"Le stanze di Penelope" di Luciano Benini Sforza

(“Il Nuovo Giornale dei Poeti”, XI, 1995, n. 5, pp. 8-9)

Un paio d'anni fa, recensendo Spazi e colloqui, la prima raccolta del trentenne poeta ravennate Luciano Benini Sforza, pubblicata, in una pregevole edizioncina fuori commercio, dal Centro Culturale "Ippolito Rossellini" di Pisa, mi soffermai con particolare attenzione su un breve testo, A lungo si perde, che riporto per intero: "È  di cristallo il cielo / e pura, splendida, / versa sulla città / la luce // la diffonde / fino ai miei occhi / uno specchio d'acqua / ombreggiata dai tigli // quieta / si sfiora col becco una tortora / a lungo si perde nell'altra se stessa."  Nella tenue tramatura di questi pochi versi, limpidi e melodiosi, il poeta recupera, consapevolmente o meno, una particolarissima percezione, ancestrale ed atavica, dell'acqua e del suo perpetuo ondulare o fluire, che viene a costituire una sorta di nebulosa icona, di archetipico emblema del perenne Divenire che attraversa ed agita il Creato; e la memoria, nel proposito di focalizzare l'origine di questa linea di simbolizzazione, corre ad Eraclito, l'oscuro e disdegnoso filosofo efesino, che qui si rivela una volta di più, secondo le parole di André Breton, "proavo del surrealismo": "Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume, né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato; per la velocità del movimento, tutto si disperde e si ricompone di nuovo, tutto viene e va" (fr. 91 D. K.). 

Quasi montaliano "fantasma che ti salva" o "anello che non tiene", capace di squarciare i velami che un razionalismo superficiale ed ottuso ha gettato sul reale, impedendo all'uomo di attingerne l'intima ed inquietante essenza, questa inattesa e fulgida epifania del Divenire, inteso come forma strutturale dell'esistenza e della conoscenza, sembra potenzialmente dischiudere inusitate ed allettanti prospettive gnoseologiche. Ma solo una tortora, nella beata e fiduciosa irrazionalità degli animali, è capace di cogliere quest'attimo, contemplando e sfiorando col becco la sua immagine, scialba ed incerta, riflessa nello stagno, "a lungo perdendosi nell'altra se stessa"; il poeta - "della razza di chi rimane a terra", per usare un'altra espressione montaliana, tratta dalla lirica Falsetto, in cui all'acqua viene esplicitamente conferito un sottile valore simbolico, per certi aspetti analogo a quello in questione, a sfondo irrazionalistico e vitalistico -, la cui ragione si ostina ad opporsi alla tremula e cangiante precarietà del reale, sarà condannato, come Sforza scrive altrove, alla "pena immobile" - patente la polarità tra il perpetuo moto che attraversa la natura e l'artificiosa stasi del soggetto pensante, pago, e insieme schiavo, dei suoi aprioristici schemi gnoseologici - di "chi si consuma e non è se stesso". 

Nella lirica A lungo si perde, come in altre poesie di Sforza, si fa evidente l'eco dell'Ungaretti dell'Allegria, che in un piccolo capolavoro come Vanità, muovendosi nello stesso campo simbolico della luce, dell'acqua e delle immagini riflesse, rappresentò proprio la disarmonia che divide l'uomo, posto di fronte alla sua immagine "cullata e piano franta", dalla Natura, grande Madre che leva il suo tacito rimprovero attraverso il "limpido stupore dell'immensità", "alto sulle macerie", addolorata e ammutolita di fronte all'assurdità della guerra: "D'improvviso / è alto / sulle macerie / il limpido /  stupore / dell'immensità // E l'uomo / curvato / sull'acqua / sorpresa / dal sole / si rinviene / un'ombra // Cullata e / piano / franta". Questa immagine del Divenire, dell'incessante movimento del creato - che nella prima piccola raccolta ricorreva insistitamente, finendo per rappresentare, secondo una dinamica ravvisabile in vari autori, una metafora, un simbolo e infine un vero e proprio mito - emerge con evidenza anche nell'ultima recentissima opera di Benini Sforza, Le stanze di Penelope. Ma in questa seconda prova, certamente più matura ed equilibrata della precedente, il soggetto poetante non si limita più a fornire - secondo una delle linee portanti di ogni poetica definibile in senso lato "simbolista" - un inerte ed ammaliato, e del resto enormemente affascinante, regesto dell'enigmatica frammentarietà e dell'inafferrabile ed ineffabile mutevolezza del reale; posto innanzi a questa animata fantasmagoria di immagini cangianti, egli cerca ora di isolare e distillare l'essenziale e il perenne, di cogliere e fissare, attraverso l'atto poetico, "l'agnizione au ralenti di un miracolo in atto", come scrive Alberto Bertoni, acuto postfatore del volumetto. "Miracolo che avviene dentro gli scenari, gli oggetti, i dialoghi e gli incontri di un'esistenza quotidiana, svolta nel proprio luogo d'elezione, qui la Marina di nobile ascendenza letteraria, da Dante a Montale". Siamo di fronte ad una consapevole e programmatica operazione di "epicizzazione del quotidiano" - già frequente nella letteratura mitteleuropea, dall'Ulisse di Saba a quello di Joyce al Dedalus dello stesso scrittore dublinese -, corroborata da una robusta vena paesaggistica ed introspettiva e, nel contempo, da una fitta rete di velati ammiccamenti e richiami culturali e letterari. 

Ad una dimensione mitologica determinata con precisione allude, ovviamente, il titolo del volume; e nella prima parte della raccolta, Le rive di Penelope, si muovono - in una sorta di allucinato scenario iperrealista, fatto di misteriose "stanze infilate su corridoi" e di "lontananza di borghi" - personaggi mitologici storicamente e letterariamente definiti - Penelope e Orfeo -: strategia letteraria, questa, già ampiamente collaudata nell'àmbito di certa poesia neogreca, da Seferis a Kavafis, e attuata anche in alcuni Cantos di Ezra Pound. 

Esiti poetici più originali si hanno laddove questa "epicizzazione", questa sorta di "carnevalesco" scongiuro apotropaico lanciato contro la vorace corsa della storia, contro la transitorietà e la caducità degli eventi e degli uomini, approda talvolta al gesto estremo di "scavalcare il tempo", di porsi al di fuori, o meglio "al di sopra", della società e della storia, rifiutandone i ruoli precostituiti e le rigide polarizzazioni: "Scavalco il tempo, / velocista crudele / non so bene se guardia o ladro // se fuggiasco / o inseguitore". 

Altrove ad essere "epicizzata" ed assolutizzata è la stessa parola poetica, che tenta di sottrarsi alla furia del Divenire, cercando "una tana fra gli scogli", mentre "già lancia la corrente / stelle di spume / e anime di sogni / contro la diga, in mare aperto" - di nuovo evidente l'identificazione iconica tra l'immagine dell'acqua e la percezione del perenne Divenire -; la parola poetica, mero, flebile "flatus vocis", "qualcosa che non è nostro, / e pure intimamente / appartiene / come un respiro, un attimo / una folata di neve" ... 

Nella seconda sezione del volumetto, Le stanze d'erba - Il romanzo di Giulia, il "miracolo in atto" di cui parla Bertoni viene còlto nel mondo tiepido e rassicurante degli affetti familiari, in particolare nell'attaccamento alla figura della nonna, nella cui trasfigurazione letteraria, peraltro, sono fin troppo evidenti i debiti contratti con La madre di Ungaretti: "Ti conosco da trent'anni, / e il volto ha ancora / un disegno chiaro: quasi una statua / sei per me, e madre due volte" (la madre ungarettiana sarà "una statua davanti all'Eterno"). 

Nella terza ed ultima sezione, enigmatica fin dal titolo - Le pendici dell'acqua - il dettato poetico di Sforza si fa più arduo, denso, "ermetico", e la parola sembra nuovamente arrendersi di fronte ad una perenne, insondabile vicenda di "cose leggere e palpitanti" - in cui echeggia il ricordo quasi letterale delle "cose leggere e vaganti" che danno il titolo ad una sezione del Canzoniere di Saba, e a cui il poeta triestino, nel delizioso Ritratto della mia bambina, incluso in quella sezione, paragonava la figlioletta. 

Prima di chiudere questo mio intervento, desidero sottolineare un altro particolare aspetto di quanto finora pubblicato dell'esigua e attentamente meditata produzione di Luciano Benini Sforza, che potremmo definire "variantistico". La cosiddetta "critica delle varianti", che si propone di ricostruire l'evoluzione intellettuale ed artistica degli scrittori sulla base delle osservazioni condotte sugli autografi, e in particolare dell'attento esame delle correzioni apportate ai testi lungo il succedersi delle varie fasi elaborative, potrebbe profittevolmente esercitarsi nel raffronto delle due diverse stesure - presenti rispettivamente in Spazi e colloqui, con il titolo di Colloquio, e nelle Stanze di Penelope, senza titolo - della già citata poesia dedicata alla nonna, e di un'altra lirica di carattere autobiografico, intitolata Virginia

Il lavorìo correttorio a cui Sforza sottopone i propri testi si può per certi versi accostare, con tutte le proporzioni possibili, al travaglio elaborativo, sapientemente analizzato da Giuseppe De Robertis, a cui Ungaretti andò incontro nelle varie fasi della stesura dell'Allegria, cercando di purgare il dettato poetico da ogni forma di "scoria", di ridondanza, di eccesso, di elemento puramente retorico ed esornativo, non funzionale alla resa espressiva. La perennità e la fissità quasi ieratica delle immagini mitiche della sua quotidianità epicizzata non possono trovare cittadinanza poetica se non in un ordito lirico di sobria e lineare fattura, di limpida, lapidaria, perentoria "semplicità". 

                                                                                               

                                                                                                   Matteo Veronesi