Lago del tempo. Dodici poesie e un dialogo con Giancarlo Pontiggia

(testi apparsi dapprima su "Leuké", 2018, n. 2)


Parlaci dei tuoi primi incontri con la poesia, delle letture che hanno costellato la tua giovinezza.


Non credo che la persona reale del poeta abbia una qualche importanza. Forse non ho mai avuto la sensazione di essere vivo, di avere un corpo, di vivere nel tempo; di appartenere a un’epoca o a un luogo anziché ad altri. Scriviamo – e dunque viviamo – per chi verrà dopo di noi. La vera vita di un poeta, in genere, inizia dopo la sua morte – a volte parecchio tempo dopo. Pubblico perché resti qualcosa di me quando sarò morto. Io sono un autore postumo. Potrei far uscire tutto postumo. Ma nessuno di noi sa il giorno né l'ora, e gli scempi filologici a cui si assiste mi spingono – anche se la probabilità che qualcuno mi legga in futuro è ridotta, come per quasi tutti del resto – a curare la mia opera finché sono vivo (e neppure le mie curatele di me stesso sono sempre perfette).

Ad ogni modo, è presto detto. Mia madre, preside alle medie, che senza essere una donna coltissima riconosceva il valore di una cultura – quella della parola, del testo, dei classici – oggi per sempre tramontata, o confinata in nicchie davvero esigue, se non in catacombe sconsacrate, mi trasmise l’interesse per la letteratura e i libri, che in me non era scindibile da quello per la musica (fui un pianista discreto).

Iniziai ripercorrendo e attraversando il Novecento italiano, dai Crepuscolari a Montale a Zanzotto (dunque dall’umile, e insieme simbolica, concretezza degli oggetti alla distorsione della lingua e del reale), modelli dei miei primi esercizi minimamente sensati (e stampati prematuramente, del che mi pento). Sùbito dopo venne l’amore per i simbolisti francesi, con cui la poesia scopre veramente se stessa, diventa consapevolezza e specchio di sé fino a non essere più che pensiero della poesia, e insieme poesia del pensiero.

Ho compiuto studi letterari, fino al dottorato (del resto non sapevo e non so fare altro). Per vivere insegno al liceo, pur non avendo per l’insegnamento, e per la vita in genere, vocazione o talento particolari.

Forse nemmeno la scelta della poesia fu per me vocazione o destino. Non ricordo, come dice Persio, di avere incontrato le Muse, o di avere avuto una visione sul Parnaso: Nec in bicipiti somniasse Parnaso memini ut repente sic poeta prodirem.... Non so cosa siano l’ispirazione, la folgorazione, la rivelazione improvvisa. Forse tutto nasce da un incontro di parole, da un’aggregazione, mosaico o clinamen di segni e sillabe erranti; da una sovrapposizione o da una giustapposizione di immagini, dai soprassalti imprevedibili e casuali della memoria (che è letteraria non meno che esistenziale, di letture ancor più che di eventi); di una memoria, forse, soprattutto verbale, fonica, testuale (in ciò D’Annunzio fu insuperato e oggi troppo snobbato maestro). O forse tutto nasce, semplicemente, dalla noia, da quella terribile, quasi fisica manifestazione del nulla che è la noia, che si deve disperatamente esorcizzare. E allora forse la poesia è solo un vizio, non meno dannoso di altri – vizio del tutto insensato, che non ha più neppure la grandezza eroica del tedio leopardiano o lo spirito di rivolta della décadence: vizio che è in fondo la parodia involontaria di se stesso.

Forse tutto nasce da un vuoto; forse la poesia si scrive per cercare, , sempre invano, di colmare quello stesso vuoto eterno e insondabile da cui essa nasce e in cui essa respira.

Vale forse ciò che scrive Lucrezio quando paragona le lettere e le sillabe che formano le parole agli atomi che pullulano nel vuoto e che casualmente si aggregano a formare i corpi, per poi nuovamente disgregarsi, riprendere energia e vita dalla distruzione fino ad un nuovo incontro, a una nuova attrazione e aggregazione – il tutto sotto il governo, o meglio la cieca balìa, del caso, di una sostanziale insensatezza che sorregge tutta la sfera del vivente – la quale pure sembra tentare in ogni modo di offrire gioia e bellezza quasi con la stessa forza, la stessa ostinazione con cui deve infliggere dolore e morte.

Eppure, quel vuoto non è un puro nulla, non è un’alea assoluta e insensata. È, nello stesso tempo, il vuoto della creazione, il vuoto che precede, e forse alimenta, ogni creazione, ogni poiesis, in senso lato – fin dal biblico abisso che è «senza velo» solo davanti allo sguardo di Dio, al Caos e al Vuoto, tohu wa-bohu, su cui, nella Genesi biblica e nelle cosmogonie orientali, aleggia, ancora indeterminato, come una possibilità o una domanda infinite, lo spirito della divinità. O, più modernamente, e più modestamente, la «Amère, sombre et sonore citerne,/ Sonnant dans l’âme un creux toujours futur», di Valéry – poiché ogni canto ha bisogno di un vuoto per poter risuonare, di un’anima silenziosa e accogliente in cui prendere forma e di un’altra, magari solo virtuale o sognata, in cui essere un giorno accolto, compreso, e rivissuto, e fatto rivivere; così come la musica si plasma e vibra nella deserta cavità dello strumento, e la voce del dio si effonde nell’ombra e nel segreto della cella (sia essa quella del dio antico o del monaco cristiano).

Tra le figure che hai evocato, sembra prevalere l’immagine di un universo lucreziano abbandonato ai suoi vortici e ai suoi urti, privo del conforto di una mente ordinatrice e provvidenziale. Nondimeno, le tue riflessioni sono spesso intessute di immagini e di simbolismi religiosi. Mi verrebbe da chiederti qual è il tuo rapporto con il divino; e per questo vorrei sapere che bambino sei stato, com’è stata la tua infanzia, se sei stato un bimbo devoto o no, che effetto ti facevano i moti della natura o le strade di una città, e se il disincanto di cui spesso parli nei tuoi versi sia stata una scoperta improvvisa, o se invece è qualcosa che hai sentito da sempre nel tuo cuore.

Non ricordo di avere avuto un’infanzia e un’adolescenza. Il mio passato sfuma nell’indeterminatezza del fantasma. Ho la sensazione di un lontano dormiveglia in cui molte, troppe cose mi sono sfuggite – e in cui anche la mia ansia, la mia solitudine e la mia insoddisfazione non erano altro che fragili ombre di cui tutt’al più, oggi, sorridere. La scuola, i giochi – tutto è stato vissuto come da un altro me stesso, da un mio doppio o da un mio simulacro, lo stesso che oggi mando ogni mattina al liceo per guadagnarmi da vivere, mentre il mio me stesso autentico sta nei miei versi, e dunque è a sua volta, ancora, ma diversamente, un soffio, un’illusione, un nulla – il “sogno di un’ombra”, come diceva un Antico. Un sogno dentro ad un sogno; l’allucinazione di un’allucinazione.

Ho ricevuto un’educazione, anche religiosa, non dico rigida, ma convenzionale: fatta di reticenze, di sottintesi, di silenzi, di valori trasmessi più con un certo clima inerte, freddo e severo che si respirava in casa, più con gesti e sguardi e distanze, che con esplicite proibizioni.

Dio e il Nulla si conciliano perché sono la stessa cosa. Forse lo sentivo già, oscuramente, prima ancora che me lo rivelassero certi filosofi amati – Eckhardt, Böhme, Cusano. Dio è un Nihil Aeternum che dimora immerso nelle brume di una “deserta quiete”. I sereni ed estranei intermundia di Lucrezio – sede di quella Divina Indifferenza in cui Montale vedrà il solo riparo dall’angoscia – non sono, a ben vedere, che l’anticipazione, materialistica ed irreligiosa, del Dio “totalmente Altro” della Mistica.

Poiché privi di determinazioni, e dunque innominabili, l’Essere assoluto e l’assoluto Nulla coincidono in Dio. ll dubbio se Dio esista o non esista non ha alcun senso. Il Divino è al di là e al di sopra della stessa distinzione di esistente ed inesistente. L’idea stessa di un Dio che “esiste” – mentre esso, semmai, è, e nel contempo non è, in quella dimensione che i Mistici chiamavano, stupendamente, superessentialis – mi pare orribilmente antropomorfa, e intollerabilmente riduttiva. Dio è la sua stessa lontananza, la sua stessa assenza. Possiamo avvertirlo come esistente proprio e soltanto percependone, o temendone, l’inesistenza.

Sono docetista. Cristo non era che fantasma, immagine, simulacro. Dicono i Vangeli che i soldati tentavano di catturarlo, ma, letteralmente, non potevano afferrarlo, non potevano mettere le mani su di lui. Forse divenne corpo solo per poter morire, o per inscenare la propria morte, anch’essa illusoria.

La religione è poesia, e viceversa – esiste, come insegnava Renato Serra, un altro dei miei riferimenti, una religio litterarum, una religione delle lettere – proprio perché sono, l’una e l’altra, illusioni che veicolano una verità, inganni a cui è saggio cedere, fantasmi più veri di ogni corpo. Cristo, dicevano i Padri, è sarkinos asarkos, «di carne senza carne»: è la «chair des mots», la carne delle parole, di Mallarmé, la «sensualità rapita fuor de’ sensi» di D’Annunzio.

Ancora: il Caso, il clinamen di Lucrezio. Ecco, non ha senso chiedersi si Deus est, unde Malum: perché il Male, se c’è un dio. Il Male esiste perché l’uomo sia libero. La libertà esige un margine di casualità. Casualità della natura, della materia (Lucrezio lo intuì, imperfettamente certo, secoli prima di Heisenberg); ma l’uomo è parte della natura (per quanto nel contempo si contrapponga ad essa); è necessario che la natura ammetta, anzi imponga un margine di casualità, nei confronti della quale nemmeno un dio può nulla, affinché l’uomo sia libero.

Così ho finito per accettare tutto: il cancro di mia madre, il suicidio di mia sorella: le cellule impazziscono, divorando con atroce lentezza un corpo innocente; e così impazzisce la mente, conducendo un corpo a gettarsi nel buio.

Libertà, imprevedibile ed aleatoria, della materia e del pensiero: libertà terribile e meravigliosa, atroce e vitale. Libertà che, paradossalmente, ci lega e ci rende impotenti. La sola possibile risposta è l’accettazione, anzi qualcosa che va oltre, un assurdo disperato amore, un amor Fati.

Forse proprio il Male è la prova dell’esistenza di un dio che non tanto ci mette alla prova come un padre severo, secondo le parole di Seneca, quanto ci getta in balia del cieco caso per rendere possibile la nostra libertà.

È ciò, in fondo, a rendere possibile anche la poesia. Il caos, il magma primordiale e indistinto di suoni e significati da cui emergono, distinguendosi, le lingue – e il magma ribollente di ogni singola lingua, da cui affiorano, prendendo forma come cristalli, le geometrie delle frasi e dei versi – rientrano in questo disegno la cui aleatorietà è forse stata programmata, prevista e voluta come tale. Era necessario, dice Omero, che ardesse il caos assoluto, assurdo e spietato della guerra solo perché un giorno un canto immortale potesse celebrarla.

Caro Matteo, dialogare con te è come – immagino – per un uomo del IV secolo dialogare con Plotino: si sente l’altezza del pensiero, la vertigine dei concetti che formuli, ma anche la sensazione che un mondo vasto e grande si sia concluso. E d’altronde mi colpisce quell’espressione che hai pronunciato poco fa: «mentre il mio me stesso autentico sta nei miei versi». Inevitabile che ti chieda, a questo punto, anche se in parte hai già risposto, non solo cos’è la poesia per te, ma anche quali sono i poeti che più hanno incarnato, nella storia, l’immagine del poeta che vorresti essere, e nel quale credi.

La poesia non è inutile. Essa è, per eccellenza, l’Inutile; la suprema inutilità, la gratuità assoluta, l’“autoreferenzialità”, come si dice, più spudorata – e in questo, se vogliamo, è simile alla spiritualità, anzi alla santità – quella che un Manzoni sorprendentemente vicino a Leopardi, in un inno incompiuto, paragonava al profumo di un fiore che respira e muore non visto, elevando inutilmente «ai deserti del cielo» il proprio vano profumo.

La parola che, pur nominando il mondo nel modo più potente e più limpido, tanto da farcelo vedere con sguardo più luminoso o più cupo, ma per sempre mutato, non significa, in fondo, altro che se stessa; il pensiero che pensa se stesso pur nello sforzo di trascendersi, e intanto attesta la splendida e feconda vanità, la vastissima e ricchissima e incolmabile incompiutezza, di quello sforzo.

Il motivo che induce pochissimi fedeli ad amarla – questa sua sublime inutilità, appunto, questa sua pura e incorruttibile vanità, questa sua umile superbia – è precisamente lo stesso che spinge i più (me ne accorgo ogni mattina a scuola, e non mi dolgo neppure di non poterci fare nulla, tanto questo stato di cose mi pare naturale e inevitabile: nolite dare sanctum canibus...) a disprezzarla.

Mi sembra che l’essenza della poesia – in questo vano e gratuito sforzo di dire l’indicibile, di nominare l’essenziale – culmini nel Dante paradisiaco, e prosegua con Mallarmé. La summa, la sintesi del Medioevo è, paradossalmente, in poesia s’intende, la sorgente della modernità.

È certo impossibile, o insidioso, andare oltre, lungo questa via. Eppure mi sembra l’unica via percorribile. “Poesia pura” è una ridondanza. La poesia non può che essere pura, o divenire qualcosa d’altro. Inutile, la poesia – e fatalmente, eternamente epigonica.

Ma si potrebbe dire lo stesso della vita. Forse è inutile scrivere versi – inutile di per sé, inutile a maggior ragione perché è impossibile essere Dante o Mallarmé. Ma questo non significa che i ragazzi non debbano giocare a calcio, per il fatto che non diventeranno Schiavio, Pascutti, Bulgarelli o Baggio (anche nel calcio sono meglio i Classici). Del resto, prendere a calci un pallone su un prato non è né più né meno insensato che mettere in fila parole su una pagina andando a capo per una ragione qualsiasi.

Sia caso, natura o destino, si fa ciò che si fa; «non si cede / voce, leggenda o destino»; per la stessa assurda ragione per cui il sole continua a sorgere, i fiori a sbocciare, le generazioni a succedersi.

Per il principio antropico, l’universo contempla noi umani proprio al fine di cercare il senso del nostro essere qui. Tentare di interpretare Finnegans wake, di trovarvi un senso di cui forse anche Joyce era consapevole solo in minima parte, non è molto diverso dall’inseguire la costante Lambda – o un pallone che si è già visto destinato al corner.

Può darsi che il senso ultimo sia proprio un’assenza di senso – o il ricercare le ragioni segrete di quel senso, o di quell’assenza.

Tu hai esordito con un libro, Il cordone d’argento - Frammenti per la sorella, stampato in 150 copie e mai distribuito in libreria: forse in quel modo schivo e anomalo di celare, piuttosto che di far conoscere, la tua poesia, era già il sigillo del tuo esser poeta. Io, non so perché, fui tra i pochi a poter leggere una di quelle copie, e a restare sbalordito dalla bellezza e dalla profondità di quei versi. Continuo a pensare che hai scritto uno dei libri più belli e potenti di questo primo decennio del nuovo millennio. Com’è nato quel libro? E dicendo così vorrei chiederti, più ancora che le occasioni private e esistenziali che lo hanno prodotto, come sei giunto a quella forma così limpida e severa, e insieme così enigmatica? a quei versi così radicati nella nostra grande tradizione, eppure così intensamente moderni?

Ossi di seppia vendette quarantamila copie in quarant’anni. Un Luzi o uno Zanzotto vendevano ancora meno. Clandestina, celata, catacombale direi, è, almeno o a maggior ragione nell’età contemporanea, la sopravvivenza della poesia. Il Cordone d'argento è qui, a futura memoria: . Lo spettro digitale di un libro che non esiste più sulla carta è un po’ come il suo noumeno inafferrabile, o la sua anima immateriale, o il suo spettro; l’idea che vi preesisteva, ridotta alla sua forma più vicina alla purezza originaria ‒ il Personaggio di Pirandello, se vogliamo, prima di incarnarsi e straniarsi sul palco e nell’attore.

Non è possibile, non è materialmente possibile, per quanto si sia lettori voraci, solerti, assidui, attenti, pronti, ricettivi, privi di pregiudizi ‒ non è umanamente possibile, oggi, per nessuno, dominare questo sterminato panorama della poesia contemporanea: che non è affatto morta, che continua a vivere, a bisbigliare nelle sue catacombe, nella sua ombra, nei suoi sotterranei rifugi, che sono un po’ come le Domus Ecclesiae del primo Cristianesimo, e che oggi traspaiono soprattutto, a sprazzi, in modo carsico, dai pertugi della rete.

Sarà perché sono, come mi è stato a volte rimproverato, un lettore soggettivo, volubile, dilettante, impressionista... ma mi capita di restare affascinato, in rete, da testi di perfetti sconosciuti, mentre devo dire che la poesia pubblicata dai grandi editori e dalle riviste più accreditate mi lascia, il più delle volte, freddo o perplesso.

Forse è perché ho sempre avvertito, fin da ragazzino, una sorta di quasi morbosa attrazione verso i “minori e minimi”: mi piaceva, e mi piace, inseguire quelle vicende esistenziali e creative che si snodano nell’ombra, ai margini, sui bordi dei grandi movimenti, delle grandi correnti che contrassegnano un’epoca, una stagione della cultura e del gusto: ciò a maggior ragione oggi, quando è davvero difficile individuare tendenze dominanti, se non molto vaghe (minimalismo, postmoderno, neo-sperimentalismo... etichette posticce, o piuttosto fantasmi, scatole vuote, in fondo).

A ben vedere, non è la grande storia, ma la piccola, insignificante, solitaria avventura esistenziale ed intellettuale a riguardare ciascuno di noi più da vicino. Che un poeta sia letto solo da pochi amici è, forse, perfettamente logico e naturale, tanto la poesia è qualcosa di intimo, di sentito ‒ una cosa da “nascondere”, come dicevi, quasi come un vizio, un’ossessione, un rimorso che divora, o una qualche innominabile perversione.

Vorrei essere ricordato, se qualcuno ricorderà ancora i poeti, fra i “minori e minimi del primo Duemila”. Non è falsa modestia, ma grande ambizione. Diventare il “poeta minore dell’Antologia” di cui parla Borges: «I giorni sono una rete di comuni miserie, / e c’è sorte migliore della cenere / di cui è fatto l’oblio?».

Ti sei mai chiesto quanti capolavori, per la disattenzione degli editori, la timidezza o la sfiducia degli autori, l’ottusità dei critici, possono essere rimasti sconosciuti? (Dei testi mediocri che sono viceversa celebrati per ragioni commerciali o ideologiche è inutile parlare). Magris, in uno splendido intervento, ha intessuto un’apologia degli “scrittori sommersi”, senza ridicolizzarli come si suole, assai fastidiosamente, fare. La letteratura di un paese non è solo quella edita, ma anche quella inedita. A volte la seconda è più meritevole della prima, per tante ragioni. Il digitale, osserva Magris, ha fatto cadere la barriera fra l’edito e l’inedito.

L’autore non è morto, come paventarono alcuni. Ma la sua identità non è, forse, che una maschera; e c’è una Parola, singolare e collettiva, una e molteplice, che echeggia e si riverbera attraverso questa infinità di maschere. Le quali dovranno tutte, infine, dissolversi ‒ e si potrebbe scoprire, allora, che dietro ciascuna di esse non c’è un volto, ma il nulla ‒ il nulla che noi siamo, il vuoto che in noi parla, e attraverso di noi ha infinite cose da dire.

Ecco, il Cordone nacque proprio per dare una forma a quel nulla, a quel vuoto ed oscuro Uno-Tutto; per costruire un tempio, scolpito e fragile, levigato e fragilissimo, sul margine di quell’abisso.

Forse (ma è quasi banale) è un tipico caso di elaborazione del lutto, di illusoria ricomposizione ‒ direbbe Melanie Klein ‒ delle ferite, dei frantumi nella salutare compiutezza della Forma. È un veritiero artificio, una finzione reale proprio nella sua falsità, che in qualche modo mi ha tenuto in vita. Temo costantemente ‒ eppure nel contempo oscuramente attendo ‒ ciò che potrebbe accadere di me se quella finzione, quell’artificio, così vani eppure così vitali, dovessero un giorno crollare.

La follia, insegna Pirandello, non è in fondo che la fine di una farsa, il dissolversi del principium individuationis, il naufragio della Mente nel Tutto.

Il canto sorge dal silenzio che segue il rogo dell’angoscia, dalla quiete in cui si depositano e si raffreddano le ceneri ancora palpitanti della sofferenza.

Forse questo vale, in un modo o nell’altro, in una forma o in un’altra, per ciascuno di noi. E la poesia non è che una delle tante maschere, delle tante mistificazioni, che hanno tutte, come la poesia, una salvifica e meschina, fragile e a suo modo arrogante, pretesa di verità.

Per anni hai lavorato a un nuovo libro di poesie che sei andato gradatamente assottigliando, riducendolo, nella versione pubblicata nello scorso maggio presso «alla chiara fonte» con il titolo Tempus tacendi, a poco più di una trentina di poesie. Puoi parlarci di questo libro, della sua genesi, delle scelte che hai operato?

Alla base di tutto c'è il paradosso di una poesia che si ostina ad esistere malgrado la sua assoluta inutilità, e anzi le sue dubbie possibilità e condizioni di sopravvivenza; e che cerca di nominare l'essenza sebbene essa sia ineffabile (di "écrire des silences", dice Rimbaud); paradosso nel cui solco si muove e vive anche la mia critica (o meglio la mia critica della critica).

Questa mi sembra la condizione di tutta la poesia moderna dopo Mallarmé. L'immobilità e il mutismo fatali e purissimi di un marmo di Canova o di Bistolfi. La poesia è morta. Ma la sua morte è eterna. "Deve morire eternamente, per non esser morta mai", dice Gentile.

La poesia in effetti non si alza, o non si abbassa, mai davvero al livello della vit


... Sì,

ma tu dammi il tralcio dei ritmi,

il festone frondoso delle cadenze.

Tu cantami qualcosa pari alla vita.


Questo è Luzi. Per arrivare a tanto ‒ a questa incondizionata immedesimazione, a questa immersione dionisiaca nel fluire del vivente, e alla capacità di trasfonderla nella mente e nella coscienza del lettore ‒ ci vuole, appunto, un Luzi. Di poeti veri ne nasce un paio in un secolo. Anche quei pochissimi saranno davvero capiti e amati da poche centinaia di persone.

Eppure, anche in questa deserta consapevolezza, c'è una forza oscura ed assurda che spinge ugualmente a scrivere. Come la scommessa di Pascal, il colpo di dadi di Mallarmé.

La mia ricerca dell'essenziale, del necessario, dell'insostituibile ‒ o almeno la ricerca della loro vaga possibilità, della loro parvenza o illusione ‒ ancora, poesia che nasce dall'ombra di un'ombra, dal fantasma di un fantasma ‒ mi ha indotto a limare a poco poco Tempus tacendi fino a ridurlo a quelle poche decine di poesie. Forse anch'esse sono ridondanti. L'opera d'arte, in fondo, è stato detto, è sempre una “cosa in più”, una “cosa aggiunta al mondo” ‒ forse, al pari di ogni esistente, un neo che turba la purezza ineguagliabile del nulla originario.

La poesia tende al vuoto, al bianco, al silenzio, come la materia al nulla, e il tempo all'eterno. Ogni verso degno di essere scritto è la traccia superstite di questo perpetuo, inesauribile naufragare. Nella vera poesia, ogni parola dovrebbe mostrarsi come miracolosamente sopravvissuta alla cancellazione, al rogo di tutto ciò che è inessenziale ‒ come ossa sacrificali dopo un olocausto.

Il poeta dovrebbe essere sempre insidiato dal timore che sarebbe forse meglio non scrivere affatto (come il vero credente dal dubbio dell'inesistenza di Dio, dalla “notte oscura dell'anima”). E chiedersi, come Pasolini, perché realizzare un'opera, quando è così bello sognarla soltanto



LAGO DEL TEMPO


I


Sulla riva del lago

c'è un uomo morto che sogna

la propria morte


E la vede e rivede nel vibrio

stupefatto dell'acqua con le moltitudini

delle foglie, la tela

tenue dei rami, con le impietrite altitudini ‒

in alto il canto

muto dei cieli deserti

a cui fa eco il profondo

in silenzio


Come l'uomo che guarda

davanti a sé, in una camera bianca

una sedia vuota, e vede

se stesso ‒

l'assenza

di sé, in cui sarà tramutato


Così sulla riva del lago

c'è un uomo morto che sogna

la propria vita


II


Non volgersi indietro ‒

o solo

per un istante, addolorato e infinito

posare l'orecchio sul respiro

sottile delle acque

feroce e dolce che trema come l'ultima

ora divora la trama delle ore


E tutto, nel morire

sarà eterno così come è uguale

ogni passo a se stesso, incancellabile ogni orma ‒

sempre lucente la luce

che gronda di valle in valle, il mare

che in se stesso sprofonda e si rinnova

e il canto lamentoso della madre

rispecchiato da un'aura senza giorni


III


Sale all'eterno il tempo

come di nodo in nodo, di foglia

in foglia sale l'edera all'azzurro

nella sua danza immota ‒

e come questo verso

nella sua muta musica visibile

si nutre del proprio nero, e muore

del bianco che l'assedia


(Da dove sorge, verso dove si eleva

quest'infinito albero

d'essere e canto ‒

questa oscura radice

sprofondata nel buio

persa in un ventre antico)


IV


Ogni istante che cade

dal tempo, come folgore

o stilla, è già memoria


(In ogni istante moriamo

e risorgiamo, già vivi

ancora morti, in quell'alto passo ‒

e più pura è la vita

in quella morte)


Già ricordo, già spettro ogni labbro

che con il labbro sfioriamo, già ombra le chiome

in cui affondiamo la mano ‒

notte eterna

già il grembo in cui scompaiono

i nostri nervi protesi

eppure colmo di luce oltre il suo

margine chiuso ed immenso


(Come folgore o stilla è già memoria

ogni istante che cade)


V


Come si avvolge, lungamente

indicibilmente il tempo

quasi un antico volume

rapito dal suo scrigno

che nuovamente lo ingoia, nel segreto


Trascolora

come la valle sotto il velo opaco

lacerato delle nubi

o l'inganno perenne del paesaggio

che si adombra o svanisce nella sera


(Gocce, lampi, aurei ricami

di sole scesi nei gorghi degli anni

come nel grembo del mare e della terra ‒

forse tutto doveva

essere come fu ‒

anche le attese vane

e le angosce, e le lacrime

anche le tenebre ora fatte chiare

nello specchio del tempo che è venuto

come il buio del cielo

nelle iridi vaste della pioggia ‒

vita inverata, tempo

divenuto se stesso)


VI


Chi, cosa abbiamo sepolto ‒

se ancora arde, vivo

fantasma nel fuoco che trema

come l'anima dietro le palpebre chiuse ‒

chi, cosa abbiamo sepolto

se brilla il sole alto del tempo

il bianco delle ossa

che perdura nel ventre della terra


(Bianca la pagina da scrivere

come il tempo da colmare, il vuoto

da popolare di volti e di pensieri)


Chi, cosa abbiamo sepolto

se ancora vive, se torna

a battere alle soglie della mente

se vuole essere respiro

e parola


Chi, cosa abbiamo sepolto


VII


E ancora salirà dall'oscuro

lo splendore del verde ‒

dal nero amaro umore della terra

madida lucente

la mite geometria inumana delle foglie


E non avrà più nome

neppure l'Armonia cui si ritorna

da questo dissonante esilio, la catena

aurea che ha anelli di sangue e di rugiada

e tutto allaccia e avvolge

in quell'innominabile splendore


VIII


La vita dura oltre l'artificio

ma persiste soltanto per dissolversi


Come la statua, in segreto, in un silenzio

senza memoria, d'inviolati giardini ‒

che cominci a corrompersi, sia membra

alla lebbra del tempo, pasto

alla putredine come fosse carne


O se i frutti effigiati, gli incorporei fiori

che una mano di mago depose sulla tela

dessero germe e miele, come viti che vivano

solo per essere preda dell'autunno


IX


Vanno incontro leggere le ragazze

all'abbraccio di luce dell'estate

che come amante o madre

le farà sue


E fonderà nel fuoco

del proprio grembo le onde

ardenti delle chiome, e turberà le pieghe

oscure delle gambe chiuse, il filo

geloso d'ombra che sale

fino all'anima, e farà eterno l'istante

dell'occhio acceso che si volge

al barlume sfuggito di uno sguardo

ancora salvo dalla notte, ancora

per i loro cuori vivo ‒

ed eterno anche il volgersi del viso

come nel riso di un'eterna aurora


E saranno un solo grido, un solo

luminoso fragore, un solo verde

il loro cuore e il loro sesso e colli

e prati e fronde e rivi che le dita

dei secoli e del vento hanno scolpito

con la sapienza oscura della loro

immemore memoria ‒

e così andranno

innocenti ed impure

Persefoni senza nozze o lutto, ad intrecciare

come corone le ore perdute

ai soli senza fine che sorgono e risorgono

che velo non conoscono, o tramonto


X


Si baciano le ragazze nel mattino


E non è più amicizia, e non è amore ‒

e non è ancora desiderio, e non è cerimonia

non è l'unione che non sa parola

né è più un vuoto saluto

quel lampo breve di tepore che trema

sulle labbra adolescenti, e scioglie i fiori di brina

dispersi sulle pagine dei prati

e fa ancora più limpidi i mille specchi del cielo

e come un grande abbraccio dischiude un mite fuoco

nel vasto vuoto della stagione morta


(Così anche fosse vita e respiro

fra il timore che si fa pienezza

e l'attesa, e il compimento

che si fa vuoto indugio, e le notti

vigilia di altre notti, e i giorni che illuminano i giorni ‒

così tremassero di piacere e d'angoscia

si unissero come labbra queste sillabe

fra bianco e bianco

fra silenzio e silenzio)


XI


Freddo mistero del negato amore

di cui ogni cosa non è che vuoto e maschera

ogni corpo e piacere labile ombra


Tornare

nel tepore materno, essere un'anima nuda

che non ha ancora nome, il sogno di una creatura

che ancora non conosce l'errore della nascita


E questo cercare le larve di un senso

in ogni incontro e sguardo e breve voce ‒

e in ogni abbraccio, in ogni unione l'ombra

di ciò che è solo se stesso, in ogni via

l'onda spezzata dell'eterno moto

e in ogni voce che vibra e si spegne

l'eco oscurata dell'eterno nome


XII


Un istante è per noi

l'eterno, e noi

un istante all'eterno


Cimiteri, ospedali, interminati

nodi di strade, sulla verde pace

di parchi senza fine


Tutto è il fiume di luce

che si fa gorgo, e ti fascia, e rapisce

e nel suo consumarti si fa polvere


E tutto è eterno ‒

gli sguardi

perduti, le ultime

parole non dette ‒

eterno

mentre muore nell'aria

anche il soffio sottile degli addii

anche quest'esile filo

di canto che ora scrivo