Introduzione al "Canzoniere" di Francesco Petrarca

(testo pubblicato, con il titolo "Il cantar che ne l'anima si sente". Petrarca fra tempo ed eternità, come prefazione a Francesco Petrarca, Canzoniere, Barbera, Siena 2007).

Resterebbe da accertare se, essendo irripetibili la poesia e i suoi  modi, risulti motivata e motivabile, effettiva e non vacua, la ripercussione in noi di quelle voci: dico in noi lettori.

                                                   Vittorio Sereni, Petrarca, nella sua finzione la sua verità

Forse avevano ragione i Romantici e i Decadenti quando affermavano che la più autentica e rivelatrice lettura della poesia deve essere essa stessa poesia, che il giudizio sull'arte deve essere esso stesso un'opera d'arte, e che le pagine di critica e di estetica devono infine divenire, a loro volta, «pagine di poesia», non irrigidirsi nello schematismo delle analisi e delle definizioni, ma sciogliersi e risolversi nell'alone variopinto e fluente delle analogie, delle metafore, dei simboli, delle evocazioni. 

E, allora, proprio dai poeti, oltre e più che dagli studiosi e dai “professionisti della letteratura”, potranno giungerci illuminazioni, prospettive e chiavi di lettura tali da  avvicinare a noi, alla nostra sensibilità fine ed irrequieta di moderni, il poeta e l'intellettuale Petrarca, che si colloca emblematicamente, come scrive egli stesso, «in confinio duorum populorum (...) ac simul ante retroque prospiciens» (Rerum memorandarum libri, I, 19), sul confine fra due popoli, intento a guardare, nello stesso tempo, da una parte e dall'altra, al passato e al futuro, ammirando le glorie dell'uno e intravedendo nell'altro, pur se  non senza difficoltà, i semi di una possibile  rinascita culturale e civile. 

Petrarca si pone sullo spartiacque e sul discrimine fra Medioevo e Umanesimo, raccogliendo da un lato le tensioni e i messaggi più vividi e duraturi del primo e prefigurando, dall'altro, quell'assiduo amore per la parola dell'antico (còlta nei suoi valori propri, autonomi, incondizionati, e perciò immortalii) che pervase ed animò il secondo. 

Mario Luzi caratterizzava Petrarca, in modo eminente, come “poeta del Limbo”, perennemente “sospeso” fra il tempo e l'eterno, la terra e il cielo, l'amore umano con i suoi turbamenti e le sue angosce e la serena contemplazione – sulla scia del suo ideale maestro Agostino  – della quiete celeste e delle verità divine, ma proprio per questo perlopiù avulso dal reale e dalla storia, immerso ed avvolto in una sublime luce che brilla e trema «nell'al di là del tempo»: «Dalla prospettiva un'immagine netta cade che rifluisce nell'indistinto e nel vago della vita anteriore» (L'Inferno e il Limbo). 

Già secondo Ungaretti (che anche da poeta, in Memoria di Ofelia d'Alba, ridestava, al pari di Petrarca, incorporee e stilizzate essenze verbali, «emblemi eterni, nomi, evocazioni pure»), nell'emblematico verso «et m'è rimasa nel pensier la luce» Laura «gli è apparsa, e subito è anche ricordo, è anche passato, luce che già gli appare anche dall'assenza, e, assente, lo fa smaniare, e incantarsi, e smaniare» (Il poeta dell'oblio). 

Del resto, già Francesco De Sanctis (un critico, peraltro, nel complesso piuttosto lontano, con il suo tutto ottocentesco moralismo risorgimentale, dalla sensibilità e dallo spirito del moderno) poteva notare che «quella melodia che sentite nei suoi versi, risonava già nell'anima; quei lumi, quello splendore, quella grazia (...) è un riflesso della luce interiore».   

E, in un saggio del 1948, Luigi Russo – critico e pensatore del tutto alieno da ogni forma di sterile ed incantato estetismo –  parlava, a proposito del nostro poeta, di una «filosofia da Limbo, che non rinnega le antiche credenze medievali, e nemmeno afferma la fede mondana dell'uomo, tutto calato su questa terra», e faceva consistere proprio in questo carattere fluttuante, esitante, irrisolto, la vera modernità di Petrarca.  

Ma non c'è, forse (a riprova di una caratteristica attitudine di poeta-critico in cui le due sfere della coscienza letteraria non possono in alcun modo essere distinte), miglior commento che quello racchiuso nei versi ungarettiani di Segreto del poeta, nella Terra promessa: «E nel silenzio restituendo va, / A gesti tuoi terreni / Talmente amati che immortali parvero, / Luce». Ancora quel testo, nei versi iniziali, illumina mirabilmente la percezione (che Petrarca aveva ereditato da Seneca) del tempo che fluisce e cola incessantemente, istante dopo istante, e che l'uomo e l'intellettuale devono saper mettere a frutto nel modo più profondo, tenendo lo sguardo interiore costantemente rivolto all'eternità: «D'attimo in attimo, non ore vane; / Ma tempo cui il mio palpito trasmetto / Come m'aggrada, senza mai distrarmene». 

Già alla fine dell'Ottocento, gli esteti e i simbolisti italiani, da Angelo Conti (di cui andrà menzionata una squisita, e troppo presto dimenticata, Introduzione a uno studio sul Petrarca, influenzata peraltro dal Quinet delle Révolutions d'Italie) a Gabriele D'Annunzio, avevano notato che nel Canzoniere risuonava una musica profonda, sepolta, quasi arcana e metafisica: «imprevedute significazioni», scriveva D'Annunzio (che più tardi, peraltro, accuserà il Petrarca, poeta rarefatto e idealizzante, di mancare dell'«amor sensuale della parola», della capacità di rendere in modo intenso ed efficace l'esperienza, così schiettamente dannunziana, dei piaceri più cerebrali e raffinati), sorgevano «da quella musica infinita in cui i simboli petrarcheschi perdon sovente i precisi contorni e si dilatano oltre i limiti della parola». La lettura wagneriana e simbolista della petrarchesca “musica infinita” sembra prefigurare quella ermetica di Petrarca come poeta del limbo, dell'evasione, dell'astrazione, del puro suono. 

Per converso, nel secondo Novecento, un poeta d'avanguardia come Antonio Porta svelava la natura sorprendentemente polifonica, multiforme, sfaccettata, che poteva nascondersi sotto la superficie limpida, levigata e traslucida del canto petrarchesco. 

E Andrea Zanzotto, per parte sua, ha posto in luce come il poeta si muova, abilmente e non senza compromessi (quasi, si direbbe, sotto il segno della “dissimulazione onesta” che sarà teorizzata da Torquato Accetto), «fra il Palazzo e la Cameretta», fra la sfera tumultuosa ed irta della politica, della storia, della vita pubblica, con le loro esigenze ineludibili e i loro condizionamenti non facilmente aggirabili, e, dall'altro lato, il cubiculum, la cella, il ritiro, il nascondiglio, sede tanto dell'amato otium, delle ore vitali e preziose di studio raccolto e di assidua meditazione, quanto dei tormenti amorosi da cui l'anima e lo spirito – pur esasperati fino a lambire più volte, contro ogni etica cristiana, il pensiero del suicidio – non sanno, o non vogliono, liberarsi, e che del resto sono, paradossalmente, alimento indispensabile ed insostituibile dello stesso discorso poetico – quasi, per così dire, la linfa dolente e stentata che irrora e nutre l'alloro dell'amore, della poesia e della gloria.

Vittorio Sereni, poi, sentiva, nella pronuncia apparentemente così armoniosa, composta, pacata, rasserenata, del Canzoniere, «il positivo e il negativo e viceversa, il canto e il controcanto, l'accendersi e lo scolorare, la vampa e la sua cenere». 

Nel complesso, insomma, questi lettori d'eccezione del secondo Novecento smentiscono, o almeno attenuano e sfumano, la canonica distinzione (già presente nelle pagine saggistiche di Foscolo e di De Sanctis, e resa sistematica, se non addirittura un po' schematica, da Gianfranco Contini) fra il “pluristilismo” e il “plurilinguismo”, l'inesauribile ed onnicomprensiva molteplicità di toni, registri, modi espressivi, propria della Commedia e il “monostilismo”, il “monolinguismo” che invece contrassegnerebbero, univocamente, Petrarca. 

Quest'ultimo (quasi a volersi difendere in anticipo dagli irrigidimenti, dalle etichette, dalle categoriche schematizzazioni che minacciano ogni discorso poetico ricco e complesso) rivendica per sé un  «vario stile», una varia unitas o una discordia concors di temi, sfumature, stati d'animo, anche di registri stilistici e forme espressive; e dichiara, in modo per certi versi enigmatico, di muoversi (nelle opere latine, ma di riflesso anche in quelle volgari) «fra lo stil de' moderni e 'l sermon prisco», all'interno di una potente e nuova sintesi di classicità e modernità, eredità dell'antico e consapevole continuità rispetto alla tradizione romanza, dai trovatori provenzali agli stilnovisti. 

Il suo stile (come si legge nelle Familiares, vasta raccolta di lettere latine ispirata a quel modello ciceroniano che proprio Petrarca aveva contribuito a riportare alla luce) vuole essere «unus conflatus ex pluribus» (Familiares, I, 8, 5): uno, ma formato e plasmato da molti, tale insomma da raccogliere e fondere in sé, pur nella sua nitida e netta identità, molteplici modelli, antecedenti, esperienze. 

In modo non molto diverso Dante, giunto al culmine del suo viaggio paradisiaco, vedeva (pur se in un'ottica di più vasto respiro, teologica e metafisica) «sustanze e accidenti e lor costume / quasi conflati insieme», tutti i diversi aspetti, le diverse sfumature, i diversi gradi del reale, conglobati e fusi nel Libro infinito ed eterno della Divinità. 

In entrambi i casi, la parola poetica tende a collimare e congiungersi con la Parola divina, il libro terreno con quello ultraterreno (anche se in Petrarca paiono prevalere, forse, la dimensione e l'abilità umane dell'artefice letterario, allo stesso modo che nel petrarchesco Triumphus Eternitatis, a differenza di quanto accade nel Paradiso, la somma gloria spetterà, più che a Dio, alla sublime e pura Immagine di Laura, della donna amata ormai riscattata dalla terra oscura e dalla greve pietra che ne hanno velato ed oppresso, quaggiù, la bellezza). 

Come che sia, la stessa esperienza biografica del poeta, costellata di viaggi, di occasioni, di incontri, sembra improntata a quella varia e difforme unità, a quella concorde polifonia che caratterizza e modella, fra latino e volgare, l'unitario ed  indissolubile complesso delle sue opere. 

Nato ad Arezzo nel 1304 da ser Petracco, un influente notaio esiliato, al pari di Dante, dai Guelfi neri (e proprio in una sorta di convention di fuoriusciti fiorentini, a Pisa o a Genova, come testimonia una emozionante pagina delle Familiares, un Petrarca ancora bambino ebbe modo di intravedere il poeta della Commedia, la quale rappresenterà, per lui, un antecedente impegnativo e un arduo termine di confronto nell'esercizio della poesia in volgare), avviato dapprima agli studi giuridici, poi abbandonati in favore delle humanae litterae per via dello sdegnoso rifiuto di «vender parolette, anzi menzogne», di asservire e prostituire la purezza del linguaggio e del dire a mere finalità utilitaristiche, Petrarca visse, a partire dai primi anni Venti del secolo, negli spazi vasti ed animati della cultura europea, fra Bologna (ove ancora aleggiava, sulle orme del Guinicelli, la grande aura della poesia cosiddetta stilnovista), Avignone (sede della curia pontificia, peraltro ormai asservita, come già Dante lamentava, ai sovrani francesi, e decisamente mondana e corrotta) e Padova, teatro di una grande stagione preumanistica, incentrata soprattutto sulla riscoperta del Seneca tragico, e della quale lo stesso Dante delle Egloge (a tratti emulato dal Petrarca del Bucolicum carmen) era stato forse partecipe.                 

Ma il 6 Aprile del 1327 (il miticamente trasfigurato «dì sesto d'Aprile» che, avvolto da un alone pasquale, rituale, sacrale, e forse intriso di simbologie cabalistiche, numerologiche, quasi esoteriche, tornerà più volte nella sua opera) egli incontrò, ad Avignone, l'enigmatica Laura. 

Secondo le ingegnose elucubrazioni aritmetiche di Wilhelm Potters, ella non sarebbe nient'altro che un “Pi greco”, null'altro che una rarefatta ed astratta entità concettuale, sospesa nel puro e trasparente reame delle realtà mentali, più che una creatura concreta e corporea. 

Laura, tuttavia (che viene più volte descritta con precisione nella sua bellezza, nel suo decoro, nella sua pacata eleganza di portamento e di gesti) può forse essere identificata con una Laura de Noves, maritata con un rampollo della famiglia De Sade, giovane e valoroso, ma geloso e violento. Laura, ad ogni modo, non ricambiò mai i sentimenti del poeta, salvo concedergli di tanto in tanto di nutrire qualche vaga speranza, che rendeva ancor più amare le sempre rinnovate delusioni. 

Le scarne ed incerte notizie in nostro possesso immergono la donna eletta in un raffinato e signorile ambiente di corte, nel quale non si era esaurita l'eco della concezione provenzale e trobadorica, che (come illustrava Denis de Rougemont in L'amour et l'Occident) avvolgeva l'anima amante, la donna prescelta e l'intero creato nell'unico e vasto grembo di un amore universale, assoluto, celeste, di una forza vitale perpetua, senza vincoli né limiti.

Perduto è, per noi, il ritratto che di Laura dipinse Simone Martini; nel quale, del resto, come Petrarca stesso ci dice, era rappresentata non tanto la Laura reale e concreta, quanto il suo modello puro e ideale, contemplato nell'Iperuranio, nel “cielo al di sopra del cielo”, con gli occhi dell'intelletto e dell'anima, e che le linee e i pigmenti sapevano schermare e proteggere dagli assalti della caducità, dai mutamenti e dagli oltraggi del tempo.

Ad ogni modo, attraverso una vasta e fitta rete di echi allusivi, fonici, anagrammatici (su cui ha di recente indagato, fra gli altri, Jean Starobinski), Laura/Laurea è costantemente associata da un lato al lauro, all'alloro, simbolo della poesia e della gloria (quel lauro che, come già Dante lamentava, da tempo ormai più non si coglieva «per trïunfare Cesare o poeta»), dall'altro all'aura, al soffio vitale e vivificante, all'afflato creatore, allo spirito e all'anima universali che permeano l'universo. 

Ci si potrebbe quasi richiamare alla ruah, al «soffio di sottile silenzio» di cui parla, sulla scorta del profeta Isaia, la mistica ebraica, o, più da vicino, al «divinus spiritus», emanazione od effluvio dell'anima universale, il quale invade i poeti secondo il Cicerone della Pro Archia, orazione riscoperta da Petrarca stesso e da lui citata nella Collatio Laureationis, il discorso pronunciato nel 1341, in Campidoglio, durante la cerimonia della sua incoronazione poetica. 

Non si ha, peraltro, nel cattolico Petrarca, nessuna tentazione panteistica, nessuna tendenza, cioè, ad identificare Dio e Natura (Deus sive Natura, secondo la celebre formula di Spinoza e di Giordano Bruno) senza alcuna distinzione di grado, di qualità, di bontà e di perfezione; questo nonostante la suggestione che su di lui, come del resto su Dante, poté esercitare la dottrina platonica (enunciata nel Timeo) dell'Anima del Mondo, dell''universale spirito vitale.     

Secondo Agostino, i phantasmata, le impressioni intense, ma forse ingannevoli, e potenzialmente peccaminose, della percezione sensoriale, sono gradi intermedi, ombre o riflessi a partire dai quali, attraverso la mediazione intellettuale e concettuale delle species spirituales, l'anima e la mente possono accostarsi a Dio pur restando, fatalmente ed irrimediabilmente, ancorate alla limitatezza e alla caducità della condizione terrena. 

L'amore umano si avvicina al regno celeste restando umano; le passioni terrene si purificano e si nobilitano, pur restando in certa misura ancora legate alla terra. 

Ma l'amore è anche fonte di sofferenza. Esso può fare, ad un tempo (come il poeta rimarca con le sue caratteristiche antitesi), gioire e piangere, ardere e raggelarsi, adagiarsi nella pace della contemplazione pura così come tormentarsi tra le feroci spire di un desiderio ostinato ed incolmabile. 

E, allora, nel cosiddetto “decennio valchiusano” (all'incirca fra il 1337 e il 1349), il poeta cercò e trovò pace e riposo a Vaucluse, una valle il cui nome stesso evoca l'idea dell'isolamento, della quiete, della protezione, del ritiro, della lontananza da ogni turbamento sentimentale, così come storico e politico. 

Come sempre, la poesia fu balsamo e rimedio di quelle stesse piaghe amorose che esprimeva, e di cui si nutriva; e Laura-alloro rappresentava (quasi come una sorta di vichiano “universale fantastico”) l'assoluto dell'amore come sofferenza e quello – all'apparenza così antitetico – dell'eterna, olimpica ed inalterabile gloria poetica.  

Ma, nei primi anni Cinquanta del secolo (dopo che la peste nera del 1348, la stessa da cui fuggirono, fra la verde pace e i nitidi lavacri dei colli fiorentini, i giovani del Decameron, l'aveva privato tanto di Laura, quanto di cari amici, come il poeta Sennuccio del Bene e il cardinale Giacomo Colonna, che l'aveva ammirato e protetto, pur con gli screzi provocati dall'avvicinamento di Petrarca all'utopico ed infelice disegno repubblicano di Cola di Rienzo), ecco il poeta di nuovo a Padova, e poi ad Avignone, a riprova del suo oscillare fra Palazzo e cubiculum, fra la vastità della dimensione europea e la riparata pace del ripiegamento interiore. 

Nel 1354, Petrarca passò al servizio di Giovanni Visconti, signore di Milano, pur riuscendo (come tiene a sottolineare nelle Seniles) a salvaguardare, con il consueto abile equilibrio e le solite accorte mediazioni, quell'otium, quella libertà di studi e di pensiero, che gli erano vitali come l'aria. 

Come Petrarca stesso scriveva, rassicurandolo, a Boccaccio, egli era «animo liber» (Sen., VI, 2), libero nell'interiorità, nell'ideale, nello spirito, negli studi, per quanto il corpo e la vita materiale dovessero inevitabilmente soggiacere, entro certi limiti, alla forza e ai condizionamenti delle circostanze esterne. Sotto questo aspetto, Petrarca mostrava di aver recepito ed interiorizzato, con abilità, sottigliezza, forse anche con una certa dose di doppiezza e di opportunismo, la fertile lezione offerta da Seneca nel De clementia

Per quanto la tirannide fosse da aborrire, era comunque meglio «pati hominem quam tyrannum populum» – tollerare di essere sottomessi ad un grande uomo, piuttosto che al volgo indistinto ed orbo. In tal senso si è potuto vedere, in Petrarca, il prototipo dell'intellettuale di corte (con la sua ambigua dignità, la sua leggiadra forza, la sua signorile sottomissione, la sua abile, accorta, simulata e dissimulata, deferenza) che dominerà le scene, sfarzose ma non prive di ombre, del Rinascimento europeo. 

Ma, in pari tempo, si è potuto scorgere nella sua figura il prototipo dell'”umanista civile”, nel cui pensiero l'amore per la cultura, la storia, la parola non può mai andare disgiunto da una profonda ed essenziale esigenza di pace e di libertà. Non a caso, la guerra fra Genova e Venezia lo vede, in qualità di di mediatore e ambasciatore presso il doge Andrea Dandolo, esortare i potenti alla moderazione, all'equilibrio, alla pietas, in nome, tra l'altro, di una già definita e matura consapevolezza dell'identità italiana. 

Negli ultimi anni, il poeta trovò ad Arquà, sui Colli Euganei, l'estremo rifugio, accudito da una figlia naturale e da una nipotina (lui che pure, non senza un certo opportunismo, aveva preso gli ordini religiosi). A un passo dall'Europa, nel cuore dei sommovimenti e delle dinamiche che preparavano l'età moderna, l'era delle grandi monarchie nazionali (dalla cui rete e dal cui circuito l'Italia sarebbe stata per lungo tempo ancora esclusa), il poeta dimorava protetto, potremmo dire con Montale, dalla «cellula di miele» degli studi, degli affetti, delle memorie, e insieme circonfuso, ma non soffocato, dal vasto e risonante alone della fama. 

La morte, nel 1374, l'avrebbe colto, secondo la tradizione, proprio mentre era intento al sacro e prediletto (pur se sempre più gravoso) cimento della scrittura, da cui gli derivava, come si legge nelle Familiares (XIII, 7), un'«aspra voluttà», un piacere non disgiunto però da impegno, sforzo, tensione, se non proprio sofferenza, al quale comunque non sapeva rinunciare. 

E, pur se con l'enfasi e i vapori di un sentimentalismo preromantico che rischia di destare, sulle labbra del lettore d'oggi, un ironico sorriso, il Foscolo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis poteva immaginare il vecchio poeta che, nella verde pace immota dei colli, «cercava con gli occhi lacrimosi la beltà immortale di Laura», lui «che avea in sé tanta parte di spirito celeste».

«Mentre il mio intelletto»  – diceva Foscolo per bocca del suo alter ego – «gli sacrifica come a nume, il mio cuore lo invoca padre amico consolatore». Al di là dell'enfasi, della retorica e delle iperboli, è però vero che la lettura dei testi più alti di Petrarca coinvolge l'intelletto e insieme il sentimento, il senso estetico e nel contempo l'affettività, la coscienza culturale e letteraria e, parimenti, quella spirituale ed umana. 

Si può dire che, fra il versante latino e quello volgare dell'opera di Petrarca, intercorra una vivace, e intimamente contraddittoria, tensione dialettica non diversa da quella che, nel suo spirito e nel suo mondo morale, contrappone il tumulto dei sentimenti al composto, sovrano equilibrio della forma poetica, e la pressione delle circostanze storiche e sociali al riposato e sovrastorico ripiegamento interiore  dell'intellettuale e dell'uomo di studi. 

Peraltro, sulla scia dei grandi maestri (Orazio, Seneca, Agostino su tutti), anche la scrittura latina è, al pari di quella volgare, insidiata, solcata e pervasa dal precipizio e dalla vertigine della fuga temporum, dall'ombra vasta ed avvolgente che si allunga, come per fagocitarlo, sul «viver ch'è un correre alla morte», come scriveva già Dante lettore di Agostino. 

«Cras istud quod suspensa, tenet et inertes facit, quodque quasi venturum exspectatur, iam praeteriit, nullus enim, praeter primum, dies non diei alterius cras fuerit» (Familiares, XXIII, 2, 19). 

Sulla scorta di Persio, Petrarca immerge in un inarrestabile fluire (in una «forma fluens», una forma che trascorre e che muta, per usare la splendida metafora di Duns Scoto commentatore di Aristotele) di istanti, ore, giorni la perpetua ed irrisolta sospensione del Limbo dantesco (quella che Luzi, nel Novecento, chiamerà la «vicissitudine sospesa».). 

Petrarca, dunque, rappresenta l'incessante, inarrestabile avanzare del tempo, che sempre divora se stesso mutando l'attimo presente in passato e, del pari, proietta senza sosta la coscienza ansiosa ed affamata di vita verso un futuro sempre incombente. «Codesto domani che ci tiene sospesi e ci rende inerti, e che si aspetta come cosa futura, è già passato; poiché ogni giorno, salvo il primo, è il domani di ieri». 

Come ammonivano già Orazio e Seneca, tutto scorre, non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, e moriamo, un poco, ogni giorno. «Tutto il tempo» – dirà Eliot discepolo di Bergson – «è irredimibile». La percezione temporale che la prosa latina analizza, notomizza, scompone e ricompone, quasi fermandola, all'atto stesso del suo divenire e del suo manifestarsi, nelle forme codificate e levigate di una lingua millenaria, veneranda, perfetta, qual è quella dell'antica Roma, trova invece, nelle forme più sciolte e vive, oscillanti e mutevoli, della scrittura volgare, un'espressione più rapida, incalzante, sostenuta, connaturata al respiro più fresco, animato, moderno, dell'endecasillabo. «Il tempo fugge, et non si arresta un'ora, / et la morte vien dietro a gran giornate». 

D'altro canto, come si desume da un passo (Familiares, I, 1, 6-7) dell'epistolario e da alcune postille autografe, su cui studi recenti (da Feo a Santagata, da Fedi ad Ariani) hanno richiamato l'attenzione, Petrarca era erroneamente convinto che già gli antichi Greci e Romani avessero praticato, accanto agli austeri, rigidi ed immutabili metri dell'epos, anche il rithmicum carmen, la poesia accentuativa, più musicale, sciolta, cantabile, consona alla vena popolare. 

Così, in uno spirito che sembra quasi anticipare il regolismo e l'approccio normativo e classificatorio che contraddistinguono le poetiche rinascimentali, la stessa poesia volgare (pur ostentatamente posta al di sotto della grande epica latina dell'Africa, anche per esorcizzare l'angoscioso confronto con l'inarrivabile precedente – con lo «spettro nero», diceva De Sanctis – incarnato da Dante) trovava una sua nobiltà, una sua giustificazione, una sua collocazione all'interno del sistema e dell'ordinamento dei generi letterari.

Sarà il Bembo, nelle Prose della volgar lingua, ad attribuire definitivamente a Petrarca il ruolo di supremo modello di perfezione stilistica e formale, per la sua capacità di contemperare, meglio degli Stilnovisti e di Dante, «gravità» e «piacevolezza», «maestà» e «dolcezza», solennità e levità, l'espressione dotta ed elaborata da un lato e, dall'altro, l'indole aggraziata, amabile, melodiosa del dettato poetico.       

Del resto, già Dante (pur sostenendo, con paradosso retorico, nel De vulgari eloquentia la superiorità del volgare, nel Convivio quella del latino) ascriveva, almeno implicitamente, il volgare al dominio e all'àmbito della mutevolezza, del divenire, del continuo e cangiante fluire (paragonando, sulla scorta dell'Ars poetica di Orazio, le parole alle foglie che prima verdeggiano, poi muoiono, cadono, si corrompono e ancora, ciclicamente, rinascono), il latino, invece, alla sfera perenne, imperturbata, compiuta (ma nello stesso tempo artificiale, immobile, fredda, distante dal moto e dal mutamento vitali e naturali), propria della «grammatica» fissata per sempre, propria di ciò che è (in modo quasi parmenideo) stabile e sempre uguale a se stesso (mi riferisco a Conv. I, 5 e 12 e De vulg. el., I, 1-2, pagine del resto assai note).  

Come si è visto, l'anima di Petrarca è attraversata da un lacerante discidium, da un “segreto conflitto” di pensieri contrastanti, di stati d'animo discordi che trovano, però, un equilibrio e un'armonia – per quanto forse illusori – solo nella forma letteraria, nella sapiente architettura delle antitesi e dei parallelismi che tramano e sorreggono, come  limpide arcate e aeree travature, il suo dettato poetico. 

Quest'ultimo, proprio per la sua contrastata e chiaroscurale varietà, è sì in massimo grado fluido, limpido, puro, soave, ma (contrariamente a quanto è spesso stato lamentato da lettori anche illustri) non certo monotono, ripetitivo, monocorde, catilenante (basti qui citare, per tutti, sulla scia di Leopardi, Zib. 4249, il malevolo parere del conte di Chesterfield, al quale Petrarca appariva un «sing-song love-sick Poet», un «cantilenante Poeta malato d'amore»), se non, forse, nel senso di una “sublime monotonia”, di un'omogeneità cangiante, di una suprema coerenza che non elimina la ricchezza, la multiformità, la molteplicità delle sfaccettature e delle risonanze. 

In tal senso, per questa sua vocazione all'unità dei contrari, alla coincidentia oppositorum, Petrarca è stato giustamente considerato un ideale discepolo di Eraclito. 

Il filosofo greco aveva illuminato e sondato il perenne fluire e mutare delle cose e degli esseri, la perpetua ed imprevedibile mutevolezza del destino, le profondità abissali dell'anima umana e, per l'appunto, l'idea e la possibilità di una fusione e di un'armonia degli opposti racchiuse nell'essere divino e nell'eterno Logos, che il preumanesimo petrarchesco identifica con il supremo valore della Parola poetica. 

Non è casuale che il poeta, nel terzo libro delle Invective contra medicum, ricordi (in polemica con gli eterni, numerosi ed agguerriti, nemici della poesia) come proprio ad Eraclito fosse stata rimproverata, per antonomasia, una obscuritas che, a parere di Petrarca, altro non è, in verità, se non profonda e molteplice (e, dunque, inevitabilmente impegnativa e difficile) ricchezza di contenuti, valori, significati, messaggi. 

Questa solo apparente oscurità, come insegnavano già Agostino ed Ambrogio, contraddistingue, in eguale misura, le Sacre Scritture e gli autori divinamente ispirati, i quali cercano di piegare e ridurre entro i limiti e i vincoli – inevitabilmente angusti e riduttivi – della parola umana una verità trascendente, un messaggio divino ed eterno.

Dante, giunto al culmine dell'”ultima ascesa”, del viaggio paradisiaco, doveva dichiararsi vinto, accettare l'insuperabile impossibilità di esprimere appieno la sconfinata (e insieme tutta raccolta, “conflata” in un sol punto del tempo e della percezione) visione di Dio. Analogamente, come ha notato Adelia Noferi analizzando una pagina delle Seniles (IV, 5), anche in Petrarca la Parola assoluta e suprema, in cui «cuncta conveniunt», in cui convergono e si fondono tutti i tempi e i luoghi, i pensieri e i conflitti, tutti i gradi, i modi e le possibilità dell'essere, finisce forse per risolversi, alla fine, in una sorta di quasi-silenzio, di ”rumore bianco”, di lievissimo fruscio che oscilla e trema, sospeso, sul confine del vuoto, del nulla, dell'abisso – di quegli «infiniti abissi» dei quali, dice il poeta, ogni istante, ogni ricordo e ogni parola non sono che «brevi stille», gocce infintesimali e precarie, subito inghiottite e cancellate da una forza prevaricante ed oscura.

La parola poetica – per riprendere e proseguire l'imagery dello stesso Petrarca – è dunque simile, precisamente, alla lieve ed esile aura che spira e sussurra fra le «verdi fronde» (Canz., CXCVI), o alle parole rapite e dissolte dal vento (Canz. CCLXVII) come la dantesca «sentenza di Sibilla», scritta su sottili ed effimere «foglie lievi» (Par., XXXIII, 64-66).

Il linguaggio, la parola umana, per quanto protesi ed innalzati fino al loro grado più alto e sublime, restano, comunque, incommensurabilmente lontani dall'infinità dell'essenza divina.  

Quasi come Nicola Cusano, filosofo del Rinascimento (che, tra l'altro, rimaneggerà un dialogo del petrarchesco De remediis utriusque fortunae, e la cui opera De vera sapientia fu più volte stampata come opera di Petrarca), il poeta persegue una coincidentia oppositorum, un'assoluta unità e fusione degli opposti in una superiore sfera ontologica, e, insieme, esplora i rapporti sfaccettati e compositi fra tempo ed eternità. E, come Cusano, anche Petrarca giunge fino alle soglie dell'ineffabile, dell'indicibile, dell'impensabile, e dunque dell'ultima afasia, del supremo e definitivo silenzio. 

Già l'Agostino del De Trinitate, del resto, rivelava che l'eterno Verbo divino, preesistente ad ogni parola umana, ad ogni espressione articolata e distesa nel divenire del tempo, è un «intimum verbum quod nullius linguae est», una parola primigenia e tacita che non appartiene a nessuna lingua particolare, pur animandole e plasmandole tutte con la sua forma a priori, il suo eterno nucleo di significato, il suo perpetuo e caldo soffio vivificante: un verbo «non umquam formatum», e ancora «sine voce», privo ancora di forma esteriore, di suono, di veste sensibile e fenomenica (De Trinitate, XV, 21, 25).

Non è un caso, poi, che Petrarca leggesse con passione Abelardo, il celebre teologo e dialettico legato ad Eloisa da un tragico amore.

Tanto nel Nosce te ipsum, quanto nel Sic et non, Abelardo metteva in luce (nel primo caso sul piano della morale, dei sentimenti, delle passioni, nel secondo su quello delle concezioni filosofiche e teologiche) gli aspetti contraddittori e contrastanti del pensiero e dell'esperienza umani.

Ma – si legge nel Prologo del Sic et non – l'apparente contraddittorietà delle proposizioni teologiche nasce dal fatto che in esse si esprimono – pur se in forma velata – verità e concetti divini, ultraterreni, che sovrastano ed oltrepassano la logica umana, fondata sulla non contraddizione. 

Ma in Abelardo, così come in Petrarca, il linguaggio, il sermo, l'oratio, insomma il tessuto delle parole interconnesse secondo le leggi del pensiero, dell'armonia, dell'arte retorica, sono, in certo modo, un riflesso (per quanto indiretto, mediato dalle realtà sensibili e dalla loro percezione, rappresentazione e rievocazione) dei modelli ideali racchiusi in mente Dei, nell'infinito ed eterno intelletto divino. 

I “generi”, le “specie”, insomma le categorie concettuali  – corporee ed incorporee, astratte e concrete ad un tempo – a cui gli esseri possono venir ricondotti, risiedono sì nelle realtà sensibili, «in sensibilibus», ma persistono «praeter sensualitatem», oltre i sensi e la percezione, oltre il piano mero ed immediato della corporeità, anche dopo che, come Laura, gli oggetti designati dai nomi sono perempti, cancellati, morti, svaniti (Glossae super Porphyrium, Logica ingredientibus, 1, 18). 

Allo stesso modo, Laura  è tornata al cielo ideale da cui era disceso il suo etereo modello, «né di sé m'ha lasciato altro che 'l nome»: nient'altro che «Laura-l'aura», quel suono dolce, suadente, incessantemente amato e venerato e celebrato, ma incorporeo, inafferrabile, in definitiva assente, sospeso fra l'essere e il non essere, fra la realtà e la memoria – simile, direbbe Virgilio, ai venti lievi ed agli alati sogni, come le ombre dei morti. 

Come osservava, con uno squisito gusto simbolista ed orfico, Francesco Flora nella sua monumentale, e troppo dimenticata, Storia della letteratura italiana, «Laura si è trasformata in parola; nulla più dolce a questo sublime Narciso dello specchio auditivo che risentir tutte le cose, e primo l'amor di Laura, nel trascorrente fluido della parola. (...) Dietro ogni sembianza si svela una vita più profonda e lontana che l'armonia stessa della prima immagine velava». La sfera dei suoni e quella delle immagini si intersecano l'una con l'altra, fino a fondersi e confondersi; e l'una e l'altra sono prese e frante in un gioco di specchi, echi, riflessi, che rinvia sempre ad uno spazio e ad un dominio ulteriori, e forse illusori, in cui risiede e si cela il significato autentico (ma in sé, forse, irraggiungibile, per sempre fasciato dal nudo mistero della sua gratuità) dell'esistenza  e del sentimento.   

L'«aura soave», la «dolce aura» è, precisamente, «quaedam mensura aeris strepentis et sonantis», una sorta di misura, di scansione temporale dell'aria che freme e risuona (Abelardo, Glossae, Logica, II, 6, De quantitate). 

Come scriveva Boezio nel De musica, la silenziosa e latente armonia che avverte chiunque discenda in se stesso, nelle profondità dell'anima, è una sorta di «incorporea rationis vivacitas», una incorporea vivacità di spirito mescolata al corpo, la quale congiunge, bilancia e contempera, con una misurata «coaptatio», un accorto «adattamento», la ragione e l'irrazionalità, poli opposti della stessa sostanza spirituale, traendone un accordo misurato e sapiente. 

Così «in fletibus luctus ipsos modulantur dolentes»: «i sofferenti modulano nel pianto i loro stessi lamenti». Così Francesco – simile in ciò ad un pastore di Virgilio, o di Sannazaro – colma le valli dei suoi insistiti gemiti, e fa echeggiare del suo pianto le selve. 

Nelle parole, come nei sentimenti, Petrarca sa scoprire e portare alla luce la «nascosta armonia», la harmoníe aphanés, di Eraclito. E – si noti – la stessa conciliazione degli opposti, la stessa unità ed armonia nel molteplice sono estese e trasposte dal piano letterario e filosofico anche a quello morale e politico. 

Da un lato, nelle opere latine come nel Canzoniere, l'Avignone degli ecclesiastici corrotti ricorda – con toni che fanno pensare all'Agostino del De Civitate Dei, se non addirittura al francescano eretico Gioacchino da Fiore, collocato da Dante fra i beati – la confusione informe e il peccaminoso groviglio dell'antica Babilonia (Sine nomine, 10 e 18). 

Dall'altro lato, la gloria imperiale, l'antico nome di Roma, che Cola pareva illusoriamente aver ridestato, rappresentano invece un «termine fisso d'eterno consiglio», una unità eterna, perenne ed imperturbabile, essendo emanazione diretta e provvidenziale del volere divino. «Stabile fixumque semper imperium est»; «Dei imperium unum est, unde» – quasi per una neoplatonica emanazione – «imperia cuncta descendunt» (Sine nomine, 4; Variae, 48, Ad Nicolaum tribunum Urbis). 

«Tutte le cose che distano nel tempo in questo mondo» – dirà Cusano nel De possest – «in Dio sono presenti. E quelle che distano per diversità, in lui sono identiche». Dio è «al di sopra di ogni differenza, varietà, alterità, tempo, luogo e opposizione». 

Analogamente, alla fine dei Trionfi, nell'atmosfera ormai pacificata ed immota di uno sconfinato deserto, il tempo «non sarà più diviso a poco a poco, / ma tutto insieme, non più state o verno, / ma morto il tempo, e variato il loco». La “pienezza del tempo” si traduce nella sua cancellazione e nel suo superamento.

Eraclito, unito al Seneca delle Consolationes, ha insegnato a Petrarca ad accettare il bene come il male, la rara e fugace gioia come l'assiduo dolore, immergendoli e stemperandoli entrambi nella visione pacificatrice di una stessa eternità, e vedendoli come non più che labili ombre, non più che fuggitive maschere, che velano un significato ulteriore, superiore ed ancora oscuro, destinato a rivelarsi appieno solo alla fine dei tempi. 

«Sic laeta dolendis» – si legge nella seconda egloga del  Bucolicum carmen – «Alternat fortuna ferox! Eat ordine mundus / antiquo». «Così il destino feroce alterna gioie e dolori: proceda l'universo secondo l'ordine antico». La saggezza della poesia e della vita consiste nel riconoscere – come diceva Archiloco – il ritmo che domina gli eventi, l'armonia occulta, il misterioso ordine o l'imperscrutabile giustizia che scandiscono l'avvicendarsi – apparentemente impassibile o iniquo, capriccioso o crudele – del bene e del male, della gioia e del lamento.  

«Semper eternitatis me amore conflagrasse testis est michi curarum mearum mens conscia», dice il Secretum. L'”individualità infelice” percepisce – direbbe Heidegger – la propria “deiezione”, la propria “gettatezza”, la propria “orfanità”, insomma la propria dolorosa lontananza dalla pace originaria dell'immutabile e dell'eterno. Ma, nello stesso tempo, intravede o intuisce una dimensione ulteriore e più alta (per quanto ignota o dubbiosa), e anela a ricongiungervisi, lasciandosi alle spalle la realtà mobile, mutevole, incerta, fluxa, dell'esistenza terrena.     

La splendida lettera a Filippo vescovo di Cavaillon che apre il libro ventiquattresimo delle Familiares (e sulla quale è di recente tornato, fra gli altri, il Folena con un'acuta analisi) è incentrata proprio sulla «inextimabilis fuga temporum», sulla inarrestabile ed incontrollabile deriva e consunzione dell'esistenza umana. 

Già da ragazzo, Petrarca si isolava dal mondo, si rinchiudeva e si rifugiava «in arcem silentii», sconcertato e straniato egli stesso dalla sua «nova opinio», dalla straordinaria profondità della sua precoce saggezza e delle sue austere meditazioni. Ma ora, intorno al 1360, gli appare con chiarezza, come una luce nella nebbia, la vanità dei passati errori e delle speranze riposte nel futuro. 

Il picchiettio del calamo riverso sulla pagina bianca, in una delle sospese e raccolte pause della scrittura, evoca proprio l'inesorabile fluire, il vertiginoso precipitare degli istanti verso il buio dell'ultimo approdo, dell'estremo mistero. 

Ed emerge, allora (come più volte nel Canzoniere, fino al conclusivo, fiducioso abbandono all'eterno e al divino testimoniato dalla canzone alla Vergine), la consapevolezza senecana ed oraziana del cotidie morimur, di un'esistenza che, indipendentemente dalla sua durata, si consuma inesorabilmente in ogni istante, e non è che una ininterrotta e dispiegata anticipazione della morte, un continuo e pressante invito alla meditazione intorno al destino ultimo. 

«Continue morimur, ego dum hec scribo, tu dum leges, alii dum audient dumque non audient, ego quoque dum hec leges moriar, tu moreris dum hec scribo, ambo morimur, omnes morimur, semper morimur» (XXIV, 1, 27). «Senza posa moriamo, io mentre scrivo queste parole, tu mentre le leggerai, gli altri mentre le ascolteranno o non le ascolteranno; anch'io starò morendo mentre tu leggerai queste righe, tu morirai mentre io le scrivo, entrambi stiamo morendo, tutti morendo, sempre morendo». Si muore ogni giorno, perché in ogni istante la morte (sia essa imminente, o all'apparenza ancora lontana) diviene più prossima, e assume, davanti agli occhi dell'anima, contorni via via più distinti e minacciosi.

Come osserva Raffaele Cavalluzzi in un recente studio, l'assiduo ed aulico  «sogno umanistico» (che Petrarca in certo modo inaugura) di una perennità e di un'immortalità affidate alla parola da tramandare ai posteri non va mai disgiunto dal «segreto rovello del pensiero della morte». L'umanesimo della parola che egli dischiude, lasciandolo, come preziosa eredità, all'età moderna, è profondamente segnato, fin da questo suo chiaroscurale e contrastato albore, «dall'ombra della malinconia e dall'inesausto stupore esistenziale». 

Una thaumasìa, un aristotelico “stupore”, una sorta di sempre rinnovata “meraviglia” conoscitiva che nascono, forse, dal senso stesso della caducità, della transitorietà, e dunque del pregio fragile ed irripetibile, propri di ogni esistenza e di ogni esperienza umani; uno stupore che, come negli antichi sapienti, si fa (proprio perché si scopre e si avverte sempre insidiato dalla voragine del nulla, della dissoluzione e insieme dell'eterno, e cerca disperatamente, pur se, forse, in modo consapevolmente vano, di esorcizzarla)  inesauribile scaturigine di miti, favole, emblemi.   

Verrebbe spontaneo (se non rischiasse di suonare troppo azzardato, troppo radicalmente attualizzante) citare Heidegger, che non per nulla, in Essere e tempo, vedeva proprio in Seneca uno dei profeti della Cura, dell'Angoscia, dell'Essere-per-la-morte, o magari Paul Ricoeur, la sua “ermeneutica del Soggetto”, di un Soggetto solcato dalla temporalità, diviso tra “identità” e “medesimezza”, fra la sottesa permanenza e persistenza dell'idem (che nel caso di Petrarca potrà essere scorto  nell'assolutezza incrollabile dei valori propri di un umanesimo classico-cristiano di matrice stoica ed insieme agostiniana) e l'identità, invece, cangiante e sfumata di un soggetto che resta tale pur se immerso nel vivo flusso dei tempi e degli affetti, degli abbandoni e delle reminiscenze, della speranza e della disperazione. 

Per esprimere questa temporalità  fluente e insieme vorace, dolorosa ed inafferrabile ad un tempo, Petrarca arriva a forzare le forme e le modalità sintattiche del latino, facendo dipendere da “dum” tempi diversi dal presente. È come se la multiformità, la molteplicità del tempo (dei tempi) si insinuassero con forza nella scrittura e nella lingua, nelle loro strutture e nelle loro convenzioni, insidiandole, sollecitandole, straniandole infine. 

E, nel passo or ora citato, il tempo della mortalità, la temporalità umana ed esistenziale del fluire investono, invadono ed imbevono di sé anche il tempo della scrittura, quello della lettura e (con cerchi sempre più vasti che inevitabilmente si allargano, per poi stringersi intorno all'individualità esistenziale) l'umanità intera  in quanto tale, sia essa o meno destinata a recepire le parole del poeta. 

Il tempo, si leggeva anche nel Roman de la rose (quasi a conferma della prossimità e della continuità che legano, sotto il segno di alcuni grandi temi sapienziali, scrittura in latino e scrittura in volgare), «ne fine de traspasser, / que l'en ne puet neïs penser»: «non cessa mai di trascorrere / e non si può nemmeno pensare», perché nell'istante stesso in cui si cerca di concepirlo, di fissarlo nell'indugio della considerazione intellettuale e meditativa, esso è già passato. 

Il poeta, dunque, parla dal cuore di un'assenza, dal nucleo sostanziale di un vuoto e di un deserto. Il suo canto, sia o meno ascoltato, siano o meno raccolti  e recepiti le «rime sparse» e il «suono dei sospiri», apre e divarica, in ogni caso, la ferita di una lontananza, di una perdita, di uno “spossessamento” (il déssaissement di cui parlava Bataille a proposito di Baudelaire).. 

Non per nulla, è stato osservato più volte, già a partire dalla critica ottocentesca, che Laura è poeticamente più viva proprio nelle rime in morte, nei versi che la commemorano dopo la tragica dipartita. 

Laura è, infine, un'ombra, un enigma, un fantasma poetico; l'incarnazione, impalpabile e diafana, di un ideale estetico e culturale che si cala nella carne delle parole e dei ricordi senza perdere nulla della sua purezza, della sua separatezza, della sua intemporale aseità. 

«Non videtur satis triste principium», annotava il poeta in una delle fitte postille latine che orlano ed accompagnano la gestazione della sua opera, riferendosi all'incipit della prima stesura della canzone per la morte dell'amata: «l'esordio non sembra abbastanza patetico». 

Più tardi, quando al lutto amoroso si aggiunse quello amicale per la perdita di Sennuccio del Bene (la quale, peraltro, ispirandogli un riuscito sonetto, gli trasmise una rinnovata fiducia nelle proprie doti espressive), il poeta trovò la forza, la motivazione, la temperatura spirituale più consone per tornare sul suo testo e adeguare la forma alla sostanza, la parola al pensiero, il canto all'anima. 

Al di là o al di sopra della sua autenticità, della sua sincerità, della sua ardente realtà umana ed esistenziale, il dolore passava comunque (un po' come avverrà nel Leopardi di A  Silvia) attraverso il filtro e la mediazione di una sublimazione letteraria, e anzi si depurava, si giustificava, trovava un senso e un valore, proprio in funzione della poesia che da esso poteva trarre nutrimento. Come dirà Leopardi, l'opera del genio ha questo di straordinario, che anche nel momento dell'angoscia, del vuoto, della disperazione più radicale ed incolmabile, sa trasmettere all'animo grande e nobile la sconfinata e vivificante vibrazione della bellezza e del pensiero. E, più modernamente, si potrebbe ripetere con Melanie Klein che la forma artistica, con la sua compiutezza, la sua compostezza, il suo equilibrio, la sua pur commossa, turbata e tremante armonia, sa ricucire, anche se in modo forse illusorio, le lacerazioni e gli strappi del trauma e del lutto, della negazione e della perdita. 

Ma, al pari del Dante paradisiaco, Petrarca è capace di ascendere, con il suo pensiero poetante, dalla terra al cielo, all'eterno dal tempo. E l'eternità a cui, infine, la sua parola approda, e in cui il suo cammino culmina e si risolve, coincide con un valore insieme spirituale e culturale, si identifica con l'immortale eredità della cultura classica e, nel contempo, con la beatitudine celeste, con la divina visione concessa agli angeli e alle anime elette. 

Anche a questo riguardo, il poeta in volgare non è scindibile da quello in latino; anzi, è proprio nel respiro solenne, fermo e marmoreo degli esametri dell'Africa che il pensiero e la contemplazione dell'eternità trovano la loro espressione più sicura e più piena. 

Nei primi due libri del poema, pervasi dalla reminiscenza del Cicerone del Somnium Scipionis e del Boezio del De consolatione philosophiae, Petrarca immagina che Scipione ammonisca il figlio  a «sine tempore vivere», a «vivere senza tempo» o al di là del tempo, e ad «ardua scandere celi», a salire con le ali della mente fino alle erte sommità celesti, guardando con disprezzo, anziché con bramosia, alle conquiste e alle glorie terrene (II, 415 sgg.). 

Nell'epistola Posteritati, sorta di solenne ed emblematico testamento spirituale, il poeta dirà di avere sempre odiato la propria epoca, e sempre cercato, perciò, di «se animo inserere», di «inserirsi spiritualmente», in altre.

Il De vita solitaria, poi, scandisce le tappe di una mistica ascesa condotta fino al cielo, dove – in accordo con Platone ed Agostino – si trovano, racchiusi «in eadem Dei mente», nella mente stessa di Dio, i supremi ed eterni modelli ideali di ogni virtù (I, 4). 

In linea, poi, con Cicerone e con Seneca, e con la loro concezione platonizzante della filosofia come meditatio mortis, la più alta e pura beatitudine è fatta risiedere in una divina solitudine che avvicina, già in vita, l'uomo all'eterno, ponendolo al di là del tempo e della storia. 

Si deve vivere e morire per se stessi e, nel contempo, per Dio, e contemplare, filosoficamente, «omnia seque cum universitate transire», il trascorrere, il declinare e il disperdersi dell'universo e, nel contempo, di se stessi. 

Il sapiente deve –  come Petrarca scrive, citando Seneca, in Familiares, XII, 6  –  «vivere vita peracta», vivere come se fosse già vissuto, come se avesse già percorso e consumato la vita, e potesse contemplarla dalle altezze serene ed imperturbabili dell'eternità e della morte.  

Il tempo (scriveva Francesco di Meyronnes, un discepolo di Scoto) è «fluxus praesentialitatis rei temporalis ad Deum» (In II Sent., d. 14, q.11), il fluire di una serie assidua di istanti che – pur volando e precipitando inesorabilmente verso l'abisso della morte e dell'eternità – sono, in qualche modo, tutti simultaneamente compresenti all'infinito sguardo della provvidenza divina. Proprio nel momento stesso in cui, inarrestabilmente, muta, diviene, trascorre, si consuma, si avvia verso la nullificazione, il tempo tende a sfociare nell'oltretempo, nell'eternità, nell'assoluto. 

La morte, infatti, non è fine ma nuovo principio, chiave di volta o porta dischiusa su di una sopravvivenza illimitata ed imperitura, in cui l'animo si librerà ormai sciolto dai vincoli del corpo. L'eternità fluisce e confluisce nel tempo, dispiegandosi e trasfigurandosi insieme ad esso. 

Scriveva Ungaretti nelle Lezioni brasiliane, applicando all'interpretazione di Petrarca l'idea – enunciata  da Bergson – del tempo come «durata reale», come percezione soggettiva ed interiorizzata: «Per il Petrarca il tempo cristallizzato ch'era l'eterno, si sgela, è un cristallo che si sgela, che fluisce, che torna ad essere tempo, che fluisce come nella realtà fluisce, non come acqua, ma meno ponderabile d'un fumo». 

Quasi come in Mallarmé («Tutta l'anima riassunta / quando lenta la espiriamo / in molteplici cerchi / aboliti in altri cerchi.....»), il tempo e il pensiero divengono simili a volute di fumo inafferrabili, sfuggenti, costantemente  dissolte l'una nell'altra, l'una dopo l'altra, che infine si disperdono nel vuoto del cielo e del ricordo. Ma, in Petrarca, queste sfumature e queste dissolvenze coesistono miracolosamente, senza comprometterla o contaminarla, con la concretezza terrena, mondana, corporea (per quanto raffinata, stilizzata, sublimata), della rappresentazione, del vissuto e del desiderio.  

Come si legge nel proemio delle Epistole metrice, «vivendoque simul morimur rapimurque manendo»: come insegnava sempre Eraclito, nel tempo stesso in cui viviamo, moriamo, e siamo inesorabilmente trascinati via e cancellati nel tempo stesso in cui ci illudiamo di permanere e di durare. 

E, a giudicare dalle pagine proemiali del De vita solitaria (I, 6), è questo stesso senso, ancora tipicamente medievale e cristiano, della precarietà e della caducità di ogni bene e di ogni valore umani e terreni ad alimentare la quasi frenetica passione umanistica per la lettura, lo studio, l'indagine erudita, la composizione letteraria. 

La nostra non è vita, ma piuttosto l'ombra della vita; tutto sarà infine rapito e travolto dal disfacimento e dall'oblio.

Proprio per questo, l'intellettuale deve, nella metatemporale sopensione, nel fatato isolamento della solitudine e della meditazione, svincolarsi ed estraniarsi dall'età presente e fugace, spaziare con gli occhi della mente su ogni tempo e luogo, conversare, come poi faranno Machiavelli, Erasmo,  Montaigne, con i grandi uomini del passato («per omnia secula et per omnes terras animo vagari; (...) versari passim et colloqui cum omnibus»),  infine, e soprattutto, raccogliere e consegnare ai posteri la memoria del passato, creando così, almeno nello spazio puro, autonomo e protetto della scrittura e della pagina, un'illusione di perennità e di immortalità – per quanto precarie ed artificiose, per quanto esse stesse implicitamente esposte, essendo a loro volta opere terrene ed umane, all'insidia del tempo vorace. 

In Petrarca, la creazione poetica diviene (come già accadeva, in modo ancor più evidente, in Dante) immagine o riflesso della Creazione divina, dell'operato sapiente del Deus artifex, svoltisi anch'essi attraverso una successione di parole fluenti e transeunti, «verba sonantia et praetereuntia», emanazione ed eco dirette, però, dell'«eterno silenzio» effuso intorno al Verbo «permanente in eterno» (Agostino, Confessioni, XI, 6), che la parola umana – per quanto sublime – del poeta può intravedere, sfiorare, lambire, non certo abbracciare ed esprimere appieno. 

Ci si deve guardare dal rischio di fare di Petrarca uno spirito integralmente profano e laico, in radicale antitesi rispetto ad un Dante ancora medievale. 

Della cultura medievale, Petrarca conserva, come si è visto, la tensione mistica, l'impegno ascetico, l'apertura al divino: tutti elementi, questi, che si collegano, sul piano letterario, all'interpretazione allegorica, vòlta a cogliere e a svelare, nei testi classici, i segreti significati religiosi, i velati messaggi sacrali ed iniziatici, che essi racchiudono e nascondono, salvo rivelarli allo sguardo che sappia penetrare, come dice Dante, fin «sotto 'l velame».

Come rivelano le postille autografe del «Virgilio Ambrosiano» (preziosissimo codice miniato da Simone Martini), Petrarca interpretava, certo non senza forzatura, il «fronde super viridi» della chiusa della prima Bucolica virgiliana come allegoria del “lauro” (simbolo ed emblema di Laura, e dunque della poesia e dell'amore) che attraversa il Canzoniere; e, allora, il «frigus opacum», l'ombrosa frescura del v. 53 del testo virgiliano diviene, agli occhi del chiosatore, allegoria dell'«umbrosum et repositum studium», del solitario, raccolto e silenzioso culto dell'idealizzazione amorosa e dei cimenti letterari, ed emblema di uno spazio eletto ed avulso dalla storia, consacrato alla meditazione e all'autocoscienza. 

Così, nella chiusa di Canz. XXXIV, l'immagine della donna che fa «de le sue braccia a se stessa ombra» (al pari di quella, più scontrosa ed ostile, dell'autocontemplazione narcisistica, e quasi autoerotica, da cui il poeta si vede dolorosamente escluso, di Canz. LXV) può alludere al carattere autonomo, autosufficiente, incondizionato, fine a se stesso, che connota il pensiero e la poesia, liberi dalle strettoie del tempo e della contingenza, ritirati nella torre eburnea del loro valore assoluto ed eterno. 

Ma, nel Bucolicum carmen (e in particolare nella prima egloga, intitolata Parthenias, e commentata dallo stesso Petrarca in Fam., X, 4), l'allegoresi petrarchesca assume caratteri ancor più marcatamente religiosi e sapienziali. 

Nell'egloga, il personaggio di Monicus rappresenta il fratello del poeta, Gherardo, ritiratosi a vita ascetica nella certosa di Montrieux, mentre Silvius incarna lo stesso poeta, ancora combattuto fra l'amore per Laura e il desiderio di Dio, fra il groviglio delle passioni terrene e la pura aspirazione alla quiete interiore. 

Giovanni Battista è rappresentato da un pastore che, con acque purificatrici, lavò le «membra apollinee» di Cristo (vv. 65 sgg.). Tutte le divinità, tutta la sapienza dei pagani si assommano e giungono a sintesi nel Dio cristiano, risultando in pari tempo superate. 

Come i poeti pagani cantavano le Parche intente a scandire «fixa sub lege», secondo una misura  ed una regola fatali ed immutabili, le esistenze e le sorti dei mortali (vv. 85-87), così il Dio cristiano impone e somministra «tempora sideribus» e «sua semina terris» (v. 97), cioè scandisce i moti astrali, i ritmi celesti, il “grande anno” del cosmo così come l'avvicendarsi delle stagioni, i cicli assidui della semina, della fecondità, della fioritura. 

In una sorta di suprema sintesi classico-cristiana, Cristo è identificato con Apollo, dio della poesia, dell'armonia, della sapienza, della profezia, e associato, nell'universo petrarchesco, all'icona del lauro; e al Logos della filosofia stoica, al supremo principio razionale, all'universale armonia che, per Cleante come per Seneca, governano il cosmo, i cieli, la totalità dell'esistente, è accostato e giustapposto il Dio personale e rivelato della Bibbia che invera, compie ed oltrepassa quelle intuizioni, quelle prefigurazioni classiche e pagane. 

Questa visione così eccelsa e sublime esige uno stile adeguato. In Familiares, X, 4, Petrarca ricorda, citando la Metafisica di Aristotele, che i primi teologi furono i poeti (quei «poetae theologi» di cui Agostino e Tommaso d'Aquino avevano sminuito la sapienza ornata di fiori retorici, e a cui Dante aveva, invece, improntato l'idea stessa del “poema sacro”, capace di fondere bellezza poetica e contenuto dottrinale). 

E proprio per ubbidire alla loro solenne e divina ispirazione essi dovettero forgiare «verba altisona», parole solenni, e perseguire uno stile il più possibile lontano da quello comune e plebeo (Fam., X, 4, 4). Rivive, qui, l'ideale oraziano e dantesco del poeta che disprezza il volgo profano, e che, inseguendo una traccia superiore ed assoluta, esce dalla «volgare schiera», sospinto da una vocazione e da un destino che trascendono l'individualità.  

Proprio per questo, come ha sottolineato una sensibilissima lettrice quale Adelia Noferi, il poeta difende con orgoglio, e quasi con sdegno, il proprio alieniloquium, il proprio spazio linguistico ed espressivo del tutto autonomo, immune da condizionamenti, strumentalizzazioni, secondi fini, nel quale poesia e teologia, parola e sapienza, si incontrano e si fondono. La nobile solitudine, la fiera autonomia, l' elitario isolamento del letterato emergono proprio quando, nel 1352, Petrarca rifiuta il lucroso, ancorché gravoso, incarico di segretario apostolico di Clemente VI, ricusando sdegnosamente di «inclinare stilum» (Fam., XIII, 5), di abbassare il proprio solenne e raffinato stile latino, nutrito di reminiscenze classiche, per adeguarsi alla piattezza, al grigiore (all'”antilingua” come la chiamerà Calvino), della scrittura cancelleresca e burocratica. 

Proprio la sovrastorica aulicità classicheggiante, la solenne e severa assolutezza del suo stile protessero Petrarca – almeno entro certi limiti – dalle oppressioni e dalle strumentalizzazioni del Palazzo. 

A ben vedere, e per quanto possa apparire singolare, uno stesso dualismo, una stessa tensione fra terra e cielo, fra tempo ed eternità, avvolgono e connotano, in Petrarca, il tema amoroso e quello politico. 

Al di là delle molte incertezze riguardo all'identificazione del destinatario, la celebre canzone Spirto gentil mostra un eccellente uomo politico («un signor valoroso, accorto e saggio») che agisce guidato da una forza spirituale superiore, eterna, sovrastorica, che Carducci e Ferrari, nel loro celebre commento, identificavano con l'«Intelletto potenziale» (universale ed infinito) della filosofia averroista (quella, cioè, professata dai seguaci di Averroè, commentatore arabo di Aristotele), e che si potrebbe forse accostare anche all'idea platonica del Vero, del Bello  e del Bene («Ivi fa' che 'l tuo vero» – si legge nella celebre canzone all'Italia, “elegia politica” secondo il Momigliano – «per la mia lingua s'oda»). 

Certo questi ideali, queste utopie – secondo un errore comune nell'epoca – abbagliarono e sviarono il poeta, inducendolo (in palese contraddizione con l'appello pacifista che chiude la canzone all'Italia) ad inneggiare alle crociate. Ma la prospettiva ideale, eterna e metastorica porta inevitabilmente con sé il rischio di deformare e distorcere la realtà; né è possibile giudicare il pensiero di un intellettuale del Medioevo alla luce dei criteri odierni.

Nel sonetto CCLXXXVII, l'amico rimatore Sennuccio del Bene è accolto, dopo la morte, in una sorta di Eliso dei poeti, in uno spazio sospeso e metatemporale, che riunisce e raccoglie in sé  – un po' come nei miti danteschi del Limbo o delle «Atene celestiali» – tutta l'acronia e la simultaneità, assolute e complete, della tradizione letteraria, da Guittone d'Arezzo a Cino da Pistoia a Dante stesso. 

L'immobile eternità del Paradiso coincide con quella della parola letteraria cristallizzata da una tradizione, da un ”canone” ormai immutabili ed imperituri. Come Claudio Marcello nella Consolatio ad Marciam di Seneca, come Scipione nel Somnium ciceroniano o Pompeo, appena morto e già librato verso le sfere celesti, nella Farsaglia di Lucano, Sennuccio vede ormai «inseme l'uno et l'altro polo, / Le stelle vaghe et loro viaggio torto». Egli contempla l'universo, il tempo e la meschinità della terra sub specie aeternitatis, dal superiore punto di vista dell'eternità, dalla suprema e sapiente prospettiva di un'esistenza già percorsa, e lasciata alle spalle. 

Nella sestina CXLII, dalla complessa tessitura allegorica, alcuni termini chiave dell'immaginario amoroso e paesaggistico petrarchesco sono traslati e trasfigurati in senso anagogico, cioè mistico, spirituale, religioso: «Altr'amor, altre frondi et altro lume, / Altro salir al ciel per altri poggi / Cerco, ché m'è ben tempo, et altri rami». Il poeta sente che è tempo, ormai, di passare dalla terra al cielo, dal tempo all'eterno, dal misticismo della natura e dell'amore a quello, più alto ed impegnativo, del cielo e di Dio. 

Non a torto Stefano Agosti, sulla scia di Lacan, ha sottolineato che, in Petrarca così come nei Provenzali, la donna – inarrivabile ed intoccabile oggetto di un desiderio ardente quanto irrealizzabile – è simbolo, ombra o traccia dell'Altro, di una sovrumana e quasi sacrale sfera inconoscibile ed inesprimibile, che al poeta, infine, giunge – un po' come avverrà, poi, per gli incorporei e fuggevoli dei di Hölderlin, o per i lievi e subitanei angeli di Rilke – solo sotto la forma inafferrabile ed incorporea di un esile refolo, di un soffio sottile di vento, profumo, ombra, silenzio: basti ricordare i celebri sonetti dell'aura (come il CXCVI, il CXCVII, il CXCVIII, il CCCXX o il CCLXXXVI, nel quale l'aura, il soffio, lo spirituale pneuma sono, oramai, dopo la morte della donna, quelli di una memoria struggente e lacrimosa), e metterli a confronto con certi antecedenti provenzali (da Peire Vidal: «Ab l'alen tir vas me l'aire / qu'ieu sen venir de Proensa», al prediletto Arnaut Daniel: «Eu son Arnauz ch'amas l'aura», «Io sono Arnaut che l'etere abbraccia»), ma prima ancora classici, come le pagine fini e profonde che Cicerone, nel secondo libro del De natura deorum, dedica alla «animabilis spirabilisque natura», alla sostanza animata e spirante che avvolge tutto il vivente, e che, sorretta e guidata dalla sua stessa «sublime levità», si innalza fino alla sommità della volta celeste, ai margini estremi del reale e del pensabile, avvolti e permeati, l'uno e l'altro, da una stessa universale Anima. 

Ma questa lieve ed eterea sublimazione non elimina affatto la presenza, e anzi l'orrore, della morte come disfacimento fisico; ai quali, peraltro, si oppone tenacemente la cristiana resurrezione della carne, la disperata speranza dell'immortalità dell'anima. 

«Ché 'n te mi fu 'l cor tolto, et or sel tene / Tal ch'è già terra, e non giunge osso a nervo. / Ma la forma miglior, che vive ancora, / Et vivrà sempre, su ne l'alto cielo, / Di sue bellezze ognor più m'innamora» (CCCXIX, 8-11). «La terra l'ha disfatta, la protegge / un passato di favola»; «in cielo cerco il tuo felice volto», dirà, lettore petrarchesco partecipe ed illuminato, l'Ungaretti del Dolore. 

All'estremo ed orribile oltraggio del disfacimento corporale si contrappone la sublimazione intellettuale ed ontologica del celeste e puro modello ideale in cui l'anima di Laura si è ora, proprio attraverso la morte, trasformata per l'eternità. 

Il motivo ricorrente, e quasi ossessivo, del sepolcro dell'amata (del «felice sasso che 'l bel viso serra») deriva a Petrarca, almeno in parte, da Cino da Pistoia: «Io fui 'n su l'alto e 'n sul beato monte / ch'i' adorai baciando il santo sasso». E, come la Laura di Petrarca, così la Selvaggia di Cino è – pur se ora chiuso ed occultato da una pietra santificata, come per emanazione, dal contatto con il venerato corpo della donna – «d'ogne vertù 'l fonte», modello e sorgente, assoluti e quasi metafisici, sebbene incarnati in una vivente ierofania femminea, di ogni possibile bene o qualità. 

Peraltro, l'ossessione della sepoltura nasce, in Petrarca, già con la poesia in latino scritta  per la morte della madre (Panegyricus in funere matris, nelle Epistole metrice). Egli sentiva quasi di essere stato sepolto insieme alla madre («Ipse ego iam saxo videor michi pressus eodem»), insieme a quel grembo che gli aveva donato la vita, e di essere a lei accomunato, destinato insieme a lei a risorgere alla fine dei tempi nel corpo mistico che accomuna vivi e defunti, e insieme a lei ad avere perenne sopravvivenza nella parola poetica e nella memoria dei posteri. 

Ma l'amore non muore con il corpo, non resta – come avverrà invece in certi metafisici inglesi, o, in modo più macabro e fetido, in Poe – imprigionato, materialmente, carnalmente, nella pietra del sepolcro. 

L'amore ha dato al poeta le ali «da volar sopra 'l ciel (...) / Per le cose mortali, / che son scala al fattor, chi ben l'estima» (CCCLX, vv. 137-139): al pari di Platone, di Agostino e del Bonaventura dell'Itinerarium (ma in un modo, forse, non del tutto avulso dallo spirito dell'analogia entis, dell'analogia fra natura e divinità, postulata dalla filosofia scolastica), anche Petrarca è capace, attraverso un amore sublimato dallo spirito e dalla poesia, di arrivare, ascendendo successivi e via via più elevati gradi di bellezza e bontà, fino alla contemplazione del divino e dell'eterno, pur partendo dal terreno, dal temporale e dall'umano, e anzi tenendo questi ultimi sempre ben presenti e vivi di fronte allo sguardo interiore dell'animo, del sentimento e del ricordo. 

La contrapposizione fra uno Stilnovo ancora legato alla visione mistica e religiosa del medioevo  e un Petrarca più mondano e laico, e perciò più “moderno”, andrebbe forse attenuata. Tanto più che, nei versi appena citati, Petrarca fa proprio il simbolo della scala per arrivare al cielo, il quale attraversa tutta la tradizione mistica medievale, sia cristiana (basti pensare alla Scala Paradisi di Giovanni Climaco), che islamica (si ricordi il Liber Scalae Machometi, uno dei possibili antecedenti della Commedia).        

In pari tempo, l'aura petrarchesca rinvia anche ad archetipi classici. Da un lato, in Properzio l'aura rappresenta il fantasma sonoro, riverberato «ab extremis montibus», che rimane dopo la perdita e il dissolvimento di Ila, il giovinetto amato da Ercole, rapito dalle ninfe mentre indugiava contemplando narcisisticamente la propria bellezza nelle acque del fiume (Elegie, I, 20, 50), o la voce della fanciulla amata che richiama l'amante dall'oltretomba, inducendolo a  risalire il cammino interdetto dal Fato (II, 27, 15). 

Dall'altro lato, in Virgilio, l'allitterazione (poi più e più volte riecheggiata da Petrarca) di arbor, aer, aura avvolge e circonfonde l'apparizione del ramo d'oro che apre le porte del regno dei morti, e che brilla fra le tenebre di una selva la quale (secondo l'interpretazione allegorica medievale fatta propria da Petrarca nelle chiose del Virgilio Ambrosiano) rappresenta il peso e il vincolo della materia, della conoscenza sensoriale e dei piaceri carnali, barriere che impacciano l'ascesa al Divino (Aen., VI, 201 sgg.). 

Nella terza egloga del Bucolicum carmen, il rito del ramo d'oro passerà a rappresentare l'iniziazione, l'investitura e la missione, poetiche e civili, che la Musa trasmette al poeta. E la «opaca ilix» su cui, in Virgilio, svetta, brillando e mormorando, il «ramus aureus» prefigura l'«elce antiqua et negra» sotto la quale passeggerà, attorniata da tenere erbe e fiori variopinti, Laura (Canz., CXCII, 10).  

Nel sistema simbolico ed allegorico da cui è sorretta la coscienza culturale e letteraria petrarchesca coesistono e si armonizzano, trovando ciascuno un proprio  significato e un proprio valore profondi e coerenti, emblemi  e suggestioni apparentemente eterogenei, divisi fra culto della classicità ed allegorismo medievale. 

Ma, in definitiva, le idee platoniche, gli archetipi eterni delle anime immortali, le Idee-Madri, dirà Goethe, del pensiero divino, si traducono in suono, canto, parola, simulacro verbale, dizione poetica, divengono echi, armoniche, ombre o risonanze terrene (ma racchiuse nell'interiorità, nella trascendentale individualità, del poeta) di una musica universale e celeste. 

L'«aura gentile (...) era possente, / Cantando, d'acquetar gli sdegni e l'ire, / (...) Ed alzava 'l mio stile / Sovra di sé» (CCLXX, 31 sgg.). Nel ricordo permane e ancora si ode, di Laura, il «chiaro nome, / che sona nel mio cor sì dolcemente» (CCLXVIII, 49-50), il «dolce ydïoma», il «cantar tanto soave, / che penser basso grave / Non poté mai durar dinanzi a lei» (CCCLX, 101-104). 

Come già insegnavano i pitagorici e Platone (e come ripeterà Shakespeare nel Mercante di Venezia), l'anima è il principio armonico, l'accordo semplice, naturale e perfetto che concilia e tiene unite le facoltà della percezione e le affezioni della sensibilità. «Bene disposita mens instar immote serenitatis placida semper ac tranquilla est: (...) itaque (...) ex se ipsa (...) voces (...) sibi consonas elicit» (Fam., I, 9, 3). «Una mente ben disposta è sempre quieta e placida, al pari di una immota serenità: dunque trae da se stessa espressioni sempre con lei consonanti». 

Nella limpidezza, nella tersa serenità di un dire che pure conserva un certo grado di varietas, di unitaria molteplicità, una certa pluralità di modi, temi, registri, tralucono i modelli ideali, gli eterni specchi di una contemplazione in cui l'anima trova, infine, pur fra le sue contraddizioni, i suoi stridori, i suoi intimi tumulti, l'ultima quiete e la perpetua pace. 

Ma Petrarca si avvicina anche all'immaginario dei poeti elegiaci latini (Tibullo, Ovidio, soprattutto Properzio), allo «stylus miserorum», allo «stile degli infelici», come lo chiamava Dante nel De vulgari: ad una misura espressiva, cioè, dominata dalla solitudine dei campi deserti e delle selve silenziose (in cui il poeta si addentra recando assiduamente, con sé e dentro di sé, il pensiero dominante dell'amore), dal senso di vuoto insito nella lontananza, nella distanza, nella mancanza dell'essere amato (il cui volto e la cui figura continuano, peraltro, a danzare davanti agli occhi del sentimento e del ricordo), infine dal senso di esclusione, di rigetto, per così dire di orfanità, suscitato dai rifiuti, dai dinieghi, dalle sottili crudeltà messi in atto dalla donna irraggiungibile e sdegnosa.

Come quella degli infelici amanti elegiaci, così anche la vita di Petrarca è intessuta di «notti triste» (le properziane «noctes amarae», Elegie, I, 1, 33) e «giorni oscuri», scandita dalle tappe lacrimose della solitudine e dell'abbandono, dalle soste meditabonde e tormentate dell'implorazione e della delusione, della nostalgia e del rimpianto, dell'amore sparso invano e della rabbia contenuta e soffocata; senza, peraltro, che il poeta del Canzoniere possa avere le festose ed appaganti gratificazioni sensuali, i caldi e prolungati abbracci intimi e notturni, che pure di tanto in tanto arrecavano a Ovidio e a Properzio la loro rara e vitale gioia, per quanto  dolceamara e fugace. 

Le parole dell'innamorato respinto, deluso, escluso dal tepore degli abbracci, dal calore fervido ed originario del grembo, si perdono nel vento della notte, «nocturno cadunt Zephyro» (Properzio, Elegie, I, 16, 34). Il poeta continua a far risuonare del nome dell'amata il teatro indifferente, uguale e silenzioso, della natura – le selve solitarie, i fiumi che grondano fra le rocce coperte dal muschio (Elegie, II, 19, 29-30). 

Come nella celebre elegia dedicata alla moglie da Ovidio esule nel Ponto (Tristia, III, 3), così nell'anima petrarchesca l'idea dell'amore si associa ad un immaginario postumo, mortuario, fatto di lacrime e pietra e parole dolorosamente sussurrate sull'orlo della voragine di un vuoto e di un'assenza. «Te loquor absentem, te vox mea nominat unam»: «A te, assente, parlo, solo il tuo nome la mia voce ripete».

In quell'assenza, in quel deserto, su quel baratro si leva e spazia la voce della poesia. Ma quella voce è alimentata dalla stessa malattia elegiaca, dalla melanconia, dal mal d'amore – dalla aegritudo animi, o acedia secondo la definizione medievale, che il Petrarca del Secretum rimprovera a se stesso per bocca di Agostino. È una melanconia che si traduce in poesia, esprimendosi attraverso il nome dell'amata ripetuto insistentemente, ossessivamente, quasi feticisticamente, a fior di labbra, con il suo suono soave e  struggente, con la sua forma evocativa, enigmatica, avvolta, quasi, dall'alone di una venerazione sacrale. 

Tuttavia, la vena petrarchesca non conosce solo questo autocompiacimento nella sofferenza e nel dolore, questa atra voluptas e questa lugendi dulcedo (nero piacere e voluttà di piangere), per riprendere espressioni del Petrarca latino, dalle Familiares al Secretum; essa (basti pensare ai Psalmi penitentiales, scritti di getto, in una sola giornata, sulla base del modello biblico, e il cui influsso potrà giungere, nel Novecento, fino alla “metrica del respiro” di un Claudel o di un Celan, al loro verseggiare ampio, disteso, dilatato, modulato sui ritmi tesi ed intenti del pensiero e dell'anima) abbraccia anche la corposità e la forza espressive insite nello stile “roccioso”, deciso, netto, intenso, moralmente risentito, a tratti addirittura aspro e violento, della parola divina e della scrittura sacra. 

E, allora, la “cameretta” e il “letticciolo” non sono soltanto lo spazio e il ritiro di una lacrimosa autocommiserazione, di una meditazione solipsistica, di un isolamento sterile e dolcemente malinconico: essi divengono piuttosto, come nei Salmi (6, 7) e in Giobbe (33, 19), una sorta di doloroso e consapevole «purgatorium» attraverso cui deve passare, come immergendosi in un lavacro rovente e purificatore, una coscienza lacerata, penitente, dolorosamente consapevole di se stessa, fino al logorio e al tormento (Psalmi penitentiales, II, 17).   

Già Lamartine, nel suo Cours familier de littérature (certo a tratti enfatico, retorico, superficiale, tanto da richiamare su di sé il giudizio severo del ben più rigoroso De Sanctis, ma pur non privo, a tratti, di una viva sensibilità estetica ed umana, di una poetica immedesimazione con la sostanza profonda degli autori e dei testi), sottolineava come Laura fosse divenuta, grazie al suo cantore, «qualcosa di sacro, un mito dell'amore»; i versi del poeta sgorgavano da un'«anima potente, sonora, melodiosa, profondamente commossa»; la sua è una lingua che vibra e risuona «fra cielo e terra, estesa ugualmente in alto e in basso, che ha della terra la passione e il dolore, che ha del cielo la speranza e la serenità» (Entretien XXXII). 

Sulla base di queste osservazioni, Lamartine accostava i sonetti di Petrarca da un lato proprio ai Salmi  di Davide, dall'altro all'anonima, trecentesca Imitatio Christi. Chi oggi riapra quest'ultima opera, vi ritroverà precisamente la stessa vocazione all'unità, alla ricomposizione dei conflitti nella parola protesa verso l'eterno, che abbiamo visto in Petrarca. «Soltanto chi sente tutte le cose come una cosa sola, e le porta verso l'unità e le vede tutte nell'unità, può avere tranquillità interiore» (III). 

Ma non c'è, anche nel caso di Lamartine, come in quello degli altri poeti-critici che abbiamo avuto modo di citare, miglior commento di quello racchiuso nei versi, e per l'esattezza in quelli di  À Elvire (nelle Méditations poétiques), ove l'immaginario amoroso e paesaggistico di Petrarca è sovrapposto, quasi in dissolvenza, a quello di Properzio. «Oui, l'Anio murmure encore / Le doux nom de Cynthie aux rochers de Tibur, / Vaucluse a retenu le nom chéri de Laure». In Petrarca come in Properzio (e anche in Lamartine, egli stesso amante tormentato e combattuto), ad essere oggetto di amore è il ricordo, il fantasma, addirittura il nome stesso (dolcemente risonante, instancabilmente rimodulato), dell'amata. 

Come il viandante  incide il proprio nome, a perenne testimonianza, sulla corteccia di un albero alla cui ombra ha brevemente sostato, così il poeta strappa all'oblio il proprio nome e quello dell'amata, scolpendoli nella materia immutabile e perenne dei versi, destinati a risuonare e a permanere ben oltre l'«eterno silenzio» che avvolge ed inghiotte, invece, gli effimeri amori carnali e plebei.  

La pace e la quiete a cui il poeta, fra i suoi tormenti e le sue melanconie, disperatamente aspira dimorano, infine, nel grembo imperturbabile della divinità e dell'eterno. Dall'Agostino del De magistro, e soprattutto del De musica, Petrarca aveva appreso che vi sono parole dettate dal «magister interior», che si manifestano e risuonano «intus», «in interiore homine», nella celeste profondità del cuore e dell'anima; e che la musica più pura ed assoluta è quella scandita, nell'anima, dal tacito riflesso dei moti astrali, dei «tempora (...) eternitatem imitantia», dell'«immagine mobile dell'eternità» che plasma e configura il «carmen universitatis», il «poema dell'universo» (De musica, 11, 29). 

Per Abelardo (letto e postillato da Petrarca) come per Guglielmo di Ockham (prigioniero ad Avignone, come ricorda Stierle, negli stessi anni in cui vi soggiornava il poeta), gli universali, le idee, gli archetipi, i modelli eterni non esistono realmente «extra animam», al di fuori dell'anima, in un distinto e nitido cielo metafisico, ma soltanto nella mente e nell'intelletto, sotto forma di parole convertite poi in suoni, in flatus vocis, in musica verbale. 

Sennonché, per il Petrarca poeta theologus proprio quei suoni, quelle parole, quei soffi vocali,  quelle soavi aure di sillabe e rime, quella eterea e lieve musica verbale non sono affatto pallidi ed opachi simulacri di una realtà concreta o concettuale; essi, al contrario, costituiscono la materia e il tramite della poesia, sublime e suprema forma di conoscenza. 

«L'atto di intendere» – scriveva Ockham – «con cui conosco un uomo è segno naturale degli uomini: è naturale allo stesso modo che il lamento è segno della malattia o della tristezza o del dolore» (Summa totius logicae, I, 14). L'umano, se còlto nella sua essenza espressiva, è luogo esistenziale della sofferenza, dell'angoscia, della Cura; e proprio il petrarchesco «suono dei sospiri», proprio il petrarchesco groviglio indissolubile di parole e di lacrime, di canto e di lamento, può rispecchiare nel modo più sofferto, e perciò più autentico, la tormentosa condizione dell'uomo. Nel pianto del poeta risuona quello di ogni infelice. Il dolore, come dirà Saba, è eterno, ha una voce e non varia.

La poesia è insomma – nella stessa essenza del suo tessuto stilistico e del suo ordito espressivo – intrinsecamente dolorosa, come dolorosa è la vita. Forse è proprio questo (accanto alla rozzezza espressiva e terminologica dei maestri di dialettica) il punto fondamentale che induce il Petrarca del De sui ipsius et multorum ignorantia a polemizzare con la filosofia dei moderni (da cui pure non poté non essere per certi aspetti influenzato), preferendo ad essa il discorso meno tecnico, meno razionalistico, più legato all'interiorità, più raccolto, intimo, profondamente vissuto, di Cicerone, Seneca, Agostino (forse anche di Bonaventura e di Bernardo di Chiaravalle, il quale farà sentire la propria eco nella canzone alla Vergine). 

A chi consideri che tutta una illustre linea interpretativa, da Renan fino a Cassirer, ravvisa in Petrarca il “primo uomo moderno” proprio  per la capacità che egli ebbe di superare l'aridità e la capziosità della filosofia scolastica, riscoprendo (sulle orme di San Paolo, di Agostino, di Seneca) l'interiorità, il sentimento, la “sapienza del cuore”, questi richiami alla logica e alla filosofia medievali potranno apparire fuori luogo. 

Eppure, come Galileo non rigetterà tanto il pensiero di Aristotele in sé e per sé, quanto certe ottuse forme di aristotelismo dogmatico, così il Petrarca delle Invective contra medicum e del De sui ipsius et multorum ignorantia non sembra rifiutare in blocco la filosofia medievale (pur preferendo ad essa quella dei classici e dei Padri della Chiesa), ma piuttosto condannare il pensiero freddo, “meccanico”, rozzamente materialistico, di certi averroisti. 

Questo non gli impediva affatto di far propri alcuni aspetti del pensiero medievale o addirittura dello stesso averroismo – in primis l'idea dell'Intelletto Possibile, dell'Anima Universale da cui sono guidate, e in cui infine si immergeranno e sprofonderanno, raggiungendo così la propria perfezione e il proprio compimento, quelle individuali.   

Ad ogni modo, proprio questa apertura, questo slancio verso l'intelletto divino e l'anima universale sorreggono il petrarchesco «cantar che ne l'anima si sente» (CCXIII, 6). Ogni anima, dirà Mallarmé, «è un nodo ritmico». La vera, assoluta ed intemporale modernità di Petrarca (senza nulla togliere al valore anche civile, storico, “politico” nel senso più alto e nobile, della sua opera) risiede proprio in questa sua quieta ed appartata difesa della libertà e dell'autonomia del letterato, che si ritira nel suo eliso o nel suo limbo di puri suoni, di pure armonie sospese fra la terra e il cielo, fra la carne e lo spirito, per ripararsi dai turbamenti e dagli oltraggi della realtà e del desiderio, e conseguire, al termine del suo arduo e contraddittorio cammino di homo viator, quella ultima solitudo nella quale soltanto – diceva Duns Scoto – è possibile plasmare e realizzare appieno la personalitas, la proprietas personae (Ordinatio, III, d. 1, q. 1, n. 17). 

La storia e l'eterno collimano, si intersecano ed infine si fondono nello spazio assoluto e senza tempo della Parola – di un Verbo e di una Musica che, pur nascendo dalla terra, dalla vita, dalla pena, non sono di questo mondo. 

Così, anche al di fuori di una visione stricto sensu cristiana, Renato Serra poteva andare verso il fronte, incontro ad una morte forse inconsciamente voluta, ripetendo fra sé e sé, in modo rapito ed ipnotico, una sestina del Canzoniere, e Paul Celan (il poeta esule, orfano, senza patria) poteva, nei criptici versi di Hinausgekrönt, associare il nome di Petrarca alla Warschowjanka, inno fiero e disperato di libertà oppressa e dignità violata: «E cantavamo la Warschowjanka / con labbra invase da giunchi, Petrarca. / In orecchie di tundra, Petrarca» (come a dire che la voce, la parola della poesia, pur così essenziali e vive, sono e restano avvolte, ma in certo modo anche difese e protette, da una perenne incomprensione, da un'oscurità e da un silenzio impenetrabili).   

E René Char, in Ritorno Sopramonte, vede Petrarca «nella piaga chimerica di Valchiusa», mentre attraversa, «prostrato», «la morte nel suo disordine», il caos e la dispersione (così dolorosamente ritratti nelle pagine iniziali tanto del Canzoniere, quanto delle Familiares) degli affetti recisi e delle speranze disilluse. 

Ma il Petrarca della modernità non è solo quello di Celan e di Char, non è solo il dolente cantore (ricordato da Carlo Ossola in occasione del centenario) di un «irreale intatto dentro il reale devastato». 

È anche quello di Baudelaire (nei cui versi la Bellezza incanta i propri adoratori con i divini «larges yeux aux clartés éternelles») e di Mallarmé (basti pensare alla Prose pour Des Esseintes, con la «Gloire du long désir, Idées», con l'enigmatica ed eterea Pulcheria che attraversa «maints charmes de paysages», scenari simbolici, trasfigurati, inesistenti infine), di Ungaretti e di Luzi: il poeta dell'Ideale, degli archetipi eterni, dei modelli perpetui ed immutabili, che canta il trascorrere, il divenire, il mutare, il morire, ma, nel contempo (basti citare il Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini), la sfera adamantina e insieme cangiante dell'essere che «è e diviene», «intero, inconsumato, pari a sé», e scintilla, al di là dei cieli, con la sua oscura e insieme luminosa promessa di pace. 

Proprio quella promessa e quella speranza Petrarca (diviso, come osservava il Gentile, «tra l'assolutezza dello spirito e la relatività delle cose») seppe afferrare e far presagire con la sua arte (diceva ancora il Luzi del Viaggio terrestre e celeste) «divorata dalla beltà, assetata di grazia».   


                                                                                                                                            Matteo Veronesi


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE


ACCIANI, A., Desiderio di forma vera. Tre meditazioni su Petrarca, Graphis, Bari 2001. 

AGOSTI, S., Gli occhi e le chiome: per una lettura psicoanalitica del “Canzoniere”, Feltrinelli, Milano 1993.   

ID., Il testo poetico. Teoria e pratiche di analisi, Rizzoli, Milano 1972.  

ALBINI, G., La poesia latina del Petrarca, «Annali della cattedra petrarchesca», vol. I, 1930, pp. 117-131. 

AMBROSINI, R., Il dissolversi dell'occasione nella atemporalità. Riflessioni sulla struttura dei sonetti delle “Rime”, «Italianistica», 2004, n. 2, pp. 13-28. 

ANSELMI, G. M., Petrarca e l'etica laica della saggezza rinascimentale, «Italianistica», 2004, n. 2, pp. 125-132. 

ALONSO, D., La poesia di Petrarca e il petrarchismo, «Studi petrarcheschi», 1961, pp. 73-119.  

ARIANI, M., Petrarca, Salerno, Roma 1999. 

BAGLIO, M., Presenze dantesche nel Petrarca latino, «Studi petrarcheschi», IX, 1992, pp. 77-136. 

BARON, H., Petrarch's Secretum: its making and its meaning, Medieval Academy of America, Cambridge 1985. 

BARTOLI, A., Francesco Petrarca, Sansoni, Firenze 1884.  

BERTOLANI, M. C., Il corpo glorioso: studi sui Trionfi del Petrarca, Carocci, Roma 2001. 

EAD., Petrarca e la visione dell'Eterno, Il Mulino, Bologna 2005. 

BETTARINI, R., Lacrime e inchiostro nel Canzoniere di Petrarca, Clueb, Bologna 1998. 

BIGI, E., La cultura del Poliziano e altri studi umanistici, Nistri-Lischi, Pisa 1967. 

ID., Dal Petrarca al Leopardi. Studi di stilistica storica, Ricciardi, Milano-Napoli 1954. 

BILLANOVICH, G., Petrarca e il primo umanesimo, Antenore, Padova 1996.  

ID., Petrarca e Padova, premessa di L. Gui, Antenore, Padova 1976.

ID., Tra Dante e Petrarca, ivi 1965.  

ID., Petrarca letterato. I. Lo scrittoio del Petrarca, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1947.  

ID., Itinera. Vicende di libri e di testi, a cura di M. Cortesi, ivi 2004. 

ID., L'altro stil nuovo. Da Dante teologo a Petrarca filologo, «Studi petrarcheschi», XI, 1994, pp. 1- 97. 

BOSCO, U., Francesco Petrarca, Laterza, Roma-Bari 1977. 

BRUGNOLI, G., Le acque del Petrarca, «Italianistica», 2004, n. 2, pp. 35-46. 

CALCATERRA, C., Nella selva del Petrarca, Cappelli, Bologna 1942. 

CANETTIERI, P., L'aura dei sospiri, «Critica del testo», 2003, n. 1, pp. 541-558. 

CAPOVILLA, G., Sì vario stile. Studi sul “Canzoniere” del Petrarca, Mucchi, Modena 1998.  

CAPUTO, R., Cogitans fingo. Petrarca tra “Secretum” e “Canzoniere”, Bulzoni, Roma 1987. 

CAVALLUZZI, R., Il sogno umanistico e la morte, Fabrizio Serra Editore, Pisa 2007. 

CHESSA, S., Il profumo del sacro nel “Canzoniere” di Petrarca, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2005. 

CHIAPPELLI, F., Studi sul linguaggio del Petrarca: la canzone delle visioni, Olschki, Firenze 1971.   

CHINES, L., I veli del poeta. Un percorso tra Petrarca e Tasso, Carocci, Roma 2000. 

CONTINI, G. F., Saggio d'un commento alle correzioni del Petrarca volgare, Sansoni, Firenze 1943. 

DE ROBERTIS, D., Memoriale petrarchesco, Bulzoni, Roma 1997. 

DE ROBERTIS, G. Valore del Petrarca, in ID., Studi, Le Monnier, Firenze 1944, pp. 32-47. 

DE SANCTIS, F., Saggio critico sul Petrarca, a cura di N. Gallo, introduzione di N. Sapegno, Einaudi, Torino 1952.  

DOTTI, U., Vita di Petrarca, Laterza, Roma-Bari 1987 (poi 2004).  

ID., Petrarca e la scoperta della coscienza moderna, Feltrinelli, Milano 1978. 

ID., Petrarca civile: alle origini dell'intellettuale moderno, Donzelli, Roma 2001. 

FEDI, R., Invito alla lettura di Francesco Petrarca, Mursia, Milano 2002. 

FENZI, E., Saggi petrarcheschi, Cadmo, Fiesole 2003. 

ID., L'ermeneutica petrarchesca tra libertà e verità, «Lettere italiane», 2002, n. 2, pp. 170- 209. 

FEO, M., Il pianto e l'amore: Petrarca fra umanesimo e natura, EDIFIR, Firenze 1991. 

ID., Petrarca ovvero l'avanguardia del Trecento, «Quaderni petrarcheschi», I (1983).

ID., Petrarca, Francesco, in Enciclopedia virgiliana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 1988, vol. IV. 

ID., Petrarca, Francesco, in Enciclopedia oraziana, Treccani, Roma 1998, vol. III, pp. 405-425. 

ID., Nuove petrarchesche, Olschki, Firenze 1991.

FOLENA, G., Textus testis, Bollati Boringhieri, Torino 2002. 

Francesco Petrarca da Padova all'Europa, a cura di G. Belloni et alii, Antenore, Padova 2007. 

Francesco Petrarca: l'opera latina: tradizione e fortuna, a cura di L. Secchi Tarugi, Cesati, Firenze 2006. 

FRANÇON, M., Petrarch, disciple of Heraclitus, «Speculum», n. 11, 1936, pp. 265-271. 

GARDAIR, J. M., Baudelaire in Petrarca, «Paragone», 2004, n. 54-55-56, pp. 14-24.  

GASPARY, A., Storia della letteratura italiana, Loescher, Torino 1887-1891. 

GENTILE, G., La filosofia del Petrarca, «Annali della cattedra petrarchesca», V, 1934, pp. 1-21.  

ID., Studi sul Rinascimento, Sansoni, Firenze 1936.  

GIUSTI, S., La “selce” dalla “petra”. Per una lettura dei sonetti dell'aura, «Critica letteraria», 2000, n. 3, pp. 439-458.  

GOFFIS, C. F., Originalità dei Trionfi, La Nuova Italia, Firenze 1951. 

GUGLIELMINETTI, M., Petrarca fra Abelardo ed Eloisa, Adriatica, Bari 1969. 

ILIESCU, N., Il Canzoniere petrarchesco e Sant'Agostino, Roma 1962.  

Il Petrarca ad Arquà, a cura di G. Billanovich e G. Frasso, Antenore, Padova 1975. 

Il Petrarca e le origini dell'umanesimo, «Quaderni petrarcheschi», voll. IX-X, 1992-1993.  

Il Petrarca latino e le origini dell'umanesimo, le Lettere, Firenze 1996. 

IVANOV, V., Il lauro nella poesia del Petrarca, «Annali della Cattedra Petrarchesca», vol. II, 1936, pp. 114-121. 

KRISTELLER, P. O., Il Petrarca, l'umanesimo e la scolastica, «Lettere italiane», VII, 1955, pp. 367-388.

KUON, P., L'aura dantesca. Metamorfosi intertestuali nei “Rerum Vulgarium Fragmenta” di Francesco Petrarca, Cesati, Firenze 2004.   

La metrica dei Fragmenta, a cura di M. Praloran, Antenore, Padova 2003.  

Le lingue del Petrarca, a cura di A. Daniele, Forum, Udine 2005.

LONGO, N., Petrarca: geografia e letteratura, Salerno, Roma 2007. 

LUZI, M., L'inferno e il limbo, Marzocco, Firenze 1949 (seconda edizione accresciuta Il Saggiatore, Milano 1964).  

MANN, N., Pétrarque, les voyages de l'esprit, Millon, Grenoble 2004. 

Motivi e forme delle “Familiares” di Francesco Petrarca, a cura di C. Berra, Cisalpino Goliardica, Milano 2003. 

MARCOZZI, L., Petrarca platonico, Aracne, Roma 2004. 

ID., Le ali dell'intelletto nei “Rerum Vulgarium Fragmenta, «Critica del testo», 2003, n. 1.

ID., Bibliografia petrarchesca, Olschki, Firenze 2005.  

MARTELLOTTI, G., Scritti petrarcheschi, a cura di M. Feo e S. Rizzo, Antenore, Padova 1983.  

MARTINELLI, B., L'”aura” e la “luce”, «Rivista di letteratura italiana», 2004, n. 2, pp. 11-45.  

MOMIGLIANO, A., L'elegia politica del Petrarca, «Annali della Cattedra Petrarchesca», VII (1937), pp. 77 sgg. 

NOFERI, A., Frammenti per i Fragmenta di Petrarca, a cura di L. Tassoni, Bulzoni, Roma 2001. 

EAD., L'esperienza poetica del Petrarca, Le Monnier, Firenze 1962.  

EAD., Petrarca fra la “voluptas dolendi” e la “voluptas scribendi”, «Paragone», 2004, n. 54-55-56, pp. 50-61. 

NOLHAC, P. DE, Pétrarque et l'humanisme: d'après un essai de restitution de sa bibliothèque, Bouillon, Paris 1892. 

ORELLI, G., Il suono dei sospiri. Sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990.  

PACCA. V., Petrarca, Laterza, Roma-Bari 1998. 

ID., La struttura senaria del “Canzoniere”, «Italianistica», 2004, n. 2, pp. 77-82.  

PAOLETTI, L., Retorica e politica nel Petrarca bucolico, Pàtron, Bologna 1974. 

PASQUINI, E., Preliminari all'edizione dei “Trionfi” di Francesco Petrarca, in Il Petrarca ad Arquà, Padova 1975, pp. 199-240. 

ID., Per il “dì sesto d'aprile”: postille minime ai “Triumphi”, «Studi e problemi di critica testuale», 2005, n. 71, pp. 17-33.  

Petrarca e Agostino, a cura di R. Cardini e D. Coppini, Bulzoni, Roma 2004.  

Petrarca e  i Padri della Chiesa, a cura di R. Cradini e P. Viti, Pagliai Polistampa, Firenze 2004. 

Petrarca e il mondo greco, Le Lettere, Firenze 2007. 

Petrarca e il petrarchismo, a cura di G. Savoca, Paravia, Torino 1977. 

Petrarca e il petrarchismo, a cura a di M. Guglielminetti, Edizioni dell'Orso, Alessandria 1994.  

Petrarca e i poeti d'oggi (interventi di M. Corti, A. Porta, V. Sereni, A. Zanzotto), in «L'Approdo letterario», 66, giugno 1974. 

Petrarca e la cultura del Trecento, a cura di A. Asor Rosa, La Nuova Italia, Firenze 1978. 

Petrarca e la cultura europea, a cura di L. Rotondi Secchi Tarugi, Nuovi Orizzonti, Milano 1997.   

Petrarca e l'umanesimo, a cura di G. Simionato, Ateneo, Treviso 2006. 

Petrarca, Verona e l'Europa, a cura di G. Billanovich e e G. Frasso, Antenore, Padova 1997.   

Pétrarque et l'Europe, a cura di C. Ossola, Millon, Grenoble 2006.  

PETRINI, M., La risurrezione della carne. Saggi sul “Canzoniere”, Mursia, Milano 1993.  

PETRUCCI, A., La scrittura di Francesco Petrarca, Biblioteca Apostolica Vatoicana, Città del Vaticano 1967. 

PICONE, M., Petrarca e il libro non finito, «Italianistica», 2004, n. 2, pp. 83-94.  

POTTERS, W., Chi era Laura? Strutture linguistiche e matematiche nel “Canzoniere” di Francesco Petrarca, Il Mulino, Bologna 1987.  

POZZI, G., Petrarca, i Padri e soprattutto la Bibbia, «Studi petrarcheschi», VI, 1989, pp. 125-169. 

Preveggenze umanistiche di Petrarca, ETS, Pisa 1994. 

"Quaderns d'Italià", 11, 2006, ddd.uab.es/pub/qdi

QUAGLIO, A. E., Francesco Petrarca, Garzanti, Milano 1967. 

QUASIMODO, S., Petrarca e il sentimento della solitudine, Scheiwiller, Milano 1959. 

QUILLEN, C. E., Rereading the Renaissance: Petrarch, Augustine and the language of humanism, The University of Michigan Press, Ann Arbor 1998.   

QUONDAM, A., Petrarca. L'italiano dimenticato, Rizzoli, Milano 2004. 

RAIMONDI, E., Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca, Einaudi, Torino 1970. 

RICO, F., Vida y obra de Petrarca, Antenore, Padova 1974.  

ROSSI, L. C., Petrarca dantista involontario, Antenore, Padova 1990. 

RUSSO,L., Politicità del Petrarca, «Belfagor», IV, 1949. 

SADE, J.-F. DE, Mémoires pour la vie de François de Sade, Askrée et Mercus, Amsterdam 1764-1767. 

SANTAGATA, M., Per moderne carte. La biblioteca volgare di Petrarca, Il Mulino, Bologna 1990. 

ID., I frammenti dell'anima, Il Mulino, Bologna 1992. 

ID., Dal sonetto al canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costruzione di un genere, Liviana, Padova 1989. 

SAPEGNO, N., Petrarca. Lezioni e saggi, introduzione di P. Stoppelli, a cura di G. Radin, Aragno, Torino 2004. 

ID., Il Trecento, Vallardi, Milano 1934.  

Sentimento del tempo. Petrarchismo e antipetrarchismo nella lirica del Noveento italiano, a cura di G. Savoca, Olschki, Firenze 2005. 

SERENI, V., Sentieri di gloria, a cura di G. Strazzeri, Mondadori, Milano 1996.

STAROBINSKI, J., Lettres et syllabes mobiles (Pétrarque, Ronsard, Saussure), «Lettere italiane», LVII, 2005, n. 4, pp. 558 sgg. 

STIERLE, K., La vita e i tempi di Petrarca: alle origini della moderna coscienza europea, Marsilio, Venezia 2007.  

SUITER, F., Petrarca e la tradizione stilnovistica, Firenze 1977. 

TATEO, F., Agostino fra Dante e Petrarca, in Riscrittura come interpretazione, Laterza, Bari 2001.

ID., L'ozio segreto di Petrarca, Palomar, Bari 2005. 

TROVATO, P., Dante in Petrarca, Olschki, Firenze 1979.  

Un'altra storia. Petrarca nel Novecento, a cura di A. Cortellessa, Semestrale di Studi (e Testi) italiani, n. 14, www.disp.let.uniroma1.it 

Una figura nodale, units.it/news/files/convegnopetrarca

UNGARETTI, G., Il poeta dell'oblio, in ID., Vita d'un uomo. Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay, Mondadori, Milano 1974 (e successive edizioni).

ID., Lezioni brasiliane, in ID., Vita d'un uomo. Viaggi e lezioni, a cura di P. Montefoschi, Mondadori, Milano 2000, pp. 471 sgg.

VITALE, M., La lingua del Canzoniere, Antenore, Padova 1996. 

VOSSLER, K., Lo spirito delle forme poetiche italiane e la loro importanza per le letterature europee, «Poesia», VIII, 1947 (con una nota di G. Contini).   

WARREN, S., La fontana e la pietra: Petrarca contemporaneo, «Studi e problemi di critica testuale», 2006, n. 72, pp. 9-29.  

WILKINS, E. H., Vita del Petrarca, a cura di L. C. Rossi, traduzione di R. Ceserani, Feltrinelli, Milano 2003.

ID., Studies on Petrarca and Boccaccio, a cura di A. S. Bernardo, Antenore, Padova 1978. 

ID., Petrarch's correspondence, Antenore, Padova 1960. 

ZANZOTTO, A., Petrarca fra il palazzo e la cameretta, in ID., Scritti sulla letteratura, a cura di G. M. Villalta, Mondadori, Milano 2001.