Murmure d'arnie a tarda sera. Sul Simbolismo delle api e del miele dagli antichi a Dante


(postfazione a Il libro delle api, Medusa, Milano 2013)

Di tutti i pollini egli seppe fare il suo miele. Così scriveva, di Montaigne assorto e ricurvo nell’ombra assidua e sapiente della sua sterminata biblioteca, D’Annunzio in quella pagina del Libro segreto in cui, fra l'altro, l'autore si autodefinisce «l'estremo de’ bibliomanti», il postremo custode d’una tradizione umanistica divenuta ormai polline o polvere, esposta ai venti rapinosi del tempo, sempre sospesa ad un soffio dalla dispersione e dal dileguo irrevocabili. 

D'Annunzio si rifaceva ad una metafora ricorrente e d'origine antica, da Macrobio, che la riferiva all'amato Virgilio, a Petrarca, che la citava nelle Familiares, in una lettera al Boccaccio, evocandola a proposito del suo rapporto con i predecessori, e in particolare con l'odiosamato Dante, ombra imponente e greve, fino all'umanesimo, e oltre (onde, se pensiamo, alla fine del Purgatorio, alla figura di Matelda che «sceglie fior da fiore», possibile, aggraziata personificazione della Mathesis, della sapienza poetica divisa fra la sfera operativa e quella contemplativa, fra la natura e l'arte, l'ispirazione e il lavorio formale, potremmo forse attenuare la contrapposizione, pur proposta da uno studioso insigne, fra la mellificatio dell'umanesimo, che sceglie e seleziona sottilmente e avvedutamente i modelli per poi contaminarli, metamorfosarli, rifonderli, e farne una nuova opera, e la presunta sanguificatio del medievale Dante, che invece aderirebbe totalmente, visceralmente, in modo quasi filiale, placentare, ad un unico modello, e segnatamente a quella Eneide che gli fu, come a Stazio, madre). 

Ed è proprio un altro richiamo al D'Annunzio del Libro segreto che può aiutarci a cogliere un altro risvolto della creazione poetica, e in generale della nutritiva vivificazione insita nell'arte e nel pensiero, intese come forme di mellificatio: l'immagine, manieristica o barocca ante litteram, tratta da un epigramma di Marziale, dell'ape rimasta prigioniera di una goccia del suo stesso miele («Et latet et lucet Phaethontide condita gutta, / Ut videatur apis nectare clusa suo»). 

Non c'è, forse, migliore allegoria, per quanto implicita, della figura del poeta, di colui, dice Mallarmé, che si isola per scolpire la propria tomba, e che brilla per l'eternità nel traslucido sepolcro di cristallo che le sue stesse parole hanno fuso e modellato. Come le api dell'invisibile di cui parla Rilke, che bottinano il miele del visibile solo per secernere, nel chiuso dell'arnia, quello dell'invisibile ‒ che, in altre parole, traggono, con assiduo e paziente travaglio, dal mondo esteriore e fenomenico le immagini che poi rivestiranno di sovrasensi simbolici e sfumature dapprima inafferrabili, facendone così il tramite e il filtro dell'interiorità.  

Questa antologia mostra, in certo modo, l'evoluzione, lo sviluppo, ma forse, per certi aspetti, anche la progressiva laicizzazione, il progressivo svuotamento, la secolarizzazione e il disincantamento, dell'immagine dell'ape: immagine divisa fra lo studio della natura e la trasfigurazione mitica, fra i sovrasensi religiosi e simbolici e le gradite e preziose applicazioni concrete.  

Anzi, si potrebbe forse dire che, tra Varrone, Plinio e Columella, nell'erudizione e nella trattatistica latine i due aspetti, i due risvolti ‒ Mythos e Techne, il Mito e la Tecnica, la fascinazione simbolica e l'applicazione pratica, pragmatica, utilitaristica, e, sul piano letterario, l'esattezza terminologica della parola che cerca di designare il reale in modo univoco e di indicarne le modalità di possibile sfruttamento e l'alone evocativo, invece, di quella che ne coglie e ne trasfigura gli aspetti simbolici ‒ si siano in certo modo compenetrati ed interpenetrati, fino a non essere sempre chiaramente distinguibili. 

Varrone sottolinea, fra aristotelismo e stoicismo, il binomio, l'endiadi di ratio ed ars, di sapienza intellettuale, ordine universale, racchiusi nel grembo della natura e modalità strutturanti attraverso cui essi si manifestano nel prendere corpo e forma dei fenomeni, secondo quel processo in virtù del quale, dice Aristotele, la natura a volte «opera come arte». 

Non a caso, come sappiamo da Agostino, fu proprio Varrone a sintetizzare,  forse ad inaugurare, la concezione (che da Dante, Petrarca e Boccaccio passerà a Coluccio Salutati e all'umanesimo) della naturalis theologia come, letteralmente, Logos divino ravvolto nel grembo della natura, verità ed essenza nascoste sub tegmine, sub velamine, «sotto il velame» dei simboli, delle metafore, delle allegorie ‒ come, in natura, sotto la superficie esteriore dei fenomeni ‒, e affioranti, a tratti, dai versi dei poetae theologi, detentori di un sapere remotissimo ed aurorale.   

E, accanto al nesso di ars e ratio, anche l'idea, con esso intrecciata, di un'opera che si compie intus, nel chiuso dell'alveare e dell'arnia, a partire da una materia esteriore (sia pur di essenza e d'origine celesti e purissime), potrà poi avere agevolato, nel corso della storia, l'associazione della mellificatio alla creazione poetica e all'anelito mistico verso la risurrezione e la comunione con il divino (secondo il mito narrato da Virgilio e da altri, le api nascerebbero dalla putrefazione: nutrimento e dolcezza, purezza e luce sorte, per così dire, dalla baudelairiana charogne, la quale pure conserva, mascherata e soverchiata e gravata dall'orrore del carname e dal fetore del putridume, l'opaca traccia platonica della Forma che preesisteva alla Materia, contemplata in un cielo anteriore, vanamente inseguita dall'artista: «Les formes s'effaçaient et n'étaient plus qu'un rêve, / Une ébauche lente à venir / Sur la toile oubliée, et que l'artiste achève /  Seulement par le souvenir»). 

Varrone, nelle pagine qui riportate (come poi Plinio il Vecchio, la cui rivalutazione, già auspicata da Calvino, appare, alla luce delle pagine qui incluse, ulteriormente necessaria), si rivela capace, almeno a tratti, di trasfondere nella nuda, quasi ingenua, irriflessa, spontanea, eppure proprio per questo sapientissima, vita e vitalità (quasi enérgheia nel senso del naturalismo preromantico di Goethe e di Humboldt) della lingua latina nel suo multiforme, brulicante e ronzante  impasto di tecnicismi, volgarismi, grecismi, forme poetiche, l'analoga e diversa vitalità della Natura animata da un Logos irriflesso, atavico, inconscio, eppure precisissimo, geometrico («... intus faciunt bombum, et, cum intro eunt ac foras, trepidant..... favorum foramina obducta videntur mellis membranis, cum sint repleti melle»: prosa che, nella tessitura verbale, pare, naturalmente, quasi involontariamente, restituire, per via fonosimbolica ed onomatopeica, e per identificazione di evidenze visive, la mobilità e la vitalità della natura). 

(Per inciso, i compilatori e gli epitomatori e gli eruditi greci e latini, piccoli o grandi che siano per mole, importanza, fortuna, possono emanare, a tratti, una sorta di fascino immobile ed intemporale: nudità, essenzialità, necessità, sostrato quasi minerale, strutturale del mito in Apollodoro, in Igino, in Fulgenzio; vitalità ciclica e ramificata e perenne del mondo vegetale, fissata nella parola, in Teofrasto Plinio Dioscoride; silenziosa armonia della rerum universitas, screziato ed ingenuo mosaico del mondo, disarmata meraviglia, in Ampelio). 

Ancora in Varrone, le api si inebriano d'acqua mielata, dunque del loro stesso nettare, quando ne vengono cosparse dall'apicultore che vuole sedare la loro inquietudine: «...propter odorem avidius adplicant se atque obstupescunt potantes». Anche questo stupor, questo inebriarsi di se stesse, del proprio stesso frutto, della stessa essenza da loro distillata e secreta, avrà rafforzato l'analogia fra la mellificatio e tutte le possibili facoltà, creative o mistiche, le quali vedono lo spirito ripiegato su se stesso e da se stesso stregato, rapito ad inseguire i propri stessi fantasmi. 

In Columella, invece, la poetica licentia, la fabulosa traditio (che in Varrone coesistono con lo spessore erudito, e anzi lo illuminano e lo ravvivano) cedono il passo alla precisione didascalica, alle concrete indicazioni pratiche ed operative: e si accentua, in pari tempo, l'analogia, anche ciceroniana e virgiliana (e per certi aspetti, a parere di alcuni, alienante, se non totalitaria), fra la società delle api, gerarchica, ordinata, priva di conflitti, e un'ideale civitas e societas degli uomini, dominata dalla concordia, dall'umile operosità, dalla paziente e muta subordinazione, infine dall'esigenza, naturale e sociale ad un tempo, della propagazione, della reduplicazione, quasi seriale («propaganda erit suboles»), per fornire nuova materia prima e nuova forza lavoro da gettare in pasto al Moloch della produzione (instrumenta, strumenti di lavoro e di produzione, nell'ottica della trattatistica romana di argomento agricolo, in ciò sinistramente moderna ante litteram, sono, pur se in misure e secondo modalità diverse, gli oggetti inanimati come le bestie, le api come gli schiavi). 

E, anche qui, ermerge l'analogia contrastiva e contrastata fra mellificatio e creazione poetica: fuor di metafora, se l'arnia è la lingua, l'ape solitaria che vaga di fiore in fiore, per poi ricondurre all'opera comune il frutto della sua raccolta, è il poeta. La lingua, il codice ‒ in senso lato, la tradizione poetica, ma anche le attese della società e del potere, e l'universalità del pensiero nella sua sovrapersonale assolutezza, così come la necessità espressiva, l'”ispirazione”, nella sua forza soggettivizzata, interiorizzata, ma in pari tempo spersonalizzante e straniante ‒ preesistono al poeta, lo abbracciano, lo inglobano, in certo modo lo fagocitano. Egli ne fuoriesce per tornarvi con il suo apporto individuale, che andrà poi ad alimentare ulteriori creazioni, ulteriori voli e ricerche, e così via, in un continuo moto di andare e venire, in un ininterrotto bisbiglìo, in un brusio soffuso, operoso, ed assiduo. 

Da Pascoli a Montale, il virgiliano, suasorio sussurrus del poeta-ape diverrà solitario, tardivo, infine avvolto dal silenzio, o negazione, esso stesso, del fragore, antitesi e cancellazione del suono, continuità e contiguità della voce della natura al bisbigliare appena percettibile, che poco più di un nonnulla divide dal mutismo e dal non-senso. «Un'ape tardiva sussurra / trovando già prese le celle». «Il fuoco d'artifizio del maltempo / sarà murmure d'arnie a tarda sera».  

La corrispondenza stoica e neoplatonica di microcosmo e macrocosmo pervade le pagine pliniane. Proprio in virtù della sua onnicomprensiva vastità, la natura può manifestare anche nel piccolo, anche nel minimo (quali appaiono appunto nella minutissima perfezione geometrica dell'ape) la propria celata e racchiusa sapienza. Analogamente, è un influsso, un effluvio astrale e celeste ‒ benché ombra o ricordo sbiaditi, oramai, della beatitudine aurea ‒ ad infondere nel miele la sua dolcezza e la sua purezza (da questa credenza, forse, la metafora, cara al misticismo cristiano, del «miele del Verbo», quasi anticipato dalla «caelestis naturae voluptas» pliniana).   

Sarà Dante (in cui, come diceva Thomas Carlyle, parla il silenzio di dieci secoli muti) a sintetizzare (egli stesso poeta theologus nel senso varroniano, pur se con uno spesso filtro d'erudizione e d'autocoscienza), con purezza e vigore assoluti, tutto questo complesso intreccio di simbologie e di motivi:


In forma dunque di candida rosa 

mi si mostrava la milizia santa 

che nel suo sangue Cristo fece sposa; 

ma l'altra, che volando vede e canta 

la gloria di colui che la 'nnamora 

e la bontà che la fece cotanta, 

sì come schiera d'ape che s'infiora 

una fïata e una si ritorna 

là dove suo laboro s'insapora, 

nel gran fior discendeva che s'addorna 

di tante foglie, e quindi risaliva 

là dove 'l süo amor sempre soggiorna. 


                                                                                                        Matteo Veronesi