocca degli stessi personaggi».
Ma l’uomo soffio d’ombra e fantasma d’ombra (come il celebre «sogno di un’ombra» in Pindaro) – aforismi, ghnomai, questi, essi stessi rapidi, fragili e labili come la realtà stessa, o l’onirica irrealtà, quella dell’umana esistenza, che fissano, o meglio colgono nello stesso eterno istante del suo svanire8 –, eidolon e kouphen skian (Aiace, v. 126), «fantasma od ombra vana», sono emblemi da un lato della fragilità e della fugacità della condizione umana, dall’altro dell’illusorietà – ma salvifica illusorietà – propria del «vago immaginare» che distoglie e consola, facendo da contraltare, per quanto inafferrabile, all’«arido vero».
«Celeste statua d’aria», eidolon empnoun ouranou apo, è l’Elena euripidea (v. 34): simulacro inafferrabile ed ineffabile, come la «cara beltà», l’«ombra diva», «leve anima» che vola (come, poi, l’«incarnat léger», forse solo sognato, allo sguardo rapito del Fauno di Mallarmé), in cui Leopardi depose le proprie chimere velate d’ironia superiore ed amara. «Ombra reale e salda / Ti parve il nulla, e il mondo / Inabitata piaggia». «A noi di lieti / Inganni e di felici ombre soccorse / Natura stessa». «Il prode (…) / maligno alle nere ombre sorride» – fino all’estrema rarefazione, alle soglie ormai dell’incontro con l’amato Nulla, del Tramonto della luna: «E mille vaghi aspetti / E ingannevoli obbietti / Fingon l’ombre lontane».
Queste ombre fugaci e perpetue, minacciose e fragili, soavi e sinistre (che fanno quasi pensare alle umbrae idearum del Bruno, «tenebrarum vestigium in lumine, luminis vestigium in tenebris, participes lucis et tenebrae» – altro splendido, oracolare aforisma –: segno delle tenebre nella luce, della luce nelle tenebre, compartecipi ed intermedie fra le une e l’altra; chiaroscurati archetipi che dalla loro vuota ed illusoria trascendenza sovrastano e guidano il cursus delle naturali vicende), adagiate nella rapidità labile ma sapiente della ghnome – queste ombre sono, a ben vedere, l’altra faccia della luce illusoria eppure salvifica dell’immaginazione, degli idoli, dei cari inganni, del vago errore, delle immagini antiche9.
La tradizione biblica10 e quella stoica convergono emblematicamente in A se stesso, la cui misura espressiva, al pari di quella del coro delle mummie (poesia senza immagini, fatta di nudi concetti; con una sintassi spoglia, essenziale, scarnificata, desertica, ormai non più racconsolata da alcuna melodiosa galleria settecentesca di decorazioni e di icone), è eminentemente aforistica, con la sua solennità e la sua perentorietà sapienziali.
L’«infinita vanità del tutto» è la vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste (che però non sfocia, in Leopardi, nell’abbandono a Dio, ma si arresta al rigetto dell’angusto, e anzi spietato ingranaggio terreno) ma forse anche la visione, in Marco Aurelio (IV, 32), della vita che ciclicamente e inesorabilmente «muore» (palin ta auta panta; tethneke kakeinos ho bios), e (V, 23) dell’«infinito abisso», dell’apeiron achanes in cui tutto viene inghiottito, poiché ogni ousia, ogni condizione esistenziale, non è che «un fiume in perpetua corsa».
Ma la ghnome stoica si fonde anche con quella tragica, nell’idea dell’«arcano mirabile e spaventoso», della «cosa arcana e stupenda», dell’«illaudabil maraviglia», insomma del prodigio sublime e tremendo, dell’immensa e desolante fascinazione, racchiusi nel cuore e nel fondo dell’esistenza universale: è (VIII, 50) un prodigio, un miracolo, uno thaumaston tes technes tes physeos, una mirabile e tremenda opera dell’«artificio della natura» il meccanismo, il cosmico ritmo in virtù del quale la Natura assimila a sé, fagocita, «tramuta in se stessa», riducendoli alla materia primordiale, gli esseri che al nostro sguardo transeunte paiono corrompersi ed invecchiare.
Ma all’armonia cosmica, al Logos, alla Pronoia, all’ordine razionale e provvidenziale che, nello stoicismo di Marco Aurelio, e di Cicerone prima di lui, presiedono alla vita dell’universo si sostituisce, in Leopardi, nell’incompiuto Inno ad Arimane come in A se stesso, il «brutto / poter che, ascoso» (sorta di malefico Deus absconditus), «a comun danno impera» – del quale, in Manzoni, la «feroce forza» che possiede il mondo contraffacendosi in Legge sarà la maschera umana e storica, svincolata, cristianamente, da qualsiasi gnostica autonoma consistenza ontologica del Male assoluto.
Si è accennato ai loghia cristiani, alle parole di Cristo rivisitate attraverso la tradizione gnostica ed ebraica. «Gesú Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della virtú, dell’innocenza, dell’eroismo, della sensibilità vera» (Zibaldone, 112).
Il richiamo è soprattutto ai loghia, agli aforismi di Cristo che punteggiano il quarto Vangelo, non per nulla segnato, di per sé, da venature gnostiche. «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (donde l’epigrafe della Ginestra, che forse andrebbe tutta riletta in quest’ottica); «il mondo odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive»; «non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo»; «il mio regno non è di questo mondo».
A queste contrapposizioni gnostiche fra materia e spirito, fra tempo ed eterno, allude anche il Cantico del Gallo Silvestre: creatura, quest’ultimo, salmistica e talmudica, sorta di personificazione zoomorfa dell’axis mundi, i cui estremi toccano l’abisso e il vertice celeste, e perciò emblema dei cicli eterni, del perpetuo ripetersi; testo, il Cantico, in cui il «silenzio nudo» e la «quiete altissima», come segnala Galimberti11, potrebbero alludere all’hesychia e all’heremia, al Silenzio e alla Quiete, in cui, per gli Gnostici, secondo la testimonianza di Ireneo, giace immerso il Logos non ancora pronunciato e manifestato.
L’aforisma, filo sottile, esile frammento, respiro o soffio fragilissimi, tesi sul mare del silenzio e del nulla – voce che, per la sua stessa brevità, sùbito rientra, inghiottita, nel silenzio da cui è appena sorta – filo aggiunto «alla tela brevissima della nostra vita», come Sterne diceva del sorriso e Leopardi della poesia, un tempo radioso, ormai remoto e opacato, sorriso degli dei – l’aforisma, dicevo, la ghnome nelle sue varie, molteplici, metastoriche o transtoriche, forme, porta forse nel grembo, in chiave gnostica, al di qua o al di là della mente, del pensiero, del discorso pienamente articolato, la «Grazia silenziosa» (come al chiama il Vangelo della Verità), inquietante e salvifica, luminosa ed oscura, del Verbo.
Matteo Veronesi
1 F. CURI, Gli stati d’animo del corpo, Pendragon, Bologna 2005, p. 40; F. CACCIAPUOTI, Dentro lo Zibaldone, Donzelli, Roma 2010, in particolare le pagine 68-69 e 54-55.
2 Scrittori italiani di aforismi, a cura di G. RUOZZI, Mondadori, Milano 1997.
3 Teoria e storia dell’aforisma, a cura di ID., Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 164-165.
4 A. PRETE, Il pensiero poetante (1980), Feltrinelli, Milano 2006, pp. 9-10, 38 e seguenti, 180-181; ID., Finitudine e infinito, ivi 1998, pp. 31-35.
5 F. CACCIAPUOTI, Dentro lo Zibaldone, cit., p. VIII.
6 Vedi il commento, in chiave gnostica, di Galimberti (Guida, Napoli 1990), pp. 310-311.
7 Vedi E. MIRANDA, Il dramma a tristo fine. Leopardi e il pensiero tragico, Graphis, Bari 2007; La dimensione teatrale in Giacomo Leopardi, Olschki, Firenze 2008; senza dimenticare il troppo trascurato, ma illuminante specie per i richiami a Pascal, V. U. CAPONE, La coscienza tragica, Società Editrice Napoletana, Napoli 1977.
8 Vedi, per il vasto quadro d’insieme, non privo di richiami anche biblici, il Dizionario delle sentenze latine e greche, a cura di R. Tosi, Rizzoli, Milano 1991 e successive edizioni, al numero 622.
9 Vedi L. POLATO, Il sogno di un’ombra. Leopardi e la verità delle illusioni, Marsilio, Venezia 2007.
10 Per un documentato quadro d’insieme, si può vedere P. ROTA, Leopardi e la Bibbia , Il Mulino, Bologna 1998.
11 Nel commento citato, p. 404 (pp. 392-393 per i riscontri biblici e talmudici).