Classicità, Sublime, Avanguardia


[Pensieri tratti da un’intervista rilasciata nel gennaio 2007 al sito «Kinglear», ormai defunto]

SUMMARY

Il saggio critica la mercificazione dell'arte e la sterile contemplazione estetica, definendole come forme di narcisismo che snaturano l'essenza del fatto letterario e del discorso intellettuale. Si propone una rivisitazione dell'estetismo, non come atteggiamento elitario e snobistico, ma come attitudine dell'"anima bella" capace di coniugare bellezza e impegno nella realtà. Viene analizzato il rischio del narcisismo estetico, che si risolve in risentimento verso il mondo e in una sterile contemplazione di sé. L'arte, pur potendo alimentare questo narcisismo, può anche essere una "cura", un modo per elaborare il tormento e trovare sollievo. Il saggio si conclude con la riflessione sul conflitto tragico che ogni artista autentico vive tra creazione e contemplazione, tra estetismo e realtà. Il saggio riconsidera il concetto di sublime, spesso negato o banalizzato nelle correnti artistiche contemporanee, a partire dalla sua intrinseca duplicità. Il sublime è ciò che tende oltre i limiti, verso un'altezza irraggiungibile, come un viaggio verso l'orizzonte o una tensione verso l'infinito. Esso si manifesta sia nel "sublime d'en haut" (elevato, luminoso), sia nel "sublime d'en bas" (prosaico, concreto, persino osceno), come dimostrano già Baudelaire e Flaubert. La poesia, nel suo tendere oltre il segno e l'ordinario, è intrinsecamente sublime, anche quando si addentra nel silenzio o nel buio. Sublimi sono anche l'inconscio, il subconscio e l'Es, che alimentano l'arte. In questo senso, il saggio riscopre la figura di Sanguineti e la sua opera "Laborintus", che attraversa la "Palus putredinis" dell'inconscio per giungere a una trascendenza. L'antisublime, spesso ostentato, è forse una rivolta contro le manifestazioni storiche deteriori del sublime, non contro il suo nucleo essenziale. Il saggio riprendendo Wilde sostiene che l'arte trasforma la vita. L'educazione estetica, ispirata a Schiller, dovrebbe essere un habitus mentis, un modo di vivere il mondo e l'altro. Si riconsiderano i rapporti tra le arti come sistemi di segni, dalla parola alla musica, con il loro "continuum semiotico". L'arte, come la vita, è difficile da interpretare, ma forse proprio la sua insensatezza ne è il senso. La forma artistica definisce l'infinità dell'essere, dando spessore al nulla in cui si annida. (Sunto generato da AI)

1. Più fastidiosi ancora dell’atteggiamento o della posa del sedicente esteta, snobisticamente dedito alla bellezza assoluta, estraneo alla società e al mondo reale, sono, mi pare, quelli degli scrittori (o pseudo-scrittori, uomini di spettacolo o intrattenitori o tutt’al più abili affabulatori prestati alla letteratura, o meglio al mercato librario) che ostentano, con uno spirito disincantato e demistificante oggigiorno ormai facile e scontato, la loro cinica scaltrezza nel servirsi degli strumenti e dei contesti della comunicazione di massa per diffondere la loro vera o presunta arte. Dispiace che anche figure non certo prive di spessore intellettuale e letterario (penso ad esempio a Bevilacqua, alla Fallaci, alla Maraini, ultimamente allo stesso Eco) si siano, in varie misure, prestate a questo gioco, che se da un lato consente di guadagnare un pubblico più vasto (anche se è lecito chiedersi quanti, fra tutti i “non lettori” abituali che, spinti dalla moda e dal martellamento massmediatico, comprano certi libri, a volte in sé e per sé non privi di intensità e di impegno, ne affrontino poi realmente la non sempre così facile e piana lettura), dall’altro rischia di snaturare l’autentica essenza e lo spirito più profondo del fatto letterario e del discorso intellettuale, abbassandoli – avrebbe detto Montale – a «merce da salotto», se non da supermercato. 

Si dovrebbe per l’appunto, in questo contesto, rivisitare, rispolverandola, liberandola da una certa patina di antico, di artefatto, da una certa remota, e un poco inquietante, fissità da museo delle cere, l’immagine simbolista e decadente dell’esteta, cioè dell’uomo e dell’artista che fanno della bellezza pura, incondizionata, assoluta, suprema, che «mai non ride e mai non piange» come dice Baudelaire, che dona all’uomo e ad ogni essere «une nouvelle mort / plus précieuse que la vie» (Valéry), l’unica vera ragione di vita. Vi sono certo, in questa attitudine, in questa quasi eroica scelta, insidie pungenti, pericoli esiziali: era ancora Baudelaire, forse per quanto in lui restava della passionalità romantica, ad ammonire, nell’École païenne, che l’esasperata accentuazione di una sola facoltà (quella estetica, appunto) «aboutit au néant» (espressione, questa, che non a caso riaffiorerà nelle prose teoriche di Mallarmé), sfocia o si risolve o sprofonda nel niente, nella nequitia, nel vuoto esistenziale. 

Quel superamento della poesia pura, del lirismo alato, rarefatto, inarrivabile, in nome di una parola che si immerga nel «giusto della vita», che partecipi dell’«opera comune», che torni insomma a parlare delle cose, delle esperienze, a parlare all’uomo dell’uomo dal cuore stesso di una vicenda umana, compiuto, a un dato momento della vicenda poetica italiana novecentesca, da Sereni come da Luzi, si spiegherà forse proprio in questi termini. L’esteta può però essere una figura sempre viva qualora lo si accosti (ed è proprio quello che cercarono di fare i «nobili spiriti» dell’estetismo italiano, primo fra tutti l’oggi faticosamente riscoperto Angelo Conti) ad un altro modello che sarebbe forse da ripensare e da rivisitare, pur con tutte le distinzioni e le riserve oggi opportune, cioè l’«anima bella», la Schöne Seele di cui parlavano tanto lo Schiller di Grazia e dignità quanto il Goethe del Wilhelm Meister, e in cui invece lo Hegel della Fenomenologia dello spirito (questo a suo modo sublime, per quanto caparbio, «agrimensore dell’infinito», come lo chiamava Solger) lamentava un’attitudine sterilmente contemplativa, abbandonatamente teoretica, narcisisticamente ripiegata su se stessa, dimentica della realtà, o meglio del “dover essere” imposto dall’intrinseca razionalità di un reale inteso come processo e tensione dialettici. 

Va da sé, poi, che ogni meccanica riduzione della dialettica hegeliana a processi meramente economici e storici, ogni schematico e deterministico “rovesciamento dei rapporti di predicazione” che faccia derivare in modo necessitato e cogente l’idea dal reale, escluderà (ed è anche questa, peraltro, pur se riduttiva, una posizione a suo modo legittima) ogni forma di estetismo, ogni culto e ogni difesa della forma pura. Quest’ultimo peculiare tipo di “estetismo” – “assoluto” perché per quanto possibile sovrastorico, intemporale, etimologicamente “sciolto” dai contesti, dalle fratture, dai sommovimenti del divenire storico, eppure esso stesso, si potrà controbattere, frutto di una visione storica in certa misura precisa, eminentemente ottocentesca e borghese, per quanto disgustata dal materialismo, dalla reificazione, dalla mercificazione che la borghesia stessa a proprio vantaggio alimentava – si trova, come mostrava il forse troppo dimenticato Michele Federico Sciacca in un suo libro dottissimo, L’estetismo, Kierkegaard, Pirandello, nelle età e nelle correnti più diverse, da Gorgia e da Platone fino al Novecento nelle sue espressioni più tormentosamente autocoscienti. In questa forma, l’estetismo può essere vivo ancora oggi, anche se la “spettacolarizzazione della vita”, come la chiamavano i situazionisti, rischia di contagiare anch’esso, travolgendolo nelle sue fatue logiche mediatiche (il che non toglie che la riflessione estetologica di uno Stefano Zecchi, ad esempio, in special modo nella sua rilettura di D’Annunzio, possa avere qualche aspetto sostanziale e vitale).

2. Ho parlato di narcisismo. Il rischio dell’estetismo è, appunto, quello di risolversi (per citare il Nietzsche della Genealogia della morale e della Volontà di potenza) in una forma di “risentimento”, di astiosa “calunnia della vita”, di rifiuto di un mondo e di una realtà che non si possono avere, dominare, possedere, per la propria debolezza, per le proprie generose e nobili, ma inafferrabili, idealità, per la propria inettitudine all’azione, per il proprio anteporre la creazione all’esperienza, la contemplazione al fattivo ed efficace operare, il puro sentimento a quell’aggressività, a quella violenza, a quel possesso e dominio, per quanto amorosi e voluttuosi, che l’apertura e la fusione nei confronti dell’altro inevitabilmente comportano. Forse proprio nel solco e nell’intrico di queste idee e di queste situazioni di esistenza si colloca l’oscillare di Leopardi fra l’appagamento nella contemplazione dell’«alta imago», dell’eidolon o del simulacro adamantini e inarrivabili, e il forse conseguente, livoroso, reciproco rigetto – quasi una freudiana Ausstossung, o una lacaniana «forclusione» – nei riguardi del «mondo» che è «fango», che non vale i moti del cuore né è degno di sospiri. 

Ma qui bisognerebbe forse uscire un po’ dall’àmbito strettamente estetologico, e sottolineare, con Freud e con Lavelle, come il narcisimo, l’ostinato riflettere (si pensi all’Erodiade di Mallarmé), l’assiduo contemplare se stessi chiudendo fuori l’altro e l’esterno, rischino di essere una forma di autodistruzione, un compiacimento egoistico, direi autoerotico, che può portare l’individuo e la psiche alla stasi, alla nequitia, all’implosione, alla nevrosi o alla psicosi da eccesso di autocoscienza. 

Quello di Narciso è, in fondo, un suicidio, non si saprebbe dire quanto inconsapevole. Ma, per citare il Canto della creazione di Heine, a cui Freud stesso si richiamava, «Creare è guarire». La stessa creazione artistica, che può alimentare il narcisismo esiziale, può essere nel contempo una cura; il tormento e il sollievo possono venire dalla stessa «amante fedele» che è l’arte. Credo che ogni artista autentico – e per ciò stesso autocosciente, consapevole di sé fino al tormento – si dibatta in questo conflitto, in questa dialettica tragici, e che proprio in essi e da essi tragga, infine, la propria vitalità e la propria ragione.

3. Quando si parla di un “girotondo delle Muse”, di una rete e di un intreccio di rapporti e di corrispondenze fra arti differenti, mi viene in mente Debussy, che collaborò tanto con Maeterlinck quanto con D’Annunzio, interagendo fecondamente specie con quest’ultimo, che su indicazione precisa del compositore modificò alcuni passi del Martyre de Saint Sébastien, offrendo un esempio davvero raro di attiva ed operativa collaborazione, di solida e feconda comunanza di intenti fra due artisti uniti, pur se in linguaggi espressivi diversi, quello verbale e quello musicale, da una stessa «sensualità senza carne», da una medesima «sensualità rapita fuor de’ sensi», cioè da una carnalità sempre trasfusa e trascesa in sublimazione estetica e formale. 

Ma potrei citare, passando sintomaticamente dal simbolismo all’avanguardia, Sanguineti e Raboni, i loro sodalizi con musicisti quali Berio e pittori come Baj e Bueno nel primo caso, con il compositore Guarnieri nel secondo: una poesia pronta a misurarsi con l’”informale” e con l’”atonalismo”, e dunque con quella vastissima e quanto mai problematica dialettica di informe e forma, caos e ordine, colpo di dadi e regola, magma indistinto e mobile del subconscio e cristallizzazione netta e minuziosa, per quanto sfaccettata e chiaroscurale, della creazione, che quei due concetti, di per sé polivalenti e fluttuanti come le esperienze stesse da essi designate, immediatamente evocano. Dal simbolismo (e dal wagnerismo, con la sua ben nota corrispondenza di parola, suono e azione scenica) all’informale: mi sembrano questi i due poli essenziali di quell’intreccio, di quella foresta di legami tra linguaggi espressivi diversi (tutti e tre sospesi, pur se in misure e proporzioni diverse, fra denotazione e connotazione, rappresentazione precisa e suggestione allusiva e volutamente vaga e indeterminata, mimesi ed evocazione – insomma, ancora una volta, fra materia e idea, fra storia ed assoluto) che innervano le linee maestre della modernità.

4. La peculiare “umiltà” – in certo modo salutare e ncessaria – dell’arte è legata, mi pare, ad una nozione a me molto cara, quella dell’autocoscienza critica dell’artista. Umiltà non è affatto, in senso betocchiano, attaccamento alle piccole cose, «fedeltà alla vita», adesione all’immediatezza e alla gratuità dell’esistenza – scelte e atteggiamenti, peraltro, pienamente rispettabili, se non altro sul piano etico. 

Umiltà dev’essere, nel senso dei tragici greci, senso del limite, accettazione dei confini dell’umano; e accettazione, in pari tempo, quasi per una sorta di amor fati, della propria sorte, del proprio cammino, del proprio essere-nel-mondo – se vogliamo, del proprio “particulare”. 

Ora, fato del poeta è la forma a cui egli è chiamato, spazio del dicibile da cui è cinto il suo respiro, con i suoi ritmi, i suoi silenzi – le sue «svolte» direbbe Celan. Dante chiamava questo «il fren de l’arte» – limite, linea di confine, soglia sacra, e insieme termine e contorno che determinano la forma, che fanno essere il consistere della parola e del discorso. L’umiltà del poeta è la sua consapevolezza, la sua coscienza, il suo sapersi arrestare ai confini del dicibile, pur protendendosi a volte verso di essi fino al limite del loro oltrepassamento; limite sul cui crinale, a un passo dall’abisso del silenzio, sorge la parola, e trema il filo del canto. Nella sua umiltà è la sua grandezza.

5. L’arte è, in certi casi, devozione, dedizione, sacrificio a un ideale estetico incorporeo, eccelso, forse irraggiungibile. Il dilemma fra letteratura e vita attraversa il Novecento, da Svevo agli ermetici a Montale, che arrivò a dire di essere «vissuto al cinque per cento». Ma chi conserverà la sua vita, dice il Vangelo, la perderà. Il significato della vita di un artista risiede proprio nel suo sacrificio, nel suo immolarsi all’arte. Arte e vita non sono scindibili. Nel suo consumarsi, nel suo perdersi, nel suo dimenticarsi e alienarsi nella forma, nel suo «morire al mondo», la vita dell’artista trova la sua essenza, il suo compimento, la sua entelechia – allo stesso modo che il blocco di marmo deve diventare statua, il silenzio suono, la pagina essere popolata di segni che pure galleggino, o naufraghino, nell’abisso infinito del suo bianco.

6) L’esercizio di qualsiasi arte, così come del discorso critico – che al fare artistico è del resto strettamente connesso –, non può andare scisso da una consapevolezza teorica, e dunque da una coscienza estetica. Non ci si può affidare solo, ingenuamente, alla “fame di vita”, o all’immediatezza dell’esperienza e del vissuto, per quanto intensi. Tuttavia, almeno ai fini dell’atto poetico, più che nell’estetica credo nella poetica (intesa nel senso che questo concetto assunse nella riflessione postcrociana o anticrociana, da Pareyson ad Anceschi): l’artista ha bisogno non tanto di un orientamento generale, di una teoria artistica globale ed onnicomprensiva (che rischierebbero tra l’altro di subire un irrigidimento dogmatico, o addirittura precettistico, com’è forse accaduto, per certi aspetti, con lo sperimentalismo avanguardista), quanto di un insieme di criteri, di orientamenti e di scelte che, traducendosi sul piano operativo, guidino il suo concreto lavoro, e diano ad esso un senso e un fine. Il fiorire delle poetiche è strettamente legato all’autonomia dell’arte: l’arte che non ha più fondamento o legittimazione al di fuori dell’arte stessa è indotta, quasi forzata ad interrogarsi e a riflettere sulla propria natura, i propri mezzi, le proprie modalità: a trovare in se stessa, e in nient’altro, la sua natura, il suo fine, il suo ruolo. “Perdita d’aureola” e autocoscienza del poeta, delegittimazione storica e sociale dell’arte e dell’artista e necessaria importanza, o addirittura centralità, riconosciute alle poetiche sono elementi strettamente legati l’uno all’altro, soprattutto in quella che è stata definita “età post-baudelairiana” e che, almeno sotto questo aspetto, mi pare perduri ancor oggi.

7. Il sublime (di cui oggi molti, sia che aderiscano all’avanguardia e allo sperimentalismo, sia che abbraccino il minimalismo oggettuale, “lombardo”, fondato sulla realtà del quotidiano, ostentano sprezzantemente la negazione e il rifiuto, senza fare per questo nulla di nuovo o di originale) va forse inteso e ripensato a partire dalla sua duplice, intrinsecamente ambigua natura. Il sublime è, etimologicamente, ciò che sta sub limine, sotto la soglia, immediatamente al di sotto di un margine, di un confine, di un limite – per quanto in sé e per sé superiori, elevati, eccelsi –, verso cui la parola o il gesto, la forma o il colore, il suono o il silenzio si protendono quasi eroicamente, senza poterli mai raggiungere – quasi si trattasse di un eterno viaggio verso la linea dell’orizzonte, o magari di una tensione verso il limite inteso in senso fisico, verso la sottile ed illimitata curva astrale che separa la materia dall’antimateria, lo spazio dall’infinito, il tempo lineare dalla sua negazione o dalla sua interminabile regressione. 

Sublimi sono il discorso, o il suono, o la forma che si innalzano, o cercano di innalzarsi, al di sopra di sé, pur restando – anzi forse proprio perché sono titanicamente ed eroicamente, come Prometeo inchiodato alla rupe, condannati a restare – sempre al di sotto dello spazio o del regno rarefatti, luminosi, innominabili, oscuri per eccesso di luce, che li sovrastano. Né si deve credere che la scelta del prosaico, del reale, del concreto, o al limite dell’atroce, dell’orrido, addirittura dell’osceno, escluda di necessità il sublime. Già Baudelaire e Flaubert sapevano bene che al sublime d’en haut può affiancarsi, in modo solo apparentemente contraddittorio, un sublime d’en bas, che semplicemente alimenta ad una diversa, antitetica fonte una non dissimile aspirazione a trascendere, o a cercare di trascendere (non necessariamente in senso metafisico), i limiti della forma e dell’espressione – senza per questa vanificarle, annullarle, azzerarle, come l’avanguardia rischia a volte, forse nei suoi esiti e nelle sue applicazioni più meccaniche, manieristiche, direi manualistiche, di fare. 

La poesia non può, a ben vedere, che essere – nel senso più lato, nella più vasta delle accezioni, nella più ampia raggiera di direzioni possibili – sublime, nel suo tendere oltre il segno, la superficie, la parola, oltre la scorza dello scontato, dello strumentale, dell’ordinario, anche a costo di addentrarsi nelle regioni deserte del silenzio. Sublimi sono, poi (Subliminal Self li chiamavano, prima di Freud, certi psicologi inglesi), l’inconscio, il subconscio, l’Es, l’Autre, che nutrono, per quanto criticamente filtrati dalla soglia consapevole della riflessione e dell’espressione, l’avventura artistica. 

In questo senso, sorprendentemente sublime non finisce forse per apparire, nel suo attraversare la Palus putredinis per poi uscirne recandone ancora addosso le luride tracce, nel suo invocare la «tenue Ellie», simbolo dell’inconscio junghiano (e dunque, forse, anche di una trascendenza e di un divino rimossi, forclusi, totemicamente “uccisi”?), nel suo necessario richiamarsi a tutta una tradizione – onnivora, compressa, sovraccarica – che non esclude lo stesso Medioevo latino, anche il Sanguineti di Laborintus? 

Forse bisogna “tornare a Longino”: è lui, nel suo celebre trattato, a ricordarci che la fonte primaria del sublime è la phantasìa, la eidolopoiìa, l’ennóema ghennetikòn lógou, insomma il pensiero o il sogno generatori di parole, immagini, simboli, fantasmi. Una definizione apparentemente tautologica, ma in realtà ancor oggi vivida, duttile, capace di cogliere il nucleo essenziale del processo che, attraverso la mediazione della coscienza critica e della consapevolezza stilistica, dà corpo infine all’espressione artistica. 

E l’antisublime tante volte ostentato è, forse, simile all’antiaristotelismo della rivoluzione scientifica: rivolto cioè, consapevolmente o meno, non già contro il sublime autentico, quanto contro le sue manifestazioni storiche deteriori, accademiche, esteriormente ed ampollosamente retoriche (al di là del fatto che anche la retorica, anche il semplice, probo, scolastico esercizio stilistico e formale d’impronta classicistica, avevano una loro dignità, una loro rilevanza storica e sociale, un loro rispettabilissimo mestiere, che oggi si sono persi, non saprei dire quanto fortunatamente).

8. Non direi che il mitomodernismo, come vorrebbe qualcuno, sia già morto sul nascere. Esso ha prodotto opere innegabilmente ragguardevoli (basterà qui citare L’Oceano e il ragazzo di Giuseppe Conte o Splendida lumina solis di Rosita Copioli). O forse si può anche parlare di un’ambigua, e direi fatale, nascita-morte del mitomodernismo, privandola però di ogni venatura spregiativa: lo Schiller di Agli dei della Grecia, il Monti del Sermone sulla mitologia, il Leopardi delle Favole antiche (ma si potrebbero citare anche Hölderlin o il D’Annunzio di Alcyone) insegnano che la modernità può riappropriarsi del mito proprio e soltanto a partire dal dato storico della sua morte, della sua lontananza, del suo silenzio – che possono però divenire spazio e semenza di una palingenesi, di una nuova nascita, di una laica risurrezione (solo il seme che muore può dare frutto e solo il tempo che si è perduto può essere ritrovato, fatto proprio, autenticamente vissuto). Personalmente credo che soprattutto certi miti limpidi e potenti, gravidi di risonanze archetipiche e di stratificazioni ermeneutiche (basti pensare a quello orfico, da Pavese alla Cvetaeva, da Milosz a Bonnefoy), possano essere ancora ricchi e fecondi fra le mani di un poeta moderno, essere cioè “universali fantastici” in senso vichiano, fonti e riserve perenni e inestinguibili di significazione e di mitopoiesi.

9. Di contro ad Umberto Eco, che metteva in guardia dai rischi della overinterpretation derivante dall’indebita ed arbitraria enfatizzazione di un dato marginale o dalla lettura fuorviante e tendenziosa di un segno o di un gruppo di segni, la quale può finire per generare una “deriva” ermeneutica tale da compromettere l’intero processo di decodifica e di esegesi dell’opera, i decostruzionisti più radicali difendono invece, provocatoriamente, un certo margine di “diritto alla sovrainterpretazione” che spetterebbe comunque al critico e all’interprete (in tutte le varie accezioni e sedi che quest’ultimo concetto può abbracciare). In effetti, non credo che, almeno nel campo umanistico, e forse nemmeno in quello scientifico (penso al principio di indeterminazione di Heisenberg, al falsificazionismo, all’epistemologia relativistica), possa davvero darsi, come pretenderebbe certo incrollabile accademismo, un’assoluta oggettività. La pretesa “oggettività scientifica” è anzi ancor più arbitraria dell’onesto, dichiarato soggettivismo, perché vuole imporsi agli altri come verità incontrovertibile. Per contro, del resto, un relativismo assoluto rischierebbe di sfociare nello smarrimento, nel caos, nel nichilismo, sul piano estetico non meno che su quelli della religione, dell’etica, dell’ideologia….. 

In conclusione (ma è difficile, ripeto, pervenire ad una soluzione definitiva), credo che ogni attività intellettuale umana sia, e debba essere, agitata da una problematica, talora tormentosa, ma vitale e necessaria, tensione dialettica fra oggetto e soggetto, principio di realtà e istanza individuale, verità singolare e verità plurali (la Verità, ricordava Anceschi, non deve mangiarsi le verità, che sono tante, molteplici, «che agiscono e hanno agito»), evitando sia la deriva del “pensiero debole”, il relativismo assoluto, il nichilismo, sia gli irrigidimenti e le preclusioni del dogmatismo. Una “sistematicità aperta”, insomma, come insegnava la fenomenologia. Deve crearsi, fra soggetto ed oggetto, quel rapporto ricorsivo e fecondo di reciproco arricchimento, di speculare “aumento di essere”, di rispettiva e mutua crescita ed intensificazione di valore e di senso, a cui si dà il nome di “circolo ermeneutico”, e che abbraccia e coinvolge anche il legame – certo importante, ma non necessitante o deterministico – fra testo e contesto, fra opera e scenario storico. Ma, come ho detto, non è possibile dare una risposta definitiva. Forse l’essenza dell’esperienza estetica ed interpretativa consiste proprio nel cercare questa risposta: giacché l’atto interpretativo, prossimo e simile anche in ciò a quello poetico, non può che interrogarsi ostinatamente su se stesso, e anzi forse si risolve, in definitiva, proprio in quel perpetuo interrogarsi, e in quell’interrogare, attraverso di sé, tramite il proprio specchio limpido o torbido, sereno o cupo, il Lebenswelt, il mondo del pensiero e della vita.

10. Insisterei, in un modo che può forse apparire anacronistico, più sulla perennità, sull’eternità di certi valori estetici, che non sulla cesura o sulla frattura fra antico e moderno, tradizione e innovazione, “museo” e sperimentazione. Il classico è per definizione “contemporaneo” a tutti i tempi, è l’opera che non ha mai finito di dire quello che ha da dire, se vogliamo riprendere una fortunata definizione; la temporalità intemporale o sovratemporale del classico si raccoglie e si condensa, direbbe Dante, in quel punto «a cui tutti li tempi son presenti», è per così dire la plenitudo temporum di un’attesa soddisfatta, e insieme inesauribilmente rinnovata, ad ogni rilettura, ad ogni ripensamento, ad ogni nuova interpretazione. Dante stesso temeva «di perder viver fra coloro / che questo tempo chiameranno antico»; Baudelaire forse non diceva qualcosa di troppo dissimile quando (in pagine su cui ha attentamente meditato Habermas nel Discorso filosofico della modernità) osservava che la modernità cerca di rendersi degna di divenire antichità, e che ogni antichità è stata, a suo tempo, moderna. Per converso, forse non aveva torto chi affermò che ogni storia è storia contemporanea, e che l’interpretazione è un salvifico e salutare “ringiovanimento del passato”, perché ogni epoca non può che far rivivere il passato in sé, rileggendolo attraverso le proprie idee e i propri canoni. L’artista insegue, in fondo, la pulchritudo tam antiqua et tam nova, eterna e proprio per questo sempre rinnovata e rinnovantesi, di cui parlava Agostino nelle Confessiones. L’arte e il pensiero, antichi, moderni o contemporanei che siano, non possono, credo, ardere, cancellare, svellere dalla radice quella trascendenza, quella possibilità di assoluto, quell’apertura metafisica che ne sorreggono e ne scandiscono il perpetuo rinnovarsi nella durata e l’assiduo perdurare nel mutamento. Le epoche, le fratture, le cesure non sono, in fondo, che battiti di ciglia, lampi, brevi riflessi cangianti.

11. Immaginando un museo immateriale, metafisico, virtuale, una specie di Limbo in cui convivano tutte le età e tutti gli artisti, salverei dal rogo fatale la statuaria greca, la pittura italiana del Quattrocento, Cézanne, De Chirico, Morandi, Lucio Fontana, e tutto ciò che è ordine, controllo formale, coscienza critica, disciplina del pensiero e del gesto, equilibrio e misura nella concezione e nell’esecuzione. Brucerei le avanguardie storiche: in fondo avrebbero voluto esse stesse che i Musei fossero bruciati, e il loro agonismo, il loro terrorismo culturale, per riprendere le efficaci definizioni di Renato Poggioli, avrebbero forse trovato proprio in una totale ekpyrosis, in una universale conflagrazione (che a Novecento inoltrato la minaccia nucleare pareva ad un passo dal realizzare), il loro compimento più coerente. La “”museificazione dell’avanguardia” che le nuove avanguardie hanno rivendicato a sé negli anni sessanta è una – del resto consapevole, voluta e provocatoria – contraddizione in termini, che si giustifica essa stessa nel grande gioco alchemico e metamorfico, nel ribollente opus magnum, nell’athanor sfavillante, della tradizione e del canone (o dell’anticanone).

12. Autori ed opere di estetica da salvare, da meditare, da rileggere senza sosta: la Poetica di Aristotele, che – ben la di là degli irrigidimenti della precettistica cinquecentesca, rivisitata nel Novecento da Galvano Della Volpe – mostrò la natura catartica, purificatoria, e insieme la dimensione in certo modo sacrificale, liturgica, rituale, dell’atto poetico; l’anonimo Del sublime, che mostrò la dismisura e insieme il limite, la violazione della regola e insieme il suo porsi, incisivo e dialettico; Graciàn e Tesauro, che additarono alla modernità (prata rident…) le vie e gli intrichi dell’«immense analogie universelle», come la chiameranno i simbolisti; Baumgarten, che prima di Kant marcò lo spazio dell’autonomia dell’estetico, e mostrò che la sfera estetica è un analogon rationis, una facoltà dinamica e contrastata che non si identifica pacificamente con la rigorosa e perentoria ratio ratiocinans della metafisica ma neppure con la totale soppressione di ogni limite e di ogni freno; l’Estetica di Hegel, che tracciò il percorso dell’Aufhebung, e segnò la via non della “morte”, come intendevano e traducevano alcuni, ma del “superamento” dell’arte, che oltrepassa se stessa proprio nel momento in cui accenna a lasciarsi oltrepassare da altre forme dello spirito umano (religione, filosofia), ed entra con esse, in virtù di una sorta di ricorsivo e reciproco Anders-Streben, in vitale conflitto, o in intersecante, e fecondamente contaminante, dialogo; l’Estetica di Adorno, che illumina la “razionalità estetica”, stilistica e insieme ideologica, formale e costruttiva, e che oppone alla “cattiva razionalità”, solo apparente, e in realtà inumana e cieca, dell’alienazione sistematica, la salvifica ”irrazionalità razionale”, programmatica, consapevole, voluta, militante, dell’arte; per contro (ma ad integrazione, e non in opposizione), Arte e scolastica di Maritain, che dimostra come questa razionalità estetica, questa coscienza critica e formale dell’artista non escludano per forza qualsiasi apertura alla trascendenza e al divino, e possano anzi essere eco o riflesso, nel cuore stesso del fare artistico, della medesima facoltà operativa e fabrile, del medesimo supremo artificium che presiedette alla Creazione prima, la quale dovette essere, a sua volta, opera di intelletto e insieme di amore, di sapienza e insieme di volontà; l’Anceschi di Fenomenologia della critica e degli Specchi della poesia, che ha dato dignità scientifica e spessore concettuale alle varie figure e categorie (dal “critico saggista” al “critico poeta”) della soggettività interpretativa; La critica nel deserto di Hartman, che rinunciando coraggiosamente alle certezze dell’Accademia ha mostrato quanto vivi sappiano essere ancora i problemi sollevati dal poème critique, dalla scrittura critico-creativa, riflessiva e insieme espressivamente e creativamente connotata e animata, di Walter Pater, di Mallarmé e di Derrida.

13. Si potrebbe ripetere, con Wilde, che la vita imita l’arte molto più di quanto l’arte non imiti la vita. La vita importa, conta ed esiste, per l’artista in quanto artista, solo nella misura in cui può essere filtrata, attraversata, decantata (non certo edulcorata e mistificata, anzi semmai criticamente riletta, o al limite deformata parodisticamente, nel senso del criticism of life di cui parlava nell’Ottocento Matthew Arnold) in vista della sua trasfigurazione artistica. Altrimenti si cade in forme di “realismo ingenuo” che non mi sembra abbiano più (dopo il naturalismo, e a maggior ragione dopo il neorealismo, e oggi il minimalismo) grande significato.

14. L’”educazione estetica” nel senso più ampio, schilleriano, non dovrebbe certo essere limitata alle arti figurative, ma spaziare su un àmbito più vasto, e divenire, anzi, una sorta di habitus mentis, un “modo di vedere le cose” (per riprendere una delle definizioni più felici che siano state del concetto di stile), una maniera di “essere-nel-mondo” e di porsi nei confronti dell’essere, del tempo, dell’altro. L’educazione estetica dovrebbe insomma fondare un vero ed autentico umanesimo, insegnare a vedere nelle creature, nella natura, negli uomini, nel mondo (esattamente come nelle opere d’arte, le quali non esistono che per essere belle, per offrire piacere estetico, ricchezza spirituale e intellettuale, oblio dei mali, serenità che pacifica o angoscia che purifica), un fine e non un mezzo, una possibilità di essere e di esperienza che deve essere sprigionata e realizzata appieno, più che uno strumento per raggiungere uno scopo mirato, contingente, egoistico. Ma si rischia, dicendo tutto questo, di cadere in una retorica umanitaria o, per così dire, veteroumanistica. Per chi opera nella scuola, questa missione o questa utopia sono divenute – visto l’imperare di modelli di vita individualistici ed utilitaristici, imposti dall’industria e dai media – praticamente irrealizzabili, se non in casi eccezionali.

15. Ancora sul girotondo delle arti. Plutarco, nel De audiendis poetis, definiva la pittura “poesia muta”, la poesia “pittura parlata”. Leonardo, nel Trattato della pittura, ribatteva che la poesia non è “pittura parlata”, ma piuttosto “pittura cieca”, pur concedendo al poeta (in una pagina di cui si ricorderà il D’Annunzio delle Vergini delle rocce) la facoltà, o quantomeno l’ambizione, di creare una «finzione che significherà cose grandi». Bisognerebbe forse ripensare l’antica questione dei rapporti fra le arti proprio a partire da questa idea essenziale e fondante di significazione, e rileggere in questa luce i versi dell’Ars poetica di Orazio che contengono la celebre, e tanto spesso banalizzata, definizione dell’ut pictura poësis: poesia, pittura e musica, cioè, come sistemi di segni: segni tendenzialmente più astratti, convenzionali, concettuali nel caso della parola, meno strettamente vincolati, invece, ai referenti concettuali e alle formalizzazioni astratte, convenzionali, arbitrarie, in quello della pittura (peraltro capace, ben più della parola, di rappresentare in modo diretto, immediato e universale una figura, uno scenario, un oggetto), e del tutto incorporei, alati, puri, eterei, nel caso della musica (“metafisica in suoni più pura della stessa ragione”, secondo Schopenhauer), e nondimeno capaci essi stessi di evocare, per mimesi, onomatopea, suggestione figurativa, aspetti della natura, dell’uomo, del mondo, e tutt’altro che privi, come dimostra il Leitmotif wagneriano, della facoltà di veicolare quelle valenze simboliche, o anche semantiche, indagate oggi dalla semiologia della musica. 

Proprio la semiologia delle arti mostra quel “continuum semiotico” che lega fra loro messaggi e linguaggi artistici diversi. Come già intuivano i simbolisti, è possibile, per via analogica, una traduzione dei messaggi e dei simboli, delle idee e delle suggestioni, dall’uno all’altro di questi linguaggi. Anche se la musica e la pittura difficilmente potranno avrere la precisione concettuale del linguaggio verbale, né quest’ultimo attingerà mai l’evidenza plastica e rappresentativa della forma figurativa o l’incorporea suggestione evocativa del segno musicale (pur potendo presentare, con quest’ultimo, come mostra ad esempio Debussy a contatto con i versi di Mallarmé o di D’Annunzio, o Wagner con la sua “opera d’arte totale”, con la sua sinergia di Wort, Thon e Drama, salienti affinità ed omologie strutturali, e in senso lato anche semantiche), nondimeno uno stesso clima, uno stesso spirito, una stessa temperie, forse anche una consimile imagery potranno, all’interno di sistemi culturali particolarmente ricchi, maturi, coesi, in una parola classici, riflettersi, rivelarsi, venire alla luce in forme e linguaggi artistici diversi.

16. È difficile trovare, dare un senso all’arte; altrettanto alla vita. Forse ci si deve rassegnare – mi si perdoni il gioco di parole – alla loro completa e profonda e desolata insensatezza, fare di quella stessa insensatezza un senso. Diceva Jaspers che, se l’essere è nulla, se infine, in ultima analsi, come vuole Heidegger, «dell’essere ne è nulla», perché arrivare al suo senso nudo, essenziale, «svelato», «non-nascosto», significherebbe privarlo di tutte le forme attraverso cui si manifesta ed appare nel tempo, nella storia, nella molteplicità labirintica, casuale, erratica degli enti – allora forse proprio accettando e vivendo il nostro nulla, facendo vivere ed esistere (ek-sistere) quel nulla in cui l’essere si annida e dimora, noi riveliamo, pardossalmente, il senso dell’essere. La forma artistica, nel suo definire, nel suo finire l’infinità dell’essere facendolo consistere, dandogli spessore e concretezza per cercare di renderlo percettibile, e dunque conoscibile, è luogo eminente di quel nulla, spazio di quell’annichilimento, athanor oscuro e ribollente di quella fusione di essere e non-essere, di realtà e negazione, che alimenta ogni pensiero, e di cui è materiata ogni espressione.


                                                                                                                                                             Matteo Veronesi