Il "ricchissimo nihil" del nuovo Zanzotto (su "Meteo")

(“Studi Cattolici”, LX, 1996, n. 429, pp. 794-795)

Dopo la pubblicazione di Idioma (1986) - raccolta che chiudeva più che degnamente, dopo Il Galateo in bosco (1978) e Fosfeni (1983), la "pseudo-trilogia" di Andrea Zanzotto - la critica si chiese con curiosità, e anche con una punta di preoccupazione, quali ulteriori sviluppi potessero restare aperti ad una poetica e ad una poesia che sembravano essersi deliberatamente private di ogni fondamento e di ogni verosimile "praticabilità". 

Come scrive Stefano Agosti in quell'Introduzione alla poesia di Andrea Zanzotto 1 che rappresenta, a tutt'oggi, il più utile viatico per chi si voglia accostare per la prima volta ai densi, complessi e non di rado oscuri versi del nostro poeta, Idioma "sembra contenere in sé anche la mise en abyme dell'operazione in toto attuata dall'autore (...): mise en abyme che è, inoltre, una sorta di congedo. Ma congedo da che cosa? Dal linguaggio in cui tutto si inscrive e da cui tutto promana? (...) E congedo per andare verso dove, verso che cosa? Verso altre lingue e altri idiomi? Verso l'altro dall'idioma, verso il 'fuori idioma'?" 

Ai fondati dubbi di Agosti sembrava peraltro aver già risposto Eugenio Greco, secondo cui, "in fondo", Idioma si chiudeva con un'implicita attestazione di "fiducia nella lingua poetica come portatrice, o meglio, esploratrice della verità dell'io" 2; fiducia, questa, che a suo dire si contrapponeva alla sostanziale "sfiducia nella parola" - una "parola" violata, disgregata, demistificata -  di cui un recensore assai autorevole, Eugenio Montale 3, aveva parlato a proposito di quello che resta forse il capolavoro di Zanzotto, La Beltà (1968). 

Ebbene, questa "fiducia nella parola" non dev'essersi ancora del tutto affievolita, se il poeta di Pieve di Soligo, dopo dieci anni di completo silenzio editoriale, ha da pochi mesi dato alle stampe Meteo (Donzelli, Roma 1996). Il volumetto, dalla veste tipografica sobria e raffinata, inaugura una nuova collana di poesia dell'editore romano, ed è illustrato da venti disegni di Giosetta Fioroni, artista vicina a Zanzotto fin dal 1983. 

Lo stesso autore, in una "nota" posta in fondo al volume, spiega che "questa silloge vuol essere soltanto uno specimen di lavori in corso, che hanno un'estensione molto più ampia", e che "si tratta quasi sempre di 'incerti frammenti', risalenti a tutto il periodo successivo e in parte contemporaneo a Idioma". Il titolo del volume, apparentemente oscuro, vuole alludere proprio al carattere episodico, capriccioso, vario ed imprevedibile - tale da sottrarsi a qualunque razionale e scientifica "previsione" - dell'ispirazione poetica che ha dato vita agli "incerti frammenti" raccolti nel libro. 

La raccolta si presenta dunque come un affascinante "work in progress", "opera aperta" - "poema in cammino", direbbe Celan - còlta e fissata nel momento stesso, magico ed evanescente, del suo divenire e del suo "farsi". Lo stesso perpetuo divenire che innerva e vivifica l'opera è percepito dal poeta nella natura, che nei versi di Meteo viene còlta e ritratta, perlopiù, nel momento della rigenerazione vitale, della germinazione, della fioritura, del compiersi e del rinnovarsi dei cicli naturali, o, al contrario, del deperimento, della morte e della disgregazione, ma sempre e comunque del mutamento, del passaggio da uno stato a un altro: si vedano, in particolare, testi come Marotèi, de matina bonora (il poeta prosegue ed approfondisce, reagendo alla strumentalizzazione e all'appiattimento del linguaggio di massa, la sperimentazione neodialettale già avviata nella Beltà, in Filò e nel citato Idioma), Tu sai che, Altri papaveri, Ticchettio

Riemerge, a tratti, quel limpido, disteso, quasi "ingenuo" lirismo - peraltro sùbito soffocato, compromesso, rimesso in dubbio e in forse nei versi immediatamente successivi -  che tanta parte aveva nelle prime prove dell'autore, soprattutto nella raccolta d'esordio, Dietro il paesaggio (1951): "Non si sa quanto verde / sia sepolto sotto questo verde / né quanta pioggia sotto questa pioggia / molti sono gli infiniti / che qui convergono / che di qui s'allontanano / dimentichi, intontiti". 

Proprio questi molteplici, indeterminati, inquietanti "infiniti" - comunque non più che intuìti, ipotizzati, "finti" oltre il dominio del sensibile, proprio come quello leopardiano - stanno lì a confermare che Zanzotto non propone, "non almeno per intero, il ricupero, per altre vie o viuzze, del nichilismo di sempre" 4; tenta anzi, consciamente o meno, un' apertura verso una qualche "alterità", additata e suggerita - "metonimicamente", si potrebbe quasi dire - dalla stessa angusta finitezza della realtà sensibile. 

Interpretazioni e letture di questo "misticismo" in chiave strettamente religiosa, per quanto stimolate da certa simbologia affascinante, ma puramente letteraria - forse  di ascendenza simbolista e scapigliata -, a sfondo sacrificale e rituale, che pervadeva, a tratti, la raccolta Dietro il paesaggio,potrebbero apparire fuorvianti 5. Non è comunque casuale che in una poesia di Meteo - la stessa da cui sono tratti i versi sopra citati - Zanzotto riprenda da un suo precedente testo (Da un'altezza nuova, in Vocativo, una silloge del 1957) la bellissima immagine del "ricchissimo nihil": "Quanto mai verde dorme / sotto questo verde / e quanti nihil sotto / questo ricchissimo nihil? / Ti sottrai, ahi, ai nomi / pur avendo forse un nome / e pur sapendone qualcosa?" 

Il "Nihil" di Zanzotto, presentandosi non già come assoluta negazione o vuoto, ma semplicemente come abolizione e annullamento degli angusti limiti della ragione e della percezione umana, suggerisce una feconda, brulicante, "ricchissima" molteplicità, indefinitamente dilatabile, di spiragli e di aperture verso l'"altro" e il trascendente. Quest'ultimo, una volta per tutte, "si sottrae ai nomi", alle possibilità espressive della parola umana, incamminandosi "misticamente" verso l'incommensurabile, l'indicibile, il "fuori idioma". 

                                                                                                                                                 Matteo Veronesi 


1) In A. ZANZOTTO, Poesie (1938-1986), Milano, Mondadori, 1993, pp. 5-60.

2) E. GRECO, Recensione a Idioma, Letteratura italiana contemporanea, Appendice VII, Roma, Lucarini, 1987, pp, 121-124. 

3) Questo fondamentale contributo, apparso dapprima sul Corriere della Sera, si può leggere in E. MONTALE, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976, pp. 337-341. 

4) G. SOMMAVILLA, Nichilismo in crisi dell'ultimo Andrea Zanzotto, in Uomo Diavolo e Dio nella Letteratura Contemporanea, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1993, pp. 347-60. 

5) Maria Grazia Lenisa, in un saggio peraltro stimolante (Il segno trasgressivo - Giorgio Bàrberi Squarotti e Andrea Zanzotto, Foggia, Bastogi, 1990), scrive che in Zanzotto "il mistero poetico è affiancato da quello religioso e ci richiama al senso del dono e della Grazia (poetica e santificante)" (p. 79). Si rileggano comunque, a parziale giustificazione di simili "fraintendimenti" - peraltro forieri di suggestive e feconde divagazioni critiche -, versi come i seguenti, tratti dall'Elegia pasquale inclusa in Dietro il paesaggio: "Pasqua ventosa che sali ai crocifissi / con tutto il tuo pallore disperato, / dov'è il crudo preludio del sole? / e la rosa la vaga profezia? / Dagli orti di marmo / ecco l'agnello flagellato / a brucare scarsa primavera (...) / ho consumato purissimo pane // Discrete febbri screpolano la luce / di tutte le pendici della pasqua, / svenano il vino gelido dell'odio; / è mia questa inquieta / gerusalemme di residue nevi (...) / Crocifissa ai raggi ultimi è l'ombra / le bocche non sono che sangue".