Un panorama del Surrealismo internazionale 

(recensione di Paola Décina Lombardi, Surrealismo, Roma 2002, in "Poetiche", 2003, n. 2, pp. 349-352)

“Modernità dunque – costante, e uccisa ogni notte”. Così scriveva, in una lettera a Breton, Jacques Vaché, giovane e irriverente artista e dandy, morto suicida nel 1919, la cui figura i surrealisti, a partire proprio dal loro teorico e caposcuola, avrebbero avvolto in un alone quasi mitico. Il destino di Vaché, che aveva nel vero senso della parola fatto della sua vita un’opera d’arte, vivendo fino all’estremo sacrificio, nella propria vicenda esistenziale, il carattere fuggitivo e transitorio della modernità che assiduamente sconfessa e supera se stessa, pare tragicamente illuminare quel carattere “agonistico”, quella tensione al suicidio, all’autodistruzione, all’annullamento di sé una volta esaurita la propria missione iconoclasta ed innovatrice, che contraddistinguono, secondo l’ancor oggi fruibile fenomenologia tratteggiata da Renato Poggioli, l’esperienza dell’avanguardia, almeno nelle sue manifestazioni primonovecentesche. 

Non a caso, nel 1925 i surrealisti dedicavano al suicidio due delle loro famose e discusse “inchieste”, da cui esso appariva come un gesto motivato e alimentato – proprio come la creazione artistica secondo la poetica surrealista – da spinte irrazionali o prerazionali, da una pulsione di morte o “élan mortel”, come lo definiva, in antitesi a Bergson, René Crevel. Come l’”écriture automatique”, così l’impulso suicida sorgeva dalla condizione dell’automatismo psichico e dello straniamento onirico: “ci si suicida come si sogna”, si leggeva nell’editoriale della Révolution surréaliste che introduceva l’inchiesta. 

Quello che precede è solo uno – appena accennato – dei numerosi percorsi di riflessione e di ricerca che possono essere suggeriti e alimentati dall’imponente messe di materiali raccolta da Paola Décina Lombardi nel suo volume Surrealismo (1919-1969). Ribellione e immaginazione, nutritissimo repertorio di documenti, fonti, notizie, testimonianze, che va ad affiancarsi a quelli, meno estesi (fra cui sarà bene ricordare almeno Il movimento surrealista, con prefazione di Franco Fortini, recentemente riedito per le cure di Lanfranco Binni, e Breton e il surrealismo, a cura di Ivos Margoni), cui già poteva proficuamente rivolgersi il lettore italiano.

Non è possibile, nella breve misura di questa segnalazione, rendere compiutamente conto dei numerosi nuclei tematici di questo volume, diviso in dodici sezioni che spaziano dalla genesi parigina del movimento al suo maturare ed assumere coscienza teorica via via più scaltrita, fino alla sua diffusione internazionale, ricca di implicazioni e di contatti anche sul piano ideologico e politico.

Il materiale esibito dall’autrice può, ad esempio, sollecitare qualche riflessione intorno ai rapporti – assai stretti nel caso del surrealismo – tra poetica e ideologia. Si può osservare, in estrema sintesi, che, come sul piano della poetica un movimento sorto con intenti rivoluzionari e iconoclasti, e animato all’origine dallo spirito del più puro “terrorismo culturale”, andò incontro, a un dato momento, a quel processo di sistematizzazione, storicizzazione, “museificazione”, a quel quasi accademico irrigidimento in prassi creativa codificata e facilmente imitabile, che costituiscono un pericolo, o se si vuole una risorsa, forse consustanziali ad ogni arte d’avanguardia in quanto tale, così sul piano ideologico un’esperienza nata sotto il segno della più provocatoria e spregiudicata ribellione in nome dell’individualismo etico e della libertà creatrice finì, in alcuni casi, per accostarsi – peraltro non senza contrasti, e anzi in una posizione che si vorrebbe quasi definire di adorniana “dialettica negativa” – a partiti, ideologie e regimi di indole totalitaria (basti pensare al revival surrealista promosso, negli Anni Sessanta, non senza qualche sentore di strumentalizzazione propagandistica, dal regime castrista).

In linea generale, mi pare che gli aspetti, in special modo teorici, che questo volume, anche per via della sua prevalente natura di repertorio – peraltro utilissimo – di notizie e materiali, più che di indagine a livello di poetica e di estetica, tende a lasciare in ombra, siano in larga parte riconducibili al rapporto tra creazione artistica e coscienza critica, che è presente e importante anche nel surrealismo, o almeno in taluni suoi esiti e sviluppi, se è vero che, come ricorda l’autrice stessa, Éluard, a partire già dagli anni Venti, distingueva la vera poesia, che è “conseguenza di una volontà ben definita”, dal “sogno” e dal  “testo automatico”.

Alla luce di questa considerazione, si potrebbe forse fare maggior chiarezza sui rapporti che – attraverso la grande lezione di Lautréamont – legano il surrealismo al simbolismo, e che anche dopo le pur fondamentali indagini del Raymond, del Friedrich e, più recentemente, della Kristeva, appaiono tutt’altro che pacifici. Si potrebbe dire che il Surrealismo, almeno nelle sue prime e più radicali espressioni e teorizzazioni, tende a negare o a rimuovere la lezione di purezza lirica e di assolutezza formale offerta dai maestri simbolisti (era, ad esempio, il citato Vaché a dichiarare ormai “morta” la poesia di Mallarmé), salvo poi recuperarla (emblematico il caso di Éluard) sotto la pressione dell’esigenza di superare il mero automatismo del flusso di coscienza per attingere un’espressione più matura e letterariamente consapevole. 

In quest’ottica, dovrebbe forse essere dedicata maggiore attenzione alle scritture critiche (anche di “critica in versi”, secondo la grande lezione dei baudelairiani Phares) maturate in seno al movimento (penso, in particolare all’Éluard, strenuamente raziocinante e insieme audacemente analogico, di Donner à voir, o a certe pagine, sia poetiche che critiche, di Octavio Paz, autore alle cui radici surrealiste questo volume, data anche l’ottica mondiale che lo caratterizza, avrebbe potuto dare maggiore spazio): scritture in cui viene rivisitata, e portata alle estreme conseguenze in termini di agilità e di arditezza, la “critique d’analogie” dei Baudelaire e dei Mallarmé, fondata su di un ampio uso della metafora e della sinestesia per tradurre impressioni e giudizi in materia d’espressione e trasfigurazione letteraria, e sulla reciproca illuminazione dei diversi linguaggi artistici  attraverso i più fulminei, e a volte apparentemente irrelati, accostamenti. 

Ed è sempre all’impiego, in sede critica,  dell’analogia e dell’associazione, che può essere fondamentalmente ricondotto l’influsso del surrealismo sull’ermetismo italiano, che a livello di scrittura critico-saggistica sviluppò il suo “ininterrotto discorso”, il suo intimo e profuso colloquio con le opere, conciliando la “poésie ininterrompue” dei surrealisti con la profondità e il rigore di una “religione delle lettere” di ascendenza vociana. 

Ed è, forse, sempre entro questo quadro di problematiche e di nuclei teorici che potrà essere avviato a soluzione l’annoso problema – cui l’autrice accenna nell’introduzione – della reale esistenza o meno di un “surrealismo italiano”. Ciò che maggiormente distanzia l’esperienza degli scrittori italiani più vicini a tematiche e suggestioni di matrice surrealista da una pratica di mera “écriture automatique”, di passiva ed irriflessa trascrizione dei processi psichici in sequenze verbali, è proprio l’assidua vigilia della coscienza letteraria e della consapevolezza culturale, dalla lucida progettazione e costruzione del fantastico e dell’assurdo in un Landolfi o in un Bontempelli (impegnato, quest’ultimo, in sede teorica, nel momento stesso in cui rigettava ogni canone retorico e ogni sclerotizzata tradizione, a difendere il ruolo del “mestiere” letterario, di una perizia compositiva tale da restaurare, dopo i traumi delle avanguardie, la limpidezza e l’essenzialità della “linea” e dell’”architettura”) ai polisemi e sapientemente stratificati sovrasensi dell’ultimo Pirandello, alla dissacrazione del mito consapevolmente perpetrata nei racconti di Savinio, fino alle contaminazioni di diegesi e prosa critico-saggistica operate da postremi eredi della visione surrealista quali Manganelli o Arbasino, o fino al richiamarsi di Calvino alla razionalistica  clarté del conte philosophique proprio nell’atto stesso di creare caratteri e scenari d’impronta surreale. 


                                                                                                                                            Matteo Veronesi