Cerchi di fumo. Suggestioni su Palazzeschi simbolista

(pubblicato in "Atelier", VIII, 2003, n. 32)


Toute l'âme résumée

Quand lente nous l'expirons

Dans plusieurs ronds de fumée

Abolis en autres ronds


(…)


Ainsi le choeur des romances

A la lèvre vole-t-il

Exclus-en si tu commences

Le réel parce-que vil


Le sens trop précis rature

Ta vague littérature


Anche se la cultura di Palazzeschi  non era particolarmente vasta e profonda (tanto che può ancor oggi apparire fondata l'immagine di scrittore "senza maestri" offerta dalle Lettere di Renato Serra), non è impossibile che il suo sguardo sia caduto sui versi di Mallarmé appena riportati, pubblicati, tra l'altro, su Le Figaro del 3 agosto 1895, all'interno di un'inchiesta su Le vers libre et les poètes che non poteva non attrarre l'attenzione di uno scrittore sospeso tra crepuscolarismo e futurismo, immerso nell'atmosfera inquieta e densa di fermenti dell'avanguardia primonovecentesca.

D'altra parte, era già Marino Moretti, sul Faro romagnolo del 1 agosto 1906, in veste di solidale recensore, ad inscrivere l'enigmatica poesia dei Cavalli bianchi all'interno di una galassia decadente e simbolista in cui brillavano gli astri di Wilde, di Baudelaire e, per l'appunto, di Mallarmé. Negli ultimi anni, la contestualizzazione dell'opera in versi palazzeschiana entro il sistema del simbolismo è stata confermata in modo ben più ampio e più articolato. 

Il fatto che possa trattarsi, come scriverà l'autore stesso nella prefazione al benemerito volume di Filippo Donini Vita e poesia di Sergio Corazzini, di spontanee consonanze di sensibilità fra poeti lontani e ignoti gli uni agli altri, e uniti solo nel vasto afflato di una poesia che «giunge come il polline dei fiori di cui si fa messaggero il vento», nulla toglie, mi pare, al significato storico e alla rilevanza ermeneutica di questi nessi e di questi accostamenti.

Del resto, questa simbologia metapoetica che fa del fumo - della sua impalpabile levità, della sua forma immateriale ed effimera - l'icona di una parola poetica rarefatta, volutamente ambigua, libera, nella sua autoreferenziale autonomia, dalla pesantezza e dalla "viltà" della materia e del reale, non era priva di riscontri nel vasto sistema letterario del simbolismo. Ad esempio, Albert Samain, in un  testo di Au jardin de l'infante intitolato Dilection, persegue una parola poetica che restituisca nel verso il movimento ondivago e sfuggente di «tout ce qui tremble, ondule, et frissonne, et chatoie», come «Les rimes se frôlant comme des tourtorelles» e, appunto, «La fumée où le songe en spirales tournoie». Analoghi riscontri in Pascoli, nei cui versi l'immagine del fumo, con più o meno espliciti risvolti metapoetici, affiora a più riprese a connotare una condizione di indeterminatezza, inafferrabilità, evanescenza - dalla "lodola" dell'Ultima passeggiata, in Myricae, che canta «perduta nell'aurora», inseguendo con lo sguardo «un fil di fumo che qua e là vapora», a vari testi dei Canti di Castelvecchio (la poesia come "lampada" che, appesa alla «fumida trave», ascolta «assidui bisbigli perduti», e il cui raggio «arde blando» nell'anima del viandante notturno, la «nebbia impalpabile e scialba», il "fumo" che «rampolla su l'alba» avvolgendo e stemperando i contorni e le forme di una realtà filtrata e trasfigurata dalla parola poetica, il «fumo d'ogni focolare« che «erra (…) tra i mondi, come un grigio velo», sospeso tra le case e gli astri, tra microcosmo e macrocosmo), fino alla Psiche dei Conviviali, «lieve figura tenue come un soffio», «tenue più del tenue fumo».  Già Luigi Baldacci, del resto, in Letteratura e verità, suggeriva la presenza, nel Codice, di una reminiscenza, pur se sottilmente parodica, del Libro pascoliano. Per questa via, attraverso questo ideale estetico di levità, allusività, indeterminatezza, questa aspirazione ad una parola poetica «vaga e solubile nell'aria», «senza nulla in sé che pesi o che posi», per citare il Verlaine di Art poétique, il simbolismo arriva a prefigurare quell'estetica della "leggerezza" che tanta importanza avrà - da Kundera a Calvino - nella letteratura contemporanea.

È forse tempo di scoprire le carte, e di enunciare con chiarezza il nucleo essenziale di questo breve intervento. Credo che Perelà, l'intangibile uomo di fumo (ed è, si noti, proprio l'"inafferrabilità", la refrattarietà ad essere ridotto entro categorie interpretative univoche, a rappresentare, come scrive Stefano Giovanardi introducendo una preziosa antologia della critica palazzeschiana, il carattere essenziale dell'autore), possa incarnare, secondo una modalità di rappresentazione tipicamente simbolista, la poesia stessa, con la sua anima sovrana e irriducibile, i suoi multiformi e cangianti aloni di significati. Un'identificazione, questa, che sembra essere direttamente autorizzata dal testo stesso. Nel primo capitolo, L'utero nero, il poeta Isidoro Scopino accosta, sulla base di una sottile assonanza, il nome di Perelà (quel nome carico di molteplici possibili valenze simboliche, denso e pregno di mots sous les mots che la critica ha spesso rincorso) alla parola "poesia": sia all'uno che all'altro di quei due significati polivalenti e intrisi di sfumature viene associata l'idea,  essa stessa dai contorni mutevoli e indecidibili, di qualcosa che - cito dalla prima edizione, quella marinettiana del 1911 - «si vede sfuggire quasi rapidamente, (…) partire per innalzarsi lievemente delicatamente». Il fare poetico, del resto - e qui Palazzeschi, come ha dimostrato Pieri, ricalca ironicamente un passo pascoliano -, consiste nel "gonfiare" il "globo azzurro" della poesia «sino a renderlo trasparente perché esso possa innalzarsi»; l'"arte del poeta" è l'arte di "ottenere il vuoto". A suo modo, con quell'attitudine ironica e multivoca che gli è propria, Palazzeschi si accostava così all'estetica simbolista della parola che non deve avere in sé «rien qui pèse ou qui pose», o addirittura tout court «rien d'humain».

Non è difficile trovare, anche nei versi dell'autore, riscontri di questi princìpi di poetica. Addirittura nelle tarde prove di Via delle cento stelle si avvertirà il riflesso di una certa sensibilità tardo-ottocentesca e primonovecentesca, tra il surnaturalisme baudelairiano, le parnassiane pierreries e i miti surrealisti del sogno e dell'assurdo: poesia come «tessuto puerile di un sogno», «concentrato assurdo della fantasia», «realtà / al disopra della realtà», come preziosa creazione che il poeta leviga e cesella «per vederla risplendere / sempre più bella, lucida, maliosa». Più in particolare, quei "ronds de fumée" da cui siamo partiti - le "métamorphoses du cercle" a cui, con riferimento anche all'immaginario simbolista, Georges Poulet ha dedicato un libro importante - trovano ampio riscontro, a livello tanto tematico quanto formale, sul piano sia dei nuclei semantici e simbolici che della costruzione del testo, in varie pagine dell'autore, da La voce dell'oro a Il principe bianco, da Mar bianco a La principessa bianca; ove sarà da notare, accanto all'insistenza, che può far pensare tanto ai "blancs" di Mallarmé quanto ad un testo come Symphonie en blanc majeur di Gautier, sulle valenze evocative del bianco come spazio simbolico del silenzio, dell'ineffabilità, dell'enigma, la pregnanza di personificazione allegorica che è possibile attribuire alla Principessa Bianca, destinata a riflettere la propria marmorea forma in uno specchio «del più puro cristallo» come se fosse «acqua / limpida e pura», e le cui labbra sono «fredde come quelle / della morte» - un po' come la già citata Erodiade, che specchia nell'acqua gelida il proprio vergine corpo, bella di una bellezza che reca il crisma della morte. 

D'altra parte, anche nel Codice, e per l'esattezza nelle pagine finali  del terzo capitolo, Il thè,  la parola romanzesca - e qui il complesso e chiaroscurale umorismo palazzeschiano vira verso l'ironia tragica - affonda nel Néant, nell'Abîme, nel Gouffre dei simbolisti francesi, si confronta con «la morte nel suo più rigoglioso fiorire di petali freddi, con tutto il ghiaccio della sua vita», per spegnersi, infine, nell'ombra e nel silenzio di una «villa dove nessuno può entrare», dove «nessun uomo penetra mai», fosco sacrario della musica e della danza.  D'altra parte, scrive l'autore nel capitolo Villa rosa, un Nulla è - in una prospettiva che può ricordare tanto Nietzsche quanto un altro ironista tragico come il Richter del Discorso del Cristo morto sull'inesistenza di Dio - Dio stesso; un nulla di cui gli uomini hanno bisogno per poterlo rivestire delle vacue forme dell'arte, per poterlo «dipingere sopra la tela e scolpire nella pietra». 

Anche l'enigmatico finale - una sorta di apoteosi, di assunzione in cielo dell'uomo di fumo -, intorno a cui la critica si è tanto affaticata, riflette una imagery simbolista: basti pensare ai nembi simili ad «aquile bianche, candide aquile», che «come cigni / vanno su, su, vanno con i loro becchi adunchi» - e vengono in mente, qui, tanto il Cigno di Mallarmé e di Baudelaire quanto, e più ancora, i  «candidi paoni»  della Chimera dannunziana, che discendono «a torme a torme», «lenti, silenti come neve in aria» (e si noti che «ali di cigni» e «code di paoni (…) vagano» e «roteano» anche nel surreale Mar bianco, spazio immenso e bizzarro del possibile poetico, cui è dedicata una lirica di Poemi, del 1909, ripresa con varianti nelle Poesie del '30).

Né questa identificazione di Perelà con la Poesia esclude altri possibili significati (basti qui citare quello cristologico, proposto con forza, e non senza un qualche fondamento, da Luciano De Maria, o quello a sfondo avanguardista ed anarchico, che accosterebbe l'uomo di fumo all'"uomo nudo" dell'espressionismo europeo, ipotizzato, in modo altrettanto plausibile, da Pieri in Ritratto del saltimbanco da giovane). Nel "tempo ambiguo dell'arte", come lo chiama Borges nei saggi danteschi, possono del resto coesistere, addensati in una stessa immagine o in un medesimo simbolo, significati e messaggi difformi, o anche antitetici. D'altro canto, proprio l'avanguardia simbolista persegue una poesia «fatta da tutti», come scriveva Lautréamont in pagine che hanno suggerito profonde riflessioni a Julia Kristeva, o capace di «ritmare l'Azione» e di essere «en avant» sulle sorti di un'umanità incamminata verso la liberazione, secondo il messianico disegno della rimbaudiana Lettre du voyant. 

E quanto all'interpretazione cristologica, è altrettanto radicata nella visione simbolista e decadente, ma prima ancora nella poetica sottesa alle Contemplations di Hugo, la tensione - fiduciosa nel caso di Hugo, angosciosa e vana nella décadence -  della parola poetica verso un «Verbe poétique» che si identifica con il Verbo divino, con la Parola e il Libro assoluti ed eterni. E si potrebbero citare, quasi a voler avvicinare Perelà al Cristo-Dioniso che prendeva forma nei delirî dell'ultimo Nietzsche, anche le Baccanti euripidee, attraversate da una simbologia che si muove tra l'«immortale fuoco di Zeus» che arde intorno alla tomba di Semele e la sostanza illusoria e inafferrabile di cui è fatta l'immagine, la anthropine morphe, di Dioniso - phasma e phaennos aither, "fantasma" e «risplendente etere» (e, si noti, nemmeno la natura dionisiaca dell'atto poetico era estranea - basti pensare al D'Annunzio dei Ditirambi di Alcyone o al Nietzsche "poeta frenetico", come proprio l'autore delle Laudi ebbe a definirlo, dei Ditirambi di Dioniso - all'immaginario decadente).

E si può rendere ragione, per questa via, anche del nesso tra il fuoco dell'ispirazione poetica (fuoco della creazione e insieme della distruzione, per alludere alle categorie interpretative di Gaston Bachelard, fuoco che forgia l'opera e che, nel contempo, incenerisce e cancella l'ombra paralizzante dei Padri), a cui rimanda, pur se nel consueto straniamento ironico, il poemetto L'incendiario, e il fumo di cui sono materiate le inafferrabili membra di Perelà. Secondo un'antichissima concezione, che da Eraclito passa a Platone e agli Stoici, e perviene alla cultura moderna attraverso il Cicerone della Pro Archia e del Somnium Scipionis (per poi riflettersi, in certo modo, ma ormai, per così dire, secolarizzata, tecnicizzata, ristretta alla sfera immanente dell'autocoscienza artistica e della perizia letteraria, nell'immagine parnassiana, comune a Carducci e a D'Annunzio, del poeta artifex che acquieta e ricompone, nella perfezione del verso, «la sacra ebrietà che accesa / leva da' cuor la fiamma de la gioia»), l'anima dell'uomo, e a maggior ragione del poeta, del Vate, ha natura ignea, è come un'emanazione, una favilla del fuoco primordiale e cosmogonico - dell'Hestia, l'Altare di Fuoco dell'universo. Ma del sacro fuoco dell'ispirazione (della fiamma, esile ma ferma, di cui parlava il Tommaseo, che «non, come sol, risplende, / né, com'incenso, fuma», ma «con la cima tende» al cielo da cui proviene), non resta ormai che il fumo, la traccia vaga, labile, inafferrabile - l'anima leggera e disincarnata dell'ironia. 

E a questo punto si insinua, nel nostro discorso, il germe e l'ombra della contraddizione. Pretendere di attribuire alla scrittura palazzeschiana un messaggio univoco, riconducendola per di più a ben determinati antecedenti escludendone altri possibili, significherebbe far torto all'indole bivoca, bifida, anfibia che contraddistingue il beffardo ironista del Controdolore. Ma come sa ogni lettore di Freud (le cui teorie gli esegeti palazzeschiani, da Guglielmi a Curi a Pieri, hanno spesso richiamato), proprio attraverso l'umorismo l'uomo moderno «getta il fardello delle false apparenze» e «grida proprio all'ultimo un brandello di verità», e dell'umorismo ha bisogno «per sentirsi felice di vivere». La Poesia, un tempo sorella  della Verità e della Vita, può, con la sua lieve ed ilare incondizionatezza, con il suo non significare nient'altro che se stessa, farsi strumento di questa liberazione, di questa irridente - anche se forse illusoria, se è vero che il poeta non è, in fondo, che un incendiario da nulla, "un incendiario da poesia" -  emancipazione. 

Questo è, in fondo, il significato più lato, e insieme più profondo e più umano, delle esperienze che furono accomunate sotto l'etichetta dell'avanguardia. E mi piace chiudere questo cammino di lettura citando i giudizi di due scrittori il cui accostamento, tra l'altro, salda idealmente le due avanguardie, quella storica e quella dei Novissimi. Scriveva Soffici, in Statue e fantocci, che Palazzeschi era futurista in grazia della sua «estetica funambolesca, danzante, da creatore puro, sciolto da tutti gl'impacci terrestri e librantesi nell'aria serena», proprio come il suo Perelà, «come una figura impalpabile». A distanza di un cinquantennio, in un articolo raccolto in Il fiato dello spettatore, Elio Pagliarani chiarirà la sottile valenza metaletteraria di quell'enigmatica figura, che «è metafora di niente, non rimanda ad altro che alla propria leggerezza».

        

                                                                                                                            Matteo Veronesi