“Dottrina dell'estremo principiante” di Mario Luzi

(apparso, con il titolo di Luzi “ultimo”, in «Studi cattolici», XLIX, 528, febbraio 2005, pp. 151-152)

Dottrina dell’estremo principiante: il titolo dell’ultima raccolta di Mario Luzi, emblematico come molti grandi “titoli esemplari” del Novecento europeo (da Ossi di seppia a The waste land), sintetizza in sé ed evoca un aspetto fondamentale dello stadio di feconda e riboccante maturità e pienezza a cui è giunta, all’alba del millennio, la vena di un autore che ha attraversato, da protagonista e testimone sempre vigile, la storia e la poesia del ventesimo secolo. 

“Estremo principiante”: come a dire, per riprendere un’antitesi mistica cara ad Eliot, che nella “fine” – intesa non già come annichilimento, come naufragio nel nulla, ma piuttosto come compimento e maturità piena – è l’”inizio”, nel versante discendente di un percorso che sembra volgere al termine, che sembra declinare e disporsi all’umiltà della speranza e dell’attesa, è il dischiudersi di uno spiraglio inatteso, il germe vitale di un canto nuovo. 

Non a caso, in un modo che non è certo privo di implicazioni e di suggerimenti sul piano interpretativo, il testo conclusivo del volume contiene un preciso richiamo alla «barca» cui era intitolato il libro d’esordio, dalla quale, come il poeta indicava agli «amici», «si vede il mondo» con la sua varietà, le sue promesse, i suoi variopinti allettamenti. «La barca, l’incantata / carpenteria / tra acqua ed aria, / sole e meria». Il poeta è ancora «intenerito» dall’«erba / di quella primavera / fresca, con poche folgori»; ma non può ormai «brucarla / se non col desiderio», poiché «troppo secolo è passato / lì sopra con le sue nubi / dove tu, perso, hai belato», e «ora ben altro è il prato» (possibile, e significativo sul piano esistenziale, l’ammiccamento intertestuale alla capra di Saba, presa nel cerchio del «dolore eterno»). Il ritorno alle origini, il richiamo scoperto alle radici della propria avventura esistenziale e letteraria ha una profondità meditativa e quasi sapienziale, il valore alto e sofferto di un ripensamento, di una presa di coscienza, e in parte di distanza, dal passato. 

Si può dire, in effetti, che questo Luzi estremo e nuovo, “ultimo” nel duplice senso di un inveramento e di un’aggiunta, di un persistere e di un progredire – un Luzi attestato sotto il segno, stavolta positivo, dell’«immobilità del mutamento» cantata in un testo celebre –, riveda il mondo e il vissuto  sub specie aeternitatis, dal superiore angolo visuale di una posizione «estrema», appunto, ormai al di là o al di sopra, proiettata verso l’eterno, verso – per citare ancora una pagina luziana  celebre, in cui si sente il lettore delle Confessioni – il «tempo ch’è di là dal tempo». «Era e eveniva / il suo essere presente / all’essere e all’evento / ininterrotto del mare / e di se stesso presente. Era e eveniva / parimenti nel tempo / e nell’eternamente». Versi che potrebbero richiamare, per questa simbologia temporale affidata al mare, vari antecedenti, dal tomistico pelagus substantiae infinitum che ispirò il dantesco «gran mar de l’essere» e forse, attraverso quest’ultimo, il leopardiano «mare» dell’Infinito al Petrarca del Triumphus aeternitatis alla «pagina del mare» del Cimetière marin di Valéry o del montaliano Mediterraneo, ma nei quali si trova, in pari tempo, la dialettica schiettamente luziana di tempo ed eternità, divenire ed essenza, che percorreva Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (libro in cui si dovrà prima o poi riconoscere, proprio per questa suprema sintesi, tradotta genialmente anche nei ritmi e nelle risonanze della partitura metrica, di tempo ed eternità, divenire e assoluto, uno dei vertici della poesia del Novecento): l’essere, cantava Luzi, «eternamente è / e diviene», splende nella sua assolutezza metafisica e insieme storica, incarnata, rivelata, e nel contempo si dispiega e fluisce nell’immanenza degli eventi, traspare «nel giusto della vita».

Luzi invoca la stella «ardente / del desiderio senza tempo», che è «sovranamente se medesima» (si rammenti il veterotestamentario «id sum quod sum»), che «annulla / e acuisce ogni stupore», e di cui parlerebbe forse in modo più adeguato, sulle orme dei Salmi e di Dante, «un’antica poesia di lode». La parola-rondine si getta in un «giro vorticoso / fino alla quiete / che la aspetta. / E in quella quiete è la nostra pace» («’N la sua volontade è nostra pace», dicono i beati nel terzo del Paradiso, celebrando la loro prestabilita e perfetta armonia con la «divina voglia»). 

“Principiante” è anche, questo nuovo Luzi, per il modo in cui il suo dire poetico tende a risalire verso una condizione aurorale, a riattingere una primigenia ed incorrotta mitopoiesi, insomma tenta di accostarsi al Verbo divino, che era in principio e per mezzo del quale omnia facta sunt. Ma protendendosi verso l’eterno, aspirando a riconciliarsi, per una sorta di ritorno all’Uno e al Padre, con il Verbo, con la Parola divina che l’hanno mosso e nutrito, il dire poetico sfuma nel silenzio, si arrende (e in ciò risiede l’umiltà, profondamente cristiana, del poeta) ai limiti dell’ineffabile. Guardata «da un suo celeste dopo», la «parola umana» che aveva sempre «cifrato del mondo ogni sostanza» si rivela «più adiacente al verbo», più vicina all’abisso del vero. Ma allora, appunto, «pazientemente / emerge detto / il non dicibile / tuo nome. Poi il silenzio, / quel silenzio si dice è la tua voce». L’ineffabilità del Nome, tema caro alla mistica cristiana come a quella ebraica, qui si traduce sul piano della poetica, e nutre, con paradosso insondabile, il dire della poesia. La voce del poeta è allora come quella di uno Stradivari ormai muto da tempo immemorabile, ma nondimeno pregno, nelle intime fibre della sua materia, di celate potenziali armonie, animato da qualcosa di simile al «creux néant musicien», al «cavo nulla risonante» di Mallarmé o al «musicale silenzio» dell’ultimo D’Annunzio: «si ricompone / in armonia celeste / l’essere universo. / Ne fu un tremito / lui, fragile strumento. / Quel tremito perdura / nitido nel musico silenzio». Rivive così, a distanza di secoli, sospesa tra poesia e indicibile, parola e silenzio, segno e bianco, la musica mundana, la silenziosa armonia dell’universo celebrata dal Platone del Timeo così come dal Boezio del De musica

                                                                                                                      Matteo Veronesi