Credo che a proposito del Santo Patrono di Imola si possa parlare di quella stessa “storicità relativa” che i grecisti hanno riconosciuto ai poemi omerici, e che è propria di figure, eventi, ambientazioni che hanno sì una radice e un fondamento sul piano storico, ma che sono passati, in pari tempo, attraverso una elaborazione e un’amplificazione fantastica, una trasfigurazione in sede letteraria.
Non si può dire che manchino del tutto argomentazioni ed appigli a chi voglia sostenere la presenza di un fondamento storico alla base della figura e della vicenda del Santo, che parrebbero avvalorate, non foss’altro, dall’antichità e dalle profonde radici del culto e della venerazione – attestati fin dal V secolo – da cui sono avvolte.
Le stesse modalità del martirio - apparse a più d’uno inverosimili, o quantomeno singolari – non sembrano prive di riscontri, tanto classici quanto cristiani (basti pensare alla pubblica fustigazione del maestro traditore decretata, a quanto narra Livio, da Furio Camillo, o all’orrendo scempio di un senatore, “graphis confossum”, “trafitto con stili”, voluto da Caligola secondo il racconto di Svetonio, o, in àmbito cristiano, alle modalità del martirio di San Sebastiano, fissate, stando alla più antica Passio, di attendibilità storica peraltro controversa, da Diocleziano in persona, o agli analoghi supplizi di San Marco di Aretusa, che così pagò il rifiuto di aderire all’arianesimo, e di Sant’Artema di Pozzuoli).
Ma non si deve a mio avviso dimenticare che la testimonianza fondamentale della vicenda cassianea, quella da cui dipendono, nella sostanza, quasi tutte le narrazioni successive (dal De gloria martyrum di Gregorio di Tours al De Triumphis Christi di Flodoardo ad un sermone di San Pier Damiani), è rappresentata, com’è noto, dal nono inno del Peristephanon di Prudenzio – vale a dire da un testo poetico, incline, per la sua stessa essenziale natura, a trasfigurare il dato reale attraverso il filtro sublimante della rappresentazione estetica, trasponendolo nella dimensione, luminosa e rarefatta, del mito. Nel testo prudenziano, tra l’altro, la narrazione del martirio compiuta dall’aedituus, dal sagrestano addetto alla tomba del Santo, si sviluppa nei modi tipici dell’ekphrasis, della “digressione” che trae spunto da un’immagine figurativa (espediente, questo, già comune nelle letterature classiche, a partire dalla celebre descrizione omerica dello scudo di Achille): tra il racconto riferito da Prudenzio e l’evanescente e fluttuante realtà storica vi è, per così dire, lo schermo trasfigurante e sublimante della raffigurazione artistica, della “imago martyris” dipinta “in vividi colori” (“fucis colorum”, dice il poeta, e si noti che “fucus” può indicare tanto la “porpora”, il colore del sangue e del martirio, quanto l’“ornamento” e la “finzione”).
E avvolta in quelle stesse accese porpore si snoda l’intensa narrazione poetica dell’atroce martirio, o meglio “combattimento”, che si risolve infine nella morte inviata, pietosamente, da Cristo, vista, in termini platonici, come liberazione dell’anima ardente di fede dalle catene e dal carcere del corpo, dai “peccatoris ligamina” e dai “retinacula vitae”. È l’arte, l’arte poetica sorella della pittura (l’”arcana melodia pittrice”, come la chiamerà Foscolo), lo strumento di questa ascensione e di quest’apoteosi. E la visione si risolve, infine, in raccoglimento, meditazione, preghiera, poesia (“domum reverto, Cassianum praedico”: “mi ritiro, canto le lodi di Cassiano”).
Sono i versi di Prudenzio ad illuminare – al di là della realtà storica, del resto difficilmente accertabile in tutti i suoi dettagli e in tutte le sue sfumature – il volto di Cassiano che è ancora ben presente e vivo nella coscienza e nella memoria della città – sia esso quello, ieratico e austero, che affiora nei mosaici ravennati o quello, tenero, angelico, quasi efebico, e nondimeno sottilmente contristato, come di chi presagisca la sua sorte, che ritrasse nel Quattrocento l’Aspertini.
Sarà, a distanza di secoli, un altro scrittore, il Wiseman, a fissare, nelle prime pagine del romanzo Fabiola, il profondo ed universale messaggio – sospeso tra ideali classici e sacrificio cristiano – che è dato cogliere nel martirio del Santo. “Dovere un vero filosofo essere sempre pronto a morire per la verità” è il titolo – di sapore stoico – che Cassiano detta ai suoi discepoli. Ed è uno di questi, rivelando involontariamente e pericolosamente il comune credo, a sostituire “filosofo” con “cristiano”, “verità” con “fede”.
Matteo Veronesi