Gaetano Salveti e la dimensione mediterranea della lirica

(in Omaggio a Gaetano Salveti, Edizioni del Nuovo Giornale dei Poeti, Roma 1997, pp. 130-136)


In questo articolo si ripercorre il viaggio poetico di Gaetano Salveti, un autore che ha solcato la letteratura del ventesimo secolo attraverso un intenso percorso creativo. Dalle sue prime opere nel 1942 fino ai densi poemetti degli anni '70 e '80, Salveti ha sapientemente intrecciato i fili della storia e della letteratura, testimoniando gli eventi chiave e i movimenti letterari del suo tempo. Si analizza in particolare il concetto di "lirica mediterranea", un elemento distintivo nell'opera di Salveti, che riflette un amalgama di musicalità e profondità linguistica con radici nella tradizione greco-latina. L'articolo si addentra nelle sfumature della poetica salvetiana, evidenziando il suo approccio unico alla narrazione lirico-narrativa. Salveti ha sperimentato forme come il poemetto narrativo, esplorando tematiche come il viaggio, l'umanità, e la connessione uomo-divinità, elementi ricorrenti nella poesia mediterranea. Attraverso l'analisi delle sue opere, come "Ulisse in ostaggio" e "Poemetti", emerge una fusione tra lirismo e narrativa che sfida le convenzioni letterarie e rivela una profonda introspezione. 


"Non resta, per salvarsi, che affidarsi al proposito morale di credere nell'uomo e, attraverso l'amore e la guerra, rinunciare al rimpianto e alla rassegnazione"    

                                                                                                          Ragioni metriche, 1968


Credo che, prima di intraprendere in modo specifico l'analisi dei testi di Gaetano Salveti - autore che, dalle prime prove risalenti al 1942 fino ai densi, inquieti, modernissimi poemetti lirico-narrativi degli anni '70 e '80, ha attraversato e vissuto intensamente tutti i più significativi eventi storici e fermenti letterari della seconda metà del nostro secolo - sia necessario introdurre e definire la categoria di "lirica mediterranea".  

Ha scritto Vincenzo Ammirati, enumerando sinteticamente i caratteri essenziali della mediterraneità letteraria: "musicalità innestata su un tessuto linguistico che già naturalmente è mélos: da quello indoeuropeo a quello greco-latino-romanzo, dove la cifra melica, seppur di spessore diacronicamente rarificato, permane elemento distintivo di mediterraneità. (...) Ricomposizione contingente-assoluto, (...) quindi ricongiunzione uomo-dio. Questa, che è ipostasi ricorrente della poesia mediterranea, s'esplicita in un topos altrettanto ricorrente e centrale: il tema del 'viaggio, che è procedimento dall'umano al divino, metafora mitica della vita stessa" (1). 

Non potevano essere definiti ed illustrati in modo più chiaro e lineare quel nucleo di fermenti e di impulsi, quel crogiolo di popoli e di culture e quell'inesauribile fonte di ispirazione poetica - cui ha attinto a piene mani, come vedremo, anche il nostro autore - che si riassumono e si sustanziano nella realtà storica e concettuale del grande mare nostrum. Non si deve credere, peraltro, che questa mediterraneità si risolva e si esaurisca in un'apollinea, "neoclassica", archeologica rievocazione di un remoto passato mitico, di una sorta di "Paradiso perduto", tale da dischiudere una via di fuga dal presente: come ha scritto Paul Valéry - autore che, come vedremo, intrattiene con Salveti un rapporto stretto e problematico -, "la natura mediterranea, le risorse che offre, le relazioni che ha determinato o imposto sono all'origine della sorprendente trasformazione psicologica e tecnica che, in pochi secoli, ha così profondamente differenziato gli Europei dal resto degli uomini, e i tempi moderni dalle epoche precedenti" (2).  

La formula di "lirica mediterranea" esige forse un'ulteriore chiarificazione. Potrebbe sembrare unilaterale e forzato appiattire sul solo versante lirico una vena poetica come quella salvetiana, che, come si è detto, si esplica prevalentemente, almeno a partire dalle raccolte degli anni '70 - basti pensare a Ulisse in ostaggio (Cittadella 1971) e Poemetti (Pisa 1975) - attraverso la forma del poemetto narrativo, che nelle prove più recenti - da Il caso Lucifero a Ulisse in ostaggio - arriva a dilatarsi fin quasi ad assumere la proporzione e il respiro strutturale del vero e proprio poema. 

Ciononostante non è forse indispensabile contrapporre, o anche semplicemente distinguere, in Salveti, un "lirismo di fonte mediterranea che carica di struggimento i segni della realtà nel richiamarli a sostegno del proprio male di vivere" e, dall'altro lato, un registro "epico-narrativo di memoria omerica", per quanto "di un Omero esistenziale o joyciano" (3); come ha scritto Giorgio Bàrberi Squarotti nella prefazione a Il giro di Casa (Gela 1974), "la nostalgia del concreto e del definibile, il mondo caldo e semovente degli affetti, la geografia che costella di nomi il cammino biografico, inducono a riconoscere in Salveti un'antica disposizione mediterranea a consistere": il soggettivo e l'oggettivo, il relativo e l'assoluto, l'Occasione - nel senso pregnante, montaliano del termine - e l'Eterno si fondono in una sintesi solidale e feconda - decisamente polarizzata e catalizzata in direzione della soggettività, dell'interiorità, dell'introspezione "lirica" -, superando ogni rigida distinzione aristotelica tra epica e lirica, e confermando una volta di più, se mai ce ne fosse bisogno, la crisi e la disgregazione cui è andato incontro, nella letteratura del Novecento, l'ormai vetusto e decrepito sistema dei generi. Come ha scritto Carlo Marchesi in pagine poco note e poco citate, ma di rara precisione e chiarezza, "l'avvicinamento tra lirico e narrativo non è dato soltanto da un'atmosfera 'lirica' del racconto (...). Occorre che la dialettica fra i due poli, narrativo e lirico, arrivi davvero a metterli in dubbio entrambi provocando una reciproca contaminazione e non si limiti a produrre uno 'scambio di abiti'. (...) Ai vertici poesia e narrativa si toccano e allora, e solo allora, non ha quasi più senso il tenerle distinte" (4).  

Lo stato d'avvio della poesia di Salveti (testimoniato, dopo le prime prove raccolte in L'estremo, una plaquette del 1941, dal libro Delusioni del tempo, di cui uscirono, tra il 1950 e il 1960, ben tre edizioni, l'ultima delle quali accresciuta, e soprattutto da 1942, apparso a Padova, per i tipi di Rebellato, nel 1962) rientra - segnato com'è dall'esperienza del fronte libico durante la seconda guerra mondiale - nell'àmbito della cosiddetta "poesia di guerra"; e ai possibili referenti addotti da Giuliano Manacorda nella prefazione a Orizzonte di eventi - tra cui spiccano il Sereni di Diario d'Algeria, l'Ungaretti dell'Allegria, in cui Salveti scorgeva una sorta di archetipo o di "figura" grazie a cui comprendere e "rileggere" poeticamente il proprio tormentoso vissuto, e Montale, di cui, al momento della partenza di Salveti per il fronte, erano già usciti Ossi di seppia e Le occasioni - io mi permetto di aggiungere Sergio Solmi, che trasferì in una veste poetica sorprendentemente pura e levigata la sua esperienza di soldato nel primo conflitto mondiale e attempato quanto eroico partigiano nel secondo, il misconosciuto e bistrattato Alfonso Gatto, la cui opera, nel secondo dopoguerra, si spogliò di ogni scoria ermetica per imboccare la strada dell'impegno civile, e, soprattutto, Salvatore Quasimodo - sul cui rapporto con il nostro autore si dovrà tornare -, che a partire da Giorno dopo giorno (1947) e già, in parte, da Erato e Apollion, dell'anno precedente, si rivela interessato da un processo analogo a quello appena rilevato a proposito di Gatto.  

Il primo Salveti si muove dunque nell'àmbito di una sorta di koinè lirica primonovecentesca, peraltro intensamente rivissuta e profondamente interiorizzata, cosicché il dubbio, prospettato da Italo Calvino in una lettera privata all'autore (5), se si dovesse parlare di "eclettismo" o di "originalità", pur, già all'altezza di queste prime ma già mature prove, essere decisamente risolto in favore della seconda ipotesi. 

Sono indubbiamente ravvisabili, nei testi di 1942, echi piuttosto evidenti dell'Ungaretti dell'Allegria, alcuni dei quali puntualmente segnalati da Manacorda nella prefazione citata: versi come "Certezza di questa pallida roccia / cui mi affido stanotte / stanco d'amare la vita" sembrano addirittura nascere dalla contaminatio di più luoghi ungarettiani; ed è superfluo sottolineare come una lirica quale In memoria riecheggi, fin dal titolo, l'omonima lirica ungarettiana; i bellissimi versi di Deserto ("Silenzioso deserto, / melodiosa pianura della Libia / dove il passo dell'uomo lentamente / scava precoci misteriose insidie, / dove si impara ad amare la vita / e si cova nel petto la memoria / del paese festoso di vigneti") ricordano molto il paesaggio nilotico - vasto, inquietante, denso di sottintese e tenebrose memorie storiche, corrispettivo di un inquieto stato d'animo giovanile - che appare in una strofa dei Fiumi ("Questo è il Nilo / che mi ha visto / nascere e crescere / e ardere d'inconsapevolezza / nelle estese pianure"), alla cui memoria si sovrappone quella, ancor più evidente, di Veglia ("ho scritto / lettere piene d'amore // (...) Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita"). Accanto alla reminiscenza ungarettiana è presente, in misura altrettanto evidente, quella montaliana; e basterà citare versi come quelli di Se la ruota non stride sulla ghiaia ("Qui la memoria turbina indistinta / se un indizio ci fermi ad altro tempo / la musica rigela e come un gioco / di pulviscolo nel sole / il sangue ci trascorre nelle vene") perché sia chiaro come la concezione salvetiana del tempo - su cui dovremo tornare - debba qualcosa a quella di Montale, incentrata com'è sull'idea ricorrente del flusso incessante ed incontrollabile, del caotico ed incostante turbinare degli attimi passati e presenti; e tuttavia "l'attimo, improvviso, lacerante o doloroso che sia è pur sempre realtà vitale e, bergsonianamente, accrescimento" (6).  

Ma già in queste prime prove emerge, come si è accennato, la netta e perentoria originalità della poesia del nostro autore, e si preannunciano alcuni dei motivi che verranno sviluppati nella sua produzione successiva.  

Basti leggere un testo come Stalingrado, che, in una tramatura di versi - in prevalenza novenari - dal ritmo ternario fortemente scandito, tale da creare un marcato effetto fonosimbolico ("Di trotto, di passo, di trotto / cadenze lontane seguendo / di antichi tamburi / l'alfiere del 3o Dragoni ...") fa irrompere all'improvviso l'"emergenza" del contesto storico con la violenza di un nome proprio ("Hitler / risaliva i campi di Russia") evocatore di stragi e di sciagure. 

Un altro elemento che diverrà tipico della poesia di Salveti è il particolarissimo concetto di "patria" che emerge dai suoi versi, e che - conformemente con la temperie secondonovecentesca in cui si muove l'autore - è del tutto scevro di venature nazionalistiche e bellicistiche: "non patria qui, non casa: si consuma / nella tua cruda luce / il volto dei soldati". "L'eroico" - come il poeta scriverà, proprio a proposito di Ungaretti, nella raccolta di saggi critici Dimenticanze e successi ingiustificati (Pellegrini, Roma 1973, p. 106) - "non è nell'urlo, nel'atto inimitabile", nel beau geste estetizzante e dannunziano, ma "nell'uomo che soffre e che lotta, nella sua pena" - Ungaretti "uomo di pena", appunto -, "nel suo doloroso e sommesso scontare la morte vivendo". L'unica "patria" possibile è il "paese festoso di vigneti" - altro "scorcio" mediterraneo - evocato, per contrasto con la scabra e prosciugata realtà contingente, nella lirica Deserto; e non è un caso che l'antologia Orizzonte di eventi si chiuda con la poesia Umbria, uno degli esiti liricamente più alti raggiunti da Salveti, precedentemente inclusa nella raccolta Ulisse in ostaggio (Cittadella 1971): "qui ritrovi la patria, / nella terra dell'Umbria, dove il Nera / slarga in ricordi di colline e di sambuco / e le città recline assaporano leggende". 

Questo ricorrente richiamo alla terra umbra ha spinto alcuni critici ad inserire l'"oriundo" Salveti nel solco di una "linea umbra" - i cui altri autori, peraltro, non hanno grande rilevanza storiografica - da affiancare alle ben note linee "ligure", "lombarda", "meridionale" e via dicendo, sottolineandone "l'àntheos montaliano trasfigurato e trasportato nel pinturicchiano paesaggio umbro dalle ariose campiture mistiche" (7). Come ha soggiunto Marino Piazzolla, in questi versi l'Umbria è "un luogo più dello spirito che della geografia", con i "turbamenti metafisici provocati da una sotterranea passione", tutta mediterranea, "per la vita e per la morte quale si delineò nella civiltà etrusca. (...) Dio, uomo e natura formano una unità essenziale che si drammatizza nel tempo" - senza cioè risolversi, come si è accennato, in una sterile e retorica laudatio temporis acti - "per poi placarsi fuori dal tempo" (8). "Per giungere dalla non-patria del '42 alla patria del '67 il poeta Salveti" - ha notato acutamente Vittorio Vettori in Conversazione con J. L. Borges e altri incontri di Poesia (Cursi, Pisa 1978) - "ha avuto bisogno di conferire alla propria personale odissea lo stigma della metamorfosi", del continuo mutamento, della perenne messa in forse e in discussione delle proprie certezze e della propria stessa identità, il che contrasta nettamente con la convenzionale, aristotelica, imperturbabile coerenza dell'eroe epico. 

E non si sottolineerà mai abbastanza il legame esistente tra questa concezione della terra-madre, profonda scaturigine tanto dell'Essere - peraltro heideggerianamente alienato, dialettizzato, soggettivizzato in un dolente e sofferto EsserCi - quanto dell'ispirazione poetica, e l'antichissima idea della Terra, di Gaia-Tellus intesa come Magna Mater, Grande Madre, feconda e prodiga altrice e datrice di vita: idea forse archetipica, mito antropologico mediterraneo addirittura preellenico e preeschileo, e intensamente e suggestivamente ripreso, nel mondo classico, da certi culti di matrice orfica; e non sarà casuale che, in un lungo poemetto del 1968, Desiderio dell'ordine - fedele trascrizione della Babele postmoderna, caotico e conflittuale "pasticciaccio" o "casino", groviglio inestricabile di ideologie e messaggi contraddittori, in cui si mescolano miti greci joycianamente rivistati, ricordi bellici, Palestrina, i Rolling Stones, il muro di Berlino, "la TV per il popolo ignorante", una flora e una fauna minute e preziose, catalogate e nominate con amorevole, pascoliana precisione .... -, irrompa d'improvviso la reminiscenza goethiana della "Tat che conduce alle Madri", aprendo uno spiraglio di speranza, un varco per uscire dalla palus putredinis.  

Già nelle prime prove, poi - ad ulteriore conferma di uno stato poetico già ben definito e decisamente "originale" -, si assiste a quel processo, ulteriormente sviluppato ed approfondito nei poemetti degli anni '70, di "mortificazione degli strumenti letterari e comunicativi della tradizione, che coincide con una sorta di mercoledì delle ceneri della poesia stessa", come ha scritto Franco Gallo (9). 

Così un testo di 1942, La solitaria rosa porporina, riecheggia ostentatamente, nel titolo e nel primo verso, una notissima, amabile canzonetta di Gabriello Chiabrera, la cui esile grazia presettecentesca e prearcadica contrasta tragicomicamente con la dolorosa realtà della guerra nel deserto, sortendo un dirompente effetto straniante e facendo sì che la memoria letteraria sia qui decontestualizzata e "delegittimata"; e l'endecasillabo iniziale di una poesia del 1974, Polline a Vallinfreda ("Canto l'armi gli amori il capitano"), contamina parodisticamente i celeberrimi proemi dei poemi di Ariosto e Tasso. Questi sono solo i più clamorosi tra i molti esempi di questo procedimento che si potrebbero trarre dal complesso dell'opera del poeta.  

Nella lirica Risacca, poi, appare per la prima volta l'immagine del grecale, del "vento greco", che nell'evolversi del cammino di questo autore diverrà - secondo una dinamica assai frequente, e ben nota ai teorici della letteratura - da immagine metafora, da metafora simbolo e, da simbolo, quasi vero e proprio mito: "così del grigio muro, del velario che il cielo / chiude alla rossa luna al vento greco / all'empito d'azzurro, cuposonanti notti / non rompono paurosa la freddezza" (e si noti, in questi versi, anche l'ardita neoconiazione grecizzante "cuposonanti", di sapore epico, lirico, arcaico). 

Lo stesso "vento greco" - stavolta "favoloso di pianti e di figure", saturo di memorie classiche come di recenti, dolorosi ricordi - tornerà in una lirica del 1951, Cortile, in uno scenario domestico ed intimista, quasi paracrepuscolare ("Già nel cortile dell'anziana casa / gridano i ragazzi"), perfetto correlativo oggettivo della "tregua" susseguente ai tormenti della guerra; la "leucite sciolta dal grecale" troverà asilo - affiancata, in un repentino scorcio paesistico tra montaliano e pavesiano, alle "langhe sommerse dall'esilio" - anche nel citato Desiderio dell'ordine; "come un vento greco la poesia / gonfiava tra Nisida e Sorrento / vele e stracci", leggiamo in Una notte con Ulisse, vero e proprio poema autobiografico in cui l'aner polytropos viene assunto quale alter ego dell'io poetante - il cui caldo ed avvolgente afflato è significativamente identificato col soffio del grecale -, lungo la ben nota linea - che qui sarebbe prolisso e superfluo ripercorrere - dell'"ulissismo" nella letteratura del Novecento; e si può notare, per inciso, che anche qui il viaggio è, in definitiva, un nostos verso la terra-madre, un disperato tentativo di ritorno alle origini, quasi un neoplatonico "ritorno all'Uno": "ma dimmi, Ulisse, / cosa di me, del mio richiamo / in questo mare che abbiamo navigato / tra Nisida e Sorrento, dimmi: / se non un generoso approdo, che altro se non Itaca sogniamo". "Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fa voti che sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze". Questi versi iniziali della poesia Itaca di Costantino Kavafis - qui citati nell'impareggiabile versione di Filippo Maria Pontani - esprimono bene la stessa concezione del nostos inteso non già come rinuncia, come desiderio di porre fine ad un'interminabile quanto inesaudibile quete, ma bensì come denso ed inquieto percorso di evoluzione umana ed intellettuale: "Itaca t'ha donato il bel viaggio. / (...) Reduce così saggio, così esperto, / avrai capito che vuol dire un'Itaca".  

E nella quarta sezione del poemetto Il caso Lucifero (1982) - in cui ad essere specchio e senhal dell'io lirico, e più in generale dell'uomo contemporaneo, è proprio la figura del Maligno, carica anch'essa di fortissime connotazioni letterarie, legate in special modo all'immaginario romantico, ma qui ridotto a povera vittima, ad "angelo smarrito in sterpi e braci", sopraffatto dalle forze della natura, teso alla ricerca di "Cristo, il senso della vita" - troviamo ancora l'immagine del vento (e poco importa che qui, per ovvie ragioni geografiche, non possa propriamente trattarsi di grecale), con un'intensa e martellante anafora, sorretta dall'ampia ed inconsueta scansione dei tre dodecasillabi centrali, incastonati come gemme tra un settenario e un endecasillabo: "a Parigi giungemmo / mentre un vento di bandiere sciorinava / un vento acuto di sibili tra fili / un vento ardito sui tetti di Parigi / dove mansarde occhieggiano insolenti". Insomma, come ha finemente notato Carla Rugger, "è sempre il grecale - vento del Mediterraneo, il mare del poeta, che soffia e lo sospinge lontano: mitico Ulisse prigioniero della sua stessa avventura. Natura risalta." (10).  

Si può aggiungere che sovente, nella poesia italiana di tutte le epoche, il soffiare del vento ha assunto una funzione di "evento minimo", di subitanea ed inattesa sovversione della condizione di imperturbabilità e di stasi in cui apparentemente versa il mondo naturale, così da innescare una reazione a catena di passaggi analogici, ridestando il ricordo di situazioni passate o profilando la visione di una realtà "altra" rispetto a quella immediata e sensibile. Basti pensare - e mi limito, qui, ad una rapida quanto lacunosa e rapsodica rassegna - al sonetto 196 del Petrarca ("l'aura serena che fra verdi fronde / mormorando a ferir nel volto viemme, / fammi risovenir quand'Amor diemme / le prime piaghe, sì dolci profonde"), all'Infinito leopardiano ("e come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando. E mi sovvien l'eterno ..."), o alla funzione che il vento (si tratti del "libeccio" che "sferza da anni le vecchie mura" ne La casa dei doganieri o del "sommesso alito" che "cullò, riversa sull'amaca", l'anonima dedicataria di Vento e bandiere) riveste in Montale, investito della funzione di rievocare per un attimo un volto, una parola, una storia, suggerendone, nel contempo, l'irrevocabile ed insondabile lontananza, giacché "non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani".  

Il motivo del vento come icona del divenire e, insieme, della ricorsività degli eventi, si ritrova, significativamente, in Dopo la notizia, una poesia di Giorgio Caproni. E', quest'ultimo, un autore che Salveti ha avuto spesso presente, come, ad esempio, nel lungo poemetto del 1971 La discesa all'Inferno, debitore - nel suo prospettare l'inesorabile sprofondamento nell'oscuro e minaccioso ventre di una natura ostile ed infingevole, correlato oggettivo di un torbido ed insondabile "gorgo della memoria" - tanto al caproniano Passaggio d'Enea quanto al Montale di Arsenio, senza dimenticare gli esempi che si potrebbero senza difficoltà trovare nella poesia straniera - si pensi, ad esempio, all'analoga discesa agli inferi, di omerica memoria, che Ezra Pound pose all'inizio dei Cantos. In tutti e tre questi autori "alla Sibilla il nuovo Ulisse-Enea non chiede profezie, chiarimenti sull'avvenire" come nella tradizione epica, "ma la liberazione dal groviglio dei ricordi per una possibile scelta nel presente" (11).  

Ma torniamo alla poesia di Caproni, Dopo la notizia: "Il vento ... E' rimasto il vento: / Un vento lasco, raso terra, e il foglio / (quel foglio di giornale) che il vento / muove su e giù sul grigio / dell'asfalto (...) / Il vento e nient'altro. Un vento / spopolato. Quel vento, / là dove agostinianamente / più non cade tempo". Quell'avverbio agostinianamente - se sul piano poetico rischia di provocare una caduta di tono, introducendo nel dettato lirico una venatura di troppo astratta concettosità - rimanda, con una sola parola, alla modernissima concezione agostiniana del tempo come distensio animae, che anticipa alla lontana quella bergsoniana della durée réelle, interiorizzata e soggettivizzata, cui già si è accennato per bocca della Graziosi.  

La percezione e la concezione del tempo che sono tipiche di Salveti risulteranno ancor più evidenti dopo la lettura delle pagine critiche che egli ha dedicato a Quasimodo. "Le categorie dello spazio e del tempo", vi si legge, "risultano modificate: tutto fluisce, ma in uno spazio che è la cristallizzazione del tempo, in un tempo-spazio in cui cangiamento e successione, durata e vita, avvengono in funzione di un punto relativo di osservazione: l'ansia e la solitudine. (...) Spazio e tempo dunque, categoria spazio-temporale che procede fuori dell'assoluto, momento dialettico del reale in cui consiste il moto e la vita" (12). E si resta ammirati nel constatare la ricettività e la lungimiranza del poeta-critico, se è vero che, all'inizio degli anni Sessanta, concetti come quello di continuum spazio-temporale e di cronotopo, nati nell'àmbito della fisica quantistica e della teoria einsteiniana della relatività e successivamente applicati, attraverso il vaglio della riflessione filosofica, alla narratologia e alla critica letteraria - oltre che alla produzione poetica -, non erano ancora stati pienamente accolti e del tutto assimilati dal mondo culturale italiano, tradizionalmente chiuso e provinciale.  

 Nella poesia di Salveti - come, del resto, nella realtà delle cose - "tutto scorre e nulla permane", secondo il verbo di Eraclito; il pensiero dell'Oscuro - l'antica sapienza mediterranea, ancora una volta - può essere utilizzato per interpretare e comprendere l'incessante e frenetico divenire di parole e immagini che è tipico della realtà postmoderna, emblematizzata dall'apocalittica visione di Roma, terrificante ed onnivora "città-centauro" ("Roma, enfasi e orina", aveva tuonato Caproni). Di derivazione eraclitea sono anche la dialettica dei contrari e la fitta ragnatela di opposizioni antinomiche che popolano la poesia di Salveti (basti pensare, tanto per fare un esempio, a La contraddizione, un testo del 1973), e che possono placarsi e conciliarsi, grazie ad una sorta di suprema, archetipica discordia concors o coincidentia oppositorum, nella visione di Dio, che, al di fuori o al di là del Tempo e dello Spazio - o, meglio, di uno spazio-tempo pullulante, caleidoscopico, compresso fino all'implosione -, "non entra nel novero dei mesi". Dicono alcuni versi di Una notte con Ulisse, che poggiano su di un suggestivo ipotesto biblico (Esodo, 3, 14): "Egli apparve: 'sono / colui che sono / segno di contraddizione eterno / madre dei venti / incomprensibile a te / se ancora l'alto respiro / non ascolti del mistero'". La Divinità è "segno di contraddizione eterno": "giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame", per usare ancora espressioni eraclitee (fr. 67 D. K.).  

 Ma Salveti, proprio come i filosofi presocratici, che deve avere a lungo letto e meditato, non si arrende e non si abbandona al decorso degli eventi e all'irresolubile ed incessante lotta dei contrari; cerca, semmai, proprio in essi le archai, i principi primi, i fondamenti profondi dell'esistenza. Questo aiuta a chiarire il rapporto - felicemente intuìto e additato da Bàrberi Squarotti nella prefazione a Ulisse in ostaggio (Cittadella 1971) - che, pur se in modo velato e discreto, lega il nostro autore ad uno dei testi più densi, complessi e problematici della poesia europea del Novecento, cioè Le cimetière marin di Paul Valéry. Esso è tutto pervaso dalle forme e dagli emblemi del fluire del tempo, del mutamento e del perenne divenire: "La mer, la mer, toujours recommencée" (immagine, tra l'altro, vagamente riecheggiata da Montale in Mediterraneo); "Le Temps scintille et le Songe est savoir"; "Le changement des rives en rumeur"; "Je suis en toi le secret changement"; "Allez! Tout fuit!" (che traduce testualmente l'eracliteo panta rei). Lo stesso Valéry, del resto, poteva dichiarare: "nulla mi ha più formato, impregnato, istruito - o costruito - del culto inconscio di tre o quattro divinità incontestabili: il Mare, il Cielo, il Sole", cioè i fondamenti e le radici prime del reale, che l'"ingenua" mentalità arcaica non poteva che identificare con elementi o forze naturali.  

E' chiaro che questa sorta di laico e paganeggiante "culto delle archai" non poteva che portare al rifiuto non solo del cattolicesimo, avvertito come eccessivamente ritualista e formalista, ma di ogni forma di religione storica, positiva, gerarchicamente e liturgicamente organizzata, ritenuta incapace di prospettare ed offrire altro che una grama "Maigre immortalité noire et dorée", nulla più che un fatuo "beau mensonge": ben poca cosa, rispetto alle vertiginose, iniziatiche profondità delle realtà prime - in cui anche Salveti decide, leopardianamente ed ungarettianamente, di "naufragare".  

Pur essendo, come si è visto, poeta spesso animato da una religiosità profonda, per quanto aconfessionale, egli condanna spietatamente l'ipocrisia ed il vuoto formalismo che spesso affliggono il culto cattolico: "ipocriti è dir poco in questa chiesa", ripete, a mo' di refrain (strumento formale, questo, spesso usato da Salveti per garantire ai suoi componimenti unitarietà e coerenza strutturale), Il nostro giro, un componimento del 1971 incluso nella raccolta Il giro di casa (Gela 1974). Quest'ultima è una sorta di vero e proprio romanzo borghese in versi incentrato sulla grettezza, il vuoto e l'ossessiva monotonia della vita familiare, ravvivata solo dall'affetto per la figlia, il cui infantile balbettio è "linguaggio che t'apre alla speranza". Ferruccio Mazzariol, recensendo il volume (13), colse parzialmente nel segno parlando di "disposizione all'attesa, alla speranza, all'escatologia", poiché vi si possono scorgere qua e là i crismi di una "poetica come grazia laica", "l'ascesa dell'umana ancestralità meridionale, l'imporsi del giro di casa nella paesana, forte, calda struttura del profondo Sud, con una sua elegia di lucida, neobarocca immaginazione"; ma parlare di "poetica cattolica", pur se "inconsapevolmente cattolica", su cui "influisce la storicità della Chiesa", può apparire eccessivo.

Non bisogna credere, peraltro, che questo arcaizzante "culto delle archài" si risolva in una fuga nell'Assoluto, in un rifiuto della realtà storica e dell'engagement civile. Scrive l'autore nelle sue Ragioni di una poesia (non sfugga il titolo ungarettiano), premesse a Un'altra forma (Sassari 1963): "non pretendo di scoprire l'origine delle cose, né di inventare un Assoluto che risulterebbe, alla fine, un ottimistico, perché razionale, livellatore dell'esistenza". 

Il Mito è, in Salveti, sempre, per così dire, "incrinato", "inquinato", dialettizzato, problematizzato, messo in dubbio e in forse dalla realtà storica. Basti leggere, a tale proposito, I miti per esempio, una lirica del Giro di casa dedicata, non a caso, a Giorgio Bàrberi Squarotti, la cui poesia sviluppa, per molti aspetti, un'analoga mise en abime del patrimonio mitico come della sapienza biblica: "i miti sono miti, distanza dal tuo corpo e batticuore / (...) matematica sorte di un pitagora scannato", che rischia di essere colto in controtempo e spiazzato dalla ruvida, concreta realtà quotidiana. E la mia memoria corre proprio ad una lirica dell'illustre dedicatario, I miti - inclusa nella fondamentale raccolta La declamazione onesta, edita da Rizzoli nel 1965 -, nei cui versi conclusivi il poeta, pur ostinandosi - anche se con la voce ormai segnata dalla stanchezza e dalla sfiducia - a tentare di mantenere la sua arcaica, tribale funzione fabulatrice, divinatoria e mitopoietica ("così ti parlo di errori, invento miti, / cerco segni, interrogo gli eventi / e le parole") -, si sente "folle al suono / certo di quest'età di benessere, alle voci / che promettono e condannano", e prigioniero di una "babelica lingua". Di fronte all'"altana che crollava / a terremoti furibondi" (che ricorda molto i "crolli di altane e ponti" della montaliana Ballata scritta in una clinica, nata "nel solco dell'emergenza" dichiarata a Firenze dai tedeschi nell'agosto del 1944), "Omero non canta / se luci trapelano da spazi / moribondi". "Dall'incontro mancato di Odisseo con le Sirene", come scrivevano Adorno ed Horkheimer nella Dialettica dell'Illuminismo, "tutti i canti sono feriti", disturbati dal razionalismo borghese della civiltà industriale e brutalizzati dalle violenze della Storia; "tutta la musica occidentale soffre dell'assurdità del canto nella civiltà, assurdità che è tuttavia, ad un tempo, l'ispirazione di ogni musica d'arte". "Ogni parola è una ferita / lama di scogli sulle labbra gonfie / di sete e di salino. / (...) Ogni parola ferirà la pena / dell'uomo che gli dei / aprirono all'eterno". Questi versi, tratti da Ogni parola (una lirica del 1960 che non a caso, in Orizzonte di eventi, precede immediatamente Omero non canta), oltre a ricordare da vicino l'ungarettiana "parola scavata come un abisso" nella vita del poeta, consentono di accostare Salveti alle tante problematiche e sofferte "poetiche della parola" sviluppatesi nel Novecento. Il canto, come ha scritto Edmond Dune nella prefazione alla traduzione francese (Basse Yutz 1969) di Desiderio dell'ordine, potrà sopravvivere, o cercare di sopravvivere, solo se e in quanto "chant accordé aux sourdes rumeurs du profond aujourd'hui".  

Questo proposito di attualizzare e problematizzare lo spirito e la sostanza del lirismo mediterraneo traspare in modo quanto mai evidente anche dalla nota traduzione salvetiana dei lirici greci (Rapsodia arcaica. Lirici greci, Rebellato, Padova 1976), che suscitò - come, del resto, quella magistrale di Quasimodo - vivaci polemiche, specie negli ambienti accademici, pesantemente segnati da quella stretta e spesso pedantesca osservanza del rigore filologico che è, ancor oggi, assai dura a morire. 

Gli indubbi quanto consapevoli arbitri e "tradimenti" della lettera dell'originale perpetrati da Salveti sono evidenti soprattutto nelle traduzioni da Saffo, segnate dall'indebita fusione di frammenti diversi ed eterogenei - per quanto tutti appartenenti, in origine, ad epitalami -, e nelle versioni degli elegiaci parenetici (Tirteo e Callino), in cui il traduttore-rielaboratore (come egli stesso chiarisce nella nota introduttiva, Della versione e dei lirici greci) ha cercato di "superare la parola con la parola, nella ricerca di un dettato privo di retorica o di coaguli verbali, ora stantii e inaccettabili", col risultato che, in parole povere, la maggior parte dei distici viene semplicemente eliminata, "tagliata" con giornalistica risolutezza. Il frammento - come Salveti ricorda e come era chiaro anche a Quasimodo - è "misterioso in sé, circonfuso di aree opinabili, carico di tutte le interpretazioni che la tradizione orale portava con sé", e la lirica arcaica, pur così legata all'"occasione" e alla circostanza - simposiaca, militare, politica, erotica od encomiastica che fosse -, è anche "specchio dell'uomo nella sua natura immutabile", archetipica e metastorica. Ma l'operazione di violenza testuale condotta da Salveti non è mera ostentazione di spirito ribelle ed antiaccademico, né, ovviamente, frutto di imperizia o dilettantismo; al contrario, lo scopo perseguito dall'autore è, ancora una volta, quello di attualizzare il testo antico, riconducendolo alla realtà dell'uomo contemporaneo: "noi e loro ci giustifichiamo a vicenda, nel tempo, prospettiva di un futuro sempre prevedibile. Ed allora la versione dei lirici greci assume un significato più ampio, di modernità nello svolgimento, di necessità nella dislocazione di un'esistenza".  

"Non resta, per salvarsi, che affidarsi al proposito morale di credere nell'uomo e, attraverso l'amore e la guerra, rinunciare al rimpianto e alla rassegnazione". Le archai presocratiche - per arrivare a questa concezione dell'Amore e della Guerra come radici prime l'autore può aver pensato tanto all'antinomia empedoclea tra Philotes e Neikos quanto alla definizione eraclitea della Guerra (Polemos) come "madre di tutte le cose" -, lungi dall'essere venerate come astratte entità confinate in un aureo e remoto passato, vengono così attualizzate, rese vive ed operanti nel dibattito ideologico e nella prassi storico-sociale. L'antico e glorioso umanesimo mediterraneo diviene, senza enfasi e senza retorica, alimento e sostanza di una nuova poesia, che - lungi dal ritrovarsi "cenerentola disorientata" nel cinico mondo della comunicazione di massa (14), o magari neoavanguardistica "trascrizione di un esaurimento nervoso", automatica, passiva, irriflessa - possa finalmente ritrovare una propria dimensione vitale e una propria attiva e definita posizione nella società e nella storia. In che modo e in che termini questa grande utopia si possa attuare resta uno dei più grandi e cruciali interrogativi cui la poesia, alle soglie del terzo millennio, si trova davanti.  

                                                                                                                      Matteo Veronesi 

 

(1) V. AMMIRATI, La coscienza poetica mediterranea. Appunti per una definizione storica, "Hyria", anno XV (1987), n. 50, pp. II-IV. 

(2) P. VALERY, Sguardi sul mondo attuale, Adelphi, Milano 1994, pp. 273-274.  

(3) Così ha scritto Giuseppe Zagarrio in Febbre, furore e fiele (Mursia, Milano 1983) a proposito di Orizzonte di eventi (Bastogi, Livorno 1977), ampia selezione antologica che riunisce il meglio della produzione salvetiana fino ai primi anni Settanta.  

(4) C. MARCHESI, Il poemetto narrativo e 'Un posto di vacanza' di Vittorio Sereni, "Lia - Appunti di Letteratura", anno II (1994), n. 7, pp. 42-43. 

(5) Una riproduzione anastatica del dattiloscritto originale della missiva si trova in AA. VV., Da Ulisse a Lucifero. Il valore della poesia di Gaetano Salveti, Poesia e Poetica, Roma 1986.  

(6) E. GRAZIOSI, Il tempo in Montale. Storia di un tema, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 26  

(7) G. POLITI, La linea umbra, "La Fiera Letteraria", anno XV (1960), nn. 34-35, p. 2. 

(8) M. PIAZZOLLA, Linea umbra: un'ardita testimonianza, "La Fiera Letteraria", anno XVI (1961), n. 36, p.3.  

(9) F. GALLO, L'esercizio poetico della penitenza in Gaetano Salveti, saggio introduttivo a Una notte con Ulisse, Poesia e poetica, Roma 1994, p. 12.  

(10) C. RUGGER, La presenza del fiore: mito e idealità in "Orizzonte di eventi" di Gaetano Salveti, "Il Nuovo Giornale dei Poeti", anno XII (1996), n. 10, p. 15.  

(11) N. DE GIOVANNI, L'accumulazione segnica ovvero "l'oratorio / dell'uomo tra le cose" nella poesia di Gaetano Salveti, in Da Ulisse a Lucifero, Poesia e poetica, Roma 1986, pp. 10-54.  

(12) G. SALVETI, Salvatore Quasimodo. Con otto inediti del poeta, Edizioni del Sestante, Padova 1964, pp. 21 e 29.  

(13) F. MAZZARIOL, Il giro di casa, "L'Osservatore Romano", anno CXIV (1974), n. 238, p.3. 

(14) Si veda G. SALVETI, La cenerentola disorientata, in Dimenticanze e successi ingiustificati, Pellegrini, Roma 1973, pp. 97-99.