Petrarca e la poesia araba

(“Il Domenicale”, 26 marzo 2005, p. 4)

I poeti, dice il Corano nella Sura XXVI, detta appunto la “Sura dei poeti”, «errano in ogni valle», e «dicono cose che non fanno»; a seguirli sono solo i «traviati». Indubbiamente, il Profeta non voleva condannare senza eccezioni ogni forma di poesia, ma solo l’opera di certi poeti ancora legati al mondo preislamico, agitati dall’ebbrezza della sensualità o ispirati da una religiosità ancora primordiale, animistica. Tuttavia, è interessante osservare che una condanna non troppo dissimile compare nel Platone della Repubblica e del Fedro, convinto che la poesia costituisca un’imitazione «di tre gradi lontana dalla verità», una mimesis fallace e fuorviante, o, poniamo, nel sesto libro del De civitate Dei di Agostino, ove quella poetica theologia che avrà nella scuola di Chartres e in Dante il suo fulgido culmine è parimenti respinta come ingannevole, menzognera, intrisa di spiriti mondani: ogni sistemazione dogmatica, ogni modello saldo e perenne di stabilità sociale e di indiscutibile verità religiosa o filosofica parrebbero tendere, di per sé, a mettere in dubbio e a rischio la possibilità e la condizione di esistenza del discorso poetico, che trova nella libertà espressiva, nella spregiudicatezza inventiva, nel diritto essenziale e sostanziale, si potrebbe dire, ad un certo margine di eterodossia, se non di eresia, il suo spazio vitale.

Ad ogni modo, il daimon della poesia percorre ed innerva, come un fuoco sottile e segreto, tutta la cultura islamica, dall’Oriente alla Sicilia alla Spagna. A un trentennio di distanza dalla memorabile Antologia della letteratura araba allestita nel ’76 da Francesco Gabrieli e Virginia Vacca per le Edizioni Accademia, il lettore italiano può ora avvicinarsi a questo mondo vario e sterminato grazie all’agile e suadente florilegio curato da Gianroberto Scarcia (Poesia dell’Islam, Sellerio, Palermo 2004, pp. 312, euro 11).

Ci si deve certo guardare, di fronte a un libro come questo, dal rischio di scivolare in un superficiale “orientalismo” di maniera, di abbandonarsi alle suggestioni esteriori ed effimere dell’esotismo e della contaminazione, come pure da quello di cedere alle logiche generiche e indiscriminate di certo pensiero interculturale, che vorrebbe annullare le oggettive distinzioni e i chiari confini che separano tradizioni culturali e dimensioni storiche per molti aspetti profondamente diverse, e che è anzi possibile e proficuo accostare e giustapporre proprio alla luce di quei confini e di quelle distinzioni, se non si vuole cadere nel caos di un indistinto balbettio, di un infinito fraintendimento. Ma è avvincente andare alla ricerca di possibili punti di contatto tra la poesia araba e le letterature occidentali, in special modo medievali. Del resto, è Adonis, forse il massimo poeta vivente del mondo islamico, artefice anche nei suoi versi di una geniale fusione fra la tradizione araba e le innovazioni occidentali del simbolismo e del surrealismo, a sottolineare, nella sua Introduzione alla poetica araba, impreziosita da una prefazione di Yves Bonnefoy (trad. it. Marietti, Genova 1992), a suggerire, in special modo a livello di poetica, cioè di concezione della poesia, di autocoscienza letteraria, possibili paralleli e raffronti fra questi due sconfinati territori.

Scrive ad esempio, nel nono secolo, Ibrāhīm al- Nazzām, in versi in cui un lettore occidentale non può non avvertire limpide risonanze neoplatoniche: «Sostanza sua è la luce del cielo / che in corpo umano ha preso forma. / La bellezza del mondo di sua beltà si nutre, / come rappresentarla è l’ardua impresa / che mai trova adeguata descrizione. / Forgiandola il Creatore ha decantato / fusione delle luci dell’Empireo: / chi iperboli produce nel descriverlo / è colto immantinente da afasia». Non è il caso di rinnovare la disputa che a suo tempo divise i dantisti dopo la pubblicazione dello studio di Miguel Asín Palacios L’escatologia islamica nella “Divina Commedia”, che ravvisava nel poema dantesco affinità – che i successivi studi condotti sul Libro della Scala avrebbero in parte confermato – con certe tradizioni mistiche mussulmane (affinità incardinate, del resto, su aspetti universali, per così dire archetipici, dell’esperienza religiosa, come l’eterno conflitto fra bene e male, luce e tenebre, spirito e corpo, o l’anelito dell’uomo all’immortalità). Certo è, però, che versi come quelli appena citati sono accesi e tesi da un sensus anagogicus, come lo chiamava Dante, da una tensione verso l’ineffabile, il sovrumano, verso il «trasumanare» e l’«oltraggio», simili a quelli che sostengono il cammino del «poema sacro». Basta riprendere, giusto per non lasciare questa osservazione allo stadio nebuloso e irriflesso della mera impressione di lettura, il sonetto conclusivo della Vita nuova, che lascia già presagire, pur se in forma ancora parziale, il grandioso disegno del poema: «Oltre la spera che più larga gira / passa ‘l sospiro ch’esce dal mio core. […] / Vedela tal, che quando ‘l mi ridice / io no lo intendo, sì parla sottile / al cor dolente, che lo fa parlare».

La parola poetica dell’Occidente incontra quella dell’Oriente proprio sulla vetta del discorso intorno al Divino e al trascendente, sul crinale dell’esperienza religiosa, insomma nelle regioni, fulgide e oscure insieme, del «numinoso». Per riprendere termini e concetti richiamati da Scarcia nella densa introduzione, l’Uno della tradizione neoplatonica, a cui l’anima deve tornare dopo l’esilio nel carcere della carne, il Verbo della teologia trinitaria e il Nulla, l’eterno divinum nihil, del pensiero mistico, possono, almeno nelle loro trasfigurazioni poetiche, sotto le maschere della metafora e del simbolo, di là dal rigore argomentativo e dalla lucidità acuta e tagliente propri del discorso filosofico e teologico, incontrarsi e conciliarsi. La visione desolata della finitezza umana davanti all’enigma della morte, all’abisso insondabile dell’oltre, accomuna culture diverse nella stessa, eguale misura in cui le interroga, le sollecita, le sgomenta. «Rapido è il nostro passaggio», scrive Abū’l-‘Alā al-Ma’arrī, «senza sosta il nostro cammino / tra due vuoti su cui poggia un ponte. / […] Eternamente giovane è la morte. […] Per essere felici […] / dovremmo restare solidali / all’Uno che in origine è la morte. / Cos’è in fondo la morte, / se non quella fontana in cui ti sei specchiato?». «La vita fugge e non s’arresta un’ora / e la morte vien dietro a gran giornate», dirà Petrarca, che in una lettera a Giovanni Dondi (Seniles XII, 2) scriveva, pur nella negatività del giudizio, di sapere bene «che poeti fossero gli Arabi». Peraltro, il motivo del ruit hora, la consapevolezza del fatto che «cotidie morimur», che moriamo, un poco, ogni giorno, poiché in ogni istante il tempo precipita verso l’ineluttabile fine, erano già ben radicati nelle letterature classiche.

Nel capitolo quinto del Collare della colomba, intitolato Su chi amò a un solo sguardo, Ibn Hazm (purtroppo non incluso nella selezione di Scarcia) scrive: «Il mio occhio si è reso colpevole di avere inflitto al cuore / il tormento dei pensieri d’amore, e il cuore, / per vendicarsi dell’occhio, ne ha fatto scorrere le lacrime». Vi è qui quella fenomenologia amorosa basata sull’occhio e sul vedere, secondo la quale l’amore arriva al cuore attraverso le pupille e ne fa sgorgare le lacrime, che si ritrova nella lirica siculo-provenzale (straordinari, in proposito, i documenti raccolti da Luciano Anceschi e Francesca Maria Corrao nella fortunata antologia mondadoriana Poeti arabi di Sicilia) e successivamente nel dolce stil novo. Nel saggio su Petrarca Il poeta dell’oblio, Ungaretti – nella cui memoria biografica di nomade e di esule vi è una profonda radice egiziana, e dunque araba –ipotizzava che la lirica occitanica e quella siciliana fossero «figlie di quell’arabo scervellarsi dietro alla lettera in seguito al divieto del Corano di ritrarre per arte le fattezze umane», e sovrapponeva agli sguardi di Laura, ai suoi «bei lumi», quelli il cui brillio aveva visto trapelare, fanciullo, ad Alessandria d’Egitto, dai lembi degli chador. Né è del tutto fuori luogo il richiamo mistico al “velo” della “lettera” coranica, che lo gnostico, il sufi deve saper squarciare per giungere allo spirito. La sfera dell’amore e quella del sacro sono, nella poesia araba, come successivamente nel dolce stil novo e in Dante, in vario modo legate. L’«unione» amorosa, dice ancora Ibn Hazm, è una «sublime benedizione», una «vita rinnovata», una sorgente di «gioia perenne», una prefigurazione della felicità paradisiaca.

La parola poetica, anche nel mondo islamico, tende a tornare al Logos, a ricongiungersi con la Parola divina. Dice ‘Umar ibn al-Fārid: «Il suo nome venne prima che il mondo venisse, / in un tempo in cui il mondo non era, / né immagine aveva, né forma. / Dal Nome del Vino le cose hanno tratto sostanza, / sostanza a cui saggio il velo s’impone / perché protetto sia colui che non sa». Qui lo spirito della mistica islamica sembra rivestirsi di una simbologia sacrificale non inconciliabile con il cristianesimo, ma nella quale parrebbe di avvertire addirittura qualche risonanza dionisiaca. Del resto, dice la coranica «Sura della Luce» (la quale ispirò tra l’altro una secolare mistica della luce, che tramite Roberto Grossatesta arriverà fino a Dante), la «lampada» di Dio, da cui sgorgano «metafore», è alimentata dal sacro olio di un ulivo che «non è d’Oriente o d’Occidente».

Matteo Veronesi